ZENO, Ranieri

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 100 (2020)

ZENO, Ranieri.

Marco Pozza

– Figlio di Pietro, di cui si conosce assai poco a differenza del nonno paterno, anch’egli di nome Ranieri, che fu invece un personaggio di rilievo nell’ultimo quarto del XII secolo, nacque a Venezia presumibilmente poco prima dell’inizio del Duecento. Risultano sconosciuti sia il nome sia il cognome della madre.

Zeno è attestato a partire dal 1225 quando ricoprì la carica di podestà di Pola, soggetta come il resto dell’Istria al patriarca di Aquileia Bertoldo di Andechs ma con la presenza al suo interno di una fazione politica filoveneziana, per poi svolgere la stessa funzione nel 1227-28 a Chioggia. In seguito, il suo cursus honorum fu alquanto insolito. Non si orientò infatti, come la più parte dei suoi concittadini, a cariche pubbliche nel dogado oppure Oltremare, ma si segnalò per le numerose podesterie ricoperte in città dell’Italia settentrionale.

Nel 1229-30 fu infatti podestà di Verona, dove seguì una politica di conciliazione fra le parti in lotta per il predominio e fece costruire una chiesa (attuale S. Francesco al Corso) e un convento in onore di s. Francesco, a soli quattro anni di distanza dalla scomparsa del santo di Assisi e a due dalla sua canonizzazione; nel 1231-32 fu per la prima volta a Bologna, dove entrò in contrasto con il vescovo cittadino Enrico Della Fratta al punto da attirare la scomunica su di sé e la città; nel 1233-34 fu per la seconda volta a Chioggia; nel 1235-36 era a Treviso, minacciata dai tentativi di conquista da parte dei fratelli da Romano; nel 1237 fu a Piacenza, dove incoraggiò alcune monache cistercensi a trasferirsi a Venezia presso il convento di S. Maria della Celestia nel sestiere di Castello di cui promosse la fondazione accanto a una chiesa omonima già esistente; nel 1239 era per la terza e ultima volta a Chioggia; infine nel 1239-40 di nuovo a Bologna. In quest’ultima circostanza guidò vittoriosamente le truppe felsinee a fianco di quelle veneziane alleate di Azzo VII d’Este nell’assedio di Ferrara contro Salinguerra Torelli, che fu catturato nel giugno del 1240 e trasportato prigioniero a Venezia dove morì alcuni anni più tardi.

Dopo questa fase intensa e movimentata, negli anni successivi – quelli del predominio nell’entroterra veneto di Ezzelino III e Alberico da Romano, e della lotta senza quartiere tra Federico II, il Papato e i Comuni lombardi – Zeno concentrò il suo impegno a favore della sua città natale che il doge Giacomo Tiepolo (1229-49) aveva schierato su posizioni decisamente antimperiali.

Nella primavera del 1242 Zara si ribellò al dominio di Venezia, espellendo il conte Giovanni Michiel e i suoi concittadini ivi residenti. Di fronte alla sicura reazione veneziana gli zaratini chiesero aiuto, senza ottenerlo, a Federico II e, invece con successo, a Bela IV re d’Ungheria che inviò propri armati. Il doge Tiepolo allora nominò Zeno comandante di una flotta che salpò dalla laguna nel maggio di quell’anno. Dopo circa due mesi di assedio il 5 luglio i veneziani sfondarono le difese marittime della città, nel frattempo evacuata dagli ungheresi, e la occuparono riportandola all’obbedienza.

Si trattò di un brillante successo, ma la politica antifedericiana, con i costi della guerra, e le ambizioni personali, reali o presunte, del doge in carica, alimentarono una crescente opposizione interna che si manifestò apertamente nel 1245. Secondo il cronista contemporaneo Martino da Canal (che dedicò la sua opera proprio a Zeno del cui entourage burocratico-notarile faceva parte), i rappresentanti veneziani al ritorno dal Concilio di Lione (dove fu decisa la deposizione di Federico II), Marino Morosini, Giovanni da Canal e appunto Zeno, catturati dal conte Amedeo IV di Savoia, alleato di Federico, e liberati per intercessione dell’imperatore, si scusarono con quest’ultimo, assicurandolo di non aver mai avuto l’intenzione di causarne la rovina; e l’imperatore, dopo averli rimproverati, si dichiarò disponibile alla pace per il reciproco vantaggio delle parti (M. da Canal, Les estoires de Venise, a cura di A. Limentani, 1972, pp. 114-121).

Fu un’aperta sconfessione della politica seguita fino a quel momento da Tiepolo, manifestata da personaggi di primo piano della realtà veneziana: Morosini e Zeno – che intervenne per primo nella discussione - sarebbero infatti diventati entrambi dogi uno di seguito all’altro. Da quel momento, non vi fu più guerra aperta fra Venezia e l’imperatore svevo, fino alla morte di quest’ultimo nel 1250.

Durante gli ultimi anni di governo di Tiepolo, Zeno mantenne una posizione di prestigio. Nel 1247 è ricordato come advocatus del monastero benedettino femminile di S. Lorenzo di Ammiana, un’isola della laguna ora scomparsa. Nello stesso anno fu inviato (insieme con Morosini e da Canal, come nel 1245) come ambasciatore a Zara, per ricevere dagli abitanti il giuramento di un trattato stipulato con Venezia (6 ottobre); e un mese dopo, rientrato in patria, intervenne ancora davanti al doge a favore dei francescani di quella città dalmata. Durante il dogado di Marino Morosini (1249-53) non pare abbia ricoperto ruoli di particolare rilievo, anche se l’autore della trecentesca Venetiarum historia lo annovera tra i procuratori di S. Marco, un incarico prestigioso che spesso serviva come trampolino di lancio per l’elezione alla massima carica del Comune (Venetiarum historia..., a cura di R. Cessi - F. Bennato, 1964, p. 345).

Infatti il 25 gennaio del 1253 Zeno fu eletto doge, a strettissima maggioranza (21 voti su 41 grandi elettori). Assente al momento dell’elezione (era dall’anno precedente podestà di Fermo nelle Marche), prese possesso della sua carica il 18 febbraio, raggiungendo Venezia su una galea comandata da Marco Ziani, conte di Arbe e figlio del doge Pietro (1205-29).

In città lo aspettavano solenni festeggiamenti, culminati in una giostra in piazza S. Marco, il cui ricordo rimase a lungo nella memoria; parteciparono cavalieri provenienti da varie regioni d’Italia e anche tedeschi. Si mise in mostra nell’occasione, oltre a Marco Ziani, anche Lorenzo Tiepolo, figlio del doge Giacomo, destinato a succedere a Zeno (M. da Canal, Les estoires de Venise, cit., pp. 127-131).

Il dogado Morosini aveva disimpegnato Venezia dal conflitto nella penisola italiana, e confermato i buoni rapporti con Genova (promossi già da Tiepolo); un trattato del 1251 aveva garantito la sicurezza dei traffici, turbati solo dai tentativi di riconquista di Costantinopoli da parte dei bizantini dell’Impero di Nicea e del despotato dell’Epiro. Assai buone erano inoltre le relazioni con gli Stati musulmani del Mediterraneo orientale; nel 1254 Zeno resistette alle richieste pontificie di partecipazione alla crociata contro l’Egitto promossa da Luigi IX di Francia, e si limitò a vietare il commercio delle armi e di altro materiale bellico. Dopo il fallimento della crociata, Zeno si affrettò (autunno 1254) a inviare propri ambasciatori in Egitto e in Siria per rinnovare gli accordi esistenti con i sultanati del Cairo e di Aleppo.

Sempre nel 1254 era però mutata la situazione nell’Italia settentrionale, a seguito della scomunica inflitta da papa Innocenzo IV sia all’imperatore Corrado IV, scomparso dopo breve tempo, sia a Ezzelino da Romano, il quale, assieme al fratello Alberico signore di Treviso, controllava l’entroterra veneto, scatenando in questo modo i signori di parte guelfa contro i sostenitori dell’Impero. Con gli Svevi (in particolare Manfredi che nel 1257 e nel 1259 rinnovò i privilegi commerciali concessi ai veneziani nel Regno di Sicilia) Zeno mantenne buoni rapporti; ma alla lotta contro i da Romano prese parte attiva, e fu dall’estremità meridionale del dogado che partì l’esercito crociato cui il legato pontificio (l’arcivescovo di Ravenna Filippo Fontana) aveva preposto il veneziano Marco Badoer. Quest’ultimo in poche settimane occupò il territorio padovano, e il 20 giugno 1256 entrò in Padova, sottraendola alla ventennale dominazione ezzeliniana.

Tre anni dopo, scomparso Ezzelino, Zeno ripeté il medesimo schema a proposito di Treviso, ancora governata da Alberico da Romano. Sotto il comando di Badoer una flottiglia di imbarcazioni risalì il fiume Sile e l’8 ottobre 1259 la città fu conquistata. Alberico, rifugiatosi per un’estrema resistenza nel castello di San Zenone (attualmente San Zenone degli Ezzelini) fu costretto alla resa nell’agosto 1260 e giustiziato con tutti i suoi familiari.

Anche nello scacchiere mediterraneo la situazione era in evoluzione, e Zeno si trovò a fronteggiare una grave crisi nei rapporti con Genova e una guerra generalizzata per il predominio nel Mediterraneo orientale.

A San Giovanni d’Acri, capitale del Regno crociato di Gerusalemme, i veneziani si erano mantenuti estranei nei limiti del possibile da vari episodi di violenza fra genovesi e pisani, ma nel 1256 scoppiò però un vero e proprio conflitto per una causa banale: la contesa sui diritti su una costruzione appartenente al monastero di S. Saba, situata lungo il confine tra il quartiere veneziano e quello genovese della città. Dopo un anno di scontri, nel 1257, i genovesi, potendo contare su appoggi locali e nell’occasione anche sul sostegno pisano, fecero irruzione nel settore veneto impadronendosi di alcune navi e delle merci presenti a bordo.

Zeno infatti si lamentò subito con il governo genovese, che propose un incontro di rappresentanti dei due Comuni a Bologna per comporre la vertenza, ma l’ipotesi non ebbe seguito. Il 14 luglio 1257 il doge strinse un’alleanza offensiva e difensiva con i pisani in funzione antigenovese, e successivamente inviò ad Acri una flotta, capitanata da Lorenzo Tiepolo. Nel settembre 1257 costui inflisse una prima dura sconfitta ai liguri, avviando l’occupazione del loro quartiere e distruggendo le fortificazioni che lo difendevano; e li batté nuovamente il mese successivo, sia pure in maniera non decisiva. Seguirono scontri dall’esito alterno, ma l’anno successivo il doge rinforzò la flotta di Tiepolo inviando altre navi (al comando di suo nipote Andrea Zeno) e nel giugno 1258 le forze veneziane riportarono una decisiva affermazione su quella nemica nello specchio di mare di fronte ad Acri. Di lì a poco i genovesi che ancora resistevano si arresero ed evacuarono la città.

Più o meno contemporaneamente, Zeno dovette gestire l’estensione del conflitto con Genova nel Mar Egeo, e in particolare nell’isola di Negroponte (o Eubea), minacciata di conquista da parte di Guglielmo II di Villehardouin principe di Acaia che aspirava a controllare tutta la Grecia meridionale ed era sostenuto sia pure blandamente dai genovesi. I veneziani, che vantavano una lunga presenza nell’isola e intendevano rimanervi per la sua importanza come scalo commerciale, appoggiarono gli avversari del principe, che alla fine prevalse dopo due anni di alterne vicende (1256-58). Il doge fu incaricato dai nemici del principe di Acaia di svolgere le trattative e al principio del 1259 autorizzò il proprio rappresentante nell’isola, il bailo Andrea Barozzi, a stipulare un trattato di pace (ratificato peraltro solamente nel 1262, quando Guglielmo fu rilasciato dai bizantini che lo avevano fatto prigioniero nel 1259). L’accordo sostanzialmente riconobbe lo status quo ante, e i veneziani mantennero la loro presenza a Negroponte con i relativi diritti.

Ben più gravi furono gli eventi verificatisi nel Mar Nero e a Costantinopoli. Il governo di Zeno accolse con grande disappunto la notizia (giunta da Negroponte ove si erano radunati gli occidentali in fuga) della riconquista di Costantinopoli da parte di Michele VIII Paleologo, imperatore di Nicea (25 luglio 1261).

Il 13 marzo 1261 era stato concluso a Ninfeo (e il 10 luglio ratificato a Genova) un trattato tra il Paleologo e il Comune ligure. In cambio dell’appoggio navale dei genovesi, ritenuto indispensabile per avere la meglio sui veneziani che difendevano la capitale e quel poco che restava dell’Impero latino, il sovrano si impegnava a concedere ampi privilegi ai danni di Venezia. Di fatto però, l’apporto ligure non fu necessario, perché pochi giorni dopo la ratifica genovese Costantinopoli cadde in maniera imprevista nelle mani dei bizantini, costringendo alla fuga gli occidentali.

La caduta dell’Impero latino fu un danno gravissimo per il Comune veneziano, perché cancellò di colpo il predominio commerciale che la città lagunare esercitava dal tempo della quarta crociata nell’Egeo e nel Mar Nero.

Dopo lo smarrimento iniziale il governo veneziano reagì sia sul piano diplomatico sia su quello militare. L’azione diplomatica, rivolta soprattutto verso il nuovo pontefice, Urbano IV, non ebbe peraltro alcun successo, anche se il papa cercò inutilmente di bandire una crociata contro Costantinopoli e scomunicò i genovesi. E anche sul piano militare né la flotta subito inviata al comando di Marco Michiel, né quella inviata nel 1262 al comando di Giacomo Dolfin ebbero occasione di prender parte a scontri degni di nota.

Nel 1263 invece Zeno guidò con successo la reazione a una ulteriore offensiva dei niceno-genovesi, che quell’anno occuparono alcune isole minori, sbarcarono nel Peloponneso e a Negroponte, e fomentarono una rivolta a Creta. L’esercito bizantino fu pesantemente sconfitto nel Peloponneso, e una squadra veneziana comandata da Giberto Dandolo affrontò vittoriosamente una più forte flotta genovese al largo dell’isola di Settepozzi nell’arcipelago delle Saroniche nell’Egeo.

Riconosciuta la superiorità navale di Venezia, i genovesi evitarono ulteriori scontri, limitandosi a compiere atti di pirateria contro convogli mercantili (pur ottenendo un successo nella battaglia combattuta presso l’isola di Saseno all’imboccatura dell’Adriatico nell’agosto del 1264).

Verso la fine del 1264 Zeno (che nel settembre ancora sollecitava aiuti del papa contro Bisanzio) poté approfittare dei contrasti presto insorti fra Michele VIII Paleologo e Genova (alleata infida ed esigente, che addirittura tramò – tramite il podestà genovese di Costantinopoli, Guglielmo Guercio – per consegnare la città a Manfredi di Svevia) e tramite un prigioniero veneziano inviato nella città lagunare (Enrico Trevisan) furono intavolate trattative, andate a buon fine tra il marzo e il giugno 1265, quando il doge inviò a Costantinopoli Giacomo Contarini (futuro doge) e Giacomo Dolfin, muniti di pieni poteri.

L’accordo prevedeva il ripristino dei privilegi di cui i veneziani avevano goduto fino al 1261, con la proibizione però di prestare aiuto ai nemici dell’imperatore e ai signori latini della Grecia meridionale e delle isole dell’Egeo, il che significava abbandonare al loro destino la maggior parte dei signori veneziani che si erano impadroniti per proprio conto delle isole egee negli anni successivi alla quarta crociata.

Malgrado fosse tutto sommato favorevole agli interessi veneziani, il governo di Zeno si rifiutò tuttavia di ratificare il trattato e mantenne aperte le trattative, nell’attesa della fine del confronto fra Manfredi di Svevia e Carlo d’Angiò. Dopo la battaglia di Benevento (26 febbraio 1266) e le immediate iniziative angioine per la riconquista di Costantinopoli (con l’occupazione di Corfù), si stipulò un accordo alla corte papale di Viterbo (27 maggio 1267) tra il re francese, il deposto imperatore latino Baldovino II e Guglielmo di Villehardouin, che prevedeva una spedizione militare contro la capitale dell’Impero e la conferma, per Venezia, di tutti i diritti di cui aveva goduto durante l’esistenza dell’Impero latino. Ma per vari motivi (le difficoltà angioine nel Regno, il confronto con Corradino di Svevia, le preferenze di Luigi IX per una crociata contro i musulmani, le esitazioni del papa cui Michele VIII aveva abilmente prospettato la possibilità di una riunificazione della Chiesa ortodossa con quella di Roma) la spedizione non ebbe mai luogo.

Di fronte a queste incertezze, il governo veneziano, che nel frattempo aveva continuato la guerra contro Genova (nel giugno 1266 Zeno inviò rinforzi a una squadra navale comandata da Giacomo Dondulo, che ottenne una grande vittoria distruggendo una flotta genovese al largo di Trapani), decise di agire autonomamente, perché il conflitto non concluso e i frequenti atti di pirateria, assieme al riavvicinamento dei bizantini ai genovesi, riducevano al minimo le attività commerciali con evidenti danni per l’economia cittadina. Pertanto il doge il 1° novembre 1267 inviò a Costantinopoli Marco Bembo e Pietro Zeno, assieme a due rappresentanti di Michele Paleologo rimasti a Venezia, con l’incarico di concludere una tregua alle condizioni che fossero loro apparse più opportune. Le trattative andarono rapidamente in porto e il 4 aprile 1268 fu conclusa una tregua di cinque anni, con possibilità di rinnovo. Gli ambasciatori rientrarono in patria e qui, il 30 giugno, Zeno ratificò il trattato senza difficoltà sebbene, trattandosi di una tregua temporanea e non di un trattato di pace, contenesse alcune clausole meno favorevoli per Venezia rispetto al testo del 1265.

La guerra però continuò, fino a che nel 1269 Luigi IX e papa Clemente IV, desiderosi di ottenere l’appoggio navale veneziano e genovese per una nuova crociata, intervennero presso i due Comuni, convincendoli a stipulare nel 1270 a Cremona una tregua quinquennale che, più volte rinnovata, venne rispettata per il successivo quarto di secolo.

La ratifica del trattato del 1268 fu l’ultimo atto di governo di Zeno. Il 7 luglio 1268 il vecchio doge fece redigere il proprio testamento e morì il giorno stesso.

Fu sepolto l’8 luglio nella chiesa domenicana dei Ss. Giovanni e Paolo in un’urna marmorea che oggi non si conserva più.

Aveva sposato Alvica figlia di Gabriele da Prata, appartenente a una famiglia comitale che vantava estesi interessi nel Friuli occidentale e nel Veneto orientale, forse imparentata con gli Ziani, perché nel testamento del doge Pietro Ziani del 1228 è citata una Maria da Prata. Dal matrimonio non pare siano nati figli, almeno sopravvissuti ai genitori. Il doge disponeva di un ingente patrimonio immobiliare, costituito da oltre settanta case a Venezia e fuori città, oltre a terreni coltivati in vari luoghi della terraferma e a Muggia in Istria. Tra i beni mobili, poteva contare su una notevole disponibilità, comprendente pietre preziose, denaro in contanti, crediti, investimenti marittimi e prestiti pubblici.

Beneficiari delle sue ultime volontà furono principalmente chiese, istituti religiosi e luoghi pii, soprattutto la chiesa dove dispose di essere sepolto e un ospizio di recente istituzione, Santa Maria dei Crociferi (ora Santa Maria dei Gesuiti), di cui il testatore era attestato come avvocato fin dal 1254. Diversi lasciti furono inoltre stabiliti per parenti, in particolare nipoti, e altre persone a lui legate.

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