Razionalizzazione

Enciclopedia delle scienze sociali (1997)

Razionalizzazione

Herbert Schnädelbach

Definizione del concetto

Per 'razionalizzazione' si intende l'affermarsi della razionalità nei più diversi ambiti della vita. Il termine 'razionalità' in questo contesto non significa semplicemente 'ragione', ma va inteso in una accezione doppiamente specifica. In primo luogo, esso non si riferisce alla razionalità scientifica o teorica, ma alla razionalità dell'agire. A sua volta l'agire razionale è definito non tanto da quelle caratteristiche più generali alle quali di solito si pensa quando si qualifica un'azione come 'razionale' - sensatezza, comprensibilità, logicità, ecc. - bensì da elementi quali la regolarità, la ripetibilità, la controllabilità, la dominabilità dei corsi dell'azione, e soprattutto la conformità allo scopo sulla base di criteri soggettivi, in cui emerge in primo piano l'aspetto dell'efficienza calcolabile (conformemente all'etimologia latina: ratio = calcolo, computo, e in senso lato raziocinio). Così nell'accezione moderna 'razionalità' significa primariamente 'razionalità rispetto allo scopo', che Max Weber definisce nel modo seguente: "Agisce in maniera razionale rispetto allo scopo colui che orienta il suo agire in base allo scopo, ai mezzi e alle conseguenze concomitanti, misurando razionalmente i mezzi in rapporto agli scopi, gli scopi in rapporto alle conseguenze, e infine anche i diversi scopi possibili in rapporto reciproco" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 23). È importante in questo contesto la contrapposizione tra razionalità rispetto allo scopo e razionalità rispetto al valore: "Agisce in maniera puramente razionale rispetto al valore colui che - senza riguardo per le conseguenze prevedibili - opera al servizio della propria convinzione relativa a ciò che ritiene essergli comandato dal dovere, dalla dignità, dalla bellezza, dal precetto religioso, dalla pietà e dall'importanza di una 'causa' di qualsiasi specie" (ibid., p. 21). Il concetto moderno di razionalità non include la valutazione razionale di questi orientamenti verso valori e scopi superiori, che attengono alla sfera puramente soggettiva di una decisione in ultima istanza privata; in questa prospettiva l'agire razionale rispetto al valore va considerato sostanzialmente irrazionale. Il concetto di razionalità così inteso è circoscritto di conseguenza al rapporto ottimale tra determinati scopi, i mezzi a disposizione e le conseguenze prevedibili, dove anche gli scopi possono essere oggetto di una valutazione critica per quanto riguarda la raggiungibilità in rapporto ai mezzi a disposizione, il grado di desiderabilità in rapporto alle conseguenze negative, e infine la compatibilità con altri scopi.Nella sua accezione attuale il concetto di razionalizzazione si riferisce in generale alla razionalizzazione economica. Nel linguaggio corrente dunque il termine designa principalmente la riorganizzazione dei processi produttivi in vista di un incremento dell'efficienza in rapporto ai mezzi impiegati, e ciò è fonte di timori assai reali, legati alle accresciute esigenze di rendimento, al rafforzamento della disciplina e soprattutto alla perdita del posto di lavoro a seguito dell'automazione. La razionalizzazione intesa in questo senso peraltro non è limitata al mondo del lavoro industriale; anche i processi di scambio e di distribuzione, nonché l'amministrazione burocratica, possono essere razionalizzati, e precisamente sulla base dello stesso principio, ossia quello di massimizzare l'output (produzione) in rapporto a un dato input (mezzi di produzione), ovvero di minimizzare l'input in rapporto a un dato output.Il principio della razionalità economica costituì uno dei capisaldi fondamentali dell'economia politica classica a partire da Adam Smith e David Ricardo. Il primo a darne una formulazione esplicita fu John Stuart Mill nella definizione del tipo ideale dell'homo oeconomicus: "L'economia politica presuppone una definizione arbitraria dell'uomo quale essere che invariabilmente cerca di ottenere la maggior quantità possibile di generi di prima necessità, comodità e lussi, con la minore quantità di lavoro e di sacrifico fisico possibili allo stato esistente delle conoscenze" (Collected works, 1967, vol. IV, p. 326).

Il termine 'razionalizzazione' fu introdotto per la prima volta da Friedrich von Gottl-Ottlilienfeld (v., 1914) in riferimento ai lavori di Taylor (v., 1911) sulla razionalizzazione dei processi produttivi nell'industria, per designare l'insieme delle misure tecnico-organizzative mirate all'aumento della produttività. In questo senso nel 1933 in Germania il Reichskuratorium per l'Economia propose la seguente definizione: "La razionalizzazione è l'ideazione, la sperimentazione e l'applicazione di tutti i mezzi offerti dalla scienza, dalla tecnica, dall'economia, dalla scienza dell'organizzazione e tutti gli altri ambiti del lavoro dell'uomo per incrementare la redditività attraverso la migliore organizzazione di ogni forma di lavoro umano".

La convinzione che la razionalizzazione nell'ambito dell'impresa abbia conseguenze positive per l'economia politica, e il riconoscimento del ruolo svolto da fattori extraeconomici segnano il passaggio dalla concezione economica a quella sociale (ovvero socioculturale) della razionalizzazione, passaggio che già si era compiuto con Max Weber. Tuttavia questo concetto ampliato di razionalizzazione ha acquistato rilevanza solo nell'area linguistica tedesca, soprattutto nell'ambito della sociologia e della filosofia dello spirito, mentre in Francia e nei paesi anglosassoni resta prevalente il significato ristretto di tipo economico. La razionalizzazione sociale ha costituito inoltre il tema dominante della filosofia critica tedesca degli anni venti e trenta, che vide autori di sinistra, liberali e conservatori tutti uniti nel dare una valutazione negativa del fenomeno (v. Schnädelbach, 1992). Ciò si spiega col fatto che la modernizzazione europea è avvenuta principalmente sull'onda dell'affermarsi dell'economia di mercato capitalistica, sicché nel XX secolo la critica alla moderna cultura della razionalità coincide largamente con la critica al capitalismo. I rischi e i costi della modernizzazione concepita in termini di razionalizzazione, i suoi pericoli reali o anche solo temuti, sono inoltre all'origine della critica al razionalismo oggi ampiamente diffusa, che talvolta arriva a configurarsi come mero rifiuto della ragione; la 'razionalità' appare in generale come il principio da cui scaturiscono ogni minaccia e ogni forza distruttiva del mondo moderno. Di fatto viviamo la realtà sociale attuale come il risultato di un processo di razionalizzazione che ha investito tutti gli ambiti dell'esistenza; ci troviamo in un mondo di vita già completamente razionalizzato, ossia organizzato e regolamentato secondo principî razionali, e le conseguenze perlopiù negative che vengono associate a questa circostanza fanno temere ulteriori spinte verso una razionalizzazione coatta. È degno di nota il fatto che gli aspetti positivi di un mondo di vita razionalizzato - prevedibilità, valutabilità, controllabilità del corso di progetti e azioni - recedono quasi completamente in secondo piano, poiché di solito vengono dati per scontati. La razionalizzazione sociale ha sempre anche una controparte soggettiva, che riguarda la condotta di vita individuale. Da ciò va peraltro nettamente distinta la razionalizzazione così come viene intesa nella teoria psicanalitica e nella moderna teoria dell'azione.

La razionalizzazione economica

L'espressione 'razionalizzazione economica' è un pleonasmo, se si definisce la razionalizzazione in generale in termini di conformità al principio di economia - ovvero di massimizzazione dei profitti e minimizzazione dei costi. Da questo punto di vista ogni tipo di razionalizzazione - anche quella dei processi di pianificazione, amministrazione e decisione politica - è improntata al principio di economia. Ha senso peraltro parlare di razionalizzazione economica in riferimento a situazioni in cui gli interventi di razionalizzazione tecnica hanno un bilancio dei costi sfavorevole e quindi possono essere considerati antieconomici. Per 'razionalizzazione tecnica' si intende di regola l'unificazione dei prodotti attraverso l'adozione di parti elementari standard, nonché la meccanizzazione (standardizzazione, automazione) del ciclo produttivo. Può accadere che in una situazione di abbondante offerta di forza lavoro a buon mercato la razionalizzazione tecnica risulti irrazionale; viceversa, le misure intraprese per ottenere un sostanzioso abbattimento dei costi possono impedire la razionalizzazione tecnica. Questo secondo caso si verifica quando si trascura il fatto che la razionalizzazione economica solo in casi rarissimi è attuabile senza incidere sui costi (lasciandoli invariati o riducendoli); di regola essa richiede invece notevoli investimenti. Si rende dunque opportuno considerare la razionalizzazione economica in senso stretto - ossia quella orientata ai costi e ai realizzi - e la razionalizzazione tecnica come due aspetti del principio di economia che possono anche entrare in conflitto reciproco. Tuttavia anche la razionalizzazione tecnica nel suo complesso può essere definita razionalizzazione economica, poiché gli interventi di tipo tecnico che in via di principio o in una prospettiva a lungo termine non si dimostrano economicamente vantaggiosi non possono essere definiti come razionalizzazioni.

Cenni storici

Storicamente la teoria e la prassi della razionalizzazione economica hanno avuto inizio con il 'taylorismo'. Per Taylor e per la sua scuola l'organizzazione scientifica del lavoro (scientific management) è "l'indagine analitica e l'organizzazione razionale del fattore produttivo umano" (v. Handwörterbuch..., 1981, p. 400). L'idea di fondo è che nell'impresa al posto delle tradizioni e delle consuetudini devono subentrare principî organizzativi fondati scientificamente e sperimentalmente, i quali devono essere applicati sia alle strutture dell'impresa che ai singoli processi lavorativi. Un allievo di Taylor, F. B. Gilbreth (v., 1917), analizzò con l'aiuto di una cinepresa i movimenti elementari che occorrono per realizzare una data operazione o un ciclo di lavoro, al fine di aumentare l'efficienza del processo produttivo. L'ambivalenza di queste ricerche emerge in tutta chiarezza allorché ci si chiede qual è l'obiettivo primario: adattare la produzione all'uomo, oppure l'uomo alla produzione. Il taylorismo fu un fattore essenziale nell'introduzione della lavorazione basata sul sistema della trasferta rigida (la cosiddetta catena di montaggio) nell'industria automobilistica di Henry Ford, di cui Charlie Chaplin nel film Tempi moderni ha offerto un'indimenticabile rappresentazione satirica. Il 'fordismo' suscitò ben presto vaste critiche sia da parte delle organizzazioni sindacali, sia da parte di esponenti del mondo politico e culturale, che si trovarono concordi nell'invocare una umanizzazione del mondo del lavoro. Grazie a questa opposizione nei decenni successivi vennero definiti precisi limiti giuridici e contrattuali alla razionalizzazione economica: si pensi ad esempio alla tutela giuridica del lavoro attraverso misure di sicurezza, o alla legge tedesca sull'ordinamento aziendale emanata nel 1972, cui fecero seguito accordi per la tutela dei lavoratori nei contratti collettivi di lavoro o piani sociali per i licenziamenti causati dalle misure di razionalizzazione. Una notevole influenza ebbe poi il cosiddetto 'esperimento Hawthorne' condotto negli Stati Uniti a partire dal 1917, che rese evidenti i limiti economici della parcellizzazione del lavoro all'interno dell'azienda; esso dimostrava infatti che da un certo livello in poi la sola razionalizzazione tecnica non è in grado di determinare ulteriori aumenti di produttività. Le 'relazioni umane' in gruppi di lavoro informali si rivelavano invece un importante fattore di produttività (il cosiddetto 'clima aziendale'). Da allora le industrie hanno limitato in misura crescente i sistemi di produzione a trasferta rigida in favore della cooperazione in piccoli collettivi (nell'area sovietica le 'brigate' divennero addirittura un dogma dell'economia aziendale). Va tenuto presente che perlomeno a partire dagli anni cinquanta nelle grandi imprese la razionalizzazione economica ha investito via via oltre che il processo produttivo vero e proprio anche altri settori - la contabilità e l'amministrazione del personale, i reparti di pianificazione, sviluppo e ricerca, il settore delle vendite (marketing); sono nate così nuove discipline specializzate nell'ambito dell'economia aziendale. Da tempo anche in altri tipi di organizzazione - come banche, assicurazioni, agenzie, ecc., ma anche amministrazioni, ministeri, tribunali, università, cliniche e via dicendo - si sono imposte le esigenze di una razionalizzazione tecnico-economica che diventano sempre più simili negli ambiti più diversi (si pensi ad esempio al principio dei costi nelle strutture ospedaliere). Le conseguenze sociali della razionalizzazione economica sono oggetto di giudizi contrastanti. Dapprima il taylorismo fu associato alla dequalificazione del lavoro umano; sembrava che il 'fattore umano' nel processo produttivo industriale avesse l'unica funzione di riempire i vuoti non ancora colmati dalle macchine. Nello stesso tempo però la razionalizzazione, che comportava massicci investimenti in nuovi macchinari e attrezzature, creava la domanda di una forza lavoro altamente qualificata, e questi nuovi posti di lavoro richiedevano a loro volta un'ingente dotazione di capitali. La conseguenza più significativa della razionalizzazione tecnico-economica nel nostro secolo è stata un sensibile aumento della produttività del lavoro, che a sua volta ha reso possibile a partire dal 1900 un costante aumento dei salari e la riduzione dell'orario di lavoro, e soprattutto una straordinaria espansione del settore dei servizi. La dequalificazione generalizzata del lavoro paventata dai critici del capitalismo di ogni orientamento politico chiaramente non si è verificata: già nel 1950 da una statistica relativa all'industria metallurgica tedesca risultava che gli operai specializzati rappresentavano il 50,3% della forza lavoro, quelli qualificati il 28,5% e gli operai non qualificati il 21,2%. Attualmente si discute se la forte disoccupazione strutturale che investe tutti i paesi industrializzati occidentali sia o meno da imputare principalmente alla razionalizzazione economica; il dogma liberale secondo cui solo la crescita economica può creare nuovi posti di lavoro appare sempre meno credibile, e si diffonde il timore che ulteriori incrementi della produttività, ottenibili solo con un'ulteriore razionalizzazione, porteranno invevitabilmente a una diminuzione dei posti di lavoro.

La moderna teoria della razionalizzazione economica è focalizzata sull'impresa, sicché anche gli altri tipi di istituzione per i quali si rende necessaria la razionalizzazione economica (amministrazioni, università, cliniche, ecc.) sia in teoria che in pratica vengono trattati come imprese. Prendendo atto del fatto che la razionalizzazione economica da lungo tempo si è estesa dal settore strettamente produttivo a tutti gli altri settori dell'impresa, la teoria moderna ne propone una definizione in termini estremamente generali; in un importante manuale tedesco si legge ad esempio: "La razionalizzazione è la pianificazione e la realizzazione di misure di adeguamento nei più diversi settori funzionali di un'impresa, finalizzate all'aumento della redditività della stessa" (v. Handwörterbuch..., 1981, p. 400). Il criterio normativo per tali misure può essere solo la razionalità formale soggettiva; ciò significa che nella pianificazione degli interventi di razionalizzazione ci si deve limitare, in base alle informazioni disponibili sullo status quo e a una valutazione degli eventuali rischi e opportunità, a determinare un ottimo calcolabile, poiché ciò che è oggettivamente e materialmente razionale, ossia realmente economico, può essere stabilito solo a posteriori. In tutte le definizioni, peraltro assai diverse, che sono state date della razionalizzazione, un concetto che ricorre costantemente è quello di 'adeguamento'. A questo riguardo è opportuno distinguere due tipi di adeguamento: quello operativo e quello tattico. Il primo è costituito da quegli interventi attuati ad hoc e a breve termine per far fronte a specifiche contingenze (ad esempio una diminuzione della produzione causata da uno sciopero, o una scarsità di materie prime dovuta a contingenze climatiche); l'adeguamento tattico è costituito invece da modifiche per lo più a carattere strutturale e a lungo termine, che di solito necessitano di una realizzazione in più fasi. Va rilevato inoltre che l'adeguamento tattico sembra comportare interventi puramente reattivi, con cui un imprenditore cerca di far fronte a determinati cambiamenti della situazione esterna e interna; nessuno apparentemente razionalizza di sua spontanea volontà. La razionalizzazione si impone quando tali cambiamenti della situazione interna ed esterna all'impresa provocano inefficienze, determinabili alla luce della strategia complessiva dell'impresa. La razionalizzazione intesa in questo senso è dunque "un adeguamento tattico nel quadro di una strategia più ampia" (v. Handwörterbuch..., 1979, col. 1774). Le strategie non possono essere razionalizzate, perché vengono presupposte come date nel processo di razionalizzazione; esse fissano i criteri in base ai quali valutare la razionalità degli interventi di razionalizzazione. Una importante conseguenza di questo fatto è che la sola razionalizzazione non può sostituire le autentiche innovazioni, che sono possibili solo come modificazioni dell'intera strategia aziendale; viceversa può accadere che le tattiche di razionalizzazione divengano antieconomiche perché non è stata intrapresa l'innovazione della produzione strategicamente necessaria (ibid.).

La teoria della razionalizzazione

Sul piano concettuale occorre distinguere tra: oggetti, metodi e strumenti della razionalizzazione.

1. L'ambito degli oggetti comprende "tutte le circostanze e i processi dell'impresa la cui organizzazione è soggetta al principio di economia" (v. Handwörterbuch..., 1981, p. 400). Gli oggetti della razionalizzazione possono a loro volta essere distinti in prodotti e servizi, fattori produttivi e processi produttivi. I fattori produttivi comprendono oltre ai fattori materiali anche quelli potenziali, come le informazioni disponibili, il know how esistente, ma anche licenze e brevetti; anche questi possono essere organizzati in modo più o meno razionale. Tra i processi produttivi infine rientrano non solo le lavorazioni che devono essere effettuate per trasformare le materie prime in prodotti finiti, ma anche i processi di trasporto e di stoccaggio.

2. La razionalizzazione globale richiede un metodo sistematico, integrato e interdisciplinare; solo in questo modo infatti si possono unificare tatticamente con successo le diverse prospettive e le diverse informazioni. All'analisi delle inefficienze deve seguire la scelta di strumenti di razionalizzazione adeguati, e infine la riuscita della loro applicazione deve essere oggetto di un controllo razionale. Un metodo generale per la razionalizzazione è costituito dalla cosiddetta 'analisi del valore' (v. Korte, 1977), una tecnica che consiste nell'analisi critico-sistematica di un prodotto e dei suoi vari componenti, in relazione alle sue funzioni essenziali, nel tentativo di modificarlo al fine di ridurre il costo di produzione migliorandone o lasciandone inalterata la qualità e la vendibilità. L'analisi del valore comprende tre fasi: analisi delle funzioni, valutazione delle funzioni e sintesi delle funzioni.

3. Gli strumenti della razionalizzazione sono strumenti di adeguamento tattico; nell'ambito dei beni e dei servizi si possono distinguere strumenti di tipo quantitativo, qualitativo, costruttivo e sostitutivo. La razionalizzazione quantitativa si riferisce alla minimizzazione dell'usura dei beni e dei servizi nel processo produttivo. Per razionalizzazione qualitativa si intende un adattamento dei fattori produttivi materiali ai rispettivi scopi d'impiego, ma anche un miglioramento della qualificazione professionale e della motivazione del personale, inclusa l'organizzazione qualitativa del lavoro. Un esempio di razionalizzazione costruttiva è dato dalla standardizzazione e dall'unificazione a livello di impresa o di settore dei materiali, delle macchine utensili e dei prodotti finiti. La meccanizzazione di un singolo processo lavorativo costituisce un caso limite tra la razionalizzazione costruttiva e quella sostitutiva, in quanto comporta di norma la sostituzione di lavoro umano. Ancora più ambiguo è il caso dell'introduzione di sistemi di elaborazione elettronica dei dati negli uffici, che può essere considerata una misura di razionalizzazione costruttiva e non sostitutiva solo nella misura in cui non comporta una dequalificazione del lavoro individuale e licenziamenti del personale.

Va menzionata infine la razionalizzazione interaziendale, la quale si ha quando imprese economiche o di altro tipo tra loro indipendenti cooperano al fine di realizzare una razionalizzazione delle proprie strutture. La cooperazione può essere orizzontale, verticale o complementare. Esempi di cooperazione orizzontale sono la specializzazione e la divisione del lavoro nello stesso settore produttivo; un esempio di cooperazione verticale è la ripartizione di diverse fasi di lavorazione tra diverse imprese; un esempio di cooperazione complementare, infine, è la ripartizione dei costi di installazione e di manutenzione di impianti tecnici.

La razionalizzazione sociale

Le conseguenze sociali e culturali della razionalizzazione economica nei più diversi ambiti della vita hanno costituito a partire dagli anni cinquanta un tema centrale della sociologia e della filosofia critica tedesca contemporanea, dove la problematica della 'razionalizzazione' ha trovato per la prima volta l'attenzione che non è mai riuscita ad avere in altri paesi. La razionalizzazione è vista come legge fondamentale della cultura di massa industriale, che con la produzione di massa, la standardizzazione, il livellamento e l'anonimizzazione sostituisce ovunque ai canoni tradizionali quelli della pianificazione razionale. 'Massificazione' e 'fine dell'individuo' rappresentano i due concetti chiave di questa diagnosi critica, da cui traspare chiaramente il senso di appartenenza a un'élite culturale dei suoi autori, che interpretano la cultura di massa moderna come fine della cultura in assoluto, se non come una nuova barbarie.

Max Weber

Max Weber ha dimostrato come sia del tutto insufficiente considerare la razionalizzazione sociale esclusivamente come conseguenza di quella economica; non è possibile considerare, come fanno i marxisti, l'economia come la semplice 'base' o struttura e la cultura come 'sovrastruttura' la cui razionalizzazione sarebbe una conseguenza di quella della base economica, perché la razionalizzazione economica è possibile solo se si sono creati i presupposti necessari al livello della società e della cultura. Nei suoi studi sulla sociologia della religione Weber contrappone al nesso causale struttura-sovrastruttura, con cui soprattutto il marxismo volgare credeva di poter spiegare il mutamento sociale, la correlazione inversa, senza peraltro sottovalutare l'importanza del fattore economico. Il razionalismo economico dipende infatti anche dalla capacità degli uomini di adottare certi tipi di condotta pratica e razionale, che a loro volta non possono essere ricondotti alla razionalità economica. Il locus classicus di questo concetto weberiano di razionalizzazione sociale sono le Osservazioni preliminari ai Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, che si aprono con il seguente interrogativo: "Per quale concatenazione di circostanze, proprio qui, in terra d'Occidente, e soltanto qui, si sono prodotti dei fenomeni culturali i quali - almeno come ci piace raffigurarceli - si sono trovati in una direttrice di sviluppo di significato e validità universali?" (v. Weber, 1920-1921; tr. it., vol. I, p. 89). Weber cita la scienza, l'arte, l'amministrazione, lo Stato e infine l'economia come "fenomeni culturali" i cui specifici caratteri occidentali sembrano segnare la futura direzione di sviluppo di tutta la cultura mondiale. La scienza non esiste solo nel mondo occidentale, ma ciò che contraddistingue la forma che essa ha assunto in Occidente sono la matematizzazione dei fenomeni, il principio della dimostrazione e dell'esperimento razionali (il laboratorio moderno), la chimica razionale, la storiografia metodica (nel senso di Tucidide), nonché una dottrina dello Stato e una dottrina giuridica fondate su concetti e principî astratti. Per quanto riguarda l'arte Weber considera come peculiarità occidentali la musica armonica (contrappunto e armonia), l'orchestra moderna, la scrittura musicale, "che ha reso possibile la composizione e l'esecuzione delle moderne opere musicali"; nel campo architettonico cita poi la volta gotica come principio costruttivo per l'erezione di edifici monumentali e come base di uno stile, e nella pittura l'uso razionale della prospettiva lineare e aerea, che costituiscono quel "tipo di razionalizzazione classica dell'insieme dell'arte" creato dal Rinascimento (ibid., pp. 90-91). Un'altra tipica espressione della cultura occidentale è "il corpo di specialisti" formato da "razionali e sistematiche industrie specializzate della scienza", e in particolare la figura del "funzionario specializzato", che per Weber è "la pietra angolare dello Stato moderno e della moderna economia in Occidente" (p. 91). Le conseguenze che ciò ha sul mondo di vita sono per Weber di importanza incalcolabile: "L'assoluta e inevitabile dipendenza della nostra intera esistenza, delle condizioni fondamentali politiche, tecniche ed economiche della nostra vita da un'organizzazione di funzionari specializzati sotto il profilo tecnico, commerciale ma soprattutto giuridico, come esecutori delle più importanti funzioni quotidiane della vita sociale, sono fenomeni che nessun paese e nessuna epoca ha conosciuto come il moderno Occidente" (ibid.). Già qui viene prefigurata la famosa immagine della "gabbia d'acciaio" quale conseguenza del nostro processo di razionalizzazione. Weber considera come fenomeni specificamente occidentali anche "lo Stato dei ceti", i parlamenti, e soprattutto "lo Stato nel senso di un'istituzione politica con una 'costituzione' posta razionalmente, un diritto razionalmente stabilito e un'amministrazione retta da funzionari specializzati secondo delle regole enunciate razionalmente, le 'leggi"' (p. 92). Nel campo dell'economia Weber riconosce nel capitalismo "il potere più decisivo della nostra vita moderna", precisando che l'"istinto del profitto", la "sete di guadagno, di guadagno monetario, anzi del massimo guadagno monetario possibile" - fenomeni antichi quanto l'uomo - non hanno nulla a che vedere con il capitalismo. Nemmeno lo sfruttamento pacifico delle opportunità di scambio e l'organizzazione imprenditoriale dell'attività economica rappresentano caratteristiche essenziali del capitalismo occidentale. Gli elementi decisivi sono costituiti piuttosto da un'organizzazione razionale del lavoro (formalmente) libero orientata al calcolo dei costi e dei guadagni ('mercato del lavoro'), dalla separazione tra amministrazione domestica e impresa, e infine dalla contabilità razionale. Weber colloca in questo contesto anche la nascita della borsa e lo sviluppo di un 'socialismo razionale' come movimento anticapitalistico.

Sul piano storico-culturale la nascita del capitalismo imprenditoriale borghese segna la nascita della borghesia come classe sociale, nonché della sua controparte, il proletariato, ma i due processi non possono essere semplicemente identificati (p. 100). È evidente inoltre la connessione tra l'economia occidentale e la scienza, perché solo in Occidente la scienza ha assunto i caratteri di un sapere tecnologico. La forma particolare del moderno capitalismo occidentale "dipende essenzialmente dalla calcolabilità dei più importanti fattori tecnici" di produzione. E tuttavia nemmeno questa congiunzione di scienza ed economia avrebbe potuto portare al capitalismo moderno senza un sistema giuridico fondato sulla certezza e un'amministrazione fondata su regole razionali (pp. 100-101).

Dopo aver illustrato le principali peculiarità strutturali della cultura occidentale, Weber si chiede: "Per quale motivo [nelle altre culture] né lo sviluppo scientifico, né quello artistico, né quello politico, né quello economico hanno imboccato la via della razionalizzazione che è propria dell'Occidente?" (p. 101). Con ciò, è necessario precisare, Weber non intende affatto affermare che la razionalizzazione come tale sia una prerogativa esclusiva del mondo occidentale; le altre culture non sono affatto irrazionali o arazionali: "le razionalizzazioni dei più diversi campi della vita sono esistite sotto le forme più varie in tutte le zone di civiltà" (pp. 101-102). Occorre riconoscere in quali ambiti e in quale direzione, ossia in base a quali principî di razionalità sono stati razionalizzati questi campi della vita, per poter cogliere la peculiarità della nostra situazione culturale. È qui che Weber si scaglia esplicitamente contro il dogmatismo del materialismo storico proprio della socialdemocrazia dell'epoca: "La questione che si pone in primo luogo è quindi di riconoscere i caratteri distintivi del razionalismo occidentale e, all'interno di questo, i tratti della sua forma moderna e di spiegarne poi l'origine. Ogni ricerca esplicativa di questo tipo, tenendo conto dell'importanza fondamentale del fattore economico, dovrà prendere in considerazione innanzitutto le condizioni economiche. Ma anche la correlazione inversa non dovrà essere lasciata in disparte. Perché come il razionalismo economico, alla sua origine, dipende, in generale, dalla tecnica e dal diritto razionale, così esso dipende pure dalla capacità e dalle disposizioni degli uomini di adottare certi tipi di condotta pratica e razionale" (p. 102). Weber aveva analizzato la razionalizzazione della condotta di vita nelle sue precedenti indagini sulla "correlazione tra lo spirito della moderna vita economica e l'etica razionale del protestantesimo ascetico", che costituirono la base per le sue analisi a tutto campo dell'etica economica delle religioni mondiali. In altri luoghi Weber contrapporrà alla razionalizzazione della condotta di vita la razionalizzazione della concezione del mondo, ossia il crescente dominio teorico della realtà mediante concetti astratti sempre più precisi; questo processo però è inscindibilmente connesso alla razionalizzazione intesa come raggiungimento metodico di un determinato obiettivo pratico mediante un calcolo esatto dei mezzi adeguati. Questa connessione si verifica quando la razionalizzazione della concezione del mondo, come accade in Occidente, assume i caratteri di un "disincantamento del mondo e di una sua trasformazione in un meccanismo causale"; esso perde così il suo status tradizionale-metafisico di cosmo ordinato da Dio, e dunque in qualche modo dotato di senso sul piano etico e l'uomo se ne appropria facendone uno strumento neutrale dal punto di vista dei valori per il raggiungimento dei propri fini. Il "progetto baconiano" (v. Schäfer, 1993) di un dominio scientifico della natura ha qui le sue radici socioculturali.

La particolare forma occidentale "teorica e pratica, di razionalizzazione totale, intellettuale e funzionale, della concezione del mondo e del sistema di vita" (v. Weber, 1920-1921; tr. it., vol. I, p. 343) esprime dunque l'aspetto soggettivo della storia della civiltà che Weber contrappone all'oggettivismo e all'economismo del marxismo volgare. In realtà, però, sia la dimensione soggettiva che quella oggettiva del processo seguono il medesimo principio, perché la concezione del mondo e il sistema di vita razionalizzati resterebbero privi di conseguenze sociali se non si realizzassero in istituzioni e forme di vita corrispondenti. La teoria weberiana della razionalizzazione occidentale non è dunque semplicemente una presa di posizione programmatica contro la spiegazione marxista del modo di produzione capitalistico, ma va alla ricerca dei suoi fondamenti più profondi ed esplora il principio comune di razionalità da cui è scaturita la razionalizzazione della cultura occidentale nei suoi aspetti economici, giuridici, statuali, amministrativi, artistici e scientifici, nelle sue dimensioni sia individuali che istituzionali. In questo principio si possono individuare perlomeno sei aspetti che definiscono le peculiarità dello sviluppo occidentale: il disincantamento e l'intellettualizzazione del mondo, che diviene così spiegabile in termini puramente causali e razionalmente controllabile; la nascita di un'etica della condotta di vita razionale sulla base dell'idea protestante di 'vocazione' (Beruf); la crescente importanza del sapere tecnico specializzato nell'economia, nell'amministrazione e nell'istruzione; l'oggettivazione e la spersonalizzazione del diritto, dell'economia e della politica e il conseguente sviluppo della regolarità e della calcolabilità dell'agire in questi ambiti; il progressivo sviluppo di mezzi tecnico-razionali di dominio sull'uomo e sulla natura; la tendenziale sostituzione dell'orientamento dell'agire di tipo tradizionale e di quello razionale rispetto al valore con l'orientamento razionale rispetto allo scopo. È importante inoltre il fatto che la tradizionale razionalizzazione materiale dell'amministrazione e del diritto da parte di un principe patrimoniale che soddisfa i sudditi dal punto di vista utilitaristico ed etico-sociale, così come un grande signore nei confronti dei membri del gruppo domestico, doveva progressivamente cedere il passo alla razionalizzazione formale attraverso l'imposizione da parte di una classe di giuristi specializzati di norme giuridiche universalmente vincolanti per tutti i 'cittadini'; la differenza tra razionalità materiale e razionalità formale non coincide dunque, come viene rilevato spesso, con quella tra razionalità rispetto al valore e razionalità rispetto allo scopo, ma riguarda solo il modo in cui si è affermato il principio di razionalità (v. Döbert, 1989, pp. 210 ss.); anche le decisioni razionali rispetto al valore, dunque, possono essere attuate in modo razionale-formale (ad esempio burocratico).

La pervasività della razionalizzazione formale induce a prevedere che la burocratizzazione di tutti gli ambiti della vita sarà il nostro destino dominante; le vicende del nostro secolo hanno dimostrato che la differenza tra capitalismo e socialismo è in ultima istanza irrilevante, poiché entrambe le forme economiche convergono nella struttura di un dominio burocratico. Da tempo questa tendenza si è estesa dall'Occidente al mondo intero. Il fatto che la razionalizzazione occidentale costituisca un processo con un inizio localizzato, ma con una direzione di sviluppo che ha rilevanza e valore universali è oggi ancora più evidente di quanto non lo fosse ottanta anni fa: la modernizzazione mondiale è una conseguenza della razionalizzazione formale. Non va peraltro dimenticato che il tipo di razionalità che si va affermando su scala mondiale è la razionalità rispetto allo scopo; in sé essa tuttavia è solo un mezzo generalizzato per raggiungere determinati scopi materiali, la cui razionalità non può più essere valutata razionalmente entro tale medium.

Le conseguenze culturali di questo processo sono state delineate da Weber nelle famose conferenze Wissenschaft als Beruf e Politik als Beruf. Il fatto che le "regole della logica e del metodo" costituiscano "i fondamenti generali del nostro orientamento nel mondo" (v. Weber, 1919; tr. it., p. 25) è senza dubbio un risultato della razionalizzazione del mondo basata sulla scienza, ma ciò non è ancora sufficiente a definire il carattere peculiare della razionalizzazione scientifica. La scienza nel senso moderno secondo Weber è caratterizzata dall'idea del progresso, cosa che non vale invece, ad esempio, per l'arte; "il progresso scientifico è una frazione, e senza dubbio la più importante, di quel processo di intellettualizzazione al quale siamo andati soggetti da secoli e contro il quale oggi di solito si prende una posizione di natura così straordinariamente negativa" (ibid., p. 19). La scienza è dunque il medium attraverso il quale questa "razionalizzazione intellettualistica" si afferma nel modo più evidente. Ciò non significa che "abbiamo una conoscenza delle condizioni di vita nelle quali esistiamo maggiore di quella di un indiano o di un ottentotto" (ibid.); la razionalizzazione, piuttosto, ingenera "la coscienza o la fede" che ogni cosa, in linea di principio, "può essere dominata con la ragione", e dunque che non esistono forze segrete e incalcolabili che governano il mondo, che tutte le cose, in via di principio, possono essere dominate attraverso il calcolo: "il che significa il disincantamento del mondo" (p. 20). Il potenziale controllo del mondo attraverso la calcolabilità è il fine verso il quale convergono le diverse forme della razionalizzazione intellettualistica del mondo occidentale, e al quale è orientata anche la scienza moderna. L'idea di progresso su cui questa si fonda, a differenza della scienza antica o rinascimentale, non conosce un fine materiale, sia esso la divinizzazione dell'anima o il raggiungimento di Dio; piuttosto, la direzione del progresso scientifico è prefissata ancora una volta attraverso un medium generalizzato - la calcolabilità e la controllabilità del mondo disincantato - e di conseguenza per Weber anche la razionalizzazione scientifica costituisce un modello dell'affermarsi della razionalità rispetto allo scopo che contraddistingue il processo di modernizzazione occidentale. Il versante soggettivo di questa concezione della scienza riguarda il problema del significato per il singolo, perché il progresso scientifico stesso è in incessante movimento; nella scienza in via di principio tutto è superabile e di fatto viene superato, il che significa che non vi è posto per punti d'arrivo stabili, permanenti, ai quali ci si possa arrestare pacificati. L'"esperienza vissuta" (Erleben) e la "personalità", gli "idoli il cui culto vediamo oggi trionfare", non possono trovar posto nella scienza moderna, perché qui 'personalità' coincide con l'oggettività impersonale. La scienza razionalizzata ha dunque il proprio significato non in se stessa - se si intende per 'significato' una risposta "alla sola domanda importante per noi: che dobbiamo fare? come dobbiamo vivere? [...] Tutte le scienze naturali danno una risposta a questa domanda: cosa dobbiamo fare, se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso, oppure lo presuppongono per i loro fini" (pp. 25-27). Questi interrogativi sul significato della vita non possono trovare una risposta razionale nell'epoca moderna, perché il tipo di razionalità che domina in essa è la razionalità rispetto allo scopo; pertanto gli orientamenti razionali rispetto al valore, che per ogni singolo individuo sono quasi indispensabili, restano esclusi dal dominio delle decisioni razionali. La ragione secondo Weber va ricercata nel moderno "politeismo dei valori", ossia nel fatto che non esistono criteri universali e razionali per gli orientamenti ultimi rispetto al valore, che rientrano pertanto nella sfera della decisione e della responsabilità puramente personale e privata del singolo; anche questa è una conseguenza della razionalizzazione intellettualistica del mondo occidentale. La conseguenza più rilevante per la scienza è la cosiddetta 'avalutabilità' - concetto che ha dato luogo alle critiche più aspre ma anche ai maggiori fraintendimenti del pensiero weberiano. Il concetto di 'avalutatività' si riferisce in realtà ai 'giudizi di valore'; ciò che Weber intende affermare è che nel discorso della scienza non possono entrare giudizi di valore, perché i criteri di tali giudizi non possono a loro volta essere resi universalmente vincolanti tramite la scienza. Che ciò non debba essere interpretato nel senso di una mancanza di responsabilità etica da parte dell'uomo di scienza viene ribadito costantemente da Weber, il quale era ben consapevole del fatto che anche l'agire scientifico dipende da decisioni di cui si deve rispondere sul piano etico. La conseguenza immediata è la separazione tra scienza e politica e il rifiuto dell'idea che l'uomo di scienza possa essere anche guida politica; che gli scienziati debbano anche essere uomini politici non contraddice questa affermazione, nella misura in cui essi seguono la norma della probità intellettuale e tengono separati i due universi di discorso.La razionalizzazione del mondo attraverso la scienza, tipica della cultura occidentale, comporta secondo Weber anche una razionalizzazione della scienza stessa, nel senso di una crescente esclusione di un orientamento razionale rispetto al valore. Le conseguenze istituzionali di questo processo sono state solo accennate da Weber: "Che la scienza sia oggi una 'professione' specializzata posta al servizio della coscienza di sé e della conoscenza di situazioni di fatto, e non una grazia di visionari e profeti, dispensatrice di mezzi di salvazione e di rivelazioni, o un elemento della meditazione di saggi e filosofi sul significato del mondo - è certamente un dato di fatto inseparabile dalla nostra situazione storica". Helmuth Plessner (v., 1924) è stato il primo a descrivere in modo dettagliato questo processo, che è diventato uno dei temi principali della moderna sociologia della scienza.Al significato della dinamica della razionalizzazione per la politica Weber dedica l'altra importante conferenza del 1919, Politik als Beruf. Già l'analogia dei titoli indica una profonda affinità dell'oggetto d'analisi. Così come nella scienza i grandi geni (Platone, Leonardo, Goethe) sono stati rimpiazzati da un anonimo esercito di professionisti al servizio dell'oggettività e del progresso, allo stesso modo lo Stato moderno, che può essere definito un'"associazione di dominio in forma di istituzione" (anstaltsmässiger Herrshaftsverband), in perfetto parallelismo "con lo sviluppo dell'impresa capitalistica attraverso la graduale espropriazione dei produttori autonomi" (v. Weber, 1919; tr. it., p. 55), non è più retto da singoli individui con diritti e privilegi legati alla persona, bensì da un corpo di professionisti che si caratterizzano come semplici funzionari. Il complemento ideale di questa struttura statuale è la forma di dominio razionale-legale fondata su costituzioni e strutture giuridiche poste razionalmente - ossia in mancanza di una legittimazione metafisico-religiosa, sacrificata alla razionalizzazione, un tipo di dominio legittimato solo sulla base del consenso fattuale dei dominati (questo aspetto della razionalizzazione occidentale viene analizzato in modo più approfondito da Weber nei lavori di sociologia del diritto). La giuridificazione della politica tuttavia non significa che l'elemento che definisce l'ambito politico, ossia la lotta per la partecipazione al potere o per influenzare la divisione del potere, sia tra Stati, sia all'interno di uno stesso Stato tra i gruppi che lo compongono, scompaia dalla scena; esso entra ora piuttosto in un rapporto di complementarità rispetto all''apparato' politico, nella forma del 'leader carismatico', che a sua volta deve poter disporre di un 'apparato'. Questa analisi di Weber è stata aspramente criticata, e la si è voluta interpretare come una legittimazione anticipata della dittatura del Führer del nazionalsocialismo. Si tratta peraltro di un'interpretazione del tutto ingiustificata, se si tiene presente l'impegno politico di Weber per la giovane Repubblica di Weimar. In realtà egli aveva intuito che in un mondo disincantato e razionalizzato solo personalità carismatiche possono mobilitare il consenso fattuale dei dominati per le rispettive strutture di potere, che negli Stati moderni costituiscono l'unico fondamento della legittimità politica. Proprio gli sviluppi della democrazia nordamericana, che già allora Weber aveva preso come modello, ma anche gli sviluppi della democrazia di massa in Europa confermano la validità delle sue tesi fondamentali.

Max Horkheimer e Theodor W. Adorno

La Dialettica dell'illuminismo, che Max Horkheimer e Theodor W. Adorno terminarono nel 1944 negli Stati Uniti e che venne pubblicata ad Amsterdam tre anni dopo (con un'integrazione sull'antisemitismo), rappresenta il testo fondamentale della Teoria critica della cosiddetta 'Scuola di Francoforte'. Anche se il nome di Weber non viene citato nemmeno una volta, le idee espresse in quest'opera si ricollegano al modello weberiano della razionalizzazione, dandogli peraltro un diverso significato. In primo luogo, Horkheimer e Adorno equiparano ciò che Weber aveva definito come 'disincantamento del mondo', a seguito della crescente razionalizzazione intellettualistica, al programma dell'illuminismo: - "il programma dell'illuminismo era di liberare il mondo dalla magia" (v. Horkheimer e Adorno, 1947; tr. it., p. 11) - e identificano quindi l'illuminismo nella sua totalità con il progetto baconiano del dominio della natura attraverso la scienza, che implica sempre il dominio dell'uomo sull'uomo: "Ciò che gli uomini vogliono apprendere dalla natura è come utilizzarla ai fini del dominio integrale della natura e degli uomini. Non c'è altro che tenga" (ibid., p. 12). L'altra modifica rispetto al modello weberiano riguarda il trapasso dalla storia universale alla filosofia della storia attraverso l'assoggettamento a quella dialettica di illuminismo e mito, razionalità e follia, progresso e regresso, liberazione e autoasservimento che impronta la storia della civiltà occidentale sin dai suoi inizi.Le prime notizie sull'Olocausto e il pericolo, allora percepito come estremamente reale, di un fascismo mondiale indussero i due autori a diagnosticare una incessante autodistruzione dell'illuminismo. La dinamica di tale processo autodistruttivo va cercata nella struttura dell'illuminismo stesso e del suo principio dominante: "Non solo idealmente, ma anche praticamente la tendenza all'autodistruzione appartiene fin dall'inizio alla razionalità, e non solo alla fase in cui essa emerge in tutta la sua evidenza" (p. 9). Il trapasso immanente dell'illuminismo in una nuova mitologia, il ritorno del primitivo e della barbarie nella società industriale progredita e il rovesciamento della democrazia borghese-illuminata in un dominio totalitario non sono quindi una mera contingenza storica, ma un processo necessario e ineluttabile sinché la storia segue il principio cui si è ispirata sinora: "Ogni tentativo di spezzare la costrizione naturale spezzando la natura cade tanto più profondamente nella coazione naturale. È questo il corso della civiltà europea" (p. 21). Ciò che Weber aveva prospettato come una possibilità, ossia che i "fenomeni culturali" apparsi in terra d'Occidente si siano "trovati in una direttrice di sviluppo di significato e di validità universali", per gli autori della Dialettica dell'illuminismo è un fatto ormai assodato, e così la teoria weberiana della razionalizzazione occidentale - dove 'teoria' non significa più un insieme di ipotesi empiricamente verificabili per la ricostruzione della storia della razionalizzazione in Occidente - diventa un'altra filosofia della storia sistematica che abbraccia l'intero corso della civiltà umana; il suo principio fondamentale è una 'dialettica dell'illuminismo' legata al modello hegeliano, che sarebbe peraltro più appropriato definire 'dialettica della razionalizzazione'. Le tendenze totalitarie di questa 'logica' della razionalizzazione vengono desunte dal carattere totalitario dell'illuminismo stesso; questo deriverebbe dall'esclusione forzata dell'Altro, dell'Estraneo che suscita paura, dall'immanenza del dominabile: "L'illuminismo è l'angoscia mitica radicalizzata" (p. 23). Poiché "il principio dell'immanenza, la spiegazione di ogni accadere come ripetizione, che l'illuminismo sostiene contro la fantasia mitica, è quello stesso del mito" (p. 20), l'illuminismo è destinato a rovesciarsi nel proprio contrario. Il necessario passaggio dal dominio della natura al dominio sociale e all'autoasservimento psicologico viene ricercato da Horkheimer e da Adorno nelle condizioni soggettive dell'illuminismo: "Solo il pensiero che fa violenza a se stesso è abbastanza duro per infrangere i miti" (p. 12); "l'umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell'uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia" (p. 41). Così all'avvento del dominio totalitario per necessità dialettica corrisponde la distruzione dell'individuo, anzi della soggettività umana in generale, nonché il nuovo 'stregamento' dei suoi rapporti con sé e con gli altri: "L'animismo aveva vivificato le cose; l'industrialismo reifica le anime" (p. 36).

Sebbene la Teoria critica sia stata sempre iscritta nella corrente neomarxista dei paesi occidentali, nella prospettiva odierna si può vedere chiaramente quanto poco marxista sia la Dialettica dell'illuminismo. Una ragione storica di ciò può essere individuata nel fatto che gli autori in un primo tempo fecero riferimento alla versione marxista della storia della razionalizzazione weberiana esposta da György Lukács in Storia e coscienza di classe (v. Habermas, 1981, vol. I, pp. 453 ss.), dove la razionalizzazione occidentale è vista essenzialmente come razionalizzazione capitalistica. Nella Dialettica tuttavia questo modello viene di nuovo generalizzato alla storia della civiltà, cosicché la preistoria della modernità viene fatta iniziare con la storia del dominio sulla natura in generale, ossia con l'inizio dell'illuminismo nel mito. Pertanto Horkheimer e Adorno in un certo senso tornano da Marx e Weber, utilizzando come filo conduttore la teoria della razionalizzazione di quest'ultimo, e non più la dialettica marxiana di forze produttive e rapporti di produzione. L'illuminismo interpretato come razionalizzazione non si riferisce quindi più solo al capitalismo, ma all'industrialismo nella sua globalità. Non da ultimo, a causa di questa neutralità rispetto alla contrapposizione tra i due blocchi di potenze orientali e occidentali, la Dialettica dell'illuminismo non è mai stata riconosciuta dai marxisti ortodossi come opera marxista. Anche la dialettica cui fanno riferimento i suoi autori ha ben poco a vedere con il materialismo storico, per non parlare della versione propostane nel DiaMat; i suoi concetti fondamentali sono influenzati in modo assai più profondo dalle analisi della Fenomenologia dello spirito hegeliana: ad esempio quella del rapporto padrone-servo, ma anche l'idea del necessario rovesciamento della 'libertà assoluta' nel 'terrore'. Un'altra influenza significativa va ricercata nel pensiero di Freud, che offrì ai due autori la possibilità di seguire la dialettica della razionalizzazione anche nella sfera sociopsicologica. La debolezza fondamentale della Dialettica non consiste però principalmente nel fatto di ricadere dalla teoria della società alla filosofia della storia, bensì va individuata nell'impoverimento del concetto di illuminismo, ridotto a razionalizzazione nel senso weberiano. La totalitarizzazione dialettica di questo modello, secondo cui l'illuminismo è destinato inevitabilmente a terminare in un 'totale accecamento', non lascia spazio se non per un'unica teoria che focalizzi l'attenzione su questa tematica e sia in grado di offrirne una spiegazione razionale - ossia quella della Dialettica dell'illuminismo stessa. Horkheimer e Adorno si resero conto di questo problema e cercarono successivamente di mettere in luce quegli elementi della loro concezione che permettono e favoriscono l'autoilluminazione dell'illuminismo (si confrontino in proposito i passaggi programmatici della Premessa); si tratta propriamente dell'idea di una autotematizzazione riflessiva in una prospettiva pratica che Kant aveva espresso nella sua classica definizione dell'illuminismo come "l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità di cui è autoresponsabile". Nella Dialettica dell'illuminismo ciò trova espressione in una sorta di rettifica dell'approccio originario formulata con parole enigmatiche: "L'illuminismo è più che illuminismo; natura che si fa udire nella sua estraniazione. Nella coscienza che lo spirito ha di sé come natura in sé scissa, è la natura che invoca se stessa, come nella preistoria, ma non più direttamente col suo nome presunto, che significa onnipotenza, come mana, ma come qualcosa di mutilo e cieco. La condanna naturale consiste nel dominio della natura, senza il quale non ci sarebbe spirito. Nell'umiltà con cui esso si riconosce dominio e si ritratta in natura, si scioglie la sua pretesa di dominio che è proprio quella che lo asserve alla natura" (v. Horkheimer e Adorno, 1947; tr. it., p. 47).

Jürgen Habermas

La convinzione che il modello di razionalità e di illuminismo proposto da Horkheimer e da Adorno non sia in grado di cogliere quegli elementi che vanno al di là della razionalizzazione come pura storia di dominio ha costituito l'impulso decisivo per le teorie della razionalizzazione sviluppate da Jürgen Habermas. A suo avviso si rende necessario innanzitutto rettificare la tesi espressa da Horkheimer in Eclisse della ragione, secondo la quale la soggettivizzazione storico-metafisica della ragione comporta necessariamente la riduzione di quest'ultima a ragione strumentale - tesi che peraltro impronta l'intera costruzione della Dialettica dell'illuminismo sin nei minimi particolari. In questa prospettiva, la storia della razionalizzazione coincide inevitabilmente con la storia del dominio sulla natura, cui Horkheimer e Adorno attribuiscono i caratteri di un evento catastrofico. Le risorse della razionalità che i due autori, pur nel loro orientamento critico, cercano di mobilitare, non possono derivare solo dalla ragione strumentale. È qui che emerge una duplice carenza della Teoria critica: dal punto di vista genetico essa non può spiegare la propria esistenza, e nello stesso tempo non è in grado di giustificare i criteri normativi su cui si fonda la sua critica alla razionalizzazione. In un primo momento Habermas cerca di colmare queste lacune sviluppando una teoria dei rapporti tra conoscenza e interessi in cui all'interesse per la conoscenza tecnica, che Horkheimer e Adorno consideravano l'unico dominante nell'illuminismo, viene contrapposto un interesse di tipo pragmatico ed emancipatorio (v. Habermas, 1968). In seguito Habermas propone una "teoria dell'agire comunicativo" che cerca di render conto della diversità che esiste in linea di principio tra i diversi tipi di razionalità (v. Habermas, 1981). La teoria dell'agire comunicativo non si presenta come una 'metateoria', bensì come l'inizio di una teoria della società che si sforza di provare i propri criteri critici presentando la razionalità comunicativa come tipo base di razionalità - una razionalità carica di conseguenze e di contenuti normativi. Partendo da questo modello di razionalità, secondo Habermas, è possibile mettere in luce criticamente i paradossi e le sociopatologie della modernità. Per la teoria della razionalizzazione sociale ciò significa un approccio interamente nuovo, la cui originalità emerge nel modo più chiaro là dove Habermas offre un'interpretazione critica del pensiero di Weber. Accogliendo le suggestioni della teoria della modernizzazione di Talcott Parsons, Habermas riprende la distinzione tra società, cultura e personalità (ibid.), che a suo avviso consente di classificare in modo più preciso i processi e gli effetti della razionalizzazione descritti da Weber, ma anche di distinguerli nella loro specificità. La razionalizzazione sociale consiste essenzialmente nell'affermazione e nell'istituzionalizzazione della razionalità rispetto allo scopo in tutti gli ambiti della vita. La razionalizzazione culturale invece non sarebbe riducibile a ciò, poiché comporta anche il decentramento della cultura tradizionale, ossia la differenziazione e l'autonomizzazione delle diverse sfere culturali - scienza, arte, religione, diritto, morale, ecc. - le quali possiedono propri standard di razionalità e proprie istituzioni ('sistemi dell'agire'), e sono quindi in grado di mettere in discussione il carattere monolitico che contraddistingue le culture premoderne, ma anche il modello di illuminismo di Horkheimer e Adorno. Questo processo di razionalizzazione delle culture moderne trova riscontro sul versante soggettivo nello sviluppo socioculturale della personalità moderna. A questo riguardo secondo Habermas occorre riprendere la distinzione weberiana tra razionalizzazione della condotta di vita e razionalizzazione della concezione del mondo: la cultura moderna decentrata esige dall'individuo una condotta di vita razionalizzata nel caos di una pluralità di orientamenti dell'agire e assiologici tra loro irriducibili - un processo che Weber aveva illustrato in modo esemplare a proposito della scienza e della politica.

Nella sua analisi critica dell'approccio weberiano Habermas sostiene che ricostruire l'intero processo della razionalizzazione occidentale solo dal punto di vista dell'affermarsi della razionalità rispetto allo scopo significa ignorare la pluralità e la specificità dei vari sistemi dell'agire. Per evitare questa semplificazione occorre partire da un modello di razionalità più complesso, che può essere sviluppato ampliando la teoria dell'azione weberiana. L'agire sociale non va interpretato solo dal punto di vista della razionalità rispetto allo scopo, ossia come agire strumentale ovvero, sul piano sociale, come agire strategico, ma anche dal punto di vista della razionalità comunicativa, ossia come agire orientato alla comprensione. Habermas afferma anzi il primato genetico dell'agire comunicativo rispetto a quello strategico: il processo di differenziazione e di autonomizzazione dei sistemi dell'agire strategico - che Weber aveva descritto a proposito dell'affermarsi dell'economia di mercato capitalistica, dello Stato, del diritto formale e soprattutto della burocrazia - parte da una realtà di vita non ancora razionalizzata, che continua a sussistere quale presupposto costante della formazione di quei sistemi dell'agire e nello stesso tempo viene trasformata retroattivamente da essi. Reinterpretando in questo modo la teoria weberiana del processo di razionalizzazione, Habermas sviluppa una teoria della società basata sulla contrapposizione tra 'sistema' e 'mondo di vita'. La nozione di 'sistema' si riferisce ai sistemi dell'agire che nelle loro norme e strutture si sono svincolati dalle intenzioni soggettive dell'attore sociale e gli si contrappongono come entità autonome cui egli deve conformarsi. Habermas ha in mente soprattutto l'economia e lo Stato, ossia i sottosistemi dell'agire economico e politico basati sui media del denaro e del potere. Il 'mondo di vita' per contro - concetto che richiama in parte quello husserliano di Lebenswelt trascendentale - indica nella teoria di Habermas il mondo sociale così come se lo rappresentano gli attori sociali quale sfondo e quadro di orientamento dell'agire comunicativo. Tra mondo di vita e sistema sussiste lo stesso rapporto di complementarità che caratterizza la coppia agire comunicativo/agire strategico. La loro coesistenza - vale a dire il fatto che gli attori siano integrati sia sul piano sociale che sul piano sistemico, sia attraverso una coordinazione intersoggettiva di orientamenti soggettivi dell'agire, sia attraverso un intreccio di conseguenze non intenzionali, funzionali, dell'agire - rappresenta secondo Habermas uno dei caratteri essenziali della società moderna razionalizzata. Quest'ultima di conseguenza deve essere concepita sia come sistema che come mondo di vita. Questo modello di società che Habermas sviluppa a partire dalla sua lettura critica di Weber viene presentato come fondamento normativo di una teoria critica della società. Così come l'agire strategico è possibile solo sulla base di un accordo comunicativo e attraverso lo sfruttamento delle possibilità di comprensione che questo offre, allo stesso modo secondo Habermas anche il sistema in quanto luogo sociale dell'agire strategico dipende sempre, per quanto attiene alla sua funzionalità e comprensibilità, da un mondo di vita che costituisce lo sfondo dell'agire comunicativo. (È qui, per inciso, che si innesta la critica di Habermas al funzionalismo sistemico di Niklas Luhmann). Le sociopatologie del mondo moderno vengono interpretate da Habermas come risultato di una 'colonizzazione interna' del mondo di vita da parte del sistema. Con ciò egli intende la progressiva sostituzione degli orientamenti comunicativi da parte di quelli strategici, quale si osserva ad esempio nei processi di giuridificazione e di economicizzazione dell'agire quotidiano informale. È stato obiettato a questo proposito che tali processi di 'colonizzazione' possono essere descritti anche in modo 'avalutativo' in senso weberiano, ossia indipendentemente da giudizi di valore, cosicché una teoria della colonizzazione puramente funzionalistica non trapassa ancora di necessità in una teoria critica della società. A questa obiezione Habermas risponde che quello di razionalità comunicativa è esso stesso un concetto normativo, in grado di fornire dei criteri critici dimostrabili alla teoria della società che ha in esso il proprio fondamento. La 'teoria dell'agire comunicativo' di Habermas dunque può essere considerata la più avanzata e approfondita teoria della razionalizzazione sociale tuttora sviluppata. L'altro approccio offerto dalla sociologia contemporanea, la teoria sistemica di Niklas Luhmann (v., 1983) risulta meno convincente sul piano della ricostruzione del processo di razionalizzazione; manca in essa un corrispettivo altrettanto valido quanto la dicotomia habermasiana sistema/mondo di vita.Due sono fondamentalmente le critiche che sono state mosse alla teoria di Habermas. Secondo alcuni essa farebbe eccessive concessioni al funzionalismo sistemico a scapito del potenziale critico della teoria dell'azione rivelato in particolare da Marx (v. Joas, 1986). Altri hanno messo in discussione la tesi di Habermas che il concetto di agire comunicativo e quello a esso complementare di mondo di vita possano costituire il fondamento normativo di una teoria critica della società che mancava nei precedenti approcci (v. Schnädelbach, 1986). Il giudizio sulla teoria della razionalizzazione sociale proposta da Habermas è legato essenzialmente alla posizione che si assume di fronte a questi due punti critici. (V. anche Industrializzazione; Modernizzazione; Secolarizzazione).

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