RAGION DI STATO

Enciclopedia Italiana - I Appendice (1938)

RAGION DI STATO

C. Cand.

. Il termine "ragion di stato" entrò nell'uso intorno al 1550 e servì comunemente a designare la politica intesa come scienza fornita di regole proprie e ubbidiente a una propria logica interna, di cui il Machiavelli (v., XXI, p. 778) aveva genialmente affermato il peculiare valore.

Il primo documento in cui il termine è usato in questo preciso significato è l'Orazione di Giovanni Della Casa a Carlo V del 1547. Tuttavia già nel Guicciardini si trova un accenno a questa espressione ed anche una prima formulazione del problema che appunto doveva nascere dalla scoperta del Machiavelli. Dice infatti il Guicciardini: "quando io ho detto di ammazzare o tenere prigionieri e' pisani, non ho forse parlato cristianamente, ma ho parlato secondo la ragione e l'uso degli stati" (Dialogo del reggimento di Firenze, II, p. 163, ed. Palmarocchi). Qui è già chiara la contrapposizione della politica come tale alla morale tradizionale. E il Guicciardini aggiungc che è impossibile "allegare ragione perché nell'uno caso si abbia a osservare la conscienza nello altro non si abbia a tenerne conto". Tutta la pubblicistica intorno alla ragion di stato è in sostanza rivolta a risolvere questo problema, che acquista con la Controriforma un valore assai maggiore di quello che non avesse al tempo di Machiavelli e di Guicciardini. Da un lato infatti la Chiesa cattolica rinnovata e le varie chiese e sette protestanti avevano riportato in primo piano l'esigenza morale ed aspiravano a subordinare ad essa la politica, dall'altro la politica contemporanea appariva pur sempre dominata dai principî fondamentali enunciati da Machiavelli. In questa situazione era naturale che la condanna di Machiavelli fosse puramente formale e che, passato un primo periodo di violento antimachiavellismo, si assistesse al caratteristico travestimento di Machiavelli con Tacito (vedi tacito, P. Cornelio, XXXIII, p. 172) che diede origine a una vastissima letteratura. Il "tacitismo" che in parte precede la vera e propria pubblicistica intorno alla ragion di stato, in parte con essa si confonde, ed ebbe i suoi maggiori rappresentanti in S. Ammirato, in T. Boccalini e in G. Lipsio, era però solamente un espediente che non sanava il contrasto fra morale e politica, ma solo lo dissimulava più o meno ipocritamente. Non poteva mancare quindi il tentativo di risolvere direttamente il problema conciliando in qualche modo la ragion di stato con la morale. Si mise per questa via Giovanni Botero col suo trattato Della ragion di stato del 1589, nel quale si propose di rimettere la ragion di stato sotto "la giurisdizione della coscienza" alla quale il Machiavelli l'aveva sottratta. Tuttavia il Botero non riusci a dare una soluzione logica del problema, ma solamente un temperamento empirico delle due esigenze contrapposte.

Egli infatti, dopo aver definito la ragion di stato come la "notizia di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio", dichiara di volersi occupare principalmente dell'arte di conservare uno stato, arte più difficile di quella del fondare e dell'ampliare, perché "s'acquista con forza, si conserva con sapienza". E la sapienza egli fa consistere principalmente nella prudenza, che secondo lui è qualcosa di assai diverso dell'astuzia. Ma poi, quando passa a dare precetti concreti al suo principe, il Botero è costretto a seguire le orme di Machiavelli e finisce per riconoscere che "in conclusione ragion di stato è poco meno che ragione d'interesse"; conclusione che rivela chiaramente il fallimento del suo proposito.

Nonostante che non risolvesse il problema, il libro del Botero ebbe un grandissimo successo e diede origine ad una letteratura vastissima. Ciro Spontone, Federico Bonaventura, Giovanni Antonio Palazzo, Girolamo Frachetta, Ludovico Zuccolo, Giovanni Zinano, Pietro Andrea Cannoniero, Ludovico Settala, Scipione Chiaramonte e molti altri scrissero sulla ragion di stato.

Tutti questi trattati rivelano generalmente anche nella struttura esteriore un'impronta comune. Essi constano quasi sempre di una parte generale a carattere teoretico, seguita da una trattazione più strettamente precettistica. Il tono politico è in genere monarchico conservatore; compare spesso in questi trattati la tradizionale contrapposizione fra monarca legittimo e tiranno, che diviene contrapposizione fra principe che adopera la "vera" ragion di stato (cioè la politica conciliabile con la morale) e principe che usa la "falsa" ragion di stato. Atteggiamento questo naturale in un'epoca in cui le monarchie assolute miravano a rafforzare le posizioni conquistate bruscamente e quasi rivoluzionariamente nel Rinascimento e ad affondare profonde radici nelle coscienze. L'età eroica dei "principati nuovi" è ormai lontana; per questo i teorici della ragion di stato, come il Botero, si occupano più dell'arte del conservare che di quella del fondare, e sembra che intuiscano vagamente che la virtù personale non basta, ma occorre, per sostenere uno stato, fondarlo su una certa legittimità. Che era poi quello che, con maggior coscienza, aveva fatto in Francia J. Bodin, quando aveva fondato sul concetto di sovranità lo stato di diritto. Accanto a questa intonazione generale si nota frequentemente, nella precettistica, una preoccupazione per i problemi amministrativi, finanziarî, economici e demografici. Qui alcuni teorici, come il Botero e lo Zuccolo, fanno un passo avanti rispetto a Machiavelli e a Guicciardini e rivelano una notevole aderenza ai problemi concreti del loro tempo, che è quello in cui si inizia la politica mercantilistica.

Tuttavia, nonostante questi meriti di carattere particolare, non si può dire che il problema fondamentale cui si è accennato facesse grandi progressi. La maggior parte dei trattatisti seguirono la via segnata dal Botero e si sforzarono di conciliare empiricamente ragion di stato e morale, conciliazione che portava seco l'accennata distinzione fra vera e falsa ragion di stato, l'una identificata con la prudenza, l'altra con l'astuzia: così lo Spontone, il Palazzo, il Bonaventura. In questa categoria rientrano anche coloro, come l'Ammirato e il Cannoniero, che considerano la ragion di stato come un'eccezionale violazione della morale ordinaria fatta in vista dell'interesse generale. È evidente che questi empirici tentativi non risolvevano il problema, ma soltanto ne spostavano i termini. Inoltre, poiché questi scrittori consideravano la morale legalisticamente, come ossequio alla Chiesa, essi in sostanza finivano per consigliare al principe tale ossequio lasciandolo libero di agire per il resto da politico puro. Non mancarono però scrittori di più vivo senso morale che videro l'insufficienza di quella conciliazione e tornarono a mettere in luce l'aspetto moralmente negativo della ragion di stato. Fra questi il Boccalini la considera come "una legge utile agli stati, ma in tutto contraria alla legge di Dio e degli uomini"; con che si ritornava alla posizione del Guicciardini, con la differenza che, mentre il Guicciardini constatava freddamente un fatto, il Boccalini ne prendeva occasione per satireggiare amaramente i governanti, e per lodare il Machiavelli che aveva per primo svelato ai popoli le male arti dei sovrani. Interpretazione questa che avrà molta fortuna. In questo atteggiamento negativo, con una maggiore accentuazione moralistica, sono anche il Frachetta, il Chiaramonte e lo Zinano, ed altri teorici che si conservano fedeli alla tradizione politica aristotelica.

Un avviamento alla soluzione del problema si trova invece in un breve saggio Della ragion di stato dello Zuccolo, pubblicato nel 1621. Lo Zuccolo vide chiaramente che la ragion di stato non è per sé stessa buona o cattiva, ma è tale a seconda del fine buono o cattivo che si propone; poiché essa non è altro che "un operare conforme all'essenza o forma di quello stato che l'uomo si ha proposto di conservare o costituire". Questa opinione, che distingueva nettamente la politica dalla morale considerandola come premorale o amorale, seguì anche il Settala, nel suo trattato del 1630, sebbene la collegasse con una sistemazione della politica di impronta aristotelica. Questa opinione però non ebbe uno svolgimento adeguato se non quando si giunse, col Vico e poi col moderno idealismo, grazie al concetto di sviluppo, al superamento e all'inveramento della grande intuizione machiavellica.

Verso il 1650 le polemiche intorno alla ragion di stato diminuirono per poi cessare del tutto, sostituite dal nuovo indirizzo giusnaturalistico e razionalistico della politica. Bisogna tuttavia riconoscere che, pur nella sua incertezza logica, pur nel suo apparente antimachiavellismo, la pubblicistica sulla ragion di stato ebbe il grande merito di tener viva e di diffondere non solo in Italia ma in tutta Europa l'intuizione fondamentale del Machiavelli e di impostare per la prima volta il complesso problema dei rapporti fra politica e morale.

Bibl.: Una trattazione particolareggiata con un ricco elenco dei trattatisti si trova nel libro di G. Ferrari, Corso sugli scrittori politici italiani, Milano 1868 (ultima ed., ivi 1929), che però non intese il valore di questa pubblicistica e la considerò negativamente. Il problema fu ripreso di scorcio da G. Toffanin, Machiavelli e il "tacitismo": la politica storica al tempo della Controriforma, Padova 1921. Solamente F. Meinecke, Die Idee der Staaträson in der neueren Geschichte, Monaco e Berlino 1924 e B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929, hanno messo in luce chiaramente il notevole valore della ragion di stato. Una esposizione sommaria ha dato P. Treves, La ragion di stato nel Seicento in Italia, in Civiltà moderna, 1931, pp. 188-213.

Cfr. anche la bibliografia citata nelle voci riguardanti i singoli autori.

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