FARNESE, Ranuccio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 45 (1995)

FARNESE, Ranuccio

Gigliola Fragnito

Terzo figlio maschio di Pierluigi (duca di Parma e Piacenza dal 1545) e Girolama Orsini, nacque nel feudo famesiano di Vetulano l'11 ag. 1530. In seguito all'elezione al papato del nonno, Paolo III (13 ott. 1534), venne destinato alla carriera ecclesiastica e già nel 1534 ottenne il priorato di S. Giovanni de' Furlani a Venezia, appartenente ai cavalieri di S. Giovanni Gerosolimitano e il 5 luglio 1537, per rinuncia di P. Bembo, la commenda di S. Maria del Tempio di Bologna, detta la Magione, anch'essa dei cavalieri gerosolimitani. Trascorse i primi anni dell'infanzia tra Roma e i feudi farnesiani, affidato a Galeazzo Rossi, umanista, amico del Bembo, che si occuperà per vari anni della sua educazione con competenza e impegno e che più tardi ricoprirà funzioni di maestro di casa. Dalle spese registrate dalla Tesoreria segreta papale tra il novembre del 1535 e il novembre del 1538, risulta che in quegli anni il F. crebbe con il fratello minore Orazio, cui rimarrà legato da profondi vincoli di affetto, che lo porteranno a difenderne gli interessi contro i tentativi degli altri fratelli, Alessandro e Ottavio, di estrometterlo dalla successione nel ducato di Castro. Particolarmente vigile e premurosa appare l'attenzione di Paolo III nei riguardi dell'educazione del nipote, testimoniata dai 15 scudi destinati nel novembre del 1536 "per mancia doppo cena al signor Ranuccio et Horatio, et ad altri mammoli che recitarono una commedia inanti a sua Santità" (L. Dorez, La cour du pape Paul III, II, p. 84) e da alcune lettere latine che il F. gli indirizzò nel 1537 da Gradoli.

Il clima della corte papale poco adatto a una vita di studio, la mancanza di prestigiosi docenti a Roma, il carattere indisciplinato del fanciullo dovettero indurre Paolo III, su probabile suggerimento del Bembo, ad inviare il nipote allo Studio di Padova. Nonostante già alla fine del 1541 il Bembo ne annunciasse a Girolamo Querini l'imminente arrivo, solo l'8 maggio 1542 il F. lasciò Roma, raggiungendo Venezia il 18, in tempo per partecipare alle feste dell'Ascensione, accolto festosamente dallo stesso doge. Qualche giorno dopo si trasferiva a Padova dove avrebbe trascorso tre anni, salvo brevi assenze, sotto la guida severa di Alessandro Manzoli, cui erano stati affidati la cura della casa e l'incarico di sovrintendere alla sua educazione morale e alla sua formazione culturale.

Di famiglia nobile bolognese, Alessandro Manzoli, "compagno di santa fatica" di Giulio Camillo detto Delminio nella composizione del Theatro, annoverato da Sebastiano Serlio nel Terzo libro delle Regole generali di architettura tra i maggiori conoscitori della dottrina vitruviana, aveva fattoparte e dell'Accademia vitruviana a Roma ed a Bologna della cerchia di Achille Bocchi, figura di spicco della vita intellettuale della città, intorno alla quale gravitavano uomini dal sentire religioso inquieto. Tra questi l'eretico siciliano Camillo Renato ricorderà il Manzoli tra i più assidui seguaci dei suoi insegnamenti eterodossi, che ponevano l'accento sul carattere morale e pratico del cristianesimo, sull'interiorizzazione della vita religiosa e sull'illuminazione dello Spirito Santo. L'intrinsechezza dei loro rapporti è del resto documentata dalla fideiussione che insieme con Cornelio Lambertini e col Bocchi il Manzoli offrì perché il Renato, convocato dinanzi all'inquisitore di Bologna, potesse invece giustificarsi delle accuse di eresia di fronte al legato, senza essere arrestato. Se dalle lettere scritte quasi settimanalmente dal Manzoli al cardinale Alessandro Farnese per ragguagliarlo sui progressi del fratello negli studi nulla apprendiamo circa le sue posizioni dottrinali - se non il pur significativo rammarico di non avere la pace necessaria per poter "attender a San Paulo et a gli Evangeli" (Archivio di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano estero, Venezia, b. 509, n. 200) - l'impegno totale nel fare del F. prim'ancora che un dotto prelato, un buon cristiano e la costante preoccupazione di circondarlo di persone moralmente degne, che ne emergono, non soltanto appaiono come consistenti tracce di un rigore e di una austerità poco comuni in ambienti cortigiani, ma probabilmente incisero profondamente sulla formazione umana, religiosa e culturale del futuro cardinale, assai diverso dal fratello Alessandro e assai distante dall'immagine tradizionale di un cardinale nipote.

A Padova venne ingaggiato dal Manzoli, per 150 scudi annui, il grecista Lazzaro Bonamico, la cui scelta dovette essere determinata non soltanto dalla grande reputazione, ma anche dalla capacità di conciliare gli ideali pedagogici della cultura umanistica con la pensosa religiosità dell'evangelismo, assorbita attraverso la frequentazione di uomini come Federico Fregoso, Marcantonio Flaminio, Pietro Bembo, Gasparo Contarini, Reginald Pole. Egli affiancò Galeazzo Rossi, dando quotidiane lezioni private di latino e di greco al Farnese. L'interesse con cui Paolo III vigilava da lontano sull'educazione del nipote spinse il Manzoli a sottoporre i metodi didattici del Bonamico e i progressi del F. a verifiche da parte del letterato vicentino Giangiorgio Trissino nel settembre del 1543 e nell'ottobre del 1544 da parte di Giovanni Della Casa, allora nunzio a Venezia, presso il quale il giovane trascorse una settimana. Al di là delle formule convenzionali di elogio nei confronti del nipote del pontefice, si coglie nei commenti dei due letterati un convinto e sincero apprezzamento per le sue notevoli doti intellettuali.

Nel novembre del 1544 Paolo III decise di associare al Bonamico, a Galeazzo Rossi e ad Andrea Fontana, il bolognese Ludovico Beccadelli, che era stato segretario del Contarini, condividendone l'ansia riformatrice ed una religiosità fondata sulla dottrina della giustificazione per sola fede. Inviato nell'aprile del 1545 a Trento come segretario del concilio, il Beccadelli, che riprenderà le sue funzioni di precettore a Roma nell'ottobre. avrebbe dovuto essere sostituito da Adamo Fumano, proveniente dalla cerchia di Gianmatteo Giberti. Il progetto, nonostante l'interessamento del cardinale Marcello Cervini, non sembra essersi concretizzato. Se è documentato il ruolo dei Manzoli nella scelta di uomini che potessero, oltre che dare una adeguata formazione, infondere nel fanciullo austeri e solidi principi religiosi e morali, appare improbabile che Paolo III, così attento nei confronti degli studi del nipote, fosse ignaro delle profonde irrequietudini che incrinavano la spiritualità di coloro cui lo affidava. D'altro canto la sostanziale disistima del pontefice nei confronti di Alessandro, che considerava "non haver cervello" ed essere un "da niente" (R. Zapperi, 1991, p. 164), potrebbe averlo spinto, al di là delle esigenze di consolidare le fortune del proprio casato, a proiettare sul F. i propri gusti e la propria raffinata cultura.

In questi anni, ai rapidi progressi negli studi si accompagnava un crescente addomesticamento della natura ribelle del fanciullo, il quale depose la "licentiosità" con cui era solito vivere a Roma e si piegò alla rigida disciplina imposta dal Manzoli, il quale, dopo qualche mese dall'arrivo a Padova, poteva osservare che quanto alla "creanza, et li costumi et relligione ... è in una bonissima via", nella quale "se persevera ... si farà grande in lettere et gentilissimo ne i costumi" (Archivio di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano estero, Padova, b. 282, nn. 37, 48 e 49). Durante la permanenza in Veneto il Manzoli curò anche i rapporti tra il patriziato e il giovane F., il quale, nei momenti difficili della sua esistenza, tornerà in terra veneta, dove nella fanciullezza gli era stata riservata, tra feste e soggiorni nelle ville di campagna, un'accoglienza particolarmente cordiale e dove verrà ammesso al patriziato veneziano. Si impegnò, inoltre, vista la scarsezza dei mezzi economici messi a disposizione da Roma e da Girolama Orsini, in una vasta opera di recupero e di consolidamento dei benefici ecclesiastici veneti di cui il F. era titolare, a cominciare dal priorato dell'Ordine gerosolimitano di Venezia, le cui rendite, che si aggiravano un tempo intorno ai 4.000 scudi, erano scese sotto i 2.000. Il F., che, al momento della nomina, non vi trovò "pure una stringa" (Nunziature di Venezia, II, p. 241), non soltanto partecipò alle congregazioni dei cavalieri che si svolgevano annualmente a Venezia - quella del 30 luglio 1542 offrì con ogni verosimiglianza l'occasione a Tiziano per l'esecuzione del bellissimo ritratto del fanciullo in abito da cavaliere, oggi a Washington -, ma compi ripetuti soggiorni nella villa del Tempio, di pertinenza del priorato, per porre termine ai molti "disordini" che vi erano (Archivio di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano estero, Padova, b. 282, n. 66).

Alla morte del Giberti, fallito il tentativo di Paolo III di assegnargli la diocesi di Verona per l'opposizione di un settore del patriziato che riteneva fosse meglio "romperla con S. S.tà che lassar metter piè a casa Farnese in una città tanto importante" (Lettere di Paolo Manuzio copiate sugli autografi esistenti nella Biblioteca Ambrosiana, Parigi 1834, p. 320), il 3 genn. 1544 il F. ottenne in commenda l'abbazia di S. Pietro di Rosazzo, tra Cividale e Cormons, vacata anch'essa per la morte del Giberti. Vi si recò nell'estate del 1544, trovandola in migliori condizioni delle proprietà del priorato, con "assai bona habitatione" e con la chiesa "fornita di paramenti, et officiata da questi padri molto diligentemente" (A. Manzoli al card. A. Farnese, Rosazzo, 6 giugno 1544, Archivio di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano estero, Venezia, b. 509, n. 181), anche se permaneva lo spinoso problema del recupero dei beni dell'abbazia situati nei territori asburgici di Gorizia, Gradisca e Spalato. Il 13 ag. 1544 il F. venne designato amministratore della diocesi di Napoli, che verrà retta in sua assenza da Fabio Arcella, vescovo di Bisignano. A marzo del 1545 trascorse quindici giorni a Bologna in casa del Manzoli insieme col fratello Orazio (Parma, Bibl. Pal., Carteggio Farnesiano, nn. 10 e 12, lettere del cardinale Giovanni Morone al card. Alessandro Farnese, 6 e 22 marzo 1545).

Di lì sarebbe tornato a Padova, ma per poco, poiché, dopo tre anni di soggiorno, pur se la sua formazione non poteva dirsi ancora compiuta, Paolo III lo richiamò a Roma. Il pontefice già da tempo - per le pressioni di Pierluigi, ma ancora più per la propria "inclinatione et ... oppinione così grande" (Bibl. ap. Vaticana, Vat. lat. 148345 f. 22v) -, meditava di crearlo cardinale, nonostante le proteste e le minacce di "scappellarsi" (ibid.) di Alessandro, timoroso che la predilezione del nonno per il più giovane fratello potesse costituire un ostacolo alle proprie aspirazioni alla tiara.

Lasciata Padova a fine maggio del 1545, dopo una visita al padre a Piacenza, il F. si diresse verso il ducato di Castro e lì, tra Gradoli e Caprarola, trascorse l'estate, proseguendo gli studi, dedicandosi a Demostene, Omero e Aristotile. tenuto lontano dalla corte papale dal Manzoli, al quale, come scriveva Bernardino Maffei a Girolama Orsini, "'non li piace troppo la nostra compagnia che appena comporta il s.or Oratio tanto dubita che l'Arcivescovo non si desvii" (Viterbo, 9 sett. 1545, Archivio di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano, Viterbo, b. 531/1, n.n.). A settembre a Viterbo, desideroso di dimostrare "ch'io non havrò speso in otio il tempo che sarò stato a Padova" (il F. a Marcello Cervini, Padova, 21 genn. 1545, in Archivio di Stato di Firenze, Carte Cerviniane, f. 41, n. 167), dinanzi al nonno, a vari cardinali e prelati lesse alcune "lettioni" di Demostene, di Omero e di Cicerone, suscitando vasta approvazione e procurando "tanta contenteza" a Paolo III.

Il 10 ottobre giunse a Roma per il battesimo dei figli di Ottavio e Margherita e il Giovio scrisse al Cervini che "parrebbe, s'havesse l'ale et la bilancia, il bel angelo Michele" (Conc. Trid., X, p. 216). Poiché nelle intenzioni del pontefice avrebbe dovuto trascorrere l'inverno a Roma, si sistemò a Montecavallo in quella che veniva chiamata la "vigna" del cardinale Oliviero Carafa, presa in affitto dal fratello Orazio, dove sotto la guida del Beccadelli - cui avrebbe dovuto affiancarsi Guglielmo Sirleto, che però declinò l'invito di Paolo III - continuò i suoi studi, mentre il Manzoli si adoperava affinché "l'aria di Roma ... non lo disvii" (ibid., p. 256). L'ira crescente di Alessandro, che non conosceva più freni di fronte alla imminenza della nomina cardinalizia del fratello, costrinse, tuttavia, Paolo III ad allontanare il F., mandandolo a Nepi, da dove non venne richiamato neppure il 16 dic. 1545, quando fu creato cardinale con titolo diaconale di S. Lucia in Silice (fu traslato il 5 maggio 1546 al titolo di S. Angelo ed il 7 febbr. 1565 alla sede suburbicaria di Sabina).

Questo gesto - che contribuì indubbiamente ad accelerare la trasfonnazione del Papato in monarchia assoluta - suscitò vasta disapprovazione in quanto violava il divieto che due fratelli sedessero contemporaneamente nel S. Collegio e che si creassero cardinali durante il concilio. I contemporanei lo interpretarono come una dimostrazione da parte di Paolo III che "il pontefice maximo non è sottoposto al concilio" e "che la potestà pontificia non è liniitata, ma si extende a tutto quello che viene al pontefice voluntà nelle cose del mondo" (Diario di Massarelli, 20 dic. 1545, in Conc. Trid., I, 1, p. 357).

Solo a Pasqua il F. rientrò a Roma, dove il 29 apr. 1546 ottenne il cappello cardinalizio e da dove ripartì immediatamente in compagnia del nonno Per Viterbo. La speranza di Paolo III che la "bontà della natura" e la "prudentia" del F. riuscissero a vincere l'avversione di Alessandro (Bernardino Maffei a Marcello Cervini, Roma, 9 genn. 1546, Conc. Trid., X, p. 306) si rivelò vana: comportandosi con il fratello come "non si faria di un picciol vescovo", non volle riceverlo quando giunse a Roma; dichiarò di volerlo nener magro d'entrate, acciò gli habbia da star sotto" (ibid., pp. 287 s.) e, quando dovette allontanarsi da Roma, come legato a latere in Germania (25 giugno 1546), fece "istanza grandissima" e si fece promettere da Paolo III "di non admettere il R.mo di Napoli suo fratello alli negotii" (Giovanni Bianchetti a Giovanni Della Casa, Roma, 24 luglio 1546, Bibl. ap. Vaticana, Vat. lat. 14834, f. 162r). Preoccupato e ferito da questi dissidi famigliari, che minacciavano seriamente la compattezza del casato, il pontefice, ritenendo di non poter mutare gli equilibri all'interno della propria famiglia senza danneggiarne l'ascesa e senza creare spaccature anche ai vertici della Chiesa, si piegò alle prepotenze di Alessandro, ma raggiunse il F. a Bracciano, nonostante il parere contrario dei medici, e tornò "più innamorato che prima" del ragazzo (ibid., f. 164v, Giovanni Bianchetti a Giovanni Della Casa, Roma, 31 luglio 1546). Tuttavia, nonostante il grande affetto per questo nipote, che nelle mani di precettori e di docenti di alte capacità, selezionati con grande cura, era diventato un giovane "bene accostumato et letterato per quell'età sopra la credenza delli huomini" - come lo definiva nel suo diario Angelo Massarelli (Conc. Trid., I, 1, p. 357: Diario..., 20 dic. 1545) - il pontefice dovette rassegnarsi, per la quiete famigliare, ad allontanarlo nuovamente da Roma. L'iniziale progetto di Paolo III di dargli la legazione di Perugia perché - pur proseguendo gli studi umanistici ed essendo "mezzo impoetizzato" dal Beccadelli (Carlo Gualteruzzi a Giovanni Della Casa, Roma, 21 ag. 1546, Corrispondenza Giovanni Della Casa, p. 303) - si volgesse agli studi di diritto che lo avrebbero reso più idoneo a coprire l'ufficio di penitenziere maggiore, cui il nonno lo aveva destinato, venne abbandonato per il rifiuto di Andrea Alciato di seguirne gli studi.

Il 27 ag. 1546 venne conferita al F. la Legazione della Marca, cui verrà unita nel novembre la Legazione di Ancona. Accompagnato da Ludovico Beccadelli, con funzioni di segretario, da Alessandro Manzoli, da Filippo Gheri, da Ugolino Gualteruzzi, suo compagno di studi dalla primissima infanzia, si trasferì nelle Marche, dove risiedette tra Macerata ed Ancona e dove, pur se ancora impegnato negli studi, cercando "quanto più si può ... recuperare il tempo perso in Roma" (A. Manzoli al card. A. Farnese, Ancona, 19 apr. 1548, in Archivio di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano estero, Ancona, b. 175/5, f. 5v), coadiuvato dal vicelegato Fabio Mignanelli e dal Beccadelli, sembra aver esercitato un'efficace azione di governo. Il 23 genn. 1547 Paolo III propose in concistoro di concedergli la Penitenzieria apostolica, vacata per la morte di Roberto Pucci, ma, di fronte alla forte ostilità manifestata dai cardinali, decise di nominarlo con breve papale il 12 febbr. 1547 e di concedergli la dispensa per ricevere l'ordinazione sacerdotale, che gli venne conferita poco dopo.

In quei giorni Fabio Mignanelli scriveva al cardinale Marcello Cervini, che da anni seguiva con affetto e con consigli la formazione del F., che "la virtù, la bontà et l'exemplo della vita ... sono incredibili. Et fin qui senza adulatione si preserva immaculatus a saeculo" (Conc. Trid., X, p. 836, Macerata, 7 marzo 1547).

In sua assenza, la Penitenzieria fu retta dal reggente Pellegrino Fava, altro bolognese, amico del Manzoli e del Beccadelli. In occasione del conferimento della Penitenzieria il cardinale di Trani gli cedette, il 25 marzo 1547, l'arcipresbiterato di S. Giovanni in Laterano affinché, come Alessandro e Guido Ascanio Sforza, arcipreti rispettivamente di S. Pietro e di S. Maria Maggiore, detenesse una delle tre maggiori dignità della Chiesa di Roma. Nella primavera del 1547 il F. si recò a Piacenza in visita al padre, ricevuto a Bologna dai legati al concilio sia all'andata (14 aprile) sia nel viaggio di ritorno (25 maggio) verso Ancona, dove lo raggiunse la notizia dell'assassinio di Pierluigi, avvenuto il 10 sett. 1547. Agli inizi di novembre il F. era a Roma per il matrimonio della sorella Vittoria con Guidubaldo II Della Rovere, duca di Urbino. Mutato nell'aspetto, "grande e grosso tanto che non saria conosciuto da persona che l'havesse veduto un anno in qua", prese alloggio nei palazzi vaticani, ma, anche questa volta, "senza negotiare altro che le cose de la sua legatione" (G. Bianchetti a G. Della Casa, Roma, 5 nov. 1547: Bibl. ap. Vaticana, Vat. lat. 14835, ff. 15v-16r). Si trattenne a Roma fino al 18 febbraio, quando fece rientro ad Ancona. In una lettera piena di ansia raccomandava a Marcello Cervini, con cui in questi anni mantenne una fitta corrispondenza, dalla quale traspare un rapporto di filiale affetto, di assistere il vecchio nonno, gravato di anni e dei "travagli c'hoggi di sono nella Christianitade", e lo pregava "caramente, ch'oltra quello che faria per se, che ancho per amor mio, voglia pigliare questo peso et per le cose publiche et per le private di Casa nostra" (Ancona, 17 giugno 1548, in Archivio di Stato di Firenze, Carte Cerviniane, f. 51, n. 29). A maggio partecipò ad Urbino alla cerimonia della consegna del cappello cardinalizio a Giulio Della Rovere.

A fine ottobre 1548 tornò di nuovo a Roma e si giudicò che vi si sarebbe fermato definitivamente e "che sia per entrare a qualche parte delle facende tamquam fratris coadiutor" (Carlo Gualteruzzi a Giovanni Della Casa, Roma, 28 ott. 1548, in Corrispondenza Giovanni Della Casa, p. 529). Si trattò di mere speranze da parte dei suoi familiari, i quali, tra l'altro, scontavano l'avversione di Alessandro nei confronti del fratello, vedendosi rifiutare il conferimento di benefici ecclesiastici ai quali venivano proposti dal Farnese. In realtà, nonostante la difficile situazione creata dalla morte di Pierluigi riguardo alla successione di Parma e Piacenza, egli sembrava rimanere estraneo alle mene di Alessandro per mantenere il Ducato nelle mani di Ottavio. Nel gennaio del 1549 accompagnò il nonno a Ostia e a Civitavecchia e nell'estate era di nuovo nelle Marche. Rientrato a Roma il 4 luglio, partecipò alle fitte consultazioni tra Paolo III, Orazio, Ottavio e Alessandro, Marcello Cervini, Bernardino Maffei, sulla questione di Parma ed a settembre insieme con Orazio raggiunse nei feudi farnesiani Alessandro, probabilmente per trovare una linea comune sulla questione di Parma, restituita in quei giorni da Paolo III alla Chiesa, compensando Ottavio con il ducato di Castro e dando ad Orazio Camerino. Se, dato il suo attaccamento ad Orazio, questa soluzione dovette trovarlo consenziente, è assai probabile che non condivise a pieno la decisione di Alessandro di strappare a Paolo III un breve che stabiliva la restituzione di Parma a Ottavio. Frattanto, nel concistoro dell'11 ott. 1549, per la morte di Benedetto Accolti, il F. era stato traslato alla Chiesa di Ravenna con diritto di mantenere quella di Napoli per sei mesi. Il 10 genn. 1551, quale ricompensa della sua fedele e totale dedizione, investì Alessandro Manzoli e i suoi discendenti fino alla quarta generazione della contea di Teodorano in Romagna, che apparteneva alla mensa ravennate, con l'obbligo di versare un canone annuo di 141 scudi d'oro.

La morte di Paolo III il 10 nov. 1549, nella casa del F. a Montecavallo, ed il rifiuto di Camillo Orsini di consegnare Parma ad Ottavio aprirono una crisi all'interno della famiglia e ai vertici della Chiesa destinata a protrarsi per anni. Il 29 nov. 1549 il F. entrò in conclave, accompagnato da Filippo Gheri, Vincenzo Cotto, Bonifacio Cherubini, Curzio Frangipane e Annibal Caro, i due ultimi espulsi in seguito alla riforma del conclave. La sua estraneità ai maneggi politici è testimoniata dai Ricordi lasciati da Paolo III al cardinale Alessandro, con consigli sulla scelta del proprio successore: il F. vi viene menzionato solo per raccomandare la buona intesa tra i due fratelli (cfr. ed. a cura di L. Frati, 1905, pp. 448 ss.). Inizialmente favorevole al cardinale R. Pole, il F., timoroso che un pontefice filoimperiale, auspicato dai fratelli Alessandro e Ottavio, privasse il fratello Orazio, promesso sposo di Diana di Francia, figlia naturale di Enrico II, del ducato di Castro, preteso da Ottavio qualora non fosse riuscito a riconquistare Parma, favorì la candidatura di Giovanni Salviati sostenuta dai Francesi. I due cardinali Farnese finirono col trovare un accordo e l'8 febbraio furono determinanti nell'elezione di Giulio III Del Monte, il quale, grato del loro sostegno, riconobbe l'investitura di Parma a Ottavio e confermò il F. nella legazione della Marca il 16 febbr. 1550.

La cordialità dei rapporti tra Giulio III e il F. è testimoniata dalla sua frequentissima presenza alla tavola papale, dalla sua partecipazione ai lauti banchetti e agli spettacoli offerti dal pontefice, oltre che dalla sua nomina, il 18 febbr. 1551, come legato del Patrimonio. Questa intesa era destinata, tuttavia, a spezzarsi di fronte alla ritrovata solidarietà dei fratelli Farnese. Da Pesaro, dove si trovava nell'ottobre del 1550, il F. si era, infatti, trasferito a Parma per partecipare alle trattative con la Francia che culminarono nell'alleanza con Enrico II, il quale garantiva ad Ottavio il proprio appoggio finanziario e militare. Giulio III, insospettito da questa riunione famigliare, chiedeva un impegno da parte di Ottavio, sottoscritto dal cardinale Alessandro e dal F., a non alienare Parma, feudo pontificio, ad altri principi, ed il 7 marzo 1551 inviava un monitorio ai due cardinali richiamandoli immediatamente a Roma. Inoltre il 27 febbraio indirizzava un breve al F., in cui gli intimava di provvedere alla riforma della Penitenzieria, riforma di cui durante le prolungate assenze da Roma si occuperà Marcello Cervini, suscitando qualche rimostranza da parte del cardinale che giudicava i provvedimenti troppo drastici.

A Bologna già l'11 marzo, il F. si fermò a Pesaro, consigliato a rallentare il viaggio da Alessandro, che lo aveva preceduto e che aveva respinto le proposte di Giulio III di concedere ad Ottavio Camerino e Nepi in cambio della restituzione di Parma. Nonostante il pontefice, di fronte al tardare dell'arrivo del F., avesse minacciato "che in un'hora sola il poteremmo far povero con legitima causa di questa sua assentia per non dir' fuga" (Giulio III al card. Marcello Cervini, Roma, 22 apr. 1551, Conc. Trid., XI, 2, p. 626) e gli avesse revocato la Legazione di Viterbo, lo accolse, o finse di accoglierlo, cordialmente quando lo ricevette il 9 maggio a Roma. Ma immediata dovette essere la decisione del F. di abbandonare Roma, dove si era sistemato, sembrerebbe per la prima volta, a palazzo Farnese, se già il 4 giugno un suo cameriere a Venezia cercava una sistemazione per il padrone che stava per giungervi con tutta la familia. Il cardinale, infatti, prim'ancora che il papa dichiarasse guerra ad Ottavio (8 giugno), lasciata Roma, dopo una sosta a Castel Durante, aveva raggiunto il 17 giugno Venezia. Il Beccadelli, allora nunzio pontificio, sebbene imbarazzato dalla sua presenza, si adoperò in un'opera di mediazione con il pontefice, al quale trasmetteva le dichiarazioni del F. di essere "innocentissimo" ed estraneo alle trattative con il re di Francia - dichiarazioni, peraltro, contraddette dalle sue lettere ad Enrico II e Carlo di Guisa cardinale di Lorena del maggio del 1551 (Arch. segr. Vaticano, Lettere di principi, vol. 20, ff. 394r e 395r) - e di essere venuto a Venezia per ridurre le spese, visti i grandi debiti. La mediazione del Beccadelli da Venezia e, a Roma, quella del Cervini, costante punto di riferimento del F. e accorto avvocato degli interessi farnesiani, indussero Giulio III, che aveva inviato brevi ai due cardinali, ordinando il loro immediato rientro a Roma, ad autorizzare il F. a trattenersi a Padova fino al 10 settembre, lasciando subito Venezia. Egli vi si recò il 1º ag. 1551, rimanendovi fino al 23 settembre, quando ripassò da Venezia, da dove, ubbidendo ad un breve del 17 settembre di Giulio III, si trasferì a Pesaro presso la sorella Vittoria.

Firmata il 29 apr. 1552 la tregua tra Giulio III e Ottavio, cui veniva riconosciuto il possesso di Parma, mentre Castro passava ad Orazio, il F. riprese la via di Roma, dove giunse il 12 maggio e dove Cervini e Morone avevano preparato il terreno per una riconciliazione con Giulio III. La rinnovata buona intesa con il pontefice sembra, del resto, testimoniata dalla perdita da parte del F. di 1.500 scudi giocando a dadi con Giulio III nel giugno. Il 1º luglio venne nominato in una commissione cardinalizia che doveva studiare il modo di soccorrere Ferdinando 1, minacciato dall'avanzata dei Turchi in Ungheria. Nonostante la tregua, il 29 luglio 1552, da Valentano, informava Ottavio del cauto aiuto fornito ai fuorusciti e ai Francesi nella guerra di Siena (Arch. di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano, Viterbo, b. 531/1, n.n.). Non sono chiare le ragioni che lo spinsero, questa volta con il consenso di Giulio III, a ripartire per Venezia, dove giunse il 21 ottobre e fu ricevuto dal doge e dalla Signoria, cui dichiarò "con quanta confidenza era venuto in questa patria" (Ludovico Beccadelli a Innocenzo Del Monte, 29 ott. 1552, Nunziature di Venezia, II, pp. 169 s.). Da una lettera del Cervini al nunzio Beccadelli si desume che egli avesse "animo d'attendere a studiare" (ibid., p. 171). Di fronte al malumore manifestato a novembre da Giulio III per la sua sosta a Venezia, meditò di trasferirsi a Panna. Tuttavia il 24 dicembre ringraziava il cardinale Innocenzo Del Monte per la concessione fattagli dal pontefice di poter risiedere nella città lagunare (Arch. segr. Vaticano, Lettere di principi, vol. 20, f. 396r), dove effettivamente rimase fino all'agosto del 1553. L'11 di quel mese, dopo aver appreso la morte del fratello Orazio, che gli recò profondo dolore, raggiunse Panna "per trovarsi col duca Ottavio et ragionare delle cose loro" (ibid., p. 253), e soprattutto dei rapporti con la Francia, che la morte dello sposo di Diana di Francia non poteva non modificare. R probabile che egli trascorresse un lungo periodo alla corte di Panna. Era, comunque, a Roma nell'inverno e nella primavera del 1554.

Il 28 ottobre faceva l'ingresso solenne nella diocesi di Ravenna, che definiva in una lettera ad Ottavio "più stantia da rospi che da altri" e al cui confronto Parma era il "palazzo d'Alcina" (Ravenna, 7 nov. 1554, Archivio di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano estero, Ravenna, b. 316). Dopo dieci giorni di sosta chiese al fratello di chiamarlo con qualche pretesto a Parma per poter ottenere da Roma l'autorizzazione ad assentarsi dalla propria diocesi. Da Parma - per probabili dissapori con Giulio III, forse legati alla guerra di Siena - tornò a Venezia il 2 genn. 1555 e vi rimase fino all'annuncio della morte del pontefice (23 marzo).

Il 27 marzo partì con due barche per Pesaro e di lì in poste per Roma, dove entrò in conclave il 5 aprile. In assenza del fratello Alessandro, insieme col cugino Guido Ascanio Sforza, si oppose alla candidatura di Ippolito d'Este, sostenuta dalla Francia, e si adoperò efficacemente a favore dell'elezione di Marcello Cervini. L'affetto e la stima di Marcello Il per il giovane F. sono testimoniati dall'ospitalità che gli offrì nelle stanze della torre Borgia del palazzo apostolico, con l'evidente intenzione di servirsene nel vasto progetto di riforma che andava meditando, interrotto dalla morte. Nel conclave successivo l'accordo tra Alessandro e il F. era saldo: dopo aver sostenuto la candidatura del Pole, alla fine si schierarono con la maggioranza del S. Collegio a favore di Gian Pietro Carafa, che venne eletto il 23 maggio, non senza che, diffusasi la voce il 17 maggio dell'elezione del cardinale Alessandro, il popolo avesse saccheggiato il palazzo della Cancelleria, palazzo Farnese, residenza del F., e il palazzo dell'arcipresbiterato di S. Pietro.

Fratello della madre di Girolama Orsini, il neo eletto Paolo IV dichiarò ai Farnese che "l'ha per suoi propri nepoti e tra essi non ci sarà cosa divisa ". Tuttavia, Alessandro ed Ottavio presero presto le distanze dalla politica bellicosa e filofrancese dei Carafa e intavolarono trattative con Filippo II, che portatono nel luglio del 1556 alla restituzione di Piacenza e del marchesato di Novara ad Ottavio e al conferimento ad Alessandro di ricchi benefici in Sicilia, in cambio dell'aiuto militare di Ottavio contro il pontefice. Appresi i contenuti dell'accordo, Paolo IV - dopo aver interrogato il F., che si dichiarò all'oscuro di tutto - nel concistoro del 17 luglio 1556 minacciò: "la puniremo sopra ognuno" (dispaccio di Bernardo Navagero, in Archivio di Stato di Venezia, Archivio Proprio, Roma, 8, f. 247r).

La sincerità del F. è documentata da una lettera dell'8 luglio ad Ottavio in cui gli raccomandava la neutralità, gli ricordava che i Farnese erano piccoli principi che non potevano permettersi di trattare alla pari con i grandi e lo esortava a non allearsi con gli Imperiali, macchiatisi dell'assassinio del padre; e da quella del 18 luglio in cui lo pregava di dargli chiarimenti su quella che gli pareva una "baia"; lo avvertiva, comunque, a nome del pontefice che, qualora la notizia fosse stata vera, Paolo IV intendeva "fame demostratione et con lei et noi altri suoi fratelli"; e lo esortava, infine, con tono accorato, a sottostare alla volontà del papa, "che è nostro principe naturale, et a chi noi siamo per molte cause obligatissimi" (Archivio di Stato di Napoli, Archivio Farnesiano, b. 1334, fasc. n.n.).

Un mese dopo, quando la notizia dell'accordo era ormai certa, il F. chiese a Giovanni Carafa, duca di Paliano, di comunicarla con ogni cautela al pontefice, sicuro che, essendo l'unico membro della famiglia presente a Roma, essendo Alessandro fuggito, su di lui si sarebbe scagliata l'ira del papa. Sebbene Paolo IV gli facesse sapere di ritenerlo innocente, "ma che non l'assicura già dei fratelli, che non siano in tutto quel malo concetto, che si possi" (Bernardo Navagero, Roma, 29 ag. 1556, in Arch. di Stato di Venezia, Archivio Proprio, Roma, 8, f. 286r), quando venne da lui convocato, il 10 settembre, vi si recò col timore di essere incarcerato in Castel Sant'Angelo. Il papa lo informò, invece, dell'intenzione di inviare 200 fanti nel ducato di Castro con il pretesto di proteggere lo Stato della Chiesa. Il cardinale dichiarò che si dovesse chiedere l'autorizzazione ad Ottavio e si affrettò a supplicare il fratello di accettare la richiesta pontificia. Nonostante la difficilissima posizione in cui venne a trovarsi - ulteriormente aggravata dalla notizia che Ottavio si preparava ad invadere il Ducato di Ferrara - egli riusci a convincere il Carafa della sua assoluta innocenza. La documentata estraneità del F. agli accordi con Filippo Il illumina, d'altro canto, il suo diverso comportamento al momento delle trattative con Enrico II, quando il profondo affetto che lo legava ad Orazio - i cui diritti sul ducato di Castro sarebbero stati salvaguardati solo mantenendo Ottavio nel Ducato di Panna - lo indusse ad aderire alla politica dei fratelli. La morte di Orazio sembra, quindi, aver incrinato.la solidarietà dei Farnese, lasciando il F. in una posizione isolata e pericolosa, dalla quale poté uscire solo con la vittoria degli eserciti imperiali a Saint-Quentin e l'avanzata del duca d'Alba su Roma. Il 28 luglio 1557 raccomandava, infatti, ad Ottavio di non commettere passi falsi, "perché vedendo S. S.tà assai ben inclinata verso tutti noi, et vedendola in necessità di risolversi presto, perché gli stringano i panni addosso, vorrei, se fusse possibile, che V. E. per infiniti rispetti et di utile et di honore non l'offendesse" (Archivio di Stato di Napoli, Archivio Farnesiano, b. 283, fasc. 3).

Al di là delle traumatiche vicende legate al Ducato di Parma e Piacenza, il pontificato di Paolo IV segnò negli impegni romani del F. un profondo mutamento in linea con id rinnovato peso dato alla missione spirituale della Chiesa: in quanto penitenziere maggiore egli era chiamato ad officiare le cappelle papali in occasione dei morti, delle ceneri e inparasceve e ad assistere il pontefice nelle pubbliche udienze concesse ai poveri.All'inizio del giugno 1559 il F. si recò a Panna, dove incontrò i due fratelli, Vittoria Della Rovere e Margherita d'Austria. Ammalatosi e non ancora ristabilito quando giunse la notizia della morte di Paolo IV, si mise in viaggio ancora infermo e, dopo una sosta a Nocera, giunse a Roma Solo il 17 e l'indomani entrò in conclave malato. Il 13 ottobre, anniversario dell'elezione di Paolo III, ebbe 22 voti e fu proclamato papa per tutta Roma. La sua candidatura, tuttavia, non raccolse il numero di voti necessari ed insieme col cardinale Alessandro si adoperò per l'elezione di Pio IV.

Non sembra che Pio IV, con il quale vi sarebbero stati nell'estate del 1560 degli attriti, si sia servito molto di lui: a giugno del 1561 fu deputato alle riparazioni degli argini del Tevere e nel dicembre gli fu affidata, insieme con Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora, la riforma della Dataria. Gli scarsi impegni gli consentirono di assentarsi spesso da Roma: a settembre del 1560 era a Panna, nel marzo del 1562 era a Piacenza; trascorse, inoltre, lunghi periodi estivi a Capranica ed a Montefiascone, di cui era governatore. Nel settembre del 1563, morto il vescovo di Bologna, chiese ad Alessandro di adoperarsi perché potesse permutare la sua Chiesa di Ravenna con quella di Bologna, dove, nonostante le maggiori responsabilità pastorali, pensava di potere più comodamente ubbidire all'obbligo della residenza. La trattativa con il pontefice si protrasse fino al 28 apr. 1564, quando venne finalmente nominato vescovo, mediante il versamento alla Camera apostolica di 6.000 scudi d'oro a titolo di permuta. Si rivolse al suo antico precettore, pregandolo di aiutarlo nella cura pastorale assumendo le funzioni di vescovo "suffraganeo", ma il Beccadelli rifiutò a causa dell'età ormai avanzata. Evidentemente deciso, nel mutato clima postridentino, ad andare a risiedere nella propria diocesi e a dedicarvisi, il F. chiese, sempre al Beccadelli, di inviargli un dialogo sulla residenza scritto da Bernardino Cirillo per Galeazzo Florimonte.

Il 30 marzo del 1565 lasciava Roma, affidando la Penitenzieria a Giovanni Aldobrandini. Ricevuto molto calorosamente in Toscana da Cosimo I, fece l'ingresso solenne a Bologna la domenica delle Palme, accolto dal duca Ottavio e dai suoi feudatari. Fin dal momento in cui gli era stata conferita la diocesi, e prima ancora di andarvi a risiedere, il F. aveva dato avvio ad una serie di riforme in ottemperanza ai decreti tridentini, affidandone l'esecuzione al vicario Giovanni Battista Benedetti di Offida e. soprattutto, al gesuita Francesco Palmio. "Amicissimo della Compagnia più di fatti che di parole" - come lo definiva il Polanco (Scaduto, L'epoca di G. Lainez, 1964, p. 466) -, il F. aveva intrattenuto rapporti intensi con i gesuiti nella sua funzione di penitenziere maggiore. Aveva, inoltre, contribuito con aiuti di varia entità all'erezione del Collegio Germanico e della chiesa del Gesù a Roma, alla fondazione di un collegio a Parma e ad Argenta, nella sua diocesi di Ravenna. Nel 1554 si era anche rivolto a N. Bobadilla perché effettuasse la "visita" dell'abbazia di S. Salvatore di Farfa per riportare la comunità all'osservanza della regola benedettina. La stima per il nuovo Ordine lo indusse, quindi, ad incaricare Francesco Palmio dell'esame dei candidati agli ordini sacri, sulla base di istruzioni da lui stesso redatte tra l'agosto e il settembre del 1564, e della riforma dei monasteri femminili, cui collaborò anche il vicario. Il rigore con cui i due procedettero nel rinnovamento della vita religiosa suscitò la protesta dei Quaranta del reggimento di Bologna, dei superiori degli Ordini religiosi sotto la cui giurisdizione erano alcuni dei monasteri femminili, nonché di molti laici che ritenevano di essere il maggiore bersaglio dell'attività di riforma. Non è facile stabilire quanta parte ebbe il vescovo nell'orientare i metodi di Francesco Palmio, poiché questi, durante tutta la seconda metà del 1564, fu costantemente in contatto con il Lainez, generale della Compagnia, dal quale riceveva istruzioni. Troppo breve fu la sosta del F. a Bologna per potere individuare una sua precisa linea pastorale, al di là di un tangibile impegno nell'applicazione dei decreti tridentini, che si concretò anche nella visita pastorale della diocesi, eseguita tra il 19 luglio e il 5 sett. 1565 da Giovanni Andrea Caligari, arciprete della Chiesa di Piacenza.

Partito per Parma a fine giugno, vi si ammalò gravemente e, dopo sessantré giorni di infermità, dovuta, secondo quanto riferirà il card. Prospero Santa Croce, agli eccessi alimentari, morì il 28 ott. 1565. Il 25 ottobre, ottenuta la facultas testandi da Pio IV, aveva fatto testamento, rogato dal notaio Pietro Giovanni Monticelli, istituendo suoi eredi la madre ed i f telli. La salma fu trasferita a Roma e se a nella notte tra il 15 e il 16 novembre, secondo quanto riferiva Vincenzo Covo a Cosimo I (Roma, 16 nov. 1565, in Archivio di Stato di Firenze, Med. d. princip. 518, f. 374r), nella. basilica di S. Giovanni in Laterano, dove il cardinale Alessandro gli farà erigere nel 1581 da Giacomo Della Porta un monumento funebre. In una data imprecisata la salma fu trasferita nella tomba di famiglia nella chiesa di Ss. Giacomo e Cristoforo sull'isola Bisentina.

Alla sua morte lasciava, stando alle valutazioni del fiorentino Francesco Babbi, debiti per 20.000 scudi e non più di 10.000 scudi per saldarli, "perché questo signore non haveva più di 25.000 scudi d'entrate, era liberalissimo et havea voglia di tutto quello che vedeva" (lettera al card. Ferdinando de' Medici, Roma, 3 nov. 1565, in Archivio di Stato di Firenze, Med. d. princip. 5096, f. 289r). Se il cardinale Ascanio Sforza di Santa Fiora si adoperava a Roma per evitare che la Camera incamerasse i suoi beni, a Bologna ci si affrettava a nascondere i libri dei conti, onde evitare che l'inviato della Camera potesse mettere le mani sugli spolia della diocesi di Bologna. Non è, peraltro, possibile valutare con precisione le entrate del F., né allestire un elenco compiuto dei benefici ecclesiastici di cui fu titolare, al di fuori delle diocesi. Risulta che oltre all'abbazia di Rosazzo e alla commenda di S. Giovanni de' Furlani, che alla sua morte passarono al cardinale Alessandro Farnese, fu titolare in determinati periodi della commenda di Bologna e di quella di Barletta, sempre dell'Ordine dei cavalieri gerosolimitani. Dal 1545 fino alla morte ebbe l'arcipresbiterato di S. Giovanni in Laterano, "il quale ha bellissima facultà e modo di far bene a molti sua servitori" (F. Babbi al card. F. de' Medici, Roma, 2 nov. 1565, ibid., f. 286v), che passò al cardinale M. S. Altemps. Il 26 febbr. 1554, alla morte del cardinale Pompeo Colonna, gli era subentrato nel patriarcato di Gerusalemme, la cui rendita si aggirava intorno ai 1.000 scudi annui. Dal 1543 fino alla morte fu titolare dell'abbazia di S. Salvatore di Farfa e dall'anno successivo fino alla sua scomparsa di quella delle Tre Fontane. Ebbe anche l'abbazia di S. Martino al Cimino in commenda, cui rinunciò affinché Pio IV potesse unirla con bolla del 20 giugno 1564 al capitolo di S. Pietro in Vaticano. Nel 1560 si rivolgeva a Girolamo Seripando, arcivescovo di Salerno, chiedendogli di rinviare di un anno il divieto di usare la chiesa dell'abbazia di S. Pietro delle Cimelle, di cui era titolare, per la fiera annuale, onde consentirgli di costruire un edificio all'uopo ed evitargli danni economici, poiché "la metta dell'intrata di questa Abbadia depende dalla Fiera" (Montefiascone, 28 ag. 1560, Napoli, Bibl. naz., XIII.AA.54, f. 10r). Oltre alle rendite dei benefici ecclesiastici, egli dovette percepire ragguardevoli entrate dalla Penitenzieria apostolica. Nel 1547 succedette a Roberto Pucci come protettore dei camaldolesi, e nell'eremo di Camaldoli sostò nel settembre del 1560.

Pur con rendite infinitamente inferiori a quelle del cardinale Alessandro (che ammontavano nel 1569 a 95.538 scudi e nel 1589 a 120.000 scudi) e tenendo conto della breve durata della sua vita, il F. fu committente di una serie di opere edilizie e pittoriche e collezionista di libri e manoscritti, nonché di monete e oggetti archeologici. Il Vasari, al quale egli aveva commissionato nel 1545-46 quattro sportelli ad olio per l'organo dell'episcopio di Napoli, lo giudicava "uomo veramente di sommo giudizio in tutte le cose e di somma bontà" (Vita di Taddeo Zucchero pittore da Sant'Agnolo in Vado, in Le vite, VII, Firenze 1881, p. 98). Se non è possibile, allo stato attuale delle ricerche, elencare con precisione le opere da lui commissionate o eseguite sotto la sua direzione, è opportuno sottolineare che il suo contributo all'avanzamento dei lavori a palazzo Farnese, che portò al completamento del corpo della facciata e dei due corpi laterali e al loro arredo, dovette essere rilevante, se in un elenco dei palazzi romani redatto ai tempi di Clemente VIII il palazzo veniva indicato come "la casa Farnese appellata già di Sant'Angelo" (P. Tomei, Contributi d'archivio, in Palladio, III [1939], p. 224). Fu con ogni verosimiglianza dopo il 1557, quando si verificò una distensione nei rapporti con Paolo IV, che il F. dovette dare avvio alla ripresa dei lavori interrotti dalla morte di Paolo III e proseguirli durante il pontificato di Pio IV, fin alla vigilia della morte, affidando la direzione del cantiere al Vignola, definito in un documento del 13 apr. 1557 "architetto, del Ill.mo et R.mo Santo Angelo" e dimorante nel palazzo almeno dal 1564.

Sulla scelta del Vignola dovette probabilmente influire Alessandro Manzoli, non soltanto in virtù delle sue vaste conoscenze architettoniche, elogiate da S. Serlio e da Claudio Tolomei, ma anche per i rapporti che i due avevano intrattenuto negli anni '40 a Roma come membri dell'Accademia di architettura. Già nel 1546, del resto, Manzoli lo aveva caldamente, seppure inutilmente, raccomandato a Pierluigi Farnese. A questi anni risalgono gli affreschi nel "salotto dipinto" di palazzo Farnese, eseguiti da Francesco De Rossi detto il Salviati e portati a termine dopo il 1563 da Taddeo Zuccari. In questo ciclo pittorico vennero esaltate, nella figura di Ranuccio Farnese, generale dell'esercito pontificio sotto Eugenio IV, le glorie militari della famiglia e in quella di Paolo III le gesta del casato in difesa della pace e della religione. Accanto alla ripresa di temi già presenti nella sala dei Cento Giorni del palazzo della Cancelleria, affrescata da Giorgio Vasari per Alessandro, appare per la prima volta quello dell'aiuto militare prestato dal pontefice a Carlo V contro la Lega di Smalcalda, teso a cancellare il ricordo del "tradimento" dei Farnese, ritiratisi dal campo di battaglia alla vigilia della vittoria di Mühlberg, che costò la vita a Pierluigi. Al 1565 risale il camino della camera del F. su progetto del Vignola. Mentre proseguivano i lavori a palazzo Farnese il F., tra il 1562 e il 1564, acquistava dal cardinale Giovanni Ricci da Montepulciano la vigna con casino costruito su progetto di Nanni di Baccio Bigio e vari altri appezzamenti vicino Frascati. La villa Angelina, così chiamata dal titolo cardinalizio, in cui il F. aveva iniziato lavori di ampliamento, verrà venduta dai suoi eredi il 14 apr. 1567 al cardinale M. S. Altemps. Nel 1563 Annibal Caro, che era stato con prepotenza sottratto da Alessandro alla familia del F., cui lo avevano promesso Pierluigi e Girolaina Orsini, sciolti bruscamente i rapporti con il "gran cardinale", poté finalmente avvicinarsi al F., acquistando Caravilla, una casa non lontana dall'Angelina. Nel 1565 il F. aveva anche acquistato nella zona degli Orti Farnesiani, dove già possedeva altri appezzamenti, la vigna dei Maddeleni ed a lui si fa risalire la sistemazione degli Orti e la committenza del portale eseguito dal Vignola nel 1565.

Nominato l'8 apr. 1561 da Pio IV protettore della Arciconfraternita del Ss. Crocifisso in S. Marcello, il cardinale affidava in quello stesso anno i lavori del nuovo oratorio a Giacomo Della Porta, per il quale si trattava del primo importante incarico a Roma. Approvato il progetto il 10 giugno 1561, il 3 maggio 1562 il F. pose la prima pietra, come venne ricordato da una medaglia, ora al British Museum, recante da una parte il suo ritratto e dall'altra la facciata dell'oratorio. Sebbene portato a termine dal cardinale Alessandro (1567-68), l'oratorio era già agibile nell'aprile del 1563 e costituì, con la piazza antistante, un importante modello'per la chiesa del Gesù. A Hendrick van der Broeck, più noto come Arrigo Fiammingo, il F. commissionò nel 1561 per la chiesa abbaziale di Farfa, di cui era commendatario, un magnifico Giudizio.

Del F. sono pervenuti, oltre al più noto ritratto eseguito nel 1542 da Tiziano per Girolama Orsini, che venne poi ripreso da Taddeo Zuccari, nella scena in cui Paolo III designa Pierluigi comandante delle forze papali, nella sala dei Fasti Famesiani di Caprarola, un disegno conservato all'Accademia delle belle arti di Venezia, attribuito al Salviati e risalente agli anni 1547-1548, in cui sul recto è raffigurato Annibal Caro e sul verso il F., dall'aspetto ancora fanciullesco, con un libro nella destra e il cappello cardinalizio nella sinistra, quasi a testimoniare la sua vocazione allo studio. Inoltre, una miniatura di anonimo artista fiammingo, conservata alla Galleria nazionale di Parma, riproduce un ritratto del F., orinai trentenne, opera anonima, attualmente a Caserta, nel palazzo reale.

Schiacciato dalla prepotenza del fratello Alessandro, emarginato dalla vita di Curia mentre visse Paolo III, coinvolto direttamente o indirettamente nelle vicende della successione di Ottavio nel Ducato di Parma e Piacenza durante i pontificati dei successori, costretto a ripetute fughe da Roma o a vivervi sotto la minaccia dell'ira papale, il F. non sembra aver svolto un ruolo politico di rilievo. Attraverso la documentazione reperita s'intravvede, peraltro, il profilo di un uomo schivo, di vasta e raffinatissima cultura, che aveva trovato in una vita appartata e dedita agli studi e al collezionismo una compensazione a quegli spazi politici che gli venivano preclusi dai timori e, forse anche, dai complessi d'inferiorità intellettuale del "gran cardinale". Una valutazione della sua personalità, messa in ombra dal ruolo di primo piano svolto da Alessandro nella politica farnesiana e dal suo mecenatismo, non potrà prescindere, innanzitutto, da un riesame del nepotismo di Paolo III, che emerge con tinte e caratteri nuovi dal rapporto con questo nipote, sul quale, attraverso la vigile attenzione con cui ne seguì l'educazione affidata a precettori coltissimi e vicini all'evangelismo, sembra aver proiettato le sue intime aspirazioni religiose e culturali. In altri termini, il diverso legame che unì Paolo III ai due nipoti cardinali sembrerebbe riflettere e compendiare le ambiguità e le contraddizioni del suo pontificato, scisso tra i sinceri propositi di riforma, da un lato, e l'accondiscendenza verso gli insaziabili appetiti dei parenti e la propria volontà di consolidare l'ascesa del casato, dall'altro. L'allontanamento del F. dalla Curia e l'ampio spazio che gli studi ebbero nella sua breve vita suggeriscono, inoltre, di cercare all'interno della sua familia, piuttosto che in seno al Collegio cardinalizio o alla segretaria papale, elementi che consentano di ricostruirne la personalità e di meglio delinearne il profilo sullo sfondo di una famiglia lacerata da profonde rivalità e tensioni.

Lo stesso sincero, accorato rimpianto che lasciò tra i suoi familiari getta qualche luce sulla sua natura. Le parole del conte Ludovico Tedeschi, che lo aveva servito per oltre vent'anni, da ultimo come maggiordomo, e che si apprestava a trasferirsi con le medesime flinzioni nella corte del cardinale Alessandro, "tanto differente da quell'altra ... quanto erano diverse le nature de' patroni" (Oxford, Bodleian Library, Ital. Mss., c. 24, f. 78v), illuminano l'insolita intensità dei rapporti che lo legavano ai membri della sua corte: "Mi ha sbigottito tanto questo accidente, ch'io non ritrovo riposo, et so di non dover esser mai più contento" (lettera a L. Beccadelli, Bologna, 13 nov. 1565, Parma, Bibl. Palatina, Mss. Pal., 1031/7, f. 19r). Gli faceva eco Annibal Caro, che osservava: "fino ai sassi lo piangono" (Lettere familiari, III, p. 253). Ma al di là del sincero affetto con cui verrà a lungo ricordato da chi lo aveva servito, è la composizione stessa della sua corte, che nel 1564 annoverava circa 45 familiari, a fornire indicazioni indirette che possono illummare la sua cultura. Oltre ai sopraindicati precettori, merita ricordare il dotto ed erudito bibliotecario Fulvio Orsini, che entrò nella sua corte nel 1553 e curò le sue collezioni di libri, di monete e di reperti archeologici -che passarono poi nelle collezioni di Alessandro - fino alla morte, quando con lo stesso incarico servirà il fratello; l'elegante e delicato poeta Francesco Franchini, che gli dedicò i Poemata. stampati a Roma nel 1554 e di nuovo a Basilea da Pietro Perna nel 1558, condannati dall'Indice di Paolo IV; il matematico Federico Commandino, che gli dedicò varie sue opere fra cui il Liber de horologiorun descriptione (Romae 1562) e che il Lainez definiva "persona rara en su profession y amigo nuestro" (lettera a Didaco Mironi, Roma, 13 nov. 1564, in Mon. hist. Soc. Iesu, Lainii Monumenta, V, pp. 293 s.); il già citato conte piacentino Ludovico Tedeschi, suo maggiordomo, grande collezionista di disegni che entrarono a fare parte delle collezioni di Alessandro; il senese Fabio Benvoglienti, autore, dopo la morte del cardinale, del Discorso per qual cagione per la religione non sia fatta guerra fra' gentili, et perche si faccia tra Christiani, che verrà proibito dalla congregazione dell'Indice; due penitenti di Filippo Neri, Giulio Petrucci e Francesco Maria Tarugi, il quale entrò nella casa del cardinale all'indomani della morte di Marcello II Cervini, di cui era parente, e vi rimase fino al 1565 e che sarebbe diventato una delle figure preminenti dell'Oratorio. Queste ed altre presenze sembrano, da una canto, indicare la vasta gamma degli interessi culturali del F. orientati anche verso le scienze matematiche, cui potrebbe averlo avviato il Manzoli; dall'altro, lasciano intuire la complessità della temperie religiosa in cui crebbe e maturò. Attraverso l'approfondimento, dell'una e dell'altra potranno emergere le ragioni dell'astio del fratello nei suoi confronti e della sua conseguente emarginazione.

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