Meridionale, questione

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Il dibattito circa le ragioni che avrebbero determinato e, con il trascorrere del tempo, aggravato la situazione di sottosviluppo economico e sociale del Mezzogiorno d’Italia, fin dal costituirsi dello Stato unitario.

Dopo l’Unità

Di questione m. si cominciò a parlare quasi subito dopo il 1861 in relazione al brigantaggio e ai problemi politici e sociali che esso poneva. All’atto dell’unificazione era generale la convinzione che tra l’area padana e l’area m. le differenze di tipi e di livelli di vita fossero dovute unicamente alle più sfortunate vicende politiche del Mezzogiorno. A queste convinzioni di fondo fu ispirata la politica dell’Italia unita verso il Sud. Il sistema fiscale, il regime di liberalismo completo negli scambi, gli ordinamenti amministrativi, la legislazione penale e civile furono adeguati a quelli del Piemonte sabaudo. La pressione fiscale si scaricò così su un’economia che non era in grado di sostenerla. Il regime liberistico travolse quel po’ di sviluppo manifatturiero che aveva attecchito intorno alla capitale negli ultimi tempi dei Borbone. Dopo due o tre decenni di vita unitaria si cominciò, pertanto, a parlare di una questione m. in termini nuovi e prese l’avvio il meridionalismo, ossia una riflessione organica sui problemi che si ponevano nell’Italia unita per il forte dislivello fra le due sezioni del paese.

Contro i nostalgici della secolare indipendenza napoletana, che attribuivano all’Unità i mali del Mezzogiorno, G. Fortunato affermò con fermezza che, se non si fosse legato allo Stato nazionale italiano, il Mezzogiorno non avrebbe potuto essere sottratto a un destino africano o balcanico. Intanto, però, avevano luogo grandi trasformazioni: le varie province si scioglievano dall’antica soggezione e dipendenza verso Napoli e, in Sicilia, verso Palermo; un progresso agrario importante si verificava in alcune zone (pianure campane e pugliesi, conca di Palermo, piana di Catania); la commercializzazione dei prodotti agrari si faceva sensibile; si sviluppava una serie di centri urbani; veniva creata una rete ferroviaria, sia pure volta più a collegare il Sud con il Nord; migliorava il livello dell’istruzione e della vita pubblica.

Alla fine degli anni 1880 i contrasti che portarono a una vera e propria guerra economica con la Francia – maggiore cliente del Mezzogiorno agrario di allora – inflissero un duro colpo all’agricoltura meridionale. In quegli anni la reazione alle nuove condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno produsse un movimento emigratorio torrenziale. Dinanzi a queste contraddizioni e a questi problemi alla fine del 19° sec. maturò la riflessione di F.S. Nitti, secondo il quale lo sviluppo settentrionale e il sottosviluppo meridionale dopo l’Unità sarebbero stati determinati fondamentalmente dal forte drenaggio dei capitali meridionali attraverso il fisco e il credito e dall’indirizzo della politica doganale, prima liberistico e poi protezionistico nei settori più gravosi (siderurgia, zucchero, grano ecc.). Nitti proponeva perciò una politica di intervento statale e una politica sociale in grado di avviare una vera e propria industrializzazione del Mezzogiorno, avvalendosi dell’energia idroelettrica di cui l’Italia poteva essere una buona produttrice.

Nello stesso tempo la corrente degli economisti favorevoli al libero scambio (L. Einaudi, G. Carano Donvito, A. De Viti De Marco) sviluppava il tema antiprotezionistico, anch’esso una tesi classica del meridionalismo. Il socialismo italiano aveva dedicato poca attenzione al problema: G. Salvemini assunse perciò una posizione assai originale quando individuò nella grande borghesia agraria che si avvantaggiava del dazio sul grano e nella piccola borghesia urbana le zone da combattere nella società m., prospettando un’alleanza di classe fra contadini del Sud e operai del Nord e il suffragio universale come elementi decisivi. Il quindicennio giolittiano fu un periodo di relativo sviluppo delle regioni del Sud e vide l’applicazione della prima legislazione speciale a favore del Mezzogiorno.

Dal fascismo alla Cassa per il Mezzogiorno

Dopo la Prima guerra mondiale la riflessione meridionalistica si avviò decisamente sul piano politico. L. Sturzo perorò la causa delle autonomie regionali come il mezzo più idoneo a liberare le energie e a proteggere gli interessi del Sud. A sua volta A. Gramsci individuò nella questione m. la massima contraddizione storica e sociale del paese. Egli sviluppò le indicazioni salveminiane da un punto di vista leninista, come schema di un’alleanza di classe analoga a quella che in Russia aveva reso possibili la rivoluzione e la vittoria dei soviet degli operai e dei contadini. Così, rivoluzione italiana e abbattimento del blocco di potere formato dagli agrari del Sud e dagli industriali del Nord facevano tutt’uno. G. Dorso vedeva in un rinnovamento della classe dirigente, nella formazione di una élite direttiva e nell’avvio, sulle basi di una forte autonomia m. e regionale, a un tipo di sviluppo da società occidentale avanzata l’obiettivo più auspicabile. Erano posizioni destinate a essere travolte dalla marea montante del fascismo, che dichiarò chiusa la questione m. e vide nell’espansione coloniale e nell’intensificazione della produzione agraria la soluzione del problema.

Nel dopoguerra le forze politiche si dimostrarono assai sensibili alla questione. I comunisti ripresero e riarticolarono le tesi di Gramsci. I socialisti portarono il contributo della riflessione di R. Morandi, in particolare, alla questione dell’industrializzazione. Allo stesso problema si dedicò P. Saraceno nel campo cattolico. Nel campo laico si ripresero con particolare vivacità le tesi di Nitti e di Dorso; M. Rossi Doria elaborò il tema dello sviluppo agricolo e di una riforma agraria, mentre altri richiesero una considerazione prioritaria dell’industrializzazione e del problema della città.

Sotto la sollecitazione anche dei movimenti di massa si giunse tra il 1949 e il 1950 alla definizione di una serie di linee operative, fra cui una parziale riforma agraria e l’istituzione di una Cassa per il Mezzogiorno, partita in un primo tempo dal presupposto che per avviare lo sviluppo del Sud fosse sufficiente dotarlo delle grandi infrastrutture di cui esso mancava; in un secondo tempo si ritenne necessario un intervento diretto e si arrivò a promuovere e a realizzare alcuni grandi impianti industriali. I risultati dell’azione della Cassa e di tutta la politica speciale successiva non furono quelli sperati, pur essendo innegabile un processo di sviluppo che, specialmente negli anni 1960, trasformò il quadro stesso dell’ambiente meridionale. Negli anni 1950, inoltre, riprese la grande emigrazione interrottasi alla fine degli anni 1920, diretta questa volta verso l’Europa occidentale e l’Italia settentrionale. Tuttavia si poteva osservare in tutte le regioni meridionali un netto mutamento delle condizioni e del livello di vita.

All’inizio degli stessi anni 1960 si manifestò sempre più chiara la richiesta, non raccolta, di un superamento e di un’integrazione della politica speciale per il Mezzogiorno in una politica nazionale di programmazione e di sviluppo dell’intero sistema nazionale. Il meridionalismo perse molto della sua carica politica e assunse una fisionomia tecnica quasi da disciplina accademica.

Il mancato superamento della questione

Il criterio di una ‘politica speciale’ rimase quello dominante nell’azione per il Mezzogiorno. L’attenzione si spostò sempre più massicciamente sull’industria e sui servizi. Né si tenne conto dell’arresto ormai completo dell’emigrazione che di nuovo congestionava fortemente il mercato del lavoro, già trasformato dall’unificazione salariale del paese. Gli obiettivi settoriali, territoriali e sociali dello sviluppo divennero l’oggetto della ricerca di un equilibrato dosaggio fra interventi diretti e indiretti dello Stato, tra finanziamenti e agevolazioni o incentivi, tra assistenza e promozione. Nel giro di una ventina di anni il Mezzogiorno prese l’aspetto di una periferia di grande area sviluppata. Dall’altro lato, però, la distanza strutturale, reddituale, sociale, funzionale rispetto alla sezione più avanzata del paese tendeva a crescere. Né si poteva tracciare un bilancio positivo dell’autonomia regionale, toccata nel 1947 alla Sicilia e dal 1970 alle altre regioni.

A metà degli anni 1980 molti parlarono di un ormai avvenuto superamento della questione m., ma in realtà un tale bilancio era impossibile. Specialmente dopo il terremoto campano e lucano del 1980 la politica speciale prese la via di una serie di ‘grandi opere’ e di incentivazioni e agevolazioni, che finì con il cadere sotto il controllo di gruppi politici. Clientelismo, corruzione e oligarchismo notabilare si saldarono frequentemente in un nesso deteriore più forte di quanto fosse mai accaduto in precedenza. Per di più, con la diffusione del traffico della droga e gli enormi guadagni connessi, la vecchia patologia criminale mafiosa, che solo in Sicilia con la mafia sembrava avere preoccupanti dimensioni, esplose anche nelle altre regioni. La collusione tra i ceti politico-amministrativi e professionistici e i gruppi della criminalità organizzata prese dimensioni superiori a ogni precedente.

Nel mondo agrario, alla crescente fioritura di alcune produzioni in determinate zone corrispondeva un abbandono generale delle campagne che assumeva tutti i caratteri di una vera e propria destrutturazione economica e sociale, a malapena compensata da una politica di assistenza e di pensioni sociali e da un’artificiosa diffusione di occupazione, soprattutto pubblica, scarsamente produttiva o parassitaria. Nel 1986 la Cassa per il Mezzogiorno fu sostituita da un’Agenzia per la promozione dello sviluppo nel Mezzogiorno, concepita secondo linee più snelle ma i cui risultati non furono sostanzialmente migliori e alla fine fu anch’essa soppressa, con il passaggio delle competenze meridionalistiche al ministro del Bilancio.

La profonda crisi politica che investì l’Italia agli inizi degli anni 1990 trovò il Mezzogiorno, il meridionalismo e la politica meridionalistica in una condizione simultanea di trasformazione e di travaglio che continuava a mantenere le regioni m. in uno stato generale di ‘inferiorità’ analogo, benché mutato nei termini, a quello in considerazione del quale era stata sollevata un secolo prima la questione meridionale. Anzi, la grande diffusione al Nord di tendenze revisionistiche dell’unità nazionale determinava una comprensione assai inferiore o, addirittura, una ripulsa delle esigenze del Mezzogiorno, visto come scaturigine ed emblema dei ‘mali’in cui era precipitato il sistema politico italiano.

La problematica attuale

Nel 21° sec., era della globalizzazione, dei mercati interdipendenti, dell’economia della conoscenza, l’ottica necessariamente si allarga e nello stesso tempo si fa più selettiva. Da una parte, i mercati di riferimento non sono più quelli locali o nazionali, ma il mercato europeo e la sua apertura verso l’Est e verso il Mediterraneo. Dall’altra, le logiche dello sviluppo possibile sono sempre più strettamente intrecciate al territorio, alla valorizzazione delle energie endogene, alla nascita e alla crescita dei distretti, alla messa in rete – reti imprenditoriali e istituzionali, reti di fiducia – delle iniziative. Si fa strada un meridionalismo nuovo, pragmatico, meno dirigista e più attento alle peculiarità positive che il Sud può esprimere, alle potenzialità che, fra luci e ombre, la società civile meridionale manifesta. Si rifiuta l’idea che il Mezzogiorno abbia bisogno di politiche ‘speciali’. Si sostiene invece che servono modulazioni territoriali, non solo per il Sud, di una coerente politica nazionale, in un’Italia che fa parte, per la scelta europea, di un insieme più vasto, con vincoli e con opportunità, e che, per la sua posizione geografica, è un ponte naturale fra l’Europa e il Mediterraneo.

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