TERTULLIANO, Quinto Settimio Florenzio

Enciclopedia Italiana (1937)

TERTULLIANO, Quinto Settimio Florenzio

Mario Niccoli

Apologista e scrittore cristiano. Le scarne e malcerte notizie che la tradizione cristiana ci ha trasmesso sulla vita e sulla carriera di T., trovano un riscontro nell'avarizia di dati biografici che si possono trarre dalla stessa eredità letteraria, pur tanto copiosa, dello scrittore. Sì che spesso momenti capitali nella vita di lui ci sfuggono completamente, e solo in via ipotetica è possibile supplire a questa lacuna.

T. nacque a Cartagine, centro intellettuale e commerciale dell'Africa, verosimilmente fra il 155 e il 160. Figlio di un centurione comandante le truppe romane al servizio del proconsole d'Africa, ricevette una completa educazione nelle scuole di Cartagine, allora fra le più reputate di tutto l'impero. Ottimo conoscitore della lingua greca, sì da poter scrivere con sicurezza anche in questa lingua; buon conoscitore, e spesso di prima mano, del patrimonio letterario della classicità; iniziato allo studio sia della filosofia sia della medicina; animato da un'insaziabile desiderio di sapere, si lasciò attrarre soprattutto dall'arte retorica, congeniale all'irruenza del suo temperamento battagliero, alla sua passione per la polemica. Ma lo studio delle leggi, tanto diffuso in quell'Africa definita da Giovenale come "nutrice di avvocati", sembra aver avuto un'influenza decisiva sulla sua formazione intellettuale che ne uscì foggiata in maniera inconfondibile.

"Perfetto conoscitore delle leggi dei Romani" lo definisce Eusebio, e certo questo attestato ha molto contribuito, insieme con l'evidente conoscenza del diritto romano riscontrabile in tutta la sua opera teologica e polemica, alla genesi dell'ipotesi (formulata già dal Cuiacio) che vuol identificare il nostro T. col giureconsulto romano di egual nome, vissuto anch'esso all'epoca di Settimio Severo, e l'opera del quale è conservata frammentariamente nel Digesto. Ma l'ipotesi, per quanto suggestiva e raccomandata a buoni argomenti, sembra urtare col fatto che uno studio attento dei frammenti di T. giureconsulto rivela (come ha efficacemente provato l'indagine di P. Vitton) che l'attività scientifica del giureconsulto si deve esser protratta almeno fino al 195: in epoca posteriore, cioè, alla conversione di T. al cristianesimo. Ora, appare estremamente improbabile, a chi conosca la sdegnosa fermezza di T. apologista e moralista cristiano nel ripudiare tutte le istituzioni della società pagana, che egli, convertitosi al cristianesimo, abbia insistito in un'attività così poco consona alla sua recente esperienza. Comunque può supporsi che T., ancora pagano, giovane esuberante e desideroso di affermazione, si sia lasciato attrarre dalla carriera forense. Quasi certamente egli fu a Roma se, come appare probabile, la minuta conoscenza dell'Urbe e dei suoi monumenti che si rivela chiaramente nei suoi scritti, sono il riflesso di una conoscenza diretta, e se non si voglia interpretare come fantasia retorica la sua affermazione (De cultu feminarum, I, 7) di aver visto a Roma (vidimus Romae) un corteggio di Medi e di Parti.

Ma quando e come sia stato compiuto questo viaggio, se esso si sia ripetuto di frequente, se debba comunque porsi in relazione con la sua attività professionale, non è dato precisare. Qualunque sia stata la sua professione - molti hanno pensato che anche T., come Cipriano, Arnobio, Lattanzio e S. Agostino, fosse un maestro di retorica - è certo che T. da giovane sentì il fascino dell'agone letterario. "Adhuc adulescens", T. scrisse (lusit, secondo l'espressione di S. Girolamo che è il nostro testimonio giacché lo scritto è perduto) un opuscolo De angustiis nuptiarum ad amicum philosophum. Gli scritti di T. cristiano sono pieni di accorate confessioni sulla dissipata giovinezza. Ci sono ignoti completamente i motivi per i quali sia stato indotto ad abbracciare la fede cristiana: certo lo spettacolo dell'eroismo dei martiri dovette colpire il suo spirito che sembra avere tratto dall'acerbo gusto di marciare contro corrente il suo alimento preferito. Certo la sua conversione (verso il 190-195) fu senza compromessi, totalitaria: egli s'impadronì compiutamente della Bibbia, lesse gli apologisti greci, la letteratura subapostolica, le opere di Ireneo, forse ebbe notizia anche degli scritti di Clemente Alessandrino; pur rimanendo (come sembra probabile nonostante la contraria affermazione di S. Girolamo) semplice laico, portò nella sua nuova vita la stessa ardente passione che aveva profuso nello studio e nei piaceri. Rinnegò tutto, votandosi con anima di apostolo, con temperamento di combattente, con intransigente rigorismo, alla causa cristiana. A un certo punto della sua vita (circa il 207) aderì al montanismo: ma, più che come una seconda conversione, l'adesione di T. alla profezia dei Frigi fu effetto della sua ostinata volontà di rimaner fermo a quei valori che egli considerava e aveva sempre considerato come essenziali del cristianesimo e che vedeva a poco a poco naufragare nella sistemazione ecclesiastica dell'ideale cristiano.

T. morì vecchio: "fertur vixisse usque ad decrepitam aetatem" asserisce S. Girolamo. Da S. Agostino apprendiamo che aveva finito col separarsi anche dai montanisti, per diventare "tertullianista". E la notizia, se può essere storicamente discussa, riflette alla perfezione il tragico destino di questo spirito irrequieto che avendo generosamente dato per la causa cristiana, sempre insoddisfatto di sé e degli altri, assillato dal miraggio di una perfezione irraggiungibile, doveva finire in armonia solo con sé stesso.

Per valutare esattamente l'importanza eccezionale che l'opera di T. ha avuto nella storia del cristianesimo primitivo, basterà riflettere che con l'attività letteraria di T. (197-222 circa), quasi contemporanea a quella di Clemente Alessandrino e preceduta solo da quella degli scrittori subapostolici, degli apologisti e di Ireneo, la cristianità dell'Africa romana, d'importanza così decisiva nella storia religiosa dell'Occidente, entra per la prima volta nella luce chiara della storia, dopo gl'incerti albori dei quali è traccia nell'episodio dei martiri scillitani.

T. è stato, prima di tutto, il ricreatore dell'apologetica cristiana. Gli apologisti greci (v. apologetica), anche quando avevano mirato direttamente a mostrare alle autorità pubbliche l'ingiustizia della persecuzione anticristiana, avevano fatto questo soprattutto difendendo l'ideale cristiano dalle calunnie di cui era oggetto, dipingendo la loro fede quasi come ricapitolazione della spiritualità precristiana (T., nel trarre dalla testimonianza dell'anima naturaliter christiana argomento, di sapore così schiettamente immanentistico, in favore della verità cristiana, biasimerà apertamente questo atteggiamento degli apologisti greci: De testimonio animae, del 197) e chiedendo per essa il diritto all'esistenza appellandosi alla ragione, alla filosofia, all'umanità. Ma la loro esposizione non segue quasi mai un piano logico e difetta soprattutto di rigore dialettico nella questione di fondo, cioè nella questione giuridica. T. vivifica l'argomentazione tradizionale dell'apologetica greca innestandola in un quadro di eccezionale vigore logico e polemico, prendendo direttamente a partito la stessa legislazione romana. Nell'Apologetico (del 197), senza dubbio uno dei capolavori della letteratura mondiale, T. mostra tutta l'illogicità e l'iniquità della procedura contro i cristiani: i quali perseguitati come rei di delitti atroci, sono oggetto di un trattamento giudiziario completamente diverso da quello cui sono sottoposti i non cristiani rei degli stessi delitti. I giudici si ostinano a voler ignorare la natura del delitto che essì perseguitano: "vacante autem meriti notitia, unde odii iustitia defenditur?". Ai cristiani non si richiede che la "confessio nominis", non "l'examinatio criminis". Ma la verità, pur non chiedendo grazia per sé, giacché non si meraviglia della sua condizione, una sola cosa chiede: "ne ignorata damnetur". T. parlerà per tutti. Innanzi tutto quando i giudici, a norme di diritto, sentenziano Non licet esse vos e sollevano così un'obiezione preliminare senza alcuna preoccupazione di umanità, essi fanno professione di violenza e di tirannide iniqua, giacché negano ai cristiani il diritto all'esistenza perché essi vogliono negarlo, non perché ciò non debba esser effettivamente lecito. La legge è essenzialmente soggetta a variare, e comunque soggiace sempre a una superiore norma di bene e non può proibire ciò che è bene: "si bonum invenero esse quod lex prohibuit, nonne ex illo praeiudicio prohibere me non potest, quod si malum esset iure prohiberet?".

L'esposizione che segue, riecheggiante spesso i motivi dell'altra opera di T. di poco precedente, Ad nationes, mira attraverso la confutazione delle accuse tradizionali contro il cristianesimo e la descrizione della vita e della fede dei cristiani a provare appunto che niente può riscontrarsi di cattivo in quello che pure la legge proibisce. Ci si attenderebbe un appello alla clemenza e alla giustizia. Segue invece una sfida: che i giudici continuino a perseguitare. La loro iniquità è prova dell'innocenza dei cristiani e giova alla loro causa: "vincimus, cum occidimur; evadimus, cum obducimur; plures efficimur, quotiens metimur".

Se il suo temperamento e la sua recente esperienza di convertito, dovevano necessariamente rivolgere l'attività di T. al compito, che si presentava più urgente, di difendere la comunità dagli attacchi esterni: la sua sollecitudine per i fratelli nella fede, la sua sempre preoccupata e passionale partecipazione alla vita intima della comunità, già chiarissima nella commovente lettera Ai martiri (del 197) che in carcere attendevano la loro sorte, ci è rivelata in pieno da una serie di trattatelli etico-disciplinari (cronologicamente collocabili fra il 200 e il 212), preziosi oltre tutto a mostrarci l'irreducibile antitesi che nello spirito di T. si è stabilita fra la sua esperienza religiosa e tutti i valori sociali, politici e mondani della società circostante. Sia che T. voglia far risaltare il vero significato dell'iniziazione battesimale (De Baptismo) o il contenuto del Paternoster (De Oratione); sia che debba tessere l'elogio della pazienza (De patientia) o presentare la penitenza come seconda e definitiva possibilità per il peccatore di riscattarsi dalla colpa dopo il battesimo (De poenitentia); sempre T. ricorda ai fedeli che l'adesione al fatto cristiano è tutta nel formale impegno preso di procedere per una via eccezionalmente aspra, ogni più piccola deviazione dalla quale costituisce già un tradimento. Nessun accomodamento col mondo: non teatri né divertimenti (De spectaculis), nessuna partecipazione a una vita pubblica che è imbevuta di idolatria in tutte le sue manifestazioni quotidiane (De idololatria, verso il 211). Con quel sentimento misto di attrazione e di repulsione che è caratteristico del temperamento fondamentalmente passionale e sensuale di Tertulliano, egli si indirizza alle donne della comunità per prescrivere loro la modestia nell'atteggiamento e nella loro acconciatura esteriore (De virginibus velandis; De cultu foeminarum); alla sua propria moglie per imporle, con un atteggiamento che mal cela sotto le proposizioni teoriche un geloso attaccamento personale, di non contrarre nuove nozze, qualora egli fosse premorto a lei. Ma queste preoccupazioni moralistiche trovano un loro logico presupposto solo se s'intenda come esse siano soprattutto dominate e suggerite dal desiderio di premunire la comunità dall'attenuazione dell'aspettativa escatologica: non è senza significato che questi trattatelli morali di T. siano coevi di quattro scritti perduti, il titolo dei quali (De censu animae, De paradiso, De fato, De spe fidelium), insieme con quanto altrimenti sappiamo dell'escatologia di T., vale a mostrarci quale fosse l'intima convinzione di T., l'essenza vera e più profonda della sua religiosità. T. cioè è un millenarista convinto (v. milllenarismo), e lo stesso intransigente atteggiamento che egli adotterà nella sua polemica contro gli gnostici, e in genere il suo atteggiamento di fronte al processo di rielaborazione intellettuale e razionale del messaggio cristiano, è suggerito dal bisogno istintivo di salvare il suo programma di una morale sanzionata in funzione del realismo della sua fede escatologica. Sceso in polemica contro la dottrina dell'eternità della materia difesa da Ermogene (Adversus Hermogenem, verso ïl 206), T. insiste soprattutto sul fatto che Dio non avrebbe mai potuto ricavare una realtà peritura da una sostanza eterna, mentre Dio ci ha promesso di suscitare da fattori inferiori realtà maggiori, e precisamente dal corruttibile e transitorio l'immortale ed eterno. Ma più che nell'Adversus Hermogenem e nella polemica, tanto vivace e briosa quanto superficiale e disonesta contro i valentiniani (T. nell'Adversus Valentinianos, del 211 circa, utilizza chiaramente Ireneo, ma il Valentino da lui preso a partito non ha nulla a che vedere col Valentino, spiritualissimo predicatore di morale e di salvezza, rivelato dai frammenti dello gnostico conservatici da Clemente Alessandrino), è nell'Adversus Marcionem (la terza edizione, a noi giunta, in 5 libri, fu iniziata fra il 207 e il 208 e conclusa verso il 211) che si rivela in pieno la mentalità di T. incapace di comprendere la raffinata spiritualità di Marcione, condotto dalla sua idea dell'assoluta novità e originalità del messaggio evangelico a separare questo decisamente da ogni altra manifestazlone precedente della religiosità umana, compresa la manifestazione del Dio creatore dell'Antico Testamento, e a patrocinare un programma di vita morale indipendente dalla visuale di ogni sanzione o ricompensa, ma solo improntata all'infinita bontà e alla misericordia di Cristo (v. anche marcione). "Udite, udite, peccatori - griderà scandalizzato T. - e voi pure che ancora non lo siete affinché possiate diventarlo: è stato ritrovato un Dio migliore del nostro, che non colpisce, non s'adira, non si vendica, a causa del quale nessun fuoco brucia nella Geenna, per il quale nessuno stridore di denti agghiaccia nelle tenebre esteriori: è solamente buono. E del resto proibisce di peccare, ma solo a parole: infatti non vuole il timore. Su dunque: tu, o Marcione, che non temi Dio perché è buono, perché non ti lasci dominare da ogni sorta di libidini, perché non pecchi?".

Non a torto T. è stato definito "il padre della teologia occidentale". Spinto dal desiderio di mettere in guardia la comunità contro la propaganda gnostica e marcionita, da T. intese come tentativi d'interpretare il messaggio cristiano alla luce dei sistemi culturali correnti e che dovevano quindi favorire un pericoloso riavvicinamento fra la comunità cristiana e la società circostante ("persecutio et martyras facit" - osserverà - haeresis apostatas tantum") T. scriveva, verso il 200, la sua prima opera antiereticale (il De prescriptione haereticorum), nella quale, trasferendo genialmente sul terreno della polemica teologica il principio giuridico romano della longae possessionis praescriptio, e opponendo alla rivendicazione di possesso della verità avanzata dagli eretici, la pregiudiziale della sua indisturbata occupazione da parte della Chiesa, fissava i fondamenti di quella dottrina della tradizione che, rielaborata da S. Vincenzo di Lérins ("quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est, hoc teneatur"), è alla base della dogmatica cattolica. Contro Marcione e contro gli gnostici, T. ha difeso l'idea dell'unità di Dio e della sua rivelazione così nell'Antico come nel Nuovo Testamento. Contro la speculazione gnostica, che riduceva la funzione salvatrice del Cristo a una adesione intima al suo insegnamento, T. ha proclamato la piena realtà della redenzione attraverso l'incarnazione di Cristo, la sua morte e la sua resurrezione, preludio della resurrezione di tutti i morti il dì dell'inaugurazione del regno millenario (v. soprattutto De carne Christi e De resurrectione carnis, del 211 circa). Contro il monarchianismo patripassiano di Prassea che annullava ogni differenza fra Padre e Figlio, ha difeso (Adversus Praxean. posteriore al 213) una concezione "economica" della Trinità, per la quale, partendo dal presupposto del progressivo dispiegamento del divino nel mondo - dalla creazione, alla redenzione e al fine ultimo dell'umanità - l'unità divina è affermata come molteplicità d'ipostasi (Tertulliano è il primo ad adoperare, con giuridica precisione, termini come trinitas, substantia, persona diventati tecnici della teologia trinitaria occidentale), ognuna in corrispondenza di un dato momento nell'evoluzione religiosa dell'umanità: trinità di persone che non è un rinnegamento dell'unità di sostanza divina. Per quanto questa schematizzazione tertullianea della fede trinitaria non sarebbe stata possibile senza gli apologisti e Ireneo, per quanto non si possa ragionevolmente negare la dipendenza di T. dall'Εἰς ?τὴν αἵρεσιν Νοήτον di Ippolito, è certo che essa, nonostante una tipica connotazione subordinazionistica (v. subordinazionismo) che la contraddistingue, ha grandemente influito sull'ulteriore svolgimento della teologia trinitaria occidentale.

Ma accanto alla segnalazione del contributo portato da T. al processo di enucleazione del dogma cattolico, è necessario segnalare, per intendere appieno il motivo primo della religiosità tertullianea e il significato che in essa hanno queste sue elaborazioni teologiche, che queste sono, tutte, dettate dal realismo della sua escatologia eudemonistica. Così la tesi della corporeità dell'anima, difesa da T. nel De anima (del 211 circa), si spiega solo se si tenga presente che repugnava al grossolano realismo di T. l'idea di un'anima che non potesse partecipare, per la sua natura, alle gioie del regno o alle sanzioni degl'inferi. La tesi traducianistica di T., a proposito della trasmissione dell'anima attraverso la generazione (v. traducianismo), è in funzione della sua ostilità di fronte alla concezione trascendentale della genesi e della destinazione dello spirito difesa dagli gnostici, e del bisogno di stabilire un indissolubile rapporto fra il corpo e l'anima nel piano della salvezza finale. E così T., condotto dalla logica del suo realismo, si rifiuta di credere che la nascita di Cristo sia avvenuta al difuori delle leggi di natura: "si Virgo concepit, in parto suo nupsit... patefacti corporis lege"; e non sa trattenersi dall'affermare, in stretto collegamento con la sua dottrina dell'anima, anche una "corporeità, sui generis in Dio.

Se dunque il motivo primo e più profondo della religiosità tertullianea è nella sua assoluta e intransigente fedeltà a un ideale di escatologia realistica, non è difficile comprendere come di fronte all'evoluzione del cristianesimo verso una sempre più precisa rielaborazione concettuale della fede e un'organizzazione pratica più salda delle comunità a tutto scapito di quell'ideale escatologico, abbia finito per trovarsi sullo stesso piano ideale dei "profeti" montanisti (v. montanismo), nei quali l'affermazione della libera ispirazione paracletica si accoppiava a un rifiorire allucinato di speranze apocalittiehe.

Gli ultimi scritti di T. (fra il 212 e il 222) sono tutti (De fuga in persecutione, Adversus Praxean - è sintomatico che in questo scritto l'elaborazione della teologia "economica" proceda di pari passo con la difesa del montanismo - De Monogamia, De ieiunio, De pudicitia) una violenta diatriba contro gli "psichici" (così T. definisce i membri della comunità ufficiale in contrapposizione agli "pneumatici"). Soprattutto importante l'ultimo scritto, De pudicitia, diretto contro l'editto penitenziale (v. penitenza) di papa Callisto (altri pensa al vescovo cartaginese Agrippino).

Oltre a quelli già citati si ricordano anche i seguenti scritti: Adversus Iudaeos (del 200 circa); Adversus Apelleiacos, perduto, contro i seguaci di Apelle discepolo di Marcione; De Pallio (del 209), che è il più piccolo, il più difficile e il più tertullianeo degli scritti di T., nel quale egli giustifica il suo abbandono della toga per rivestire il pallio filosofico: per quanto il trattatello rappresenti certamente la manifestazione più clamorosa dello spirito polemico e dell'erudizione letteraria di T., esso non può essere interpretato come una pura e semplice esercitazione letteraria (G. Boissier; G. De Labriolle). La sua ispirazione cristiana è stata bene provata da M. Zappalà, contro la tesi di J. Geffcken che ha visto nello scritto un esempio di diatriba stoico-cinica e la rielaborazione di una satira di Varrone. Si ricordano ancora il De exhortatione castitatis (circa il 210), diretto soprattutto contro le seconde nozze; De corona militis, nel quale T. insorge a difendere un soldato cristiano che si è rifiutato (211) di coronarsi il capo: vi è ampiamente svolto il motivo dell'incompatibilità fra professione cristiana e servizio militare; Scorpiace (211-212), antidoto contro il veleno dello scorpione, cioè contro la propaganda degli gnostici intesa a svalutare il merito del martirio; Ad Scapulam (212), lettera aperta nella quale T., pur già montanista, s'indirizza a nome della comunità e con singolare violenza di linguaggio, a Scapula proconsole d'Africa per affermare ancora una volta la liceità della professione cristiana. Con tutta probabilità va attribuita a T. montanista la famosa Passio Ss. Perpetuae et Felicitatis. Perduti sono i VII libri De Ecstasi.

La cronologia degli scritti di T. è assai controversa, scarsissimi i riferimenti interni che permettano una sicura datazione. Un tentativo eccellente di classificazione cronologica è stato fatto da E. Nöldechen; partendo dai risultati raggiunti dal Nöldechen, oggi ancora seguiti, per es., da E. Buonaiuti, P. Monceaux ha stabilito la cronologia oggi accettata generalmente.

T. è il creatore del latino ecclesiastico: per quanto sia assai verosimile pensare a un influsso delle primitive traduzioni latine della Bibbia sulla lingua di T., è innegabile che le opere di T. hanno un'importanza definitiva nel processo di rinnovamento subito dalla lingua latina. Naturalmente qui è presupposta la dipendenza dell'Ottavio di Minucio Felice dall'Apologetico, e non di questo da quello.

La tradizione manoscritta delle opere di T. è rappresentata da due famiglie di codici: la prima dal codice Agobardino (Parisinus 1622), così detto dal suo primo possessore Agobardo, vescovo di Lione (sec. IX); la seconda dal Montepessulanus 307, dal Paterniacensis 439 (ambedue del sec. XI) e da una serie di mss. del sec. XV, in grande maggioranza italiani. Un ms. del sec. XII fu ritrovato da A. Wilmart nella biblioteca di Troyes. Particolare importanza ha la questione del rapporto fra due codici dell'Apologetico, il Parisinus 1623 (sec. X) e il Fuldensis (smarrito, ma a noi noto attraverso la collazione fattane verso il 1584 dall'umanista Francesco Modio [François de Maulde]), che presentano diversità di redazione talmente nette da far pensare a due edizioni. Fra le varie opinioni sembra oggi prevalente la tesi che vuole procedere alla ricostruzione del testo con criterî eclettici.

L'editio princeps è quella di Beato Renano (Basilea 1521). L'unica edizione moderna completa è ancora quella, non priva di mende ma insostituita, di F. Oehler (voll. 3, Lipsia 1853-54). Nel Corpus di Vienna sono stati pubblicati, a cura di A. Reifferscheid e G. Wissowa, il De anima, De baptismo, De idololatria, De ieiunio, Ad nationes, De oratione, De pudicitia, Scorpiace, De spectaculis, De testimonio animae (XX, Vienna 1890), e a cura di E. Kroymann, Adversus Hermogenem, De praescriptione haereticorum, Adversus Praxean, De resurrectione carnis (XLVII, Vienna 1906).

Edizioni di scritti singoli: Apologetico: testo e apparato critico, traduzione francese e commentario analitico grammaticale e storico a cura di I.P. Waltzing (Parigi 1919; 2a ed. del testo e trad. con la collab. di A. Severyns nei classici de Les Belles Lettres, Parigi 1929; 2a ed. del commentario, Parigi 1931); a cura di E. Löfstedt, Lund 1915; a cura di A. Souter, Londra 1926; a cura di S. Colombo, Torino 1927; a cura di J. Martin, Bonn 1933 (Florilegium patristicum, n. 6); Apologetico e De Spectaculis con trad. inglese a cura di T. R. Glover, Londra 1931; De spectaculis, a cura di A. Boulanger, Parigi 1933; Ad nationes, a cura di J. G. Borleffs, Leida 1929; De corona militis, a cura di J. Marra, Torino 1927; De cultu foeminarum, a cura dello stesso, Torino 1930; De baptismo, a cura di J. G. Borleffs, Leida 1931; De anima, a cura di J. H. Waszink, Amsterdam 1933; De praescriptione, a cura di J. Martin, Bonn 1930; De oratione, a cura di R. W. Muncey, Londra 1926; De poenitentia e De pudicitia a cura di E. Preuschen, 2a ed., Tubinga 1910; a cura di G. Rauschen, Bonn 1915; De poenitentia, con utilizzazione del ms. di Troyes, a cura di J. G. Borleffs, in Mnemosyne, 1933, pp.1-64.

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