Razionalismo

Enciclopedia dei ragazzi (2006)

razionalismo

Paolo Casini

Il primato della ragione

Il significato del termine razionalismo deriva da ragione. Si definisce razionalismo una tendenza a razionalizzare o ‘ridurre alla ragione’ quanto più è possibile, dando un ordine logico sia ai fenomeni della natura sia a quelli della mente, e costruendo sistemi del sapere totalizzanti, anche se spesso astratti e ambiziosi. La ragione è quindi assunta come fondamento del conoscere o come criterio di giudizio nei vari ambiti pratici e teorici

Definizioni della ragione

I filosofi di varie epoche e tendenze hanno sempre discusso su che cosa si intenda per ragione, termine che indica in generale la facoltà umana di pensare, ma il cui significato è problematico e varia a seconda del contesto nel quale viene usato. Ci si può chiedere, per esempio, se sia una facoltà esclusiva della nostra mente, oppure se negli animali vi sia almeno un germe di ragione, che la specie umana può aver sviluppato durante il processo evolutivo. Nell’antichità lo scrittore greco Plutarco si chiese nei suoi Scritti morali «se i bruti usino la ragione», ponendo un problema assai discusso fino a oggi. Aristotele teorizzò la tripartizione dell’anima delle specie viventi in vegetativa, sensitiva, razionale, e definì quest’ultima una forma pura, esclusiva dell’uomo, animale razionale; gli antichi stoici erano convinti che la recta ratio («giusta ragione») fosse una norma universale inscritta da Dio sia nella natura sia nell’animo umano; i filosofi medievali consideravano la ragione soprattutto come una facoltà dell’anima immateriale e il ragionamento come un preambolo alla fede.

L’uso del termine rationaliste comparve nella lingua francese attorno al 1539, e la distinzione corrente fra razionalismo ed empirismo risale ai secoli 17° e 18°. Cartesio, Locke e i filosofi illuministi (Illuminismo) analizzarono la ragione (raison) o l’intelletto (intellectus, ingenium, understanding) come una facoltà critica, autosufficiente, sottratta al principio di autorità. Kant definì la pura ragione (reine Vernunft) come una «funzione» distinta dalla sensibilità e dall’intelletto (Verstand), capace di conoscere sé stessa e il mondo grazie alla sintesi a priori, arbitra suprema della conoscenza e «legislatrice della natura».

Una convenzione linguistica

Dunque nel linguaggio filosofico razionalismo e la sua antitesi irrazionalismo sono concetti astratti e generali al pari di ogni altro ismo, cioè convenzioni linguistiche che possono esprimere significati controversi. Si può dire, in prima approssimazione, che il razionalismo assegna il primato al raziocinio, alla conoscenza chiara e distinta, a rigorose regole logiche, rispetto ad altre facoltà mentali come la percezione, l’intuizione, la sensibilità, la fantasia, le emozioni, la volontà.

In un senso storicamente più circoscritto il termine designa le metafisiche sistematiche del tardo Medioevo, in cui la fede richiedeva un chiarimento all’intelletto; o ai «mondi di carta» peripatetici sui quali ironizzava Galileo Galilei.

Esso designa soprattutto i sistemi filosofici costruiti – per così dire – a tavolino tra Seicento e Settecento, nell’età della prima rivoluzione scientifica da filosofi come Hobbes, Cartesio, Baruch Spinoza, Nicholas de Malebranche, Gottfried Leibniz, Christian Wolff, i quali, senza negare la realtà del mondo esterno percepito attraverso i sensi e misurato con gli strumenti quantitativi delle matematiche, tentarono di spiegare l’universo fisico e mentale in base a certe chiavi di interpretazione globali, o ad assiomi fissati a priori, che davano un’apparente coerenza ai loro edifici speculativi.

A parte i sistemi filosofici, sempre nel 17° secolo si definì razionalista, in senso teologico, una scuola di pensiero protestante che sosteneva l’autonomia della «ragione naturale» contro il principio di autorità nell’interpretazione dei dogmi e delle Sacre Scritture.

Nel primo Novecento prese il nome di razionalismo anche la cultura architettonica sviluppata da Walter Gropius e da Le Corbusier.

Ragni e formiche

Con un’efficace metafora il filosofo inglese Francesco Bacone contrappose alla sterile tradizione scolastico-aristotelica la feconda ricerca dei naturalisti antichi e moderni, elogiando «gli empirici, che come le formiche raccolgono e usano il proprio raccolto, mentre i razionalisti sono come quei ragni che tessono la tela traendola dal proprio ventre». Bacone respinse i sistemi e auspicò una filosofia sperimentale fondata sui dati sensibili e sul «commercio della mente con le cose». A suo avviso le tendenze contemplative della maggior parte dei filosofi antichi, e la conseguente separazione tra la «mano» e la «mente», avevano finito per chiudere in un vicolo cieco la loro fiorente ricerca naturalistica. Agli esordi della prima rivoluzione scientifica si avvertiva la necessità di inventare un metodo capace di sostituire alla mentalità contemplativa un graduale procedimento di induzione e generalizzazione risalendo, con il ragionamento, dai casi particolari alle leggi e alle cause dei fenomeni naturali.

Si trattava insomma di porre nuove domande alla natura, praticando contemporaneamente le virtù delle ‘formiche’ e quelle dei ‘ragni’, cioè raccogliendo pazientemente i dati dell’esperienza e tentando di interpretarli alla luce di ipotesi razionali, da sottoporre a loro volta alla prova dei fenomeni.

Bacone e Galilei insistettero sul fatto che questo tipo di ragionamento empirico-induttivo – benché fosse stato previsto dalla logica di Aristotele e in parte praticato da questi soprattutto nelle sue ricerche di zoologia e anatomia comparata – era stato reso inutilizzabile per secoli dalle regole della logica sillogistica. Queste regole, a loro modo rigorose, erano nate dall’illusione di fornire un metodo completo di ragionamento tale da evitare ogni errore, falsa conclusione o sofisma; un metodo razionale sì, ma dominato da assiomi o giudizi universali fissati a priori, in base ai quali i seguaci di Aristotele pretendevano di ‘dedurre’ a rigor di logica ogni affermazione corretta, e forzare entro un quadro precostituito l’infinita molteplicità dei dati empirici raccolti attraverso la vista, il tatto e gli altri sensi.

Volpi e istrici

Gli storici hanno simboleggiato con un verso dell’antico poeta greco Archiloco un’altra curiosa distinzione tra il filosofo empirico e quello razionalista: «La volpe sa molte cose, l’istrice ne sa una sola, ma grande». Questa metafora può servire a classificare tra le volpi curiose gli empiristi a tutta prova come Bacone, Locke, George Berkeley, Hume; tra gli istrici che «sanno una cosa sola, ma grande» i costruttori impenitenti di sistemi razionalistici da Hobbes, Cartesio, Spinoza, Leibniz fino ai loro emuli Johan Gottlieb Fichte, Hegel, Freidrich Wilhelm Schelling. Le ‘volpi’ empiriste raccolsero la lezione della fisica sperimentale, accettando il metodo induttivo-deduttivo che aveva consentito i successi conseguiti da Galilei, Newton e dai loro seguaci nell’investigazione dei fenomeni della natura, delle sue forze e delle sue leggi; e tentarono coerentemente di estendere i criteri del metodo sperimentale anche agli altri campi della conoscenza, studiando e analizzando i fenomeni di tipo morale, storico, economico, giuridico, sociale, psicologico e così via, fino a considerare anche l’uomo e la società umana come oggetti passibili di ricerca induttiva.

Viceversa vi sono stati in ogni epoca, per così dire, istrici intransigenti: i grandi filosofi sistematici del secolo 17° applicarono a oltranza lo stile deduttivo della geometria euclidea nel tentativo di ricostruire un assetto sistematico del sapere anche attorno a scienze come la fisica, la metafisica, la politica e la morale.

Hegel affermò che «tutto ciò che è reale è razionale», ricostruì in forma dialettica l’intera enciclopedia della conoscenza e incluse le varie scienze in quella che si può definire l’ultima sintesi razionalistica, tanto grandiosa quanto arbitraria.

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