FOSCARARI, Raffaello

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FOSCARARI (Foscherari), Raffaello

Giorgio Tamba

Nacque a Bologna intorno all'anno 1380 terzo figlio, dopo Opizzone e Romeo, di Francesco, ricco banchiere e membro influente dell'oligarchia cittadina. Non sappiamo quali studi abbia compiuto: la sua iscrizione alla società dei cambiatori, documentata nelle matricole dell'anno 1410, indica che probabilmente il F. si indirizzò, sulle orme paterne, all'attività di banchiere. Nel 1399 sposò Margherita, figlia di Nicolò Ludovisi, dottore di leggi e cavaliere, persona di alto rilievo nel mondo politico cittadino. Alla morte del padre, nel settembre dello stesso anno, unitamente al fratello Romeo, entrò in possesso di uno dei più ricchi patrimoni di famiglia in Bologna.

Il suo primo impegno pubblico fu la partecipazione alla delegazione di oltre quaranta cittadini, inviati nel 1402 a Milano, per attestare l'adesione di Bologna al nuovo signore, Gian Galeazzo Visconti. L'incarico, certo di scarso rilievo, non era tuttavia privo di significato. Esso marcava in modo abbastanza netto una diversità di posizione del F. rispetto a quella del più anziano e ben più noto fratello, Romeo, molto vicino a Giovanni Bentivoglio, che il Visconti aveva scalzato dal dominio in Bologna. Tale diversità, destinata ad approfondirsi ulteriormente, non impedì peraltro ai due fratelli la gestione comune del patrimonio ereditato e la cura unitaria degli obblighi familiari, come il provvedere alla dote della nipote Filippa.

Nel 1403 il F. fu implicato, stando alle cronache, in un violento fatto di sangue. Negli scontri e nelle vendette, seguiti al rivolgimento che ricondusse Bologna dalla soggezione viscontea al controllo della Chiesa, il F. avrebbe infatti ucciso un certo Filippo di Nicolò Ligo (o Ludovisi). I particolari dell'avvenimento non sono peraltro chiari: secondo le cronache si sarebbe trattato di un episodio interno alle lotte di fazione. Una tinta più fosca all'episodio è data dall'incertezza intorno al nome della vittima, che era forse cognato del Foscarari. Dall'accaduto, del quale mancano peraltro testimonianze documentarie, non sembra siano comunque derivate conseguenze particolari per il F., presente in Bologna nel 1404, quando comprò due case nella cappella di Santa Maria de' Carrari, e nel 1405, allorché dette esecuzione, insieme col fratello, al testamento del padre.

Più gravi furono invece otto anni dopo le conseguenze delle sue scelte politiche. Il governo popolare, instaurato nel maggio del 1412 dopo la rivolta guidata da Pietro Cossolini, venne fortemente osteggiato dall'oligarchia cittadina e i principali oppositori, fra i quali anche il F., vennero posti al bando dalla città. Neppure la caduta del regime popolare, seguita alla reazione oligarchica del 1412, giovò al F., che sembra sia stato riammesso in città solo nel 1416, quando un nuovo rivolgimento costrinse alla fuga il legato pontificio e nel vuoto di potere creatosi trovarono alimento gli scontri per il predominio cittadino tra le fazioni dei Canetoli e dei Bentivoglio. A questi scontri il F. dovette mantenersi sostanzialmente estraneo e per oltre una decina d'anni il suo nome non compare tra quelli dei membri dei vari organi di governo.

La sua presenza in città è peraltro documentata da alcuni atti notarili, datati dal 1418 al 1426. L'assenza del F. dalla scena politica venne interrotta solo nell'agosto del 1428, quando, in un momento di particolare tensione per le iniziative assunte dai Canetoli, egli fu chiamato a far parte degli Otto di balia. Si trattò peraltro di un'esperienza limitata. Cessato l'incarico, egli riprese le distanze dagli impegni pubblici: quando l'anno successivo i Bolognesi decisero di ricorrere al cardinale Niccolò Albergati quale intermediario per intavolare trattative con il papa, il F. venne coinvolto nell'ambasciata come persona legata al cardinale da una personale amicizia.

Sempre nel 1429 il F. venne colpito da un grave provvedimento - del quale non è dato conoscere le motivazioni - che comportò la confisca di una parte almeno dei suoi beni nonché una forte limitazione alla sua capacità d'agire. Le sole testimonianze reperite sono in un decreto del 30 ag. 1438, del quale si farà cenno successivamente, che ne cancellava gli effetti. Dovette comunque trattarsi di un provvedimento molto grave, forse un bando comminato per motivi politici. Il F. si stabilì con ogni probabilità a Ferrara, città di origine della sua seconda moglie, Cecilia di Bonagrazia, che egli aveva sposato intorno al 1429 (non sappiamo quando la prima moglie, Margherita Ludovisi, sia morta). Da questa unione nacquero i figli Terisio, Francesco, Eugenio Sigismondo e le figlie Polissena, Viride e Dorotea, l'ultima delle quali postuma. A Ferrara gli fece visita nel febbraio del 1438 il modenese Gerardo Rangoni, un accanito sostenitore dei Bentivoglio. Negli ultimi anni il F. doveva quindi essersi accostato a questa fazione, pur conservando, come apparirà dai successivi svolgimenti, forti legami con i Visconti.

Il colloquio col Rangoni indusse il F. a rivolgersi a Filippo Maria Visconti, del quale sollecitò un intervento più diretto tramite il suo capitano Niccolò Piccinino, e a rientrare poco tempo dopo in Bologna, dove riuscì a coinvolgere nel suo piano politico i maggiori esponenti dell'oligarchia cittadina. Il passaggio dal campo pontificio a quello visconteo rispondeva infatti a molte ed eterogenee aspettative della locale classe dirigente: vi era chi sperava di ottenere un maggior coinvolgimento nel governo cittadino, chi mirava a facilitare il ritorno degli esponenti più in vista delle fazioni; chi nutriva semplicemente ostilità verso le imposizioni fiscali promosse dal papa per finanziare il concilio, aperto poi nella vicina Ferrara. Dell'intera operazione il F. fu comunque l'indiscussa guida e dopo aver contattato il Piccinino gli aprì, nella notte del 20 maggio, le porte della città. Alla testa dei propri fedeli armati si assicurò quindi il controllo della piazza, così che l'intervento delle milizie del Piccinino si ridusse a ben poca cosa. Il 22 maggio furono nominati i nuovi membri degli organi di governo e il F. assunse la carica di gonfaloniere di Giustizia.

Nonostante il repentino e ampio successo conseguito, dovette peraltro rendersi conto che per dare sicurezza e continuità al nuovo ordine era necessaria la presenza di una figura di grande prestigio. Egli prese quindi a sollecitare con insistenza Annibale Bentivoglio affinché rientrasse in città. Al tempo stesso si assicurò il controllo delle entrate del Comune, facendosi nominare, con un decreto adottato dal Collegio degli anziani il 30 ag. 1438, tesoriere generale per un quinquennio, un periodo del tutto eccezionale. Da questa nomina trasse giovamento anche il Piccinino, posto in condizione di ottenere dalle casse del Comune, tramite il F., notevoli quantità di danaro sotto forma di spese straordinarie. La cosa non poteva che preoccupare sia Filippo Maria Visconti, che vedeva pericolosamente aumentata l'autonomia del proprio capitano, sia l'oligarchia cittadina, che si vedeva sottratta la gestione delle entrate della città. La protezione del Piccinino era comunque uno scudo fortissimo per il F., tanto che il 1° settembre egli venne addirittura confermato nell'incarico di gonfaloniere, in assoluto contrasto con la normativa in vigore. Qualche giorno dopo Annibale Bentivoglio rientrò in città, ma, nonostante il F. avesse propiziato il suo ritorno, Annibale si mostrò restio a seguirlo nelle scelte da lui operate e soprattutto negli stretti rapporti con il Piccinino.

Nei mesi successivi il F. rafforzò ancora la sua posizione, cumulando oltre agli incarichi già ottenuti anche quello di membro della Balia. Il ritorno di Battista Canetoli in città nel gennaio del 1439 rese ancora più incandescente la situazione interna e più precari gli equilibri faticosamente raggiunti. Il F. mostrava comunque di saper conservare le posizioni conquistate; il fatto che egli, insieme con Romeo Pepoli, reggesse per le briglie il cavallo di Giovanni VIII Paleologo quando, il 31 agosto, concluso il concilio che a Firenze aveva decretato l'unione delle Chiese latina e greca, l'imperatore d'Oriente entrò a Bologna, indica che la sua posizione nel sistema di potere cittadino era ancora perfettamente salda.

La situazione non poteva peraltro protrarsi ancora a lungo. L'esercizio spesso arbitrario delle grandi prerogative attribuitegli e la gestione delle entrate cittadine senza alcun controllo da parte degli altri organismi pubblici coalizzarono contro il F., cui certo non giovò la lunga assenza del Piccinino da Bologna, gli interessi dell'intera oligarchia cittadina. Annibale Bentivoglio, che, stando alle cronache, aveva inasprito il contrasto con il F. non cogliendone l'invito a unirsi in matrimonio con la figlia (il nome e l'età della quale sono peraltro ignoti), offrì a questa coalizione la sua determinazione e l'avallo del proprio prestigio.

Il 4 febbr. 1440 un gruppo di armati, guidati dal Bentivoglio, assalì il F. e lo uccise. La voce, artatamente diffusa, che attribuì l'assassinio a contrasti meramente privati, servì a coprire la reale portata politica dell'episodio.

La gestione della Tesoreria comunale, venne in seguito affidata da un'apposita convenzione del 18 marzo 1440 a una società di privati, rappresentanti l'intera oligarchia cittadina. La morte del F. aveva spianato così la via all'affermazione di quella che fu la classe senatoria bolognese, fulcro del potere cittadino fino al termine del sec. XVIII.

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