DORIA, Raimondo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 41 (1992)

DORIA, Raimondo

Giuseppe Monsagrati

Nacque nel 1793 a Malaga, in Spagna, da Stefano, discendente di un ramo della nobile famiglia genovese del cui passato splendore restava solo una labile traccia nel titolo di marchese di San Colombano e San Corso che il padre morendo avrebbe lasciato al figlio, e da Anna Ximenes.

L'esistenza di rapporti di parentela sia pure lontana tra il D. e il ramo principale della casata fu recisamente confutata dai discendenti dell'illustre famiglia che, imbarazzati dall'immagine di delatore per antonomasia della carboneria italiana che le ricerche degli storici avevano costruito per questo personaggio che portava il loro stesso nome, si sforzarono di provare come egli, che non per niente ai giudici austriaci aveva dichiarato di esser figlio di una certa Anna Saavedra, fosse un avventuriero che non aveva esitato nel 1814 a prendere il posto del vero Raimondo Doria, prematuramente scomparso proprio in quell'anno. In questo suo travestimento il falso D. avrebbe ingannato gli stessi amministratori dei Doria di Genova, che, per molto tempo, lo avrebbero sollevato con periodiche elargizioni di denaro dalle difficili condizioni economiche in cui versava. Fatta propria da alcuni studiosi di inizio Novecento come il Barbiera e il Leti, questa versione non è tuttavia sufficientemente credibile, in primo luogo perché tardiva e poi perché da nessuno dei repertori sul patriziato genovese, da quello del Battilana al più recente Sertorio, risulta che un Raimondo, figlio di Stefano Doria, sia morto nel 1814.

La vita del D. presenta comunque molti altri lati oscuri, a chiarire i quali non bastano le notizie che egli stesso ebbe a fornire nel 1832 ai giudici milanesi. Educato in Spagna, sua terra d'origine ("semicorso, semi-spagnolo, d'età già inoltrata, di fisionomia non piacente", lo definirà il Mazzini in un celebre passo delle sue Note autobiografiche, p. 15), il D. si arruolò poi nell'armata di Giuseppe Bonaparte e vi prestò servizio fino a quando, dopo la Restaurazione, si trasferi a Torino dove nel 1815 chiese ed ottenne di essere ammesso nella cavalleria piemontese con il grado di capitano. Rimase in servizio fino agli ultimi mesi del 1816 allorché domandò di essere posto in congedo per poter tornare in Spagna ed entrare nell'esercito di Ferdinando VII: il congedo gli fu accordato insieme con una sostanziosa liquidazione che nelle intenzioni del sovrano sabaudo voleva avere "un particolare riguardo alle critiche circostanze in cui trovavasi la di lui famiglia" (Luzio, p. 39). Sembra però che, invece di aggregarsi, come aveva promesso, alle truppe in partenza per l'America meridionale, il D. prima si recasse a Roma e solo un paio di anni più tardi, esaurita ogni risorsa, raggiungesse la Spagna.

L'occasione comunque gli servi anche per riprendere i contatti con quel mondo settario al quale si era accostato già nel 1811 e nel quale aveva percorso una sua strada, se è vero che nel 1821 aveva ricevuto nella natia Malaga dalle mani del generale G. Pepe il titolo di gran maestro della carboneria. A quell'epoca - avrebbe poi dichiarato - avvertiva già un forte fastidio per i rituali carbonari e dissentiva dai programmi della setta, ma si era pure formato in lui il proposito di "penetrare quanto più poteva nei segreti della società per cosi procurarmi il mezzo di coadiuvare le autorità legittime nell'isventarne le trame" (Luzio, p. 299).

Personaggio di spicco della rete cospirativa che, con collegamenti in molti paesi d'Europa e centro operativo a Parigi, si proponeva di combattere l'assolutismo e il sistema di Stati edificato a Vienna dopo la caduta di Napoleone, il D. nel 1826 ritornò in Italia e si stabili a Genova: doveva probabilmente curare i legami con la carboneria italiana, al cui vertice si trovava il genovese F. A. Passano, e favorirne la diffusione, ma è molto probabile che fin da allora facesse il doppio gioco d'accordo con la polizia piemontese. Il re di Sardegna, dal canto suo e quantunque non ve ne fossero le condizioni, gli fece assegnare una pensione mensile che gli risolse alcuni problemi economici. Tra il 1826 e il 1830 la carboneria genovese ebbe un forte sviluppo soprattutto tra gli studenti e tra i più giovani ed irrequieti esponenti del ceto professionale, e il D., come stretto collaboratore del Passano al vertice dell'alta vendita locale, fu un protagonista di questa penetrazione che ebbe il suo momento più significativo nell'affiliazione del giovane Mazzini (1827).

Più tardi, nelle sue deposizioni, il D. avrebbe fatto del Mazzini uno degli artefici del progetto di attentato che nel 1825 avrebbe dovuto colpire l'imperatore d'Austria Francesco I e il cancelliere Metternich in visita a Genova, ma era questa una delle sue illazioni, tra l'altro anche anacronistica, tendenti a dimostrare la pericolosità del settarismo genovese, e tuttavia è certo che per qualche anno egli fu in grande confidenza con il futuro fondatore della Giovine Italia che, per quanto abbastanza scettico sulle forme esteriori della carboneria e sul suo inconcludente armamentario "di piccolo raggiro e di astuzie" (Mazzini, Note autobiografiche, p. 15), proprio su commissione del D. stese una serie di documenti carbonari ed all'inizio del 1829 compose, lasciandone la paternità al D., il suo primo scritto politico, quell'opuscolo De l'Espagne en 1829 considerée par rapport à la France nel quale, all'interno di un pensiero che si avviava a diventare repubblicano ma era ancora parecchio confuso, erano preannunziate, nell'appello con cui si chiedeva a Carlo X, re di Francia, di favorire il ritorno della Spagna al regime costituzionale, talune movenze retoriche destinate ad essere riprese con migliore fortuna nella lettera a Carlo Alberto del 1831.

Coinvolto poco dopo in una intricata vicenda sentimentale che, facendo seguito al fallimento del proprio matrimonio, lo costringeva a lasciare Genova, il D. si risolse ad uscire allo scoperto: preso contatto con il governatore di Genova, G. Trincheri conte di Venanson, gli consegnò una dettagliata relazione in cui era tracciato tutto il quadro della carboneria europea, dai suoi vertici parigini fino alle estreme propaggini italiane. Era convinzione del D. che, dopo la Rivoluzione francese del 1830. le potenze interessate alla conservazione dell'assetto deciso a Vienna non dovessero più tardare a neutralizzare le trame deì settari; quanto al Regno di Sardegna, la gravità della situazìone era a suo dìre testìmoniata anche dalle numerose infiltrazioni che gli esponenti rivoluzionari, avvalendosi di oscure complicità, avevano operato ai livelli più alti della burocrazia sabauda. Appunto alla presenza di elementi poco fidati nella magistratura piemontese il D. avrebbe più tardi fatto risalire la mitezza della repressione seguita agli arresti del 13 nov. 1830 (la vittima di maggior rilievo fu il Mazzini) originati dalle sue rivelazioni e dalla celebre iniziativa provocatoria successivamente messa in atto per far cadere in trappola con una falsa affiliazione i dirigenti della vendita ligure.

In realtà i giudici incaricati delle indagini accertarono subito che a carico dei carbonari genovesi arrestati non si avevano altre prove all'infuori delle "generiche notizie" frammiste ad "impudenti millanterie" (Luzio, p. 269) fornite dal D. e delle testimonianze sospette di qualche agente di polizia, e si attennero perciò ad una linea fermamente legalitaria prosciogliendo gli inquisiti e proponendo l'esilio per i più pericolosi, tra cui il Mazzini.

Il D. si era nel frattempo portato nel Sud della Francia per meglio sorvegliare i centri dell'emigrazione italiana, i cui capi però, messi in guardia dal Mazzini, lo costrinsero presto a tornare a Genova. Ma nella fase del trapasso del trono da Carlo Felice a Carlo Alberto il governatore Venanson era caduto in disgrazia: il D., che lavorava ormai a tempo pieno con la polizia, si trovò perciò senza protettori e finì nel dicembre del 1831 in carcere, accusato di adulterio e di detenzione di armi. Espulso dal Regno sardo dopo che una risoluzione sovrana dell'imperatore austriaco (14 nov. 1831) gli aveva garantito l'impunità in cambio di una sua completa testimonianza "sopra tutto ciò che gli è noto sulle operazioni e trame dei Carbonari" (Barbiera, Passioni del Risorgimento, p. 472), il D. si mise a disposizione delle autorità che a Milano stavano allestendo alcuni grossi processi e speravano di ottenere altre informazioni sui legami intercorsi tra i cospiratori lombardo-veneti e quelli piemontesi.

Dal 7 ott. 1832 al 10 giugno 1833, in nome di un suo apocalittico ideale di difesa dell'ordine minacciato, il D. fece al giudice P. Zaiotti una lunga ricostruzione delle sue esperienze carbonare denunziando settantaquattro persone, tra le quali erano, oltre al Mazzini che egli negava di avere personalmente iniziato alla setta e la cui personalità in gran parte fraintendeva, anche alcuni esponenti di primo piano dell'aristocrazia lombarda come la principessa Cristina Belgioioso Trivulzio e il marchese Camillo d'Adda. Ma, nonostante l'abbondanza di dettagli delle rivelazioni del D. e il suo insistito rifiuto d'ogni compenso, i giudici milanesi mantennero una certa diffidenza nei suoi confronti e sottoposero a severo riscontro quanto avevano appreso operando qualche arresto e limitandosi poi a decidere che coloro che erano stati denunziati fossero "da respingersi al confine quantunque muniti di passaporti in piena regola" (Mastellone, II, p. 89).

Il D. da parte sua era sicuro di aver salvato la monarchia di diritto divino e temeva la vendetta dei settari che, a suo dire, anche a Milano lo avevano individuato nonostante avesse assunto falso nome; ottenne allora di potersi stabilire a Klagenfurt, da dove nel novembre del 1833 diresse al Metternich una lettera piena di espressioni di ossequio. Qualche mese prima aveva scritto anche a Carlo Alberto per metterlo in guardia contro i disegni della cospirazione. Dopo di allora il D. scomparve dalla scena; e neppure Cesare Correnti, quando, liberata la Lombardia nel 1848, fece qualche ricerca su di lui, riuscì a scoprire dove fosse finito questo solerte collaboratore della polizia austriaca.

Fonti e Bibl.: Gran parte del materiale su cui si fonda la biografia del D. è tratta da A. Luzio, G. Mazzini carbonaro, Torino 1920, passim, da integrare con S. Mastellone, Mazzini e la "Giovine Italia", I-II, Pisa 1960, ad Indicem. Altri elementi in R. Barbiera, La principessa Belgiojoso, Milano 1914, pp. 55-78; Id., Passioni del Risorgimento, Milano 1929, pp. 205-240, 471 s.; e in G. Stefani, Trieste e l'Austria dopo la Restaurazione, in Archeografo triestino, s. 4, III-IV (1940-41), pp. 394-399, 521 s., 524. Testimonianze importanti sono quelle di G. Mazzini in Ediz. naz. degli scritti, V, p. 477; XV, p. 168; XCIV, pp. XVII-XIX, e Id., Note autobiografiche, a cura di M. Menghini, Firenze 1944, ad Indicem. Qualche elemento sul soggiorno in Francia nella raccolta di Relaz. diplomatiche fra la Francia e il Regno di Sardegna, s. 2, 1830-1848, II, a cura di A. Saitta, Roma 1976, ad Indicem. Dati sulle origini del D. in N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili genovesi, Genova 1825-33, p. 78, e in C. Sertorio, Il patriziato genovese, Genova 1967, p. 122. Due brevi biografie in Diz. del Risorg. naz., II, sub voce, e in Encicl. Ital., XIII, sub voce. La narrazione delle imprese del D. trova breve spazio in tutte le biografie del Mazzini e in testi di storia generale: in particolare si vedano G. Leti, Carboneria e massoneria nel Risorg. ital., Genova 1925, ad Indicem; A. Codignola, La giovinezza di G. Mazzini, Firenze 1926, ad Indicem; C. Spellanzon, Storia del Risorg. e dell'Unità d'Italia, II, Milano 1934, pp. 242, 342- 347, 697; F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari ital., Milano 1974, ad Indicem.

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