RAIBOLINI, Francesco, detto il Francia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 86 (2016)

RAIBOLINI, Francesco, detto il Francia

Massimo Giansante

RAIBOLINI, Francesco, detto il Francia. – Figlio di Marco di Giacomo, Francesco Raibolini, detto il Francia per abbreviazione del nome di battesimo, nacque a Bologna nel 1447 o poco prima, come si deduce da un atto notarile del 1468, che cita Raibolini fra i testimoni, ruolo per il quale si richiedeva all’epoca un’età non inferiore ai ventunanni (Archivio di Stato di Bologna [ASBo], Notarile, Bartolomeo di Cesare Panzacchi, filza 10, 20 dicembre 1468); nulla si sa della madre.

Originaria di Zola Predosa, la sua famiglia si era trasferita in città negli anni Trenta del XV secolo, pur mantenendo all’inizio la proprietà di alcuni beni nel contado.

Già nel 1442 il nonno di Francesco, Giacomo, di professione falegname, era residente a Bologna in via Frassinago, nella cappella di S. Caterina di Saragozza (ASBo, Studio Alidosi, Vacchette, 523, c. 69r). In quella casa abitò stabilmente fino al 1482 anche il figlio di Giacomo, Marco Raibolini, anch’egli falegname, ed è quindi probabile che qui siano nati i figli di Marco, Francesco e Domenico. In anni che la documentazione non consente di precisare, i due fratelli Raibolini sposarono due sorelle, Maria ed Elena, figlie di Amedeo Roffi, benestante pellicciaio bolognese; dalla moglie Maria Roffi, Francesco Raibolini ebbe una figlia, Costanza, nata nel 1485, e due figli, che seguirono il padre nella carriera artistica, Giacomo e Giulio, nati rispettivamente nel 1486 e nel 1487 (Bologna, Archivio arcivescovile [AAB], Libri dei battesimi, alle date; Negro-Roio, 1998, pp. 112 s.).

Nel volgere di alcuni anni, il centro degli interessi dei Raibolini si spostò verso la città. Già nel 1446 Marco, padre di Francesco, acquistava terreni prossimi al centro urbano, mentre dieci anni dopo vendeva gli appezzamenti posseduti a Zola Predosa (ASBo, Notarile, Cesare di Bartolomeo Panzacchi, filza 17, 28 agosto 1456). Nel 1482 la famiglia si trasferì dalla parrocchia di S. Caterina di Saragozza, addossata al tratto sud-occidentale delle mura cittadine, a una residenza più ampia e comoda situata in una zona più centrale, nella cappella di S. Nicolò di strada S. Felice. Il 5 dicembre 1482, infatti, Marco Raibolini comprava in quella zona, al prezzo di 550 lire, la casa che ospitò poi la famiglia fino alla seconda metà del Cinquecento; lì Raibolini e dopo di lui i figli Giacomo e Giulio ebbero la loro bottega di orafi e pittori (ASBo, Ufficio del Registro, Copie degli atti, lib. 62, c. 199r, 5 dicembre 1482).

Collocato come apprendista presso il maestro Clemente Anselini, già nel 1464 Francesco diede la prima prova del suo talento realizzando, con la tecnica dell’argento niellato, una pace nuziale raffigurante la Crocifissione (Bologna, Pinacoteca nazionale), per le nozze fra Giovanni II Bentivoglio e Ginevra Sforza. Per tutta la sua vita d’artista Francesco si sarebbe orgogliosamente presentato come argentiere e orefice, firmando «Francia aurifex» numerosi dei suoi quadri e raffigurandosi in quella veste nel più celebre dei suoi autoritratti. Ben presto si applicò con successo anche alla coniazione di monete e medaglie, fino a ottenere l’incarico di responsabile della Zecca bolognese, che mantenne sia in epoca bentivolesca, sia dopo la cacciata di Giovanni II (1506), nella nuova realtà politica di Bologna pontificia. In quel ruolo il Francia disegnò personalmente per il conio profili di Bentivoglio, dall’espressione «bonaria e sottile» (Lipparini, 1913, p. 13), e poi di Giulio II, con «testa naturalissima» (Malvasia, 1678, p. 41). Oltre a medaglie e monete, il Francia produsse un gran numero di gioielli (collane, orecchini, bracciali, anelli e numerose catene d’oro) e oggetti d’argenteria (vasi, tazze, saliere, candelabri, lampadari), per i Bentivoglio, ma anche per clienti forestieri del più alto livello, fra tutti il duca Ercole I d’Este, e per enti ecclesiastici cittadini. Negli anni Ottanta del secolo, dunque, quella dei Raibolini era certamente la bottega orafa più attiva e ricercata di Bologna, anche se solo dal 1482 Francesco risulta immatricolato fra gli orefici bolognesi e dal 1503, come pittore, nella compagnia delle «quattro arti» (ASBo, Capitano del Popolo, Libri matricularum artium, V, c. 158r, VI, c. 203r).

L’attività orafa di Francesco fu in questi anni molto intensa, ma è del tutto infondata l’opinione, divulgata da Giorgio Vasari, che egli vi si dedicasse in modo esclusivo fino alla piena maturità, per aprirsi alla pittura e al disegno solo verso il 1490, ispirato dall’esempio di Andrea Mantegna e iniziando da «ritratti e altre cose piccole» (Vasari, 1568, III, 1906, p. 536).

Dobbiamo ritenere invece che ai pennelli Francesco si dedicasse fin dalla prima giovinezza, verosimilmente nel genere del ritratto, più contiguo alla naturale attitudine dell’orafo. D’altra parte, la resa calligrafica di particolari decorativi – come gioielli al collo e nelle acconciature di dame e di angeli, o come i ricami minutissimi e perfettamente definiti nelle stole dei santi vescovi, per non parlare di elementi naturali, come alberelli, fiori, erbe, rocce, presenti in alcune tavole costituisce un tratto stilistico assai rilevante nell’intera produzione del Francia, generalmente ricondotto alla presenza nel suo orizzonte di modelli fiamminghi, ma in realtà perfettamente coerente alla sua formazione e sensibilità di orafo. Il livello stilistico e la complessità compositiva dei ritratti dei primi anni (1470-90) impongono di collocare, già da quest’epoca, la personalità dell’artista in contesti culturali di ampio raggio e all’interno di tematiche di profondo spessore, non in contrasto tuttavia con l’indole quieta e affabile, con il carattere socievole e mansueto che gli attribuiscono le fonti narrative coeve o di poco posteriori (Lipparini, 1913, pp. 9-11). Come effetto diretto di questi tratti, potremmo anche interpretare le numerosissime testimonianze del suo profondo radicamento nella società bolognese del tempo, degli ottimi rapporti di vicinato e di amicizia che legarono il Francia a persone di varia estrazione sociale. Almeno una dozzina, ad esempio, distribuiti lungo tutto l’arco della sua vita pubblica, sono gli atti di battesimo conservati nei registri diocesani, in cui Francesco è coinvolto nel ruolo di padrino dei figli di amici, colleghi, vicini di casa, modesti artigiani spesso, ma anche esponenti di famiglie eminenti della società cittadina (AAB, Libri dei battesimi, 1476-1512).

Quanto alla sua formazione artistica, si dovrà smentire, alla luce di opere come l’Autoritratto Boschi (Madrid, Thyssen-Bornemisza Museum), o il Ritratto di Pietro Cenni (Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen) o il S. Stefano della Galleria Borghese, tutte da collocarsi negli anni Settanta del secolo, l’immagine tradizionale di una personalità cresciuta all’interno dei confini cittadini e destinata ad aprirsi solo in direzione dei maestri ferraresi che convergevano a Bologna, a partire dal 1462, attratti dall’officina bentivolesca, o grazie al possibile magistero padovano di Marco Zoppo e alla probabile conoscenza dell’opera di Mantegna. Il Francia, al contrario, viaggiò molto nei suoi anni giovanili, non solo verso la vicina Ferrara, in Romagna e nelle Marche, ma oltre l’Appennino verso Firenze, Roma e l’Umbria, e attraversò ripetutamente il Po, in direzione di Mantova, Padova e Venezia (Negro - Roio, 1998, p. 69). Viaggi impegnativi all’epoca, ma non proibitivi per un giovane artista benestante, che lo misero in contatto con le opere dei maestri fiamminghi, a Firenze e a Urbino, e poi con quelle di Piero della Francesca e del Perugino, Giovanni Bellini, Antonello da Messina e Mantegna. Un enorme patrimonio di conoscenze e di eredità stilistiche è leggibile nelle opere degli anni Ottanta, come la Sacra Famiglia Bianchini (Berlino, Gemäldegalerie) e la Crocifissione Bianchini (Bologna, Collezioni Comunali d’arte), o come la Pala Felicini e la Pala Manzuoli (entrambe presso la Pinacoteca nazionale di Bologna), eseguite nel 1490, o la splendida Ignota (Milano, Pinacoteca Ambrosiana), forse Violante Bentivoglio, figlia di Giovanni II: tavolette per la devozione privata e grandi pale d’altare, che lo imposero definitivamente sulla scena artistica bolognese e in particolare all’attenzione di avanguardie culturali assai vigili sugli sviluppi delle arti figurative. Del Francia, infatti, e dell’inedita bellezza delle sue opere parlavano spesso, nei loro carteggi, alcuni personaggi di primissimo piano dell’umanesimo bolognese (Bologna e l’Umanesimo..., 1988, pp. 227 s. e n. 68). Fra tutti Bartolomeo Bianchini, allievo di Antonio Urceo, detto Codro, e appassionato bibliofilo, che fu precocissimo estimatore di Francesco e gli commissionò le due tavolette già citate e, verso il 1495, il proprio ritratto, ora alla National Gallery di Londra. Lo stesso Codro, pochi anni più tardi, si sarebbe fatto ritrarre dal Francia in casa di Anton Galeazzo Bentivoglio. Il ritratto, ricordato e lodato nel 1502 da Bianchini nella sua Vita di Codro, è oggi perduto (Sighinolfi, 1916, p. 11). Le ragioni profonde dell’ammirazione che gli umanisti bolognesi manifestavano per le novità stilistiche del Francia sono ben sintetizzate dal giudizio espresso da quello che era forse il più autorevole fra loro, Filippo Beroaldo: pubblicando nel 1500 i suoi commentari all’Asino d’oro di Apuleio, Beroaldo segnalava proprio il Francia come esponente moderno del concetto di arte «emulatrice della natura», l’erede diretto di Apelle e Protogene nella capacità di creare una bellezza nuova e più viva, destinato anzi a superare la gloria degli antichi (Negro - Roio, 1998, pp. 72, 114).

È assai suggestivo osservare come questa interpretazione degli umanisti suoi contemporanei, che esaltavano in lui la capacità tutta nuova di far rivivere l’antica bellezza nelle arti figurative, sia assai vicina a quella più tardi proposta da Vasari, e poi recepita da Carlo Cesare Malvasia, che a Francia e Perugino attribuiva il merito specialissimo di avere per primi trovato quella «dolcezza ne’ colori unita», che consentì di superare la «maniera secca, cruda e tagliente» propria dell’arte del Quattrocento (Malvasia, 1678, p. 39).

Cambiava intanto, nel corso degli anni, parallelamente all’innalzarsi della fama del Francia, l’estrazione sociale dei suoi committenti più assidui. Accanto alle opere di piccolo formato richieste dagli intellettuali suoi estimatori, come, negli anni Ottanta del Quattrocento, il già ricordato Bianchini e poi, verso la fine del secolo, Codro e Matteo Bosso, l’artista iniziò a ottenere commissioni numerose da famiglie di facoltosi mercanti bolognesi, come Bartolomeo Felicini che, dopo la pace nuziale d’argento niellato – commissionata in occasione del proprio matrimonio (1481) –, fece poi dipingere nel 1490, per la chiesa di S. Maria della Misericordia di Bologna, la tavola raffinatissima e assai complessa, già citata e nota anche come Madonna del gioiello. Alla chiesa della Misericordia, e a una collocazione speculare rispetto alla pala Felicini, era destinata anche la Madonna del cardellino, realizzata nello stesso anno per la famiglia Manzuoli e ora alla Pinacoteca nazionale di Bologna. Non mancarono negli ultimi anni del secolo richieste provenienti da famiglie dell’aristocrazia cittadina, come gli Scappi, per i quali realizzò una pala con la Madonna in trono fra i ss. Paolo, Francesco e Giovannino, destinata alla cappella di famiglia nella chiesa dell’Annunziata. Al 1506 risale invece una pala dalla struttura piuttosto articolata e molto innovativa, con la Madonna in trono fra santi, commissionata dalla famiglia Paltroni per la chiesa di S. Martino e tuttora in quella sede. Nel frattempo, anche ricchi mercanti di altre città ambivano ad assicurarsi opere del Francia con cui impreziosire le proprie cappelle e innalzare il proprio prestigio: verso il 1510 il catalogo annovera una pala per la cappella di S. Anna in S. Frediano di Lucca, commissionata dal ricchissimo mercante di seta Benedetto Buonvisi e ora alla National Gallery di Londra.

Come abbiamo visto, fin dal 1464 Francesco era entrato, grazie alla sua abilità di orefice, nell’orbita della committenza bentivolesca. Al 1490 risalirebbe, se si accoglie l’identificazione dell’Ignota con Violante, figlia di Giovanni Bentivoglio, la prima opera pittorica richiesta al Francia dalla famiglia signorile bolognese. Parrebbe ragionevole, d’altra parte, che il primo incarico riguardasse un’opera di ridotte dimensioni, come appunto quel ritratto, piuttosto che la grande pala d’altare dedicata nel 1494 da Giovanni II alla Vergine e destinata alla cappella di famiglia in S. Giacomo Maggiore, tavola di complessa architettura e affollata da quattro santi, oltre ai due angeli adoranti e due musicanti, disposti a piramide intorno alla Madonna in trono. In ogni caso, dai primi anni Novanta, il Francia sarebbe stato ininterrottamente, fino alla cacciata di Giovanni e dei suoi (1506), il protagonista dei più prestigiosi progetti artistici bentivoleschi.

Nel 1498, di ritorno dal pellegrinaggio in Terra Santa, il figlio di Giovanni II, Anton Galeazzo Bentivoglio, commissionò a Francesco per la chiesa della Misericordia una grande Adorazione (ora alla Pinacoteca nazionale di Bologna), con santi, angeli, e un pastore in cui si tende a riconoscere Alessandro, fratello di Anton Galeazzo, e il committente in veste di cavaliere-pellegrino. Gli ultimi anni di Giovanni II a Bologna (1500-06) sono anche quelli in cui il contributo di Francesco alla gloria e al prestigio culturale del signore raggiunse livelli molto alti, non solo sul piano operativo ma anche, si potrebbe dire, su quello ideologico. Per il grande palazzo di famiglia, poi distrutto nel 1507, e precisamente per la sua stanza privata, Giovanni II commissionò al Francia un affresco che doveva essere di notevole estensione e impegno, con la Storia di Giuditta e Oloferne. Vasari ne parla, sulla base di fonti coeve, come di «storia che fu fra le più belle e meglio condotte che il Francia facesse mai» (Vasari, 1568, III, 1906, p. 539), ricordando anche, nel palazzo, un altro affresco dello stesso autore, con una pregevole Disputa di filosofi. La distruzione dell’edificio, seguita alla cacciata di Giovanni II, ci ha dunque privato di due delle pochissime opere franciane di soggetto non religioso, cui, a parte ovviamente i ritratti, si possono affiancare le tre versioni della Lucrezia (Dresda, Staatliche Kunstsammlungen; York, City Art Gallery; Dublino, National Gallery of Ireland) e una piccola serie di deliziosi disegni di argomento mitologico e allegorico dai contenuti non del tutto decifrabili conservati all’Albertina di Vienna e all’Ashmolean Museum di Oxford (Lipparini, 1913, pp. 14-16; Negro - Roio, 1998, pp. 103 s.). Certamente Giovanni dovette essere soddisfatto del contributo offerto dal Francia al palazzo di famiglia; di lì a poco infatti attribuì proprio a lui la direzione e la realizzazione degli affreschi per la piccola chiesa di S. Cecilia, contigua a S. Giacomo Maggiore e non lontana dal palazzo Bentivoglio. I dieci riquadri con le Storie di s. Cecilia furono portati a termine fra la seconda metà del 1505 e il novembre del 1506. Il primo riquadro, con il Matrimonio di Cecilia e Valeriano, e l’ultimo, la Sepoltura di Cecilia, furono realizzati personalmente da Francesco, che coordinò negli altri otto l’opera di Lorenzo Costa, Amico Aspertini e altri (Calvesi, 1960; Ottani Cavina, 1967; Scaglietti, 1967). Intanto, nei primi mesi del 1505, gli Anziani del Comune di Bologna gli avevano commissionato, per la propria residenza all’interno del palazzo comunale, un affresco, la Madonna del terremoto (Bologna, Palazzo comunale, sala d’Ercole), che valesse come ringraziamento alla Vergine per aver preservato la città dalle peggiori conseguenze del recente terremoto, ma anche come tutela dalle violente scosse di assestamento che continuavano ad avvertirsi a Bologna.

La cacciata dei Bentivoglio, che abbandonarono la città all’inizio di novembre del 1506, e di lì a poco l’ingresso trionfale di Giulio II dovettero costituire certamente per il Francia eventi traumatici.

Non potevano non produrre turbamenti in lui la perdita del committente e mecenate più appassionato e, subito dopo, l’inizio da parte del nuovo regime di un’opera di persecuzione dei partigiani bentivoleschi, di repressione violenta dei loro tentativi di rivincita e, cosa più rilevante per gli artisti di corte, di smantellamento sistematico dell’apparato celebrativo della famiglia signorile: la damnatio memoriae culminò nell’atterramento del palazzo Bentivoglio, condotto a termine in pochi giorni nel marzo del 1507, con particolare accanimento da parte delle famiglie Marescotti e Gozzadini (Antonelli - Poli, 2006, pp. 86-91).

Tuttavia, a differenza di altri artisti legati a Giovanni II, come Costa e Aspertini, che lasciarono ben presto la città, il Francia affrontò la nuova situazione determinata dalle autoritarie ambizioni politiche di Giulio II, e non si può certo dire che la sua parabola artistica ne abbia risentito negativamente. Al contrario, oltre agli incarichi ufficiali che ricoprì sotto il nuovo regime, come si è visto a proposito della Zecca pontificia di cui fu responsabile dei conii a partire dal 1508, il Francia ricevette importanti commissioni da famiglie prima emarginate, in quanto avverse alla famiglia signorile. È il caso dei Gozzadini, per i quali realizzò una predella con la Natività e passione di Gesù, assai innovativa sul piano iconografico, destinata alla cappella di famiglia in S. Maria della Misericordia e ora alla Pinacoteca nazionale di Bologna.

Nell’ultimo decennio di vita e di attività (1507-17), venuta meno la famiglia signorile bolognese e attenuatisi di conseguenza gli impegni interni, il Francia fu in grado di rispondere più liberamente alle richieste provenienti da signorie e città forestiere e da committenti ecclesiastici. Per il duca di Urbino, Guidobaldo da Montefeltro, dipinse una Lucrezia, citata in precedenza, molto apprezzata dal committente (York, City Art Gallery), mentre per il suo successore Francesco Maria della Rovere decorò un’armatura da cavallo, di cui si sono perdute le tracce, esaltata da Vasari per la verosimiglianza del bosco in fiamme che vi era raffigurato e degli animali che ne uscivano, come «cosa terribile, spaventosa e veramente bella» (Negro - Roio, 1998, p. 323). Agevolato poi dai rapporti di parentela della richiedente, e grazie alla mediazione del suo estimatore Girolamo Casio, Francesco ottenne, nell’estate del 1510, un primo prestigioso incarico da parte di Isabella d’Este. Marchesa di Mantova, in quanto moglie di Francesco II Gonzaga, Isabella era sorella di Lucrezia d’Este, moglie di Annibale II Bentivoglio, e questo legame indubbiamente contribuì a indirizzarla verso il Francia, per averne un ritratto del figlio Federico. In viaggio verso Roma, il fanciullo sostò a Bologna per qualche giorno alla fine di luglio del 1510 e in quell’occasione fu effigiato dal Francia. Nell’agosto del 1510 il ritratto, oggi al Metropolitan Museum of art di New York, era già stato consegnato alla madre Isabella, che lo apprezzò moltissimo compensando l’artista con 30 ducati d’oro, pregandolo però di correggere la tonalità troppo chiara dei capelli, ritocco prontamente eseguito. L’opera in effetti dovette soddisfare pienamente Isabella, tanto da indurla, nel successivo 1511, a commissionare al Francia il proprio ritratto, ancora con la mediazione di Girolamo Casio e, in questa occasione, con la consulenza di Lucrezia d’Este, necessaria per suggerire all’artista, che lavorava a Bologna sulla base di un precedente ritratto, alcune opportune correzioni relative alla fisionomia della sorella. Il risultato fu, anche in questo caso, assai gradito alla committente, che si vide in quell’immagine «assai più bella che non mi ha facto natura»; ancora una volta l’artista fu compensato con 30 ducati d’oro (Negro - Roio, 1998, p. 118).

Le commissioni provenienti da enti ecclesiastici e ordini religiosi, che si addensano negli ultimi anni del Francia, aprono uno spiraglio sulle opinioni religiose dell’artista e ci fanno intravedere una spiritualità tutt’altro che convenzionale. A partire dal 1500, Francesco intrecciò rapporti intensi con i francescani osservanti, dai quali sembra provenire l’ispirazione teologica sottesa ad alcune ardite e complesse sacre conversazioni. Così, in primo luogo, l’Annunciazione e quattro santi realizzata per gli osservanti di S. Maria Annunziata di Bologna, ora alla Pinacoteca nazionale, opera definita «bizzarra» già all’epoca di Carlo Cesare Malvasia (ibid., p. 147), in ragione della sua insolita iconografia, che vedeva in scena quattro santi, con l’angelo annunziante gravemente penalizzato dalla posizione decentrata, e soprattutto il ‘Bambino volante’ a dar forma al Verbo incarnato. Erano allusioni neppur troppo velate alle opinioni francescane su temi dottrinari alquanto scabrosi, come le modalità dell’incarnazione del Verbo e l’immacolata concezione di Maria: opinioni assai dibattute all’epoca e assai contrastate dai predicatori domenicani. Il Francia affrontava dunque scelte iconografiche e teologiche decisamente ardite e le sviluppava in complesse scenografie: fra tutte l’Incoronazione di Maria, commissionata nel 1511 da Maddalena Trenta per la chiesa di S. Frediano di Lucca, officiata dai canonici lateranensi, in cui il dibattito allora all’ordine del giorno, in merito all’immunità originale di Maria dal peccato, veniva affidato all’autorità inattaccabile dei padri della chiesa Agostino e Anselmo. Meno complessa sul piano strutturale, ma altrettanto innovativa su quello iconografico, risultò l’immagine della Madonna adorante nel roseto, dipinta verso il 1509 per i cappuccini di Modena e ora alla Pinacoteca di Monaco di Baviera (ibid., pp. 189-191). Ma il primo decennio del Cinquecento fu per il Francia soprattutto un periodo di intensissima produzione, che lo vide impegnato con vari ordini religiosi, a eccezione, non casuale, dei domenicani. Possono ricordarsi la Pietà per i benedettini di Parma (Parma, Pinacoteca nazionale), la Presentazione al Tempio, per quelli di Cesena (Cesena, Pinacoteca comunale), l’Annunciazione per i carmelitani di Reggio (Chantilly, Musée Condé) e l’Incoronazione della Vergine e santi per la cattedrale di Ferrara.

Una produzione tale, e moltissime sono le opere documentate che qui si tralascia anche di citare, fu il risultato di un’evoluta organizzazione della bottega in cui collaboravano varie personalità artistiche, coordinate efficacemente dal maestro, in un sistema di lavoro volutamente mimetico, che rende talora complicata l’individuazione delle diverse mani. Oltre a figli e nipoti, lavorarono nella bottega di via S. Felice alcuni apprendisti, che ebbero in qualche caso importanti destini artistici. Di Timoteo Viti, ad esempio, al momento di congedarlo dopo cinque anni di apprendistato, il Francia parla, nel Libro di famiglia citato da Malvasia, in termini affettuosamente paterni, a conferma della dolce disposizione del suo carattere: «[...] partito il mio caro Timoteo, che Dio le dia ogni bene e fortuna» (Malvasia, 1678, p. 55).

Morì il 5 gennaio 1517 a Bologna (Negro - Roio, 1998, p. 119).

L’evento lasciò costernata tutta la città e in particolare i colleghi orefici che chiusero per lutto le loro botteghe. Il racconto della morte del Francia proposto da Vasari, totalmente inattendibile, si presta però ad alcune interessanti riflessioni critiche. Secondo lo storico aretino, Francesco, sebbene fosse artista e uomo di grande saggezza ed equilibrio, fu colto da terrore e sbigottimento alla vista della S. Cecilia di Raffaello, inviata a lui dall’autore, che, come a persona di fiducia, gli aveva affidato l’incarico di collocare l’opera sull’altare destinato ad accoglierla, nella chiesa di S. Giovanni in Monte. A quella violenta emozione si unì di lì a poco una profonda malinconia, prodotta dal confronto impietoso con le proprie opere, e quello stato depressivo irrefrenabile condusse in pochi giorni l’artista bolognese alla morte. Inattendibile per varie ragioni, in parte ben illustrate già da Malvasia (1678, pp. 44-46), fra cui la conoscenza non superficiale dell’opera di Raffaello, che Francia al momento della morte certamente già aveva da una decina d’anni almeno, e pur se condizionato dai suoi noti pregiudizi toscano-centrici, Vasari ha però il merito di riconoscere e definire, per primo forse, l’originalità stilistica di Francesco Francia, la capacità cioè di andare oltre le asprezze della sua cultura d’origine, ferrarese e padana, per attingere a una soavità nuova, che Vasari accostava a quella di Perugino, facendo dei due quasi degli araldi, felicemente inconsapevoli, della imminente e compiuta perfezione raffaellesca. La critica successiva, e in particolare quella otto-novecentesca, fino ad Adolfo Venturi (Storia dell’arte italiana, 1914) e all’Officina ferrarese di Roberto Longhi (1934), ha fatto giustizia ovviamente di queste semplificazioni, ma si può dire che solo in tempi molto recenti la cultura e il ruolo innovativo del Francia siano stati correttamente riconosciuti, nelle loro originali aperture verso l’ambiente veneziano, così come verso Firenze, l’Umbria e le Marche (Negro-Roio, 1998, pp. 72-74).

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Bologna [ASBo], Notarile, Pietro Bruni, filza 29, 28 ago. 1446; Capitano del Popolo, Libri matricularum artium, vol. 5, c. 158r, 10 dic. 1482; vol. 6, c. 203r, 23 dic. 1503; Archivio Arcivescovile di Bologna [AAB], Libri dei battesimi.

G. Vasari, Le vite (1568), a cura di G. Milanesi, III, Firenze 1906, pp. 533-564; C.C. Malvasia, Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi, I, Bologna 1678, pp. 39-50; G. Lipparini, Francesco Francia, Bergamo 1913; A. Luzio, I ritratti di Isabella d’Este, in Id., La Galleria dei Gonzaga venduta all’Inghilterra nel 1627-28 (Milano 1913), Roma 1974, pp. 183-238; A. Venturi, Storia dell’arte italiana, VII, 3, La pittura del Quattrocento, III, Milano 1914, pp. 852-952; L. Sighinolfi, Note biografiche intorno a Francesco Francia, Bologna 1916; R. Longhi, Officina ferrarese (Roma 1934), Firenze 1956, pp. 58-66, 145-163; M. Calvesi, Gli affreschi a Santa Cecilia in Bologna, Bologna 1960; A. Ottani Cavina, La cappella Bentivoglio, in Il tempio di San Giacomo Maggiore in Bologna: studi sulla storia e le opere d’arte; regesto documentario, Bologna 1967, pp. 117-131; D. Scaglietti, La cappella di Santa Cecilia, ibid., pp. 133-146; F. Arcangeli, Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana, Bologna 1970, pp. 32-38; Bentivolorum Magnificentia. Principe e cultura a Bologna nel Rinascimento, a cura di B. Basile, Roma 1984, pp. 285-335; S. Stagni, Francesco Francia, in Pittura bolognese del ’500, a cura di V. Fortunati Pietrantonio, Bologna 1986, pp. 1-28; M. Lucco, La pittura a Bologna e in Romagna nel secondo Quattrocento, in La pittura in Italia. Il Quattrocento, I, Milano 1987, pp. 240-255; Bologna e l’Umanesimo. 1490-1510 (catal.), a cura di M. Faietti - K. Oberhuber, Bologna 1988, pp. 227 s., 323 s.; C. Giudici, Francesco Francia, ibid., pp. 358-360; M. Faietti, Protoclassicismo e cultura umanistica nei disegni di Francesco Francia, in Il classicismo. Medioevo, Rinascimento, Barocco. Atti del Colloquio Cesare Gnudi, Bologna 1993, pp. 171-189; E. Negro - N. Roio, Francesco Francia e la sua scuola, con appendice documentaria di C. Giovannini, Modena 1998; A. Antonelli - M. Poli, Il Palazzo Bentivoglio nelle fonti del tempo, Venezia 2006; C. Cavalca, La pala d’altare a Bologna nel Rinascimento, Milano 2013.

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