Raphel mai amecche zabi almi

Enciclopedia Dantesca (1970)

Raphèl mai amècche zabì almi

Ettore Caccia

. Parole pronunciate da Nembrot (v.) in If XXXI 67, e sulle quali molto si è ingegnata la critica dantesca.

Il Lemay, in un interessante saggio, ha ricordato che nella tradizione araba il nome di Nembrot designa un ribelle stupido e violento; ma, prima di lui, molti avevano sostenuto trattarsi di un'espressione araba, cui ognuno di essi offriva un particolare significato, secondo la vocalizzazione e la trascrizione proposta: " Esalta lo splendor mio nell'abisso, come sfolgorò per lo mondo " (Lanci); " Un pozzo ha rapito il mio splendore, ecco adesso il mio mondo " (Flügel, citato dal Filalete); " Quam stulte incedit fiumina Orci puer mundi mei " (D'Ammon, citato anch'esso dal Filalete); " Summa mea in fundum cecidit, vis gloria mundi " (Schier); " Ecco l'eccelso del mio splendore e della mia gloria; la mia superbia e la mia scienza è divenuta oscurità e abisso " (Lasinio); " Sono portante in alto il mio stendardo prolungato, questo è il mio regno " (Barbera); " Quest'abisso e io stesso siamo indotti allo stato di ebeti a causa della scienza " (Lemay). Sarebbe adunque un grido di orgoglio o un grido di avvilimento.

Per altri si tratta di un'espressione che ha sempre origine in un linguaggio semitico, siriaco, caldaico, ecc., e in particolare ebraico. Il Landino fu forse il primo a proporre un accostamento alla lingua caldea, pur riconoscendo che l'espressione deve rimanere oscura per volontà del poeta stesso: non per cogliere la " sentenza intera " dunque, ma per vedere il significato di qualche singola parola.

Su questa via, s'interpretò in modi diversi l'intera espressione: " Per Dio, e perché son io venuto in questi pozzi? Torna indietro, nasconditi " (Venturi); " Contro chi vieni tu all'acque del gigante, al pozzo del Zabio? " (Maggi); " Nel pozzo oscuro a che te ne vai? Ritorna al mondo " (Barzilai); " Genti, e che? Abbandonate il gran lavoro? "; " Giganti, che gente che rasenta l'abitacolo? segreto della bellezza ! " (Guerri); " Gigante Dio di cento miei cubiti, esci a guerra con il mio manipolo " (Benini). Per il Guerri si tratterebbe di linguaggio ebraico deformato secondo la dottrina linguistica medievale; per il Nykl, sarebbe un testo ispirato almeno all'inizio dai testi talmudici; il Barzilai cita Brunetto Latini (e ci pare citazione felice), secondo il quale al tempo della torre di Babele la lingua ebraica diede origine alla lingua caldea: e qui saremmo nella fase di quel confuso trapasso linguistico.

Non mancano poi le interpretazioni più soggettive: il Maggi propose l'ipotesi di un linguaggio tutto personale: " Contro chi vieni tu all'acque del gigante del pozzo scabro? ". Curiosa anche la narrazione del Veludo. Egli riporta la chiosa (attribuita purtroppo a un codice in pessimo stato) di un antico commentatore il quale ebbe, a quanto affermava egli stesso, la spiegazione del verso da Pietro Giardini (v.). Per l'antico chiosatore, D. avrebbe trasposto le lettere, e il verso dovrebbe inoltre leggersi da destra a sinistra, e verrebbe in tal caso a significare un'espressione ingiuriosa d'ira contro Virgilio: " Mali ciba, ché ami malfare ". Su questa traccia, il Minich propose una variante, che permette un tipo di lettura bustrofedica: " Male cibi chi ama mal fare ". " Raffaele confuse uomini e popoli " oppure " Raffaele frustrò l'empio progetto " (Perrone-Capano, studio inedito in possesso dell'estensore di questa voce).

Nel complesso, tutte queste interpretazioni attribuirono all'espressione di Nembrot quel significato di orgoglio, di vergogna, d'ira, che potevano pur essere nel desiderio del personaggio. Quel linguaggio voleva di necessità esprimere qualche cosa. Certo, formulato com'è, non esprime nulla. Anzitutto perché lo dice Dante, poi perché Nembrot è anima confusa, e Virgilio stesso gli deve consigliare il modo per ritrovare il corno che ha appeso al collo, e quindi non ragiona (è questa una punizione di contrapasso alla sua razionalistica rivolta contro Dio, che viene appesantita dall'interpretazione del Lamay, ma che a ogni modo vi fu), ed è ridotto in uno stato quasi bestiale (ben lo vide il Cesari, attraverso una notazione di stile). Infine, non esprime nulla proprio perché da lui derivò la confusione dei linguaggi al tempo di Babele, secondo la tradizione non biblica ma di s. Agostino. In conclusione, ogni tentativo di trovare una traduzione precisa a questo linguaggio come se si trattasse di un linguaggio con norme consuete, grammaticali e sintattiche, non è giustificato. Al contrario, non si dovrà neppur pensare che si tratti di puri suoni usciti dalle labbra di un ebete (Puccianti): si tratta di un linguaggio, anche se per decreto divino esso deve rimanere incomprensibile. Si può dunque soltanto supporre che cosa esso voglia esprimere: questo è lecito e opportuno fare.

Non diremmo si tratti qui di un grido che ripete espressioni sfuggite durante il drammatico episodio della costruzione babelica: la parola-tema come ritorno ossessivo della memoria non è un tipico modo dantesco. Forse le parole rivelano un moto di orgoglio oppure un moto di avvilimento, come si è detto; per noi, meglio ancora quanto altri ha detto, che esse rivelano un moto d'ira. Questa tesi ci sembra più convincente non solo per la conferma che indirettamente riceve dalle parole di Virgilio (quand'ira o altra passïon ti tocca), non solo per analoghe situazioni all'incontro con custodi infernali, non solo perché il corno secondo una precisa tradizione allegorica è simbolo di superbia violenta, ma anche perché, calando verso il fondo infernale, la frode si fa anche violenza ed è strettamente legata all'ira. L'impossibilità di comunicazione è una delle prime manifestazioni di quella violenza e di quella frode che hanno reso impossibile la società umana, rotto il rapporto tra gli uomini. I traditori violarono non soltanto un rapporto personale, ma anche un rapporto sociale: per questo i due supremi traditori tradirono la Chiesa e l'Impero. I giganti sono già il mitico preannuncio di tutto questo, e l'ira incapace di esprimersi di Nembrot ne è la potente metafora. Da questo punto di vista in Nembrot, gigante in cui per divina punizione l'argomento della mente non si congiunge alla volontà di male e alla forza fisica (al mal volere e a la possa), ha una sua grandezza tragica e quasi grottesca (che è quando il tragico si unisce al comico, l'unico vero riso di D., come ha ben provato il Chiari). Tra i giganti per questo ancora Nembrot non è, come si è detto, il simbolo di essi soltanto, è anche il simbolo di una più vasta umanità di dannati, è un exemplum a suo modo solitario, il ‛ Capaneo ' tra i giganti danteschi.

Si può anche aggiungere, come voleva il Guerri, che se le parole non hanno possibilità di trascrizione in linguaggio normale, esse tuttavia di necessità derivano da un linguaggio che deve intendersi come puro materiale linguistico e che, noto a D., può esser noto anche a noi (per quanto si possa obiettare che la deformazione linguistica cui D. ha sottoposto il proprio materiale sia di tanta violenza da renderlo irriconoscibile, sino almeno a quando non si abbiano con certezza le leggi, razionali o irrazionali, di quella deformazione). Per la scelta del materiale, sembra opportuno ritenere che D., con una delle forme anche esterne del suo ‛ plurilinguismo ' (secondo la definizione ben nota) abbia voluto far ricorso a una lingua semitica, per la coerenza stessa del personaggio: se Pluto è opportuno si esprima in greco, escluso che Nembrot sia il gigante arabo che si è proposto da alcuni, è opportuno che egli si esprima nel linguaggio semitico, così come, in ben diversa atmosfera spirituale, Cacciaguida dovrà esprimersi in latino. Se qui D. vuol condannare non solo la falsa scienza che rende sciocchi ma anche la falsa scienza congiunta alla violenza e alla volontà del male, non aveva alcun particolare motivo di ricorrere al linguaggio arabo: non ci pare provato a sufficienza che qui egli voglia polemizzare contro la scienza araba. In particolare, tra le varie lingue semitiche proposte, sembra ragionevole la lingua ebraica: quella lingua che D. riteneva fosse la lingua di Adamo, che egli giudicava trasmessa incorrotta dopo la confusione babelica ai discendenti di Sem e ai figli di Eber, quella lingua che avrebbe dovuto essere un giorno il linguaggio sacro di Cristo. Si può ben pensare che Nembrot usi questo linguaggio: soltanto, poiché la confusione dei linguaggi derivò proprio da lui, egli ne usa in modo alterato e confuso: linguaggio forse alterato, per usare le parole stesse di D., quantum ad rerum vocabula, quantum ad vocabulorum constructionem, quantum ad constructionis prolationem (VE I VI 4). Di quel linguaggio è facile supporre che D. avesse qualche conoscenza, per dilettantesca ed elementare che fosse, sia per facili contatti con Ebrei, sia per la lettura di testi come il Liber de nominibus hebraicis, le glosse bibliche di Papia, i commenti biblici di Aben-Esra, le opere di Hillel di Samuele di Verona. Oppure, si aggiunga che un poeta al quale il testo biblico offriva suggestioni e referenze d'importanza assoluta e un poeta appassionato alla cultura qual era D. non poteva non avere nella mente il riecheggiamento di qualche cadenza ebraica. Da tale riecheggiamento, con una deformazione di cui tuttavia non sappiamo la legge, è assai probabile sia nato il grido di Nembrot.

Sull'incomprensibilità del verso, voluta da D. stesso, concorda il maggior numero dei commentatori: non ne parlano Iacopo e Pietro, ma subito dopo sostengono chiaramente la tesi Graziolo, il Lana, l'Ottimo, Benvenuto, il Buti, e così poi gli altri: Anonimo, Serravalle, Talice da Ricaldone, Landino, Vellutello, Daniello, Volpi, Venturi, Cesari, Tommaseo, Andreoli, Rossetti, Momigliano, Porena, Montanari, Sapegno, Chimenz, Fallani, Chiappelli, Pagliaro, Chiari.

Poco o nulla giova alla questione il confronto delle varianti desunte dai codici di maggior rilievo: l'oscillazione delle forme non c'illumina (Rafel, Raphael; amec, amer, ameth, amech; sabi; tra zabi e almi alcuni codici del gruppo dei Cento hanno il segno simile a una t che potrebb'essere svolto paleograficamente come et, ut, at, ot, o che potrebb'essere un semplice segno di allungamento fonetico: onde alcuno ha proposto anche la forma salmi: nel qual caso sarebbe risolto anche il problema del verso che, per essere endecasillabo, deve venir tronco in almì. Si tratterebbe però dell'unica rima all'occhio della Commedia: per questo il Petrocchi preferisce amecche in luogo del tradizionale amech). Ma per la questione del testo cfr. Petrocchi, ad locum.

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