Lingua, questione della

Enciclopedia machiavelliana (2014)

lingua, questione della

Stefano Gensini

Un’idea di naturalismo linguistico

Il corpus delle riflessioni machiavelliane su lingua e linguaggio, a parte il fondamentale Discorso intorno alla nostra lingua (→), include passi dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livo (II v e xvi), una pagina delle Istorie fiorentine (I v), le spiegazioni circa due modi di dire fiorentini contenuti in una lettera dell’ottobre 1525 a Francesco Guicciardini e, infine, sparsi rilievi lessicologici reperibili nel Principe, nei Discorsi, nelle Ist. fior. e nell’Arte della guerra, luoghi di cui è stato offerto un regesto completo da Fredi Chiappelli (1974). Si può aggiungere il prologo alla Clizia, che svela la sua importanza in rapporto al passo del Discorso sul linguaggio della commedia. Un corpus esiguo, dunque, la cui componente quantitativamente e concettualmente più robusta è bastata, tuttavia, a garantire a M. un posto centrale nel dibattito sulla lingua del primo Cinquecento, sotto quell’etichetta storiografica di ‘naturalismo linguistico’ (Vitale 1986, pp. 104-11) solitamente riferita all’asserita primazia dell’uso vivo e sincronico della lingua, all’interno di una comunità sociale ben definita, anche in quanto base e sostanza della prassi letteraria. Di qui una linea fiorentinista e ‘civile’ del fatto linguistico, da una parte contrapposta alla teoria trissiniana (appoggiata a una lettura tendenziosa del ritrovato, e non ancora pubblico, De vulgari eloquentia) che insisteva sul carattere italiano-comune della lingua letteraria e su una dimensione cortigiana ed elitaria dell’uso, dall’altra anticipatamente alternativa (se si ammette che il Discorso sia stato composto nel sett.ott. 1524: cfr. Dionisotti 1980, pp. 320 e segg.; Trovato 1981, 1982) a quella che sarà la soluzione bembiana della querelle, fondata sulla rottura del rapporto fra scritto e parlato e sul ritorno normativo al linguaggio di Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.

L’associazione degli interventi di M. alla q. della l. (nel senso tràdito del termine: cfr. Migliorini 1960, p. 339) è ovviamente imposta dalle dinamiche della società letteraria italiana del tempo e dal sistema di rimandi interni dei testi da questa prodotti (una linea latamente ‘machiavelliana’ s’indovina, per es., nelle posizioni assunte da Giuliano de’ Medici nelle Prose della volgar lingua, mentre una ripresa quasi testuale del rapporto gerarchico natura-arte sostenuto nel Discorso si affaccia, in funzione antibembiana, nell’assai più tardo In difesa della lingua fiorentina di Carlo Lenzoni, pubblicato postumo nel 1556). Tuttavia, per la loro capacità di mettere in tensione le categorie fondanti del discorso linguistico, a partire da alcune impegnative scelte terminologiche, quegli interventi chiedono di essere letti e compresi anche in una più articolata cornice storico-teorica, avente a che fare con la natura del linguaggio verbale, con le modalità del suo funzionamento, con l’organizzazione interna dei suoi componenti strutturali, infine con il suo operare in quanto concreto dispositivo di comunicazione, in seno a una società e a un rapporto autore-pubblico ben determinati.

Fra natura, arte e patria

L’assunto principale di M. è che la lingua sia essenzialmente fatto di «natura» al quale sopravviene, come fattore accidentale e logicamente secondario, l’«arte». Di qui un’operatività differenziata, non universalizzante, della natura, che assume subito un connotato storico e civile collegandosi alla ‘patria’ dei parlanti, intesa come concreta dimensione geopolitica. Su questo punto il Discorso s’incontra con la capitale indicazione dantesca di Paradiso XXVI 130 («Opera naturale è ch’uom favella») anche nel senso che dipende poi sempre dalla natura e non dall’arte il potersi variegare del linguaggio in idiomi locali («ma così o così natura lascia / poi fare a voi secondo che v’abbella»: vv. 131-32): un’indicazione convergente con il variazionismo linguistico del libro V del De rerum natura (At varios linguae sonitus natura subegit / mittere et utilitas expressit nomina rerum, «La natura costrinse a emettere suoni differenti / e il bisogno dettò i nomi delle cose»: vv. 1027-28), ma non con la versione del rapporto natura-linguaggio tipica dei commentari medievali (per es., Egidio Romano, De regimine principum III ii 24), dove il momento della diversificazione del linguaggio è normalmente annesso all’arbitrium, o beneplacitum, umano. Da notare che la coppia naturalis/ad placitum della teoresi scolastica è surrogata in M. da quella natura/ars ripresa dall’uso latino (dove spesso il concetto di natura si fonde con quello di ingenium) e da classici universalmente noti, primo fra tutti l’Ars poetica oraziana. La natura installa dunque la parola patria nell’individuo di ogni ceto sociale e la colloca in profondità nel suo modo di esprimersi, ancorché questi (come lo pseudo-Dante di Gian Giorgio Trissino: cfr. Discorso, § 51) voglia artatamente distaccarsene: ché «l’arte non può mai in tutto repugnare alla natura». Esiste dunque una precisa gerarchia fra le due nozioni, evidente non solo negli scritti di coloro che si abbandonano senza riserve al parlare nativo, «dove non sia arte ma tutta natura» (§ 19), ma anche nel concreto comportamento di chi la natura intenda conculcare con l’arte e viene invece disvelato dalla pronuncia o dall’uso di certi termini e modi di dire. Con la natura fa dunque corpo la patria, intesa, secondo l’uso cinquecentesco, come il luogo natio, e, aristotelicamente, come coefficiente della ‘generazione’ della persona («dependendo prima da essa l’essere, dipoi tutto quello che di buono la fortuna e la natura ci hanno conceduto», § 1). E al binomio natura-patria fa capo, secondo M., un’originaria differenza fra le lingue, onde alcuna, come la fiorentina, è nativamente «atta» a farsi letteraria, mentre altra (come la lombarda, ovvero la parlata dei settentrionali) soccombe nella sua «naturale barbarie». Non è difficile riconoscere qui il radicamento di M. nella tradizione civile dell’Umanesimo fiorentino, bruniano e albertiano, nonché il senso della diretta inerenza della lingua patria all’«imperio» politico, apertamente teorizzato da Lorenzo de’ Medici nel suo Comento. In termini più strettamente linguistici ne discende una caratteristica identitaria delle lingue, che M. riassume nel concetto di ‘proprietà’, collegato a precisi fenomeni fonetici, lessicali e morfosintattici (vedi oltre): tale concetto assorbe i tratti che la tradizione retorica annetteva alla puritas (cfr., per es., Rhetorica ad Herennium IV 12), sviluppando un’ostilità a vitia sermonis quali forestierismi, barbarismi e solecismi variamente echeggiati nel Discorso. Più in generale, infine, la coppia natura-patria inscrive il fenomeno linguistico nella duplice dimensione genetica dello spazio e del tempo: la deriva storica delle lingue (richiamata nel Discorso con l’idea della «mutatione» linguistica su tempi brevi, successiva a invasioni militari e politiche, e della «declinazione» su tempi lunghi, dipendente dal lento imbarbarimento) si fa tema esplicito sia in Discorsi II v, ove si allude alla resistenza opposta dalla tradizione linguistica alle innovazioni religiose, sia in Istorie fiorentine I v, ove è focalizzata l’origine dei volgari romanzi (nell’ambito più vasto delle trasformazioni politiche e culturali successive alla crisi del mondo antico) dall’attrito della lingua latina con «la lingua patria di quelli nuovi popoli»; un accenno pregnante, ci pare, a quella teoria della ‘catastrofe’ inaugurata da Biondo Flavio nel celebre dibattito con Leonardo Bruni del 1435 (Marazzini 1989) che portò con sé la prima effettiva storicizzazione del rapporto fra latino classico e idiomi della modernità. In generale, dunque, la temporalità del linguaggio è principio immanente al discorso machiavelliano, sulla falsariga del paradigmatico e notissimo passo di Orazio (Multa renascentur quae iam cecidere, cadentque / quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus, «Molti vocaboli che già caddero rinasceranno / e ne cadranno altri che oggi sono in onore, se lo vorrà l’uso», Ars poetica, vv. 70-71).

Che cosa rende ‘propria’ una lingua

Calata nel vivo di questa concezione ‘naturale’ e identitaria della parlata nativa, la contestazione machiavelliana della teoria cortigiano-italianista conduce al secondo punto teoricamente rilevante del Discorso: l’idea che nessuna lingua può dirsi derivante dal «mescolamento» di elementi eterogenei (sia pure i più selezionati ed eleganti, come suggeriva Trissino), ma che ogni innesto di vocaboli e forme esterne porta a una «medesima consonanza», a un amalgama «nel parlare con li modi, con li casi, con le desinenze et con li accenti [...] di quella lingua ch’e’ trovano» (§ 29). È attraverso questo processo di riassestamento sistemico che la lingua metabolizza ogni tipo di forestierismo, «disordinandolo» dalla sua base di partenza e «riducendolo» alla sua ‘proprietà’. In questa impostazione del problema del rapporto (culturale prima che strutturale) fra lingue è stato di solito riconosciuto un elemento di sorprendente modernità del pensiero di M., a partire dall’enfatico apprezzamento di Pasquale Villari (1877, poi 1912-1914, p. 190). Tuttavia, è forse lecito esimere il testo da forzature ‘comparatistiche’, prendendo in considerazione due ordini di fattori: a) la genesi dell’acutissima osservazione di M. a partire dall’opposizione all’approccio solamente ‘lessicalista’ di Trissino, da cui deriva l’equivoca, ed estrinseca, nozione di «mescolamento»; b) il saldarsi nel pensiero di M. della dottrina classica dell’analogia (in base alla quale una legge di similitudo o simmetria strutturale presiede alla lingua) con la sua acuita coscienza dell’identità sociostorica dell’uso, condensata nel già ricordato concetto di ‘proprietà’. Verosimilmente questi due ingredienti potevano sortire gli effetti di originalità teorica che sappiamo solo a patto di fondersi in un crogiuolo sociolinguistico unico nell’Italia del tempo, quello della realtà fiorentino-toscana dove, per motivi squisitamente storici, lingua dell’eccellenza letteraria e lingua parlata risultavano sostanzialmente equivalenti, al netto di ovvie oscillazioni di registro. È il porsi di M. come interprete e, prima ancora, utente di questa condizione oggettiva che, se per un verso lo condanna a una posizione minoritaria nella querelle linguistica (egemonizzata, come si sa, da letterati di provenienza settentrionale, estranei al repertorio comunicativo toscano, e quindi fisiologicamente intesi a una soluzione diglottica), per un altro lo conduce alle affermazioni più penetranti dal punto di vista semiotico e politico-linguistico. Istanze, imperniate sulla solidarietà di oralità e scrittura e quindi sulla sostanziale unità delle varietà linguistiche socialmente disponibili, che risulteranno marginali per secoli e riaffioreranno, non a caso, con l’apprezzamento di Alessandro Manzoni, inteso alla ricerca di una lingua «viva e vera», per il Discorso intorno alla nostra lingua (cfr. la sua Appendice alla relazione dell’Unità della lingua, 1869).

Lingua e comunità parlante

Quest’ordine di considerazioni si applica anche alla celebre sezione del Discorso in cui M. critica i Suppositi dell’Ariosto per la mancanza di un efficace linguaggio comico: difetto derivante dall’insoddisfazione del poeta per la sua parlata nativa e dall’incapacità di esprimersi spontaneamente in fiorentino, sicché all’impasto tecnico-drammatico della commedia («un nodo bene accomodato e meglio sciolto», § 69) non corrispondevano freschezza e felicità espressiva tali da coinvolgere il pubblico con i ‘sali’ propri di quel genere letterario. Il passo pone, attraverso l’impasse, apparentemente settoriale, del linguaggio comico, uno stringente problema di comunicazione sociale: quello del nesso, più o meno fondato e solido, che corre fra lingua dei colti e lingua del popolo. Ancora una volta, M. si rivela tributario delle dottrine retoriche classiche: l’importanza dei sales (espressioni di spirito che attirano l’attenzione del pubblico) è centrale in un classico come Cicerone (De oratore II 57), e la nozione di ‘urbanità’, invocata in Discorso, § 65 («con certa urbanità e termini che muovino riso»), rimanda ad altri luoghi ben noti dello stesso Cicerone, di Quintiliano (Institutio oratoria VI 3, 17, 107 ecc.) e altri; ma, di nuovo, il ricorso a strumenti canonici dell’armamentario autoriale s’invera grazie al loro riposizionamento sociosemiotico, dal punto di vista, cioè, di un tessuto comunicativo che, unico al tempo, poteva garantire quelle ‘normali’ condizioni di interscambio fra scrittura e oralità, fra lingua del testo e repertorio linguistico spontaneo del pubblico che risultavano (e risultano) vitali per il genere comico. Onde il riferimento a certe figure socialmente degradate («un vecchio deriso, una puttana lusinghiera» ecc.), tali da indurre al riso e che selezionano automaticamente «termini et motti che faccino questi effetti» (§ 67), dato che, come M. si esprime nella Clizia, «le parole che fanno ridere sono o sciocche o iniuriose o amorose». L’indicazione linguistica s’incornicia a perfezione, va da sé, nella realistica visione machiavelliana di un mondo ove «non è se non vulgo» (Principe xviii 18), a coinvolgere il quale non serve «il parlare grave et severo» (Clizia, prologo), ma intanto si risolve nella ribadita necessità dei «termini proprii et patrii, dove sieno soli intesi e noti» (Discorso, § 67), ovvero nella postulazione di uno scambio linguistico ‘naturale’, situato entro precisi confini geografici e sociali.

Tra i moltissimi interrogativi affrontati dalla filologia machiavelliana v’è quello della circolazione delle idee linguistiche del Segretario, tradizionalmente ritenuta esigua dato che il testo del Discorso, restato manoscritto e verosimilmente in forma non definitiva, venuto nelle mani di Giuliano de’ Ricci nel 1577, uscì a stampa solo nel 1730, anonimo, in appendice all’edizione Bottari dell’Hercolano di Benedetto Varchi. Tenendo conto degli studi, infittitisi negli ultimi decenni, intorno all’ambiente filologico fiorentino, soprattutto sul giro di anni che porta dall’inaugurazione dell’Accademia con gli auspici di Cosimo I all’inizio degli anni Quaranta alla pubblicazione dei lavori di Pier Francesco Giambullari, Giovan Battista Gelli e Carlo Lenzoni, e successivamente di Benedetto Varchi e Vincenzo Borghini, sembra tuttavia innegabile un influsso del Discorso, e più in generale delle posizioni di M. sulla lingua, nella comunità intellettuale del tempo. Ciò appare evidente, intanto, nella Risposta che Ludovico Martelli dedicò (fine del 1524) all’Epistola delle lettere nuovamente aggionte alla lingua volgare fiorentina di Trissino; ma segnali ulteriori si notano nel già ricordato In difesa della lingua fiorentina di Lenzoni (dove M. compare in prima persona a contestare, in nome del primato della natura sull’arte, la pretesa di Pietro Bembo di insegnare la lingua ai fiorentini; e dove si nota una circolazione di suggestioni machiavelliane circa l’uso, l’urbanità ecc.); nella teoria della priorità dell’uso parlato della lingua, asserita con matura coscienza critica da Varchi (che ancora si mostra dubbioso circa la paternità dantesca del De vulgari eloquentia); forse anche nel Cesano di Claudio Tolomei (edito nel 1555, ma scritto in gran parte nel 1525 o poco dopo). Proprio la circostanza che l’uso fatto in queste opere della lezione di M. ecceda i confini del dibattito normativo, per concentrarsi su aspetti generali della natura e del funzionamento delle lingue, conferma, a parer nostro, la portata anche teorica di quella lezione e della tradizione di ‘naturalismo linguistico’ che in essa s’innerva e da essa accoglie stimoli di fondamentale importanza.

Bibliografia: P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, illustrati con nuovi documenti, Firenze 1877, Milano 1912-19143; B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1960; C. Dionisotti, Geografia e storia della lingua italiana, Torino 1967; F. Chiappelli, Machiavelli e la lingua fiorentina, Bologna 1974; O. Castellani Pollidori, Niccolò Machiavelli e il Dialogo intorno alla nostra lingua, Firenze 1978; C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino 1980; P. Trovato, Appunti sul Discorso intorno alla nostra lingua del Machiavelli, «La bibliofilia», 1981, 83, pp. 25-69; P. Trovato, introduzione a N. Machiavelli, Discorso intorno alla nostra lingua, a cura di P. Trovato, Padova 1982, pp. IX-LV; M. Vitale, L’oro nella lingua. Contributi per una storia del tradizionalismo e del purismo italiano, Milano-Napoli 1986; C. Marazzini, Storia e coscienza della lingua italiana dall’Umanesimo al Romanticismo, Torino 1989; A. Sorella, Magia, lingua e commedia nel Machiavelli, Firenze 1990; S. Gensini, Note sul Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua e sulla nozione di “naturalismo linguistico”, «Bollettino di italianistica», 2008, 2, pp. 45-61.

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