BADUILA, re degli Ostrogoti

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 5 (1963)

BADUILA, re degli Ostrogoti

Ottorino Bertolini

Le monete coniate col nome di questo re attestano che esso, nell'uso ufficiale della sua corte, suonava Baduila, Badunila, Baduela. Dei testi narrativi, pochi lo dànno in questa e nelle forme corrispondenti Badua, Vadua; i più usano di norma il nome Totila,che quelli greci traslitterano con Τωτίλας, Τουτίλας, Τοτίλας. È il nome oggi comunemente usato; gli studiosi non hanno ancora saputo spiegare in modo soddisfacente il fatto del doppio nome. La Nagl lo dice dovuto "forse" a motivi fonetici.

B. apparteneva a una delle Sippen più illustri del suo popolo. Era nipote di Ildibado, che gli Ostrogoti avevano acclamato re dopo la resa di Vitige a Belisario in Ravenna nel maggio 540. E Ildibado era a sua volta nipote di quel Teudi, che Teoderico aveva mandato a governare il regno dei Visigoti, dopo la morte di Alarico II nella battaglia di Vouillé del 507, durante la minore età di Amalarico. Alarico II ed Amalarico erano, rispettivamente, genero e nipote di Teoderico. E dei Visigoti Teudi era divenuto re dopo l'assassinio di Amalarico nel 531.

Poteva contare venticinque anni all'incirca quando, comandante del presidio ostrogoto di Treviso, ebbe notizia che Ildibado era stato assassinato e che i Rugi venuti in Italia con Teoderico avevano acclamato a suo successore il loro capo Erarico. Il fatto aveva suscitato negli Ostrogoti un diffuso malcontento e la sensazione che la loro causa era ormai perduta. Lo stesso B., che pure già allora era uno dei loro condottieri piùin fama d'intelligenza e di capacità, ne era stato indotto a proporre al generale bizantino con sede di comando in Ravenna, Costanziano, di consegnare agli imperiali sé, i suoi guerrieri e Treviso. Aveva già concordato il giorno della resa, quando ricevette l'offerta del regno dagli Ostrogoti che di Erarico non ne volevano sapere. B. informò lealmente degli accordi con i Bizantini i messi inviatigli; ma si disse anche pronto ad accettare l'offerta se prima del giorno da lui fissato con il generale bizantino fosse stato ucciso Erarico. Fu quanto avvenne verso la fine dell'autunno le B., recatosi a Pavia, vi fu gridato re. Gli stretti vincoli di parentela che lo legavano a Teudi e a Ildibado avevano certo concorso con la fama di cui godeva nello spingere gli Ostrogoti ad affidargli concordi le proprie sorti. I fatti non tardarono a provare che essi avevano scelto l'uomo più adatto alla situazione. La massa principale delle forze imperiali si era venuta concentrando a Ravenna. Contava 12.000 uomini, e Giustiniano, da Costantinopoli, non risparmiava gl'incitamenti ad agire con energia. Ma non vi era unità di comando, perché questo si trovava diviso fra due generali, Costanziano e Alessandro, e ad entrambi, come agli altri nove loro subordinati, mancava una decisa volontà di sferrare un'offensiva risolutiva, con obbiettivo principale Pavia. Vi rinunciarono non appena fallì un fiacco tentativo di strappare Verona agli Ostrogoti che la presidiavano; e si ritrassero a sud dei Po, arrestandosi a Faenza. B. agì con ben altro animo. Depositato in Pavia il tesoro regio, alla testa di tutte le forze che aveva potuto raccogliere, circa 5000 uomini, marciò direttamente sul nemico; varcò il Po senza che i Bizantini, paralizzati dalle discordie dei loro generali, gliene ostacolassero il passaggio, ed appunto presso Faenza, nella primavera del 542, riportò la sua prima vittoria. Gl'imperiali scampati dalla rotta si dispersero, per rinchiudersi qua e là nelle città dove avevano cercato riparo. Nel corso del 542 gran parte della penisola poteva dirsi riconquistata. Il re, al comando del grosso, l'attraversò sino al lembo meridionale dei Bruttii (odierna Calabria), senza bisogno di dare altre battaglie in campo aperto, evitando d'impegnarsi nell'attacco di Roma e dei capisaldi nei quali le guarnigioni si mostravano pronte ad una resistenza decisa. Dopo aver occupato senza colpo ferire Benevento, aveva posto assedio a Napoli, il cui possesso poteva determinare importanti riflessi sul dominio delle comunicazioni marittime con la Sicilia e sulle operazioni contro Roma. Un corpo, distaccato ad assalire Firenze, di cui aveva intrapreso l'assedio, dovette invece dar battaglia nel Mugello ad un esercito di soccorso inviato da Ravenna. Fu una nuova vittoria, che però non trovò il suo coronamento in una ripresa dell'assedio di Firenze. Era questo un risultato indubbiamente positivo per i Bizantini, che fallirono invece nelle mosse tentate dal mare in aiuto di Napoli. Il comandante di un corpo di spedizione di modesta entità, che Giustiniano aveva mandato in Sicilia, Demetrio, si provò a rifornire di frumento la città assediata. Mise prima le prore alle foci del Tevere, nella speranza d'imbarcare qui altre truppe tra quelle dislocate a Roma e nei dintorni. Le trovò così sgomentate dall'idea di cimentarsi con gli Ostrogoti, che quando fece finalmente rotta su Napoli, aveva ancora a bordo solo le forze imbarcate in Sicilia, poche e di scarse qualità combattive. B. aveva profittato di quel respiro per allestire una squadra di ottime navi da corsa, e piombò fulmineo là dove, nei pressi di Napoli, Demetrio si accingeva a sbarcare. Del nemico fu fatta strage; la maggior parte dei superstiti, delle navi e del frumento venne catturata.

Pochi scamparono, gettatisi dalle navi su battelli; fra di essì, Demetrio. Nel cuore dell'inverno, probabilmente nel gennaio 543, una armata, con lo stesso Demetrio e con a bordo contingenti traci, armenì e unni, che da tempo per ordine di Giustiniano era partita da Costantinopoli, ma che si era attardata sulle coste della Grecia, salpò dalla Sicilia diretta a Napoli. Una furiosa tempesta la sbatté sul littorale proprio nelle vicinanze del campo degli Ostrogoti, che ebbero facile gioco nell'assalirla profittando del disordine e del panico che sconvolgevano equipaggi e soldati. Poche navi, quelle rimaste più lontane dalla riva, riuscirono a riprendere il largo. Demetrio, questa volta, non sfuggì alla cattura; e proprio lui, tratto sotto le mura di Napoli, avvinto il collo ad una fune, dovette, per ordine di B., annunciare ai difensori che con quella flotta era andata perduta ogni speranza di soccorso. Gli assediati, ridotti agli estremi dalla fame, offersero la resa allo scadere del trentesimo giorno, se nel frattempo non fossero effettivamente giunti soccorsi. B. concesse un periodo triplo di attesa. Si sentiva sicuro che non avrebbe dovuto aspettare così a lungo, ed infatti la resa avvenne prima dei termine concordato. Al presidio imperiale e al suo comandante, Conone, il re diede licenza di andarsene dove volevano; e poiché il vento persisteva a ostacolare un loro imbarco, li tenne nel suo campo, li rifornì di viveri, ed infine anche di cavalli, perché potessero ricongiungersi con i commilitoni di Roma. Si era nella primavera inoltrata del 543. Durante l'assedio di Napoli un reparto goto aveva preso anche la vicina fortezza di Cuma, dove, allora o più tardi, il re fece trasportare da Pavia la maggior parte del suo tesoro.

B. conservava l'iniziativa, mentre i generali bizantini preferivano non uscire dai centri fortificati come a Ravenna, a Osimo, a Firenze, a Perugia, a Spoleto, a Roma, a Otranto, ove si erano rinchiusi. L'obbiettivo principale del re era ormai Roma; ma B. intendeva prepararne l'investimento diretto con una fase di mosse preliminari che gli dessero modo d'isolarla senza impegnarsi subito sotto le sue mura. Allestì una flottiglia di piccole navi che, con la base alle Eolie, intercettassero le navi da carico veleggianti dalla Sicilia alle foci del Tevere. Non aveva bisogno di prendere altre misure nei riguardi di quell'isola. Vi si trovava, è vero, un membro del Senato di Costantinopoli, Massimino, che Giustiniano aveva nominato prefetto del pretorio d'Italia nel proposito di ristabilire con lui l'unità del comando supremo per le forze combattenti nella penisola italiana. L'imperatore gli aveva affidato l'armata poi ingloriosamente finita nelle acque di Napoli. Ma il senatore bizantino era uomo privo di ogni esperienza di guerra e pavido; aveva mandato l'armata allo sbaraglio con i comandanti dei contingenti su di essa imbarcati; era rimasto inattivo a Siracusa, e quell'armata, ormai, aveva cessato di esistere. B. quando, nella primavera del 544, marciò col grosso dell'esercito verso Roma, provvide a neutralizzare Otranto, uno degli scali più importanti per le navi provenienti dal littorale greco, distaccandovi un corpo incaricato d'impadronirsene, o di porre assedio a quella città, se il suo presidio avesse rifiutato di arrendersi. L'occupazione di Tivoli, sulle rive del fiume Aniene, presa senza lotta per il tradimento degli abitanti, venuti a contesa con la guarnigione imperiale composta di Isaurii, che scamparono fuggendo, permise d'interrompere i rifornimenti che Roma riceveva per via fluviale dall'est. Col fortunato inizio delle operazioni contro Roma coincise l'arrivo a Ravenna di Belisario, per la seconda volta inviato da Giustiniano a combattere gli Ostrogoti in Italia. Belisario era indubbiamente condottiero capace di fronteggiare un avversario quale si era rivelato B.; aveva già pratica del paese, e conoscenza del nemico; ma disponeva di mezzi inadeguati a rinnovare le imprese della guerra vinta su Vitige. Il suo esercito era rimasto nelle provincie asiatiche dell'Impero, dove ancora infuriava la guerra contro i Persiani, che vi logorava le maggiori e migliori risorse militari bizantine. Aveva portato con sé appena 4000 uomini circa, da lui stesso arruolati a proprie spese, scarsamente addestrati nonostante l'attività con cui si era affaticato a dare ad essi un certo ordine nel periodo trascorso sul littorale dalmata, a Salona prima, a Pola poi, nell'attesa di potersi imbarcare per Ravenna.

Belisario si diede subito da fare perché all'atteggiamento difensivo subentrassero almeno puntate controffensive. Già quando teneva il campo a Salona gli era riuscito, con un ardito colpo di mano condotto per mare da uno dei suoi ufficiali, d'introdurre rinforzi e viveri in Otranto, così da costringere gli Ostrogoti a lasciarne l'assedio. Da Ravenna spinse nel cuore dell'Emilia una colonna che riconquistò Bologna ed alcuni dei capisaldi adiacenti, ed un'altra, che non ebbe però uguale fortuna, in soccorso di Osimo, di cui B. aveva intrapreso l'assedio. Pronta era stata infatti la reazione del re, con l'invio di truppe ad assalire Piacenza, che dominava uno dei più importanti passaggi sul corso medio del Po. B. si provò, ma invano, a riprendere Bologna; agì decisamente per eliminare i centri fortificati nemici che, nella zona appenninica, potevano offrire a Belisario preziosi punti d'appoggio per una sua marcia verso il centro della penisola. Attaccò, senza esito, le truppe che il generalissimo bizantino subito inviò a rafforzarsi in Pesaro; ma occupò Fermo, Ascoli Piceno, Assisi, Chiusi e Spoleto.

La via Flaminia, principale arteria delle comunicazioni di Ravenna con la valle del Tevere, poteva dirsi validamente sbarrata. B. non sentì quindi il bisogno di insistere nei tentativi intrapresi per ottenere la resa del presidio di Perugia, e poté giudicare matura, nell'estate inoltrata-autunno del 546, la situazione militare per passare all'ínvestimento diretto di Roma, tanto più che allora si deve ritenere caduta nelle sue mani anche Osimo, ed alla fine della resistenza era Piacenza, che si arrese poco dopo. A questo stesso periodo vanno d'altra parte riferite, secondo ogni probabilità, le trattative di B. col re dei Franchi Teodeberto I di cui c'informa, senza precisarne la data, Procopio. Negli anni precedenti, in momenti e in circostanze non bene noti, ma in ogni modo profittando dell'impossibilità in cui entrambi i belligeranti si trovavano di affrontare anche un'altra guerra, i Franchi si erano insediati in vasti tratti dell'Italia settentrionale, specie della Venetia, dove erano rimasti agli Ostrogoti solo piccoli centri nell'interno, ed ai Bizantini solo le località sul mare. Le trattative portarono a un accordo sulla base del reciproco riconoscimento provvisorio delle rispettive zone d'occupazione, rimandando l'intesa definitiva al momento in cui B. avesse vinto la guerra in corso.

Il comando dei 3000 uomini circa che costituivano la guarnigione di Roma era diviso fra due generali, Bessa e Conone, i quali, nelle strette in cui il crescente scarseggiare di viveri poneva la città, pensavano solo ad arricchirsi, speculando sul grano da loro incettato, che vendevano a prezzi esosi ai civili più facoltosi. Belisario, che reiterava le richieste di rinforzi all'imperatore, per renderle più pressanti, aveva ripassato l'Adriatico. Da Epidamno (Durazzo) si affrettò a formare, con i primi aiuti giuntigli, un corpo di spedizione, che mandò via mare a rafforzare il presidio della fortezza di Porto, alle foci del Tevere, ancora in possesso degli imperiali, perché si potesse di là molestare il campo che B. aveva posto sotto Roma. Il re batté duramente e decimò quelle truppe. I superstiti si asserragliarono nella fortezza. Quando, nell'estate del 546, fu segnalato l'avvicinarsi di un convoglio di navi cariche di grano, inviato dalla Sicilia per iniziativa di papa Vigilio - questi, chiamato a Costantinopoli da Giustiniano, per la questione della condanna delle dottrine dette dei "Tre Capitoli", si trovava nell'isola in attesa di proseguire il viaggio -, il presidio della fortezza non fu in grado d'impedire che gli Ostrogoti s'annidassero nelle adiacenze dello scalo, e, piombati sulle navi al loro approdo, facessero preda di esse e del carico. B. non tentò di contrastare lo sbarco delle truppe che, non molto tempo dopo, lo stesso Belisario condusse per mare a Porto da Otranto. Erano solo una parte di quelle che lo avevano ulteriormente raggiunto ad Epidamno. Aveva acconsentito che un suo subordinato, Giovanni, trattenesse il resto, per aprirsi la via di terra sino a Porto, dove si sarebbe operato il ricongiungimento con Belisario. Gli Ostrogoti che assediavano Otranto già all'arrivo del generalissimo avevano ripiegato su Bríndisi. Giovanni li sorprese, li disperse, occupò Canosa. B. si limitò a distaccare dal suo campo un piccolo reparto di circa 300 uomini, con un modesto compito esplorativo: non andare al di là di Capua, e, cercando di non farsi avvistare, informare il re dell'avvicinarsi delle truppe nemiche provenienti dalla Puglia. La mossa bastò a distogliere Giovanni dall'effettuare il piano del ricongiungimento col suo superiore a Porto. Il generale bizantino, temendo di essere accerchiato, si ritirò nella Puglia, dopo una puntata nella Lucania e nei Bruttii durante la quale annientò il presidio ostrogoto dislocato da B. tra Vibo Valentia e Reggio Calabria a guardia delle provenienze dalla Sicilia. Il re raccoglieva il frutto della calma con cui aveva seguito gli sviluppi della nuova situazione: di fronte a lui Belisario rimaneva con le sole forze ai suoi ordini diretti. Il generalissimo bizantino ancora una volta provò la sua sperimentata bravura, con un audace tentativo, da lui personalmente guidato, sulla fine del 546, di introdurre viveri ed uomini in Roma, ormai stremata dalla fame, forzando le ostruzioni con cui B. aveva sbarrato l'alveo del Tevere poco a monte di Porto. Si trattava di un sistema di travi gettate dall'una all'altra riva, appoggiato su entrambe a due torri in legno presidiate da guerrieri scelti. Il sistema era stato rafforzato mediante una catena di ferro tirata a pelo d'acqua attraverso il fiume, e difesa anch'essa da guerrieri dislocati ai suoi due capi sulle sponde. Il mancato concorso di una sortita da parte di Bessa, nonostante gli ordini che Belisario era riuscito a fargli giungere tempestivamente, ed una serie di disgraziati malintesi provocarono il fallimento dell'impresa proprio quando sembrava fosse sul punto di assicurare al suo protagonista un'altra clamorosa vittoria. Belisario se ne accorò tanto, da ammalarsene gravemente.

Le sorti di Roma erano già decise quando B. la poté avere senza combattere, entrandovi, la notte sul 17 dic. 546, per la Porta Asinaria (nei pressi della basilica Lateranense), grazie al tradimento degli Isaurii che la guardavano, e che gliela apersero secondo intese precedentemente concordate. Soldati, ufficiali e generali si sottrassero, con la fuga dalle altre porte, alla lotta.

Ci si poteva aspettare che il re, dalla presa di Roma e dall'infermità di Belisario traesse logicamente motivo per vibrare il colpo decisivo al suo più temibile avversario assalendo subito Porto. Sembrò invece che il re ritenesse venuto il momento di tentare un accordo con Giustiniano.

L'anonimo continuatore della cronaca di Marcellino Conte registra all'anno 547 la notizia che i Goti mandarono loro ambasciatore all'imperatore il vescovo di Assisi, Avenzio; non precisa che cosa egli fosse incaricato di dire. Procopio scrive invece che B. propose la pace inviando a Giustiniano, come suoi ambasciatori, il più autorevole ecclesiastico di Roma nell'assenza del papa, e che di Vigilio sarebbe stato il successore, il diacono Pelagio, ed un uomo di legge, di nome Teodoro, altrimenti sconosciuto. Non siamo in grado di stabilire con certezza se l'ambasceria di Avenzio fosse un fatto diverso, ed anteriore alla presa di Roma; o se quella di cui parla Procopio avesse tra i suoi capi anche il vescovo di Assisi. B. chiedeva, con una lettera, di essere riconosciuto legittimo re, negli stessi rapporti con l'imperatore, che Teoderico aveva avuto con Anastasio I. Ma ai suoi inviati il re aveva detto a voce cose tali da far dubitare che egli si proponesse davvero un'intesa: se la pace non fosse stata conchiusa, sarebbe stato costretto a radere al suolo Roma, a sterminare i senatori, a portare la guerra nell'Illirico. Giustiniano rispose non con un documento scritto, ma con una dichiarazione verbale che, nella sua estrema concisione, era innegabilmente significativa: veniva lasciata a Belisario, nella sua qualità di comandante supremo delle forze operanti contro gli Ostrogoti, la facoltà di decidere come voleva nei riguardi di Baduila. E senza dubbio Belisario, nell'astenersi dall'intavolare trattative, ben sapeva di essere fedele interprete del pensiero del suo sovrano.

La guerra proseguì, entrando in una fase durante la quale B., nel valutare le esigenze militari, mostrò ancora incertezze che mai gli erano occorse sino alla presa di Roma. Per tutta la prima metà del 547 trascurò Porto e Belisario, per occuparsi invece dell'Italia meridionale e di Giovanni. Accorse nella Lucania, dove i contadini erano stati spinti da un potente del luogo, un certo Tulliano, a battersi per l'Impero, col sostegno di soldati inviati da Giovanni. Il re vi ristabilì la propria autorità, ma evitò di attaccare il generale bizantino nella sua roccaforte di Otranto e lasciò senza risposta le puntate controffensive lanciate da Giovanni, sebbene avessero portato alla eliminazione di gruppi isolati di Ostrogoti e all'occupazione di Taranto. Si limitò ad operare un concentramento in forze nel campo da lui posto presso il promontorio del Gargano. Nel frattempo il tradimento aveva ridato agli imperiali anche un elemento essenziale della cortina di capisaldi creata da B. due anni prima a sbarramento delle comunicazioni fra Roma e Ravenna: Spoleto. Fu certo questa notizia a indurre il re a mettersi in marcia nella direzione di Ravenna, lasciando presidi ad Acerenza, sul confine tra la Lucania e la Puglia, ed in alcune località della Campania. Probabilmente allora distaccò una colonna a riprendere l'assedio di Perugia, donde erano uscite le truppe imperiali che avevano rioccupato Spoleto. Ma un'altra ben più grave notizia costrinse B. a ricollocare al centro dei suoi piani di guerra Belisario e Roma.

Il re aveva portato nella Lucania una parte delle forze impiegate nel blocco di Roma, ma aveva commesso l'errore di ritenere che per impedire a Belisario di far sortite da Porto bastasse guarnire una località non lontana della campagna, a occidente di Roma, che Procopio indica col nome di "Algido" (᾿Αλγηδών), ma di cui ignoriamo l'esatta ubicazione. Un altro errore era stato l'ordine di smantellare in parte quelle mura, che anche di recente avevano provato di costituire il più valido baluardo per la difesa di Roma. Belisario, evidentemente tornato nel pieno possesso delle sue energie, era stato pronto a sfruttare questi errori. Nella primavera inoltrata del 547, dopo aver sbaragliato con una ricognizione in forze gli Ostrogoti usciti da Algido per affrontarlo, aveva potuto rioccupare Roma senza più dover combattere. La notizia spronò B. alla riscossa. Belisario era appena riuscito, in nemmeno un mese di febbrile lavoro, compiuto soltanto dalle braccia dei suoi soldati, a restaurare le mura con mezzi di fortuna, senza disporre di calce per saldare insieme le pietre, e di operai qualificati per ricostruire le porte a regola d'arte, quando l'esercito del re raggiunse il Tevere. B. era perciò fiducioso di poter espugnare Roma di primo impeto. Concesso ai suoi il riposo di una sola notte di bivacco, al sorgere del sole li lanciò in massa all'assalto. Fu sanguinosamente respinto dopo una lunga lotta. Fallirono anche i due assalti sferrati nei due giorni successivi. B. dovette sospendere per un certo tempo l'azione prima di sferrare un quarto assalto generale, che ebbe lo stesso esito negativo dei precedenti. Anzi, questa volta Belisario gettò i suoi fuori delle mura a contrattaccare in campo aperto. Il re si vide costretto a ripiegare su Tivoli con l'esercito decimato e demoralizzato, ed a sottrarsi ad un temuto inseguimento facendo distruggere i ponti alle proprie spalle. Belisario poté tranquillamente munire la cinta di tutte le sue porte, e riconsacrare la sovranità imperiale su Roma inviandone le chiavi, come già dieci anni prima, a Giustiniano. All'inizio dell'estate del 547 la fama d'invincibilità che aleggiava intorno alla figura di B. aveva subito un duro colpo nel primo urto diretto sostenuto con il più famoso condottiero imperiale del tempo. Il re, che dagli Ostrogoti era stato sino allora esaltato pari a un dio - scrive Procopio -, si sentì addossare dai suoi stessi maggiorenti tutta la responsabilità della sconfitta perché non aveva raso al suolo Roma dopo averla occupata, in modo da rendere impossibile al nemico di vantarne la riconquista. B., se volle ottenere che i suoi guerrieri lo seguissero per dare una spinta decisiva almeno all'assedio di Perugia, dove lo scarseggiare dei viveri pareva stesse per piegare alla resa i difensori, dovette rivolgere una calda arringa all'intero esercito riunito. Per effetto dello scacco subito gli toccò d'essere umiliato anche dai Franchi. Aveva tentato di stringere un intimo vincolo con Teodeberto I chiedendogli in moglie una figlia; il re d'Austrasia motivò la risposta negativa con uno sferzante giudizio: B., presa Roma, non era stato capace di tenerla; non era dunque, né sarebbe stato re d'Italia. B. fondava ora le maggiori speranze sulla possibilità, da un lato, che la resa di Perugia si verificasse facilmente e presto, in modo che ne fosse risollevato il morale dei suoi; dall'altro, che il persistente antagonismo di Giovanni nei riguardi del generalissimo finisse col paralizzare completamente Belisario. Giovanni, infatti, per ambizione d'illustrare il proprio nome e per cupidigia di preda, invece di ricongiungersi al generalissimo continuava a condurre per suo conto una specie di guerra personale nelle province meridionali della penisola. Un suo tentativo di occupare Acerenza era fallito; ma B. si trovò di nuovo a doversi occupare soprattutto di lui quando al campo sotto Perugia giunsero, minacciando di propagarvi il loro panico, i fuggiaschi scampati alla rotta che il generale bizantino, spintosi con un'ardita puntata fino a Capua, aveva inflitto ad un reparto di circa 400 cavalieri spediti dal re a rafforzare i presidi della Campania. Giovanni aveva così potuto liberare, e mandare in Sicilia, alcuni senatori, le loro mogli, e quelle di molti altri, che il re aveva relegato nella Campania sotto buona guardia, e che costituivano per lui un pegno prezioso, del quale si vedeva ora privato. B., lasciate sotto Perugia solo le forze strettamente necessarie a continuarne l'assedio, marciò col grosso contro Giovanni. Lo sorprese nella Lucania con un repentino attacco notturno. Procopio rimprovera al re di non aver saputo dominare la sua impazienza di vendicare l'onta di Capua, per attendere la luce del giorno, che gli avrebbe dato modo di annientare in battaglia ordinata il nemico, dieci volte inferiore di numero, mentre le tenebre permisero al generale bizantino di salvarsi fuggendo sui monti circostanti, e riparando poi a Otranto.

B. non era stato capace di cogliere l'occasione di una vittoria che togliesse al nemico la possibilità di rifarsi della sconfitta nelle proprie basi d'operazione, proprio quando Giustiniano era indotto dalla presenza del re nell'Italia meridionale a decidere che qui, e non nella zona di Roma, come prevedevano i piani di Belisario, si raccogliesse la massa delle truppe imperiali. Il generalissimo aveva ricevuto l'ordine di trasferirsi nella Puglia, di concentrarvi le forze disponibili, e da lì muovere per un'azione a fondo contro Baduila. Al principio del 548, ancora nell'invemo, approdavano a Crotone, dopo aver attraversato lo stretto di Messina, le navi su cui il generalissimo si era imbarcato con un piccolo corpo di soldati scelti - 700 cavalieri e 200 fanti -, lasciando a Roma un presidio sotto il comando di Conone. Veramente la rotta era per Taranto, dove Giovanni aveva portato le sue truppe, e dove si trovava anche il primo modesto scaglione dei rinforzi che l'imperatore andava a mano a mano inviando dall'Oriente. Una delle furiose tempeste stagionali aveva imposto l'approdo a Crotone, e Giovanni ebbe dal generalissimo l'ordine di congiungersi qui con lui. Furono certo mosse preliminari concordate l'occupazione, da parte di soldati di Giovanni, della fortezza di Rossano, che dominava gli angusti passaggi lasciati dalle propaggini dei monti della Sila al confine, sulla riva meridionale del golfo di Taranto, tra la Lucania ed i Bruttii; e l'invio, da parte di Belisario, di tutta la sua cavalleria a prendere posizione appunto in quel tratto del littorale. E fu la cavalleria del generalissimo a mettere in rotta il corpo di Ostrogoti spedito da B. a tentare la riconquista di Rossano. Ma questa volta il re fu il più pronto nella decisione d'imporre al nemico la propria iniziativa. Accorse alla testa di 3000 cavalieri scelti; sgominò quelli imperiali; diffuse un tale panico tra i Bizantini, che Belisario non solo tornò ad imbarcare le sue truppe, ma addirittura si ridusse a Messina. B. mise assedio a Rossano. Nell'estate del 548 si chiudeva così a suo vantaggio questa fase dei duello da quattro anni impegnato tra lui ed il suo grande avversario. Anche nell'ultima fase la fortuna fu avversa a Belisario. Operata finalmente ad Otranto, raggiunta dal mare, l'unione delle sue truppe con quelle di Giovanni, e ricevuti qui altri rinforzi inviati dall'Oriente, era salpato per venire in soccorso di Rossano. Ancora una volta vide allearsi col nemico la procella, che disperse le sue navi. Le raccolse di nuovo nel porto di Crotone, e fece rimettere le prore su Rossano. Ed anche questa volta il più pronto fu Baduila. La vista degli Ostrogoti già schierati in difesa sulla riva, convinse Belisario che troppo rischioso sarebbe stato anche solo tentare uno sbarco, e ordinò di tornare a Crotone. Era per lui indubbiamente uno scacco, e questo segnò la fine del suo duello col re.

Da Roma giungevano gravi notizie. I soldati che la presidiavano, esasperati non solo perché non ricevevano paghe, ma anche perché danneggiati dalle ruberie cui, secondo il suo inveterato costume, si abbandonava Conone, trafficando per lucro personale in frumento e vettovaglie, si erano ammutinati, lo avevano ucciso, ed avevano ottenuto dall'imperatore, facendogli giungere la minaccia di passare in massa al nemico se le loro richieste non fossero state soddisfatte dentro un dato termine, la promessa del perdono e delle paghe. Le notizie portarono ad un ennesimo mutamento nei piani del generalissimo. Tornò a dividere l'esercito. Il grosso, agli ordini di Giovanni e di un altro generale, Valeriano, si mise in marcia verso il Piceno per attaccare quei presidi ostrogoti, nella speranza di attirarvi B., e di giovare così indirettamente alla liberazione di Rossano. Belisario, col resto, sarebbe andato a Roma per rifornirla di viveri e ristabilirvi di persona il pieno rispetto della disciplina militare. Ma la notizia dell'ammutinamento indubbiamente aveva concorso a decidere Giustiniano di togliere a Belisario il comando in Italia. Non sappiamo dove si trovava il generalissimo quando, nell'autunno inoltrato del 548, fu raggiunto dall'ordine che lo richiamava a Costantinopoli. Sappiamo solo che egli ebbe il tempo di guarnire Roma con 3000 uomini scelti, al comando di uno dei più valenti ufficiali della sua guardia personale, Diogene.

B. era di nuovo il solo protagonista della guerra in Italia, e riprese l'iniziativa delle operazioni. Ottenne la resa di Rossano. Per il Piceno si limitò a distaccarvi 2000 cavalieri scelti che ne rafforzassero la difesa. Falliva la mossa diversiva degli imperiali, peraltro indebolita dal fatto stesso che le forze destinate ad effettuarla si erano alla loro volta divise. Valeriano aveva preso il mare, puntando su Ancona, da dove pensava gli sarebbe stato facile ricongiungersi col collega; Giovanni avrebbe compiuto la marcia per terra. Che cosa poi essi abbiano fatto, ignoriamo. Nessuna notizia abbiamo di loro azioni nel Piceno in rapporto con i piani stabiliti con Belisario. Nel periodo compreso fra la partenza del generalissimo e l'estate del 549 gli Ostrogoti presero finalmente Perugia, che da molto tempo assediavano.

Non sappiamo se fosse stata concordata con B. l'impresa nello stesso periodo compiuta da un principe longobardo, Ildige, stretto congiunto del proprio re Vacone, ma suo nemico, e perciò esule presso gli Slavi d'oltre Danubio. Entrò questi in Italia alla testa di 6000 guerrieri della sua gente e di quella dei Gepidi; vinse nella Venetia un corpo di truppe imperiali che lo avevano affrontato; se ne tornò donde era venuto.

All'inizio dell'estate del 549 B. inviò buon numero di navi e truppe a correre il littorale della Dalmazia presso Salona. La scorreria fruttò un pingue bottino di danaro, di vettovaglie e di navi, comprese quelle di una squadra accorsa da Salona, prese dopo che erano stati sbaragliati in dura battaglia i soldati da essa sbarcati. Era senza dubbio mossa collegata con la decisione allora presa da B. di condurre la massa dell'esercito alla riconquista di Roma. L'attacco alle coste dalmate mirava evidentemente ad impegnare qui, e sull'antistante littorale della penisola italiana, le truppe imperiali che vi si trovavano o che vi fossero affluite, così da eliminare minacce sui fianchi ed alle spalle. Roma questa volta era difesa non da un Bessa o da un Conone, ma da un onesto e prode soldato. Fu merito di Diogene se gli assalti ripetutamente dati alle mura vennero ricacciati; e se la semina di grano dovunque fosse possibile nell'intemo della cinta infuse speranze di prolungare la resistenza anche per quanto riguardava l'alimentazione, sebbene la caduta di Porto in potere degli Ostrogoti, che Diogene non aveva potuto impedire, rendesse più rigoroso il blocco. Fu di nuovo il tradimento a ridare Roma a B.; e furono di nuovo gli Isaurii ad aprirgli, la notte sul 16 genn. 550, la porta affidata alla loro guardia, quella di S. Paolo, per la quale si entrava nella città dalla via Ostiense. I guerrieri ostrogoti poterono dilagare nelle vie e nelle piazze, far strage e prigionieri. B. aveva disposti guerrieri scelti in agguato sulla via che portava a Centumcellae (Civitavecchia). In essi incapparono i fuggiaschi che avevano preso questa via. I più vi trovarono la morte; tra i pochi che riuscirono a raggiungere quella fortezza fu Diogene, ferito. Dopo il richiamo di Belisario, alla decisione mostrata dal re facevano contrasto le incertezze dell'imperatore nel considerare il problema della guerra in Italia. Veramente sembrò possibile che B. per un momento pensasse, come quando aveva preso per la prima volta Roma, a una pace onorevole. Come allora, si affidò ad un romano, di cui conosciamo solo il nome, Stefano, perché si recasse quale suo ambasciatore da Giustiniano. Offriva, come contropartita della fine della guerra, l'alleanza degli Ostrogoti contro tutti i nemici dell'impero. Ma contemporaneamente il re si preparava alacremente alla continuazione della lotta. Disegnava di portarne l'epicentro nella Sicilia, con l'appoggio di una flotta forte di 400 navi minori e di molte di maggior stazza, catturate, carico ed equipaggi, alle squadre che Giustiniano via via spediva dall'Oriente. Si trovava quindi pronto ad agire quando seppe che Giustiniano aveva rifiutato udienza al suo ambasciatore. Centumcellae, base navale, con un presidio al comando di un soldato della tempra di Diogene, costituiva un pericolo alle spalle da non sottovalutare. B. riuscì a neutralizzarlo trattando un accordo, sancito dallo scambio di 30 ostaggi per parte, che impegnava Diogene a consegnare la fortezza se entro un dato termine non avesse ricevuto soccorsi dopo aver informato l'imperatore della sua situazione; ed il re a lasciarlo andar libero con i suoi soldati.

Nella spedizione di Sicilia, B. impiegò i mesi dalla primavera all'autunno inoltrato del 550. Fino allo stretto di Messina trovò resistenza solo a Reggio Calabria, che lasciò bloccata da una parte delle sue truppe, mentre col grosso valicava lo stretto. Nella Sicilia gli resistette Messina, ed anche qui il re non si attardò a tentarne l'espugnazione, continuando l'avanzata nell'intemo dove non aveva da dover combattere. Gli imperiali si mantennero saldamente soprattutto ai punti estremi dell'isola, a Siracusa ed a Palermo, oltre che a Messina. Intanto Reggio Calabria, priva di viveri, si arrendeva; nella Puglia truppe colà inviate da B. prima di passare lo stretto, conquistavano Taranto, e nel Piceno quelle che già vi erano dislocate occupavano per tradimento Rimini, e sconfiggevano nelle sue vicinanze un corpo di soldati scelti accorso da Ravenna. B., con le sue operazioni in Sicilia, aveva senza dubbio la mira a un duplice obbiettivo: togliere al nemico una base preziosa per l'afflusso di truppe dal mare, e per il loro successivo passaggio nella penisola; assicurarsi durevolmente larghezza di rifornimenti col possesso di quelle terre ricche di produzione granaria. Il lato negativo stava nel fatto che il re si era allontanato dalle regioni prospicienti all'Adriatico sulle quali da un momento all'altro potevano sbarcare le forze che il nemico, come sei anni prima era avvenuto con Belisario, avesse raccolto nella Dalmazia.

Era quello che stava effettivamente accadendo. A Salona si trovava già, in attesa dell'imbarco per Ravenna, un forte esercito, composto di truppe levate nella Tracia e nell'Illirico dall'uomo sul quale l'imperatore aveva finalmente fissato la sua scelta per la nomina al comando supremo della guerra in Italia. Era lo stesso cugino di Giustiniano, Germano, il quale, col denaro fornitogli dall'erario imperiale, profondendone altro e più del proprio, elargendo lauti compensi, giovandosi del suo prestigio personale, alle unità assegnategli dal sovrano aveva aggiunto molti barbari abitanti sulle rive del Danubio ed in altri paesi, e valorosi ufficiali che avevano lasciato il servizio al seguito di comandanti anche di alto grado per passare al suo. Sulle ambizioni suscitate in Germano dall'idea dell'impresa getta luce il fatto che egli, stabilito il suo quartier generale a Sardica (Sofia), vi aveva portato con sé non soltanto i figli, Giustino e Giustiniano, ma anche la moglie sposata in seconde nozze, e questa era Matasunta, la figlia di Amalasunta, che aveva avuto a primo marito Vitige. Il fatto illumina anche il movente che aveva deciso la scelta di Giustiniano. Suo cugino poteva presentarsi agli Ostrogoti nella veste non di generalissimo del nemico, come Belisario, ma di principe imperiale consorte di una donna la quale era già stata loro regina, a fianco del prode Vitige, ed aveva nelle sue vene il sangue di Teoderico e di quella delle figlie del grande re, che gli era successa sul trono di Ravenna. Ed effettivamente profonda impressione aveva suscitato la notizia negli Ostrogoti, disorientandoli e indebolendone il proposito di persistere nella lotta, mentre si sentivano rafforzati nella volontà di tener duro i presidi dei pochi centri rimasti ai Bizantini. Diogene, il comandante di Centumcellae, sebbene fosse ormai trascorso il termine concordato con B., si rifiutava di accogliere le sollecitazioni che il re gli mandava perché mantenesse l'impegno di consegnare la fortezza. Gli sbandati si erano raccolti nell'Istria, in attesa dell'arrivo di Germano. Quanti dei soldati imperiali erano passati, per loro scelta o per forza, nelle file nemiche, avevano fatto sapere al principe imperiale di essere pronti, non appena avesse posto piede in Italia, a tornare con lui sotto le insegne di Bisanzio. Germano non aveva potuto toccare la meta delle sue ambizioni. Colto da malattia, si era subitamente spento a Sardica, nell'autunno inoltrato del 550, proprio quando aveva già diramato alle truppe il preavviso dell'ordine di partenza per l'Italia. Il suo esercito era stato condotto a Salona dal generale che di Belisario era stato un rivale, Giovanni, e dal secondogenito del principe imperiale, l'omonimo dell'imperatore. Qui aveva preso i suoi quartieri d'inverno, perché Giovanni aveva deciso di aspettare, per l'imbarco, la primavera. B., dalla notizia arrivatagli certo sullo scorcio del 550, trasse l'unica conseguenza possibile: riportare subito nella penisola la massa delle sue forze. Fu rapido nell'effettuare il movimento; non poté essere altrettanto rapido nei successivi sviluppi della situazione. Aveva stabilito il suo quartier generale a Roma; vi si trattenne, pur nelle fasi della lotta contro Narsete, sino all'avvicinarsi dell'estate del 552. Era per lui indispensabile, prima di decidere dove gli conveniva far gravitare lo sforzo maggiore, sapere con certezza da dove l'esercito nemico avrebbe iniziato la marcia sul suolo italiano, se da Ravenna o da basi pugliesi, dopo esservi sbarcato dal mare; se dall'estremo confine nord-orientale, dopo aver raggiunto per terra l'Istria. La posizione centrale di Roma consentiva di contromanovrare a tempo in direzione così delle Puglie come del nord. Il re, inoltre, sentiva urgere la necessità di far, precedere ad un cimento, che si prospettava assai più pericoloso di quelli sino allora superati, almeno il tentativo di migliorare i suoi rapporti con l'aristocrazia senatoria romana. D'altra parte è da ritenere che B., da Roma, ebbe lo sguardo anche al profitto che poteva trarre dalle difficoltà dell'Impero nella penisola balcanica. Secondo ogni probabilità il danaro del re non fu estraneo all'accanimento posto dagli Slavi, che avevano passato il Danubio negli ultimi mesi del 550, nello spingersi, tutto devastando, fin sotto la capitale. Solo nelle sue vicinanze la loro furia poté essere rintuzzata e ricacciata, nella primavera del 551; ma i barbari riuscirono a portare al di là del Danubio la preda raccolta.

Nell'aprile 551 Giustiniano destinò al comando della guerra contro B. l'uomo che l'avrebbe guidata sino alla vittoria decisiva, Narsete, mettendo a sua disposizione buon numero di uomini con molto danaro, da aggiungere a quelli che già si trovavano a Salona. Intanto B., certo perché informato che Giovanni si proponeva di condurre l'esercito di Salona direttamente a Ravenna attraverso l'Adriatico, aveva spedito notevoli forze, al comando di tre dei suoi migliori ufficiali, ed una squadra forte di 47 navi lunghe, nel Piceno, a bloccare dalla terra e dal mare Ancona. Giovanni a Salona imbarcò truppe scelte su trentotto navi lunghe e con altre dodici giuntegli con Valeriano da Ravenna si portò a Senigallia. Quivi avvenne lo scontro con la squadra ostrogota accorsa da Ancona, quasi eguale per numero di navi, ma con ciurme e truppe d'imbarco inesperte di battaglie sul mare. La squadra ostrogota fu distrutta, ed i superstiti, scampati a terra, diffusero un tale panico tra i camerati da indurli a togliere l'assedio ad Ancona, che fu così rifornita da Giovanni e da Valeriano, rientrati in seguito alle loro basi di Salona e di Ravenna. All'incirca contemporanea fu la perdita della Sicilia. Nell'isola erano continuate ad arrivare truppe dall'Oriente, mentre rimaneva immutato il numero degli Ostrogoti lasciati da B. a presidiare poche fortezze - quattro, al dire di Procopio, il quale non ne indica i nomi -, che, assediate e ridotte alla fame, si arresero. La dura constatazione che il dominio del mare consentiva al nemico di mantenere costante l'afflusso di rinforzi, pur se ancora frazionati in scaglioni di non grande entità, non poteva non far apparire sempre più disperata agli Ostrogoti la continuazione di una lotta nella quale, per colmare i vuoti che si aprivano nelle loro schiere, dovevano contare quasi soltanto sulle limitate risorse demografiche del loro popolo. Si ha l'impressione che nello stesso B. cominciasse veramente a vacillare la volontà di resistere. Assai probabilmente del periodo della sua prolungata residenza a Roma sono le ripetute ambascerie da lui inviate a Giustiniano, delle quali parla Procopio dopo aver detto dello sgomento degli Ostrogoti per i rovesci del Piceno, e la perdita della Sicilia. Ma con singolare ingenuità il re limitava le cessioni territoriali per lui accettabili unicamente a zone che non aveva mai avuto - la Dalmazia -, o solo precariamente occupato, come la Sicilia. Per la penisola, offriva soltanto il riconoscimento dell'alta sovranità dell'imperatore, col pagamento di annuo tributo e di imposte, e con l'obbligo degli Ostrogoti di combattere come alleati dell'Impero contro tutti i suoi nemici. Ingenuo era anche pensare che potesse essere argomento efficace il contrapporre le buone condizioni di cui ancora godevano la Dalmazia e la Sicilia, al deserto che sarebbe rimasto agli Ostrogoti nella penisola devastata dalla guerra. Ovviamente Giustiniano, più che mai deciso a non posare le armi finché non fosse stata del tutto debellata quella che egli considerava una ribellione, si rifiutò ogni volta anche solo di rispondere. D'altra parte anche all'imperatore era toccato in quegli anni di subire uno scacco sul terreno diplomatico nei suoi rapporti con i Franchi. Il figlio e successore di Teodeberto I (m. 548 ?) nel regno d'Austrasia, Teodebaldo I, aveva respinto l'invito, portatogli da un inviato di Giustiniano, di sgombrare i territori occupati al di qua delle Alpi, e di allearsi con l'impero contro gli Ostrogoti. Il re franco aveva proclamato sempre valido l'accordo stipulato dal padre con B. per il mutuo riconoscimento provvisorio dello status quo ed il proprio proposito di tenere lealmente fede alla reciproca amicizia che ne era conseguenza. Vero è che si era dichiarato altresì pronto a riprendere le trattative con un'ambasceria, che si riservava di mandare presto a Costantinopoli, e che effettivamente mandò, ignoriamo con quali istruzioni. Ma intanto Giustiniano doveva sempre calcolare tra i fattori della situazione politico-militare, anche l'incomoda presenza dei Franchi nei territori dell'Italia settentrionale limitrofi alla zona delle operazioni in quel settore.

Nell'estate del 551 B. decise di provarsi ad intercettare le rotte percorse dai convogli nemici, a danneggiame, a distruggerne o ad occuparne le basi e gli scali, con una serie di azioni navali a largo raggio. Trecento navi lunghe, spintesi nelle acque dell'Epiro, ne corsero tutto il litorale, misero a sacco alcuni dei suoi porti e le isole Ionie, catturarono molte navi onerarie alcune delle quali cariche di rifornimenti destinati all'esercito di Salona. Una spedizione in forze attraverso il Tirreno portò all'occupazione della Corsica e della Sardegna, ed alla sconfitta delle truppe inviate in soccorso dall'Africa, che avevano posto assedio a Cagliari dopo essere sbarcate nelle sue vícinanze, e che furono costrette a reimbarcarsi decimate ed a rifare rotta su Cartagine. Durante la seconda metà del 551, si ha solo notizia che gli Ostrogoti strinsero d'assedio Crotone, la base dei Bruttii usata da Belisario per la campagna invernale del 547-548. Con queste azioni B. aveva indubbiamente conseguito sul mare risultati positivi, tali da ridare fiducia ai suoi nelle sorti della guerra e da convincere il nemico della sua capacità di colpire duramente i convogli navali. La preoccupazione del pericolo concorse a decidere Narsete, quando, giunto a Salona, impartì nella primavera del 552 l'ordine della partenza per l'Italia, a preferire la marcia per terra lungo il littorale sino al confine veneto. Era d'altra parte scelta che imponeva la stessa difficoltà di adunare navi per numero e per stazza sufficienti ad imbarcare molte forze largamente fornite di mezzi, quali erano quelle con cui il nuovo generalissimo si accingeva ad affrontare Baduila. Alle truppe già acquartierate a Salona si erano aggiunte le forze portate da Narsete: le unità che gli aveva assegnato l'imperatore; gran numero di uomini che egli stesso a sua volta aveva levato a proprie spese nella Tracia e nell'Illirico; cospicui contingenti di barbari ausiliari o mercenari: 2500 Longobardi inviati dal loro re Audoino, con più di 3000 dipendenti addestrati all'uso delle armi; oltre 3000 Eruli; 400 Gepidi; numerosi Unni, molti disertori persiani passati al servizio dell'Impero. Narsete portava inoltre con sé un grosso tesoro, per provvedere non solo alle spese della guerra, ma anche al saldo degli arretrati di paga da lungo tempo dovuti alle truppe che già si trovavano in Italia, e ad allettare i disertori a far ritorno sotto le insegne di Bisanzio abbandonando Baduila. Si trattava senza dubbio del maggiore sforzo sino allora compiuto per la guerra d'Italia in modo veramente degno, come osserva Procopio, dell'Impero romano.

B. era evidentemente ancora in dubbio sulla via che Narsete avrebbe scelto, quando decise di spedire i suoi migliori guerrieri, con a capo Teia, a Verona, la fortezza più avanzata che gli Ostrogoti conservavano a nord del basso Po, perché prendessero posizione in quella zona, coprendo il loro schieramento con tutta una serie di ostruzioni e di sbarramenti. Il re, nell'ipotesi di una marcia del nemico via terra, escludeva la possibilità che essa fosse proseguita sino a Ravenna sempre lungo il littorale, perché lo riteneva intransitabile da un esercito a causa del gran numero di corsi d'acqua di una certa ampiezza sfocianti nell'Adriatico. Pensava quindi che Narsete, come già Teoderico dopo aver sconfitto Odoacre sull'Isonzo, avrebbe direttamente puntato su Verona. Nell'ipotesi che fosse stato scelto il trasporto per mare, B. lo riteneva operabile solo a scaglioni successivi, come del resto era avvenuto sino allora per i rinforzi inviati dall'oriente; calcolava quindi che gli bastassero i guerrieri trattenuti ai propri ordini diretti per accorrere a rintuzzare uno dopo l'altro gli sbarchi quando, e dove si fossero verificati. Ed invero Narsete, giunto nella Venetia,e chiesto invano ai Franchi il passaggio attraverso i territori da loro occupati, si trovò di fronte all'alternativa, o di tentare il forzamento del sistema difensivo che Teia aveva creato, traendo accortamente profitto da tutti gli appigli offerti da un terreno ricco di accidentalità ed interrotto da acquitrini; o di far sfilare l'esercito lungo il litorale, che era sgombro di nemici, gettando ponti di barche su fiumi e canali, secondo quanto suggeriva Giovanni, ben pratico di quei luoghi per avervi già combattuto nella guerra contro Vitige. Narsete accolse il suggerimento, e il 6 giugno raggiunse indisturbato Ravenna. Vi si trattenne il tempo necessario a riposare le sue truppe, a riordinarle, ad amalgamarle con quelle che a Ravenna erano agli ordini di Valeriano, e di cui intendeva ingrossare l'esercito operante. Proseguì dopo appena nove giorni, preoccupandosi solo di dare alla marcia la maggior rapidità possibile. Non si attardò a tentare l'espugnazione di Rimini; per evitare il passo del Furlo, saldamente sbarrato dalla fortezza di Petra Pertusa,da oltre dieci anni in potere del nemico, lasciò la via Flaminia, al punto in cui questa, a Fano, si distaccava dal littorale, e tenendosi più ad est si addentrò nella zona montana dell'Appennino umbro, risalendo, secondo ogni probabilità, la valle del Cesano.

Le notizie della veloce avanzata di Narsete lungo il littorale a sud dell'Adige, smentendo le previsioni di B., sconvolgevano tutti i suoi piani. L'invio di Teia a Verona si rivelava una mossa errata, perché aveva lasciato libera al nemico la via di Ravenna, e gli offriva la possibilità, penetrando a grandi tappe nel cuore della penisola, di separare il re dalla parte migliore delle sue forze. B. spedì subito l'ordine di richiamo, ma attese nei pressi di Roma il ritorno di Teia. Questi giunse, ma dei suoi guerrieri erano ancora per via 2000 cavalieri. Il re non volle tuttavia attardarsi oltre, e mosse verso il nord, col proposito di dar battaglia dove il terreno gli fosse apparso favorevole. La notizia che l'esercito di Narsete aveva aggirato Rimini, e già stava marciando attraverso i valichi dell'Appennino, arrivò a B. nei pressi di Taginae (Tadinum: nelle immediate vicinanze dell'odierna Gualdo Tadino). Qui il re pose il campo ed attese il nemico. La posizione era ben scelta, perché di là si poteva sorvegliare il punto dove nella via Flaminia, proveniente da nord superato il Colle della Scheggia, convergeva, superato il Colle di Fossato, la via che proveniva da est, passando per l'odiema Fabriano. B. aveva preceduto di poco Narsete, che pose il campo a circa venticinque chilometri di distanza. Non lontana era una località che conservava nel nome un ricordo augurale di vittoria per le insegne imperiali, Busta Gallorum,"sepolcreto dei Galli". Qui, nel 295 a. C., i Romani avevano sbaragliato i Galli Senoni nella battaglia detta di Sentino. B. si provò a cogliere di sorpresa Narsete. Ai messi inviatigli dal generalissimo per porgli la scelta tra la pace e la battaglia, rispose con la sfida che avrebbe dato battaglia quando fossero trascorsi otto giorni; marciò invece sul nemico subito il giorno dopo. Ma trovò Narsete pronto con l'esercito già schierato in ordine di combattimento, e la lotta rimase circoscritta ad una posizione dominante avanzata, che il generalissimo aveva fatto occupare durante la notte da un piccolo nucleo di fanti scelti delle truppe regolari - cinquanta uomini appena, se vogliamo credere a Procopio - i quali, con il tiro serrato e preciso degli archi, e con l'abile uso degli scudi e delle daghe infransero l'impeto e decimarono le file di diversi squadroni di cavalleria, uno dopo l'altro lanciati alla carica da Baduila. Questa prima presa di contatto ebbe effetti che andarono molto al di là del suo esito immediato. Sgomentò gli Ostrogoti, che avevano avuto la netta sensazione, alla vista dello schieramento nemico, della grande superiorità numerica degli imperiali, e, per lo scacco sanguinoso subìto, anche della loro superiorità di armamento e di addestramento. Offerse a Narsete l'occasione di una preziosa esperienza, sulla quale poté fondare il piano dell'imminente battaglia campale, imperniandolo sulle caratteristiche del terreno, che consentivano ad arcieri convenientemente appostati di battere la cavalleria con un'azione in tanto più micidiale, in quanto quelle accidentalità, rallentandone il galoppo e frazionandone la massa, la rendevano più facilmente e più a lungo vulnerabile dai dardi. B., nel concepire il piano di battaglia, rimase invece legato alla tattica tradizionale della sua gente, che si affidava soprattutto alla violenza cieca delle cariche di cavalleria per strappare di furia la vittoria. È il rimprovero che gli muove Procopio, in contrapposizione con le lodi date alla tattica degli imperiali. Fu perché egli era capitano meno valente di Narsete? Dipese dalla forza stessa delle cose, che lo costringeva a non fare altrimenti, perché come suppose il Delbrück, il re non poteva contare sulla sua fanteria, troppo poco numerosa e di troppo scarse qualità combattive? È difficile oggi rispondere a queste domande.

Il fatto è che B., prima di dar battaglia, attese l'arrivo dei 2000 cavalieri che ancora mancavano a Teia quando si era congiunto con lui nei pressi di Roma; ed il giorno della battaglia, nella formazione di combattimento, collocò in prima schiera, lasciando la fanteria alle sue spalle in seconda schiera, tutta la cavalleria di cui poteva disporre, e questa soltanto gettò sul centro dello schieramento nemico, con l'ordine di usare unicamente le lance, e col divieto per tutti, compresi quindi anche i fanti, di usare gli archi. Narsete aveva dato alla sua linea la forma di un semicerchio, con una cospicua massa di arcieri - ben 8000 - disposti in parti uguali alle due ali. I cavalieri ostrogoti, subito battuti su entrambi i fianchi da un'incessante, fittissima pioggia di dardi, arrivarono alla fase del corpo a corpo decimatì, gravemente menomati nella loro forza d'urto, in grado di opporre solo le lance a soldati sperimentati anche nell'adoperare arco e spada, e nel fare degli scudi una valida barriera, secondo le varie necessità del momento, in una disciplinata cooperazione di fanti e di cavalieri. Narsete, ai primi segni di cedimento degli attaccanti, mosse tutto il suo schieramento al contrattacco, mantenendone ben saldi gli ordinamenti. La cavalleria ostrogota, ormai duramente provata, non resse, si disperse, travolse nella fuga la fanteria rimasta inerte alle sue spalle.

Al calare della sera l'esercito di B. non esisteva più. Pochi gli scampati con la fuga; 6000 - al dire di Procopio - i caduti nell'aspra lotta; trucidati quanti si erano arresi, e quanti furono presi vivi dei disertori dell'esercito imperiale che avevano combattuto nelle file di quello del re ostrogoto.

Anche B. non sopravvisse. Si hanno notizie concordi sulla località dove spirò e dove venne sepolto: Caprae (Caprara, situata 10 chilometri a nord-nord-ovest di Gualdo Tadino).

Sulla morte di B. sono state tramandate due tradizioni: secondo la prima B., ferito gravemente mentre combatteva senza insegne che lo distinguessero da un semplice guerriero, si sarebbe ritirato, determinando lo scoramento e lo scompiglio tra i suoi, per spirare a Caprae. Secondo l'altra tradizione, alla quale sembra vadano le preferenze di Procopio, B. sfuggendo dal campo di battaglia durante la rotta degli Ostrogoti, sarebbe stato colpito a morte dalla lancia di uno degli inseguitori. I compagni di fuga di B. avrebbero continuato la corsa a cavallo, trasportando l'agonizzante fino a Caprae, dove spirò.

La morte di B. rimase ignota al nemico finché la sua tomba fu indicata da una donna gota del luogo ad alcuni soldati di Narsete, che dissotterrarono il cadavere, e lo riseppellirono dopo averlo spogliato delle vesti ancora macchiate di sangue, e del berretto gemmato di forma conica che avevano ad essi dato modo d'identificare nel morto il re ostrogoto, e che consegnarono al generalissimo. Narsete si affrettò ad inviare quelle tragiche spoglie a Costantinopoli, dove vennero gettate ai piedi di Giustiniano, presente il Senato bizantino. La battaglia, che prese il nome di Tadina o Tagina,fu combattuta, secondo ogni probabilità, nei pressi dell'odierna Fabriano, alla fine del giugno 552. Segnò non solo la fine di B., ma, in realtà, anche le sorti del dominio degli Ostrogoti in Italia. Brevissima durata avrebbe avuto l'estremo conato di riscossa in cui cadde da prode sul campo il suo successore, Teia.

La condotta della guerra contro i Bizantini costituisce innegabilmente la parte maggiore e più appariscente dell'opera svolta da B. nei suoi undici anni di regno. Ma anche la sua politica presenta aspetti di un singolare rilievo, specie per quanto concerne il governo interno. In questo ambito un fatto soprattutto colpisce: B. valutò l'apporto che gli poteva venire dai ceti diseredati della popolazione non ostrogota in un modo, che il suo atteggiamento al riguardo non solo fa di lui un esempio unico tra i sovrani medievali, ma appare di un carattere praticamente rivoluzionario rispetto alle tradizioni da secoli radicate nella vita economico-sociale del tempo. Ne dobbiamo la conoscenza a quell'osservatore attento, e non di rado acuto, che fu Procopio. B. si propose d'impedire che dalle vicende della guerra risultasse un peggioramento delle condizioni dei lavoratori della terra; volle anzi che ne traessero un vantaggio. Li svincolò dagli obblighi che li legavano ai padroni, trasferendo al potere sovrano il diritto di esigerne come proprio il soddisfacimento. Dispose infatti che i contadini versassero al fisco regio non solo i tributi già percepiti da quello imperiale - e ciò era naturale conseguenza della riconquista -, ma anche la parte dei loro proventi sino allora di spettanza dei rispettivi proprietari, ed in ciò la norma assumeva una portata rivoluzionaria, in quanto equivaleva ad abolire il diritto di proprietà dei privati per trasformare in proprietà pubbliche i loro beni fondiari. B., oltre ad accogliere nel suo esercito schiavi fuggiti dai padroni, e ad autorizzare matrimoni fra schiavi e libere, tra liberi e schiave, si valse anche di masse di contadini armati per valersene come milizie ausiliarie, là dove la situazione locale suggeriva l'opportunità di limitare a poche forze l'impiego dei suoi guerrieri. Ovviamente né il re, né i contadini avevano la consapevolezza dello scardinamento che queste misure potevano provocare nel sistema economico-sociale esistente, nel senso e con gli scopi che gli attribuisce la polemica moderna e contemporanea contro la proprietà privata. Nella Lucania e nei Bruttii bastarono le promesse di un trattamento migliore del passato fatte dal generale bizantino, Giovanni, e l'invio da parte sua di poche truppe, perché nel 546-547 quei contadini si schierassero, sotto la guida di Tulliano, in difesa della causa imperiale. B. non fece che seguire l'iniziativa presa da questo latifondista locale quando inviò contro di lui, con pochi guerrieri ostrogoti, masse di altri contadini armati, che però non ressero all'urto, e si dispersero in fuga. A sua volta Tulliano dovette riparare ad Otranto, abbandonato da tutti i contadini, non appena a costoro giunse l'ordine inviato, per ingiunzione di B., dai senatori in potere del re, già padroni di terre nella Lucania, di lasciare le armi e di riprendere il lavoro dei campi, perché le antiche proprietà sarebbero state ristabilite.

Le misure prese per i ceti dei dipendenti rurali non furono estese alle proprietà di Ostrogoti. B., si era in realtà proposto un solo scopo: togliere all'aristocrazia senatoria romana le fortune economiche che costituivano la base essenziale delle sue possibilità di continuare ad essere la maggior forza politica con cui il re doveva fare i conti dentro i confini del regno. Nei rapporti appunto con i senatori rimasti in Italia vediamo un altro degli aspetti salienti della politica interna di B., che fin dal momento della sua assunzione al trono li sapeva ostili al ristabilimento del dominio ostrogoto, in piena concordia di sentimenti con i colleghi esuli a Costantinopoli durante i regni di Teodato e di Vitige, i quali solo in Giustiniano riconoscevano ormai il loro legittimo sovrano. Ma appunto con i senatori l'azione di B. mancò di quella coerenza, che sola l'avrebbe potuta rendere efficiente, nel senso o di una costante durezza diretta ad eliminarli totalmente, o ad una costante magnanimità intesa a riguadagnarne le simpatie. Nel 542 o 543 trattò con benevolenza le donne di senatori trovate a Cuma, e le lasciò libere senza offese, del che, scrive Procopio, gli venne presso i Romani gran nome di senno e di umanità. Ma, presa Napoli, fece avere al Senato una lettera, nella quale subordinava il perdono per aver abbandonato la causa dei re ostrogoti alle giustificazioni che i senatori potessero fornire della loro condotta. Poi, in manifesti introdotti clandestinamente in Roma, ed affissi nottetempo nei punti della città dove più facilmente potessero essere letti venuto il giorno, promise che ai Romani non avrebbe mai fatto alcun male. Occupata Roma nel dicembre 546, offese gravemente il Senato in un'adunanza, cui aveva convocato i senatori che non erano riusciti a fuggire, con un discorso insultante, esprimendosi in termini, scrive Procopio, "quali un padrone usa per inveire contro i propri schiavi". E indicò l'ufficiale imperiale che gli aveva consegnato Spoleto, e gli Isaurii che gli avevano aperto l'ingresso in Roma, dichiarando che ad essi avrebbe affidato le cariche direttive fino allora rivestite da senatori; questi avrebbe invece tenuto nel conto di servi. Intercedette per i senatori, che Procopio chiama "uomini decaduti e sventurati", il più autorevole ecclesiastico della Chiesa di Roma, il diacono Pelagio; ed il re, prima di congedarli, promise clemenza. B. salvò allora Rusticíana, figlia di Simmaco e vedova di un'altra illustre vittima di Teoderico, Boezio, dai suoi guerrieri, bramosi di ucciderla perché l'incolpavano di aver distrutto i ritratti del re che aveva fatto giustiziare suo padre e suo marito, e di aver profuso danaro in sovvenzioni ai generali bizantini. Ma non risulta che B. l'abbia aiutata anche a salvarsi dalla miseria, che la riduceva, vestita come una serva, a procacciarsi un po' di cibo mendicando di porta in porta e dagli stessi nemici. Quando nel 547 il re mosse verso la Lucania, relegò nella Campania i senatori rimasti a Roma, le loro famiglie e le famiglie che non avevano potuto seguire quelli scampati con la fuga. Eppure vi era tra di essi uno, Clementino, che aveva consegnato a B. una fortezza nei pressi di Napoli, e che, temendo perciò l'ira dell'imperatore, non volle accompagnare i colleghi poco dopo liberati dalla cavalleria al comando di Giovanni. E B. inoltre li ingannò con la promessa, poi non mantenuta, di reintegrarli nelle loro proprìetà, per lusingarli ad inviare ai contadini di quelle che erano nella Lucania l'ordine di non dare più concorso armato alle truppe imperiali. Ben altra linea di condotta adottò il re da quando, nel gennaio 550, riebbe in suo potere Roma, al momento in cui, nella primavera inoltrata del 552, si avviò, marciando contro Narsete, al suo ultimo destino. Si provò allora a ricostituire il Senato, e ad affidare ancora ai suoi membri il compito di occuparsi dei bisogni della città, mostrandosi, se vogliamo credere a Procopio, pentito del suo precedente operare. Ma nulla fece per risollevare almeno i pochi senatori, che gli riuscì di richiamare, dalla miseria in cui li aveva gettati privandoli di ogni avere, degradandoli, di fatto, alla condizione, come scrive Procopio, di prigionieri di guerra ridotti in schiavitù, mantenendoli nell'incapacità di attendere alla pubblica amministrazione proprio quando le più urgenti necessità assillavano da ogni parte Roma. Non dell'aristocrazia senatoria, ma della nobiltà italico-romana, di famiglia spoletina, era quello Spino, che risulta in questo periodo nominato dal re quaestor sacri palatii, a cui Procopio attribuisce il merito di aver consigliato B. di riportare l'esercito dalla Sicilia sul continente, che è l'unico dei suoi ministri di cui si abbia notizia, e col quale si chiude la serie dei dignitari che tale alto ufficio rivestirono in Occidente. In realtà il vero Senato era ormai rappresentato dai suoi membri esuli a Costantinopoli. Qui si stringevano intorno all'imperatore uomini come Liberio, già ministro di Odoacre e di Teoderico; come Cassiodoro, già appassionato assertore della libertas romana sotto l'egida dei re ostrogoti, e quindi operoso collaboratore di Teoderico, di Amalasunta, di Teodato, di Vitige al primo inizio del suo regno; come, onoratissimo da Giustiniano, lo stesso caput Senatus, il patrizio Cetego, che pure, al tempo del primo assedio posto da B. a Roma, i comandanti delle truppe imperiali che la difendevano avevano sospettato di tradimento. D'altra parte il tardivo ed inefficace tentativo di riconciliazione fu d'un sol tratto annullato quando, proprio sul punto d'intraprendere la marcia contro Narsete, il re tornò bruscamente alle misure intimidatrici. B. aveva raccolto trecento giovani, figli di famiglie della nobiltà romana ed italico-romana, fatti scegliere città per città tra quelli di più bello aspetto. Aveva detto ai genitori che intendeva tenerli nel novero degli intimi del suo seguito personale; un onore, dunque. In realtà, aveva voluto procurarsi un cospicuo numero di preziosi ostaggi. Li inviò, quando si mosse con l'esercito, al di là del Po, a Pavia, invece di restituirli alle famiglie o di lasciarli a Roma. Ed a Pavia il loro massacro fu uno dei primi atti del regno del suo successore, Teia.

Tra la clemenza e l'estrema durezza B. oscillò non di rado nei suoi rapporti con la popolazione di stirpe italico-romana di condizione libera. Avuta Napoli nel 543, ne salvò gli abitanti sfiniti dall'inedia misurando sapientemente i progressivi aumenti delle razioni di viveri distribuite agli affamati, così da riabituare gradualmente all'ingestione di cibi organismi troppo indeboliti, perché potessero sopportare senza pericolo di morte una alimentazione subito portata al limite della sazietà. In quello stesso periodo fece giustiziare uno dei suoi fidi della guardia del corpo, che aveva violentato una fanciulla di famiglia salentina, ed alla ragazza donò i beni confiscati al colpevole. Lasciò invece che i suoi guerrieri, entrati in Tivoli nel 544, ne trucidassero tutti gli abitanti e lo stesso vescovo, dimostrando una tale ferocia, che Procopio si rifiuta di entrare in particolari, per non lasciare ai posteri il ricordo di tanta inumanità. Nel 548 lo stesso trattamento fece subire alla popolazione ed al vescovo di Perugia, mentre agli abitanti di Rossano, se confiscò i beni, risparmiò la vita. Il giorno in cui entrò per la prima volta in Roma, nel dicembre 546, B., accogliendo le suppliche del diacono Pelagio, pose fine, se non al sacco, alle uccisioni cui gli Ostrogoti stavano abbandonandosi, sì che, se dobbiamo credere a quanto dice Procopio, solo sessanta furono le vittime tra la popolazione civile. Il re, allora, salvò dalla morte non soltanto Rusticiana, ma anche tutte le altre donne romane, dalle brame dei suoi che volevano usare loro violenza, onde, scrive Procopio, gran fama ebbe di saggezza. Quando l'anno dopo mosse verso la Lucania, costrinse quanti erano rimasti in Roma ad uscire dalla città, che lasciò del tutto priva di abitanti. Ma li richiamò dopo averla ripresa nel gennaio 550. Gli smantellamenti parziali o totali delle mura, di cui Procopio dà notizia per Benevento, Napoli e, nella circostanza della prima occupazione, per Roma, furono senza dubbio non segno di inumanità, ma normali misure precauzionali di guerra. Secondo Procopio, B., al momento di marciare sulla Lucania nel 547, avrebbe deciso di radere al suolo Roma, e già stava per far appiccare il fuoco ai suoi più insigni e splendidi edifici, e ridurla a un desolato pascolo di greggi, quando ne fu distolto dall'idea, prospettatagli da Belisario, con eloquenti accenti di calda passione in una lettera a lui indirizzata, che la distruzione della più maestosa e bella di quante città esistevano sotto la luce del sole, monumento ai posteri dei più alti valori di ricchezza e di civiltà, gli avrebbe recato solo gravissimo danno e nessun vantaggio, avesse vinto o perduto la guerra. Non abbiamo motivo di dubitare della notizia; ma possiamo ritenere che B. avrebbe sentito nel mito della Città Eterna una forza tuttora capace d'imporsi alla sua ira di re germanico anche indipendentemente dalla lettera del suo grande nemico. Ne abbiamo la prova nei provvedimenti presi, nel gennaio 550, per rendere la città nuovamente abitabile a Goti ed a Romani così del ceto senatorio come degli altri ceti; e nel significativo particolare, anch'esso registrato da Procopio, che il re, prima di condurre l'esercito in Sicilia, fece allestire gare ippiche nel circo secondo l'uso antico, ed egli stesso volle assistervi, come già gli antichi imperatori. D'altra parte Procopio precisa che B. ordinò di ricostruire quanto egli stesso, presa per la prima volta Roma, aveva fatto demolire e incendiare. È comunque da ritenere che il re allora non avesse del tutto risparmiato alla città guasti e rovine materiali, anche se non siamo in grado di stabilire in quali sue parti e in quale misura.

In quanto all'atteggiamento di B. nei riguardi della Chiesa sembra di dover notare un fatto soprattutto: il re non seppe avvertire le possibilità politiche, che gli offriva la tenace resistenza opposta dalla grande maggioranza del clero cattolico in Italia, e dallo stesso papa Vigilio a Costantinopoli, dove lo tratteneva l'imperatore, alla condanna delle dottrine dette dei Tre Capitoli, che Giustiniano aveva promulgato col ben noto editto emesso intorno al 543-544. Al momento della battaglia di Tadina la resistenza si protraeva ancora, e ancora l'imperatore non aveva vinto le riluttanze del papa. Uno degli anonimi autori della vita di Vigilio raccolta nel Liber Pontificalis dipinge a rosei colori il modo come B. rioccupò Roma nel gennaio 550, scrivendo che per tutta la notte il re aveva fatto suonare le trombe col preciso intento di spingere la popolazione a fuggire, o a cercare asilo nelle chiese, per evitare così che i Romani morissero di spada. E riassume in una sintesi idilliaca di poche parole il periodo del successivo soggiorno di B. nella città: "habitavit rex cum, Romanis quasi pater cum filiis". Ma è un riflesso isolato e personale delle dolorose notizie che giungevano dall'Oriente sulle violenze esercitate da Giustiniano su Vigilio. E non è nemmeno il frutto di interessate simpatie mostrate da B. per i Romani sul tipo di quelle che i re longobardi ebbero per i resistenti alla condanna quando questi, dopo la sua conferma in sede ecclesiastica da parte del V Concilio ecumenico tenuto a Costantinopoli nel 553, e la ratifica papale da parte di Vigilio nel 554, erano giunti allo scisma detto anch'esso dei Tre Capitoli. Vigilio, dal canto suo, durante tutto il regno di B. si conservò sempre lealmente fedele alla causa dell'Impero, e diede la sua opera perché fosse assicurato l'appoggio dei Franchi. Era ancora a Roma quando, il 22 maggio 545, per suggerimento di Belisario e col consenso di Giustiniano e di Teodora, sollecitò il primate della Chiesa franca, Auxanio arcivescovo di Arles, ad impetrare la protezione divina sulla coppia imperiale e sul generalissimo bizantino, e ad interporsi col re Childeberto I perché trattasse da buon amico con l'imperatore. Al successore di Auxanio, Aureliano, Vigilio, durante il viaggio verso Costantinopoli, scriveva, il 23 ag. 546, di usare delle sue premure sacerdotali perché Childeberto I continuasse a trattare cordialmente con Giustiniano e con Teodora. E incaricava l'arcivescovo di ringraziare, con una sua lettera, Belisario per aver agevolato l'inoltro di una risposta del re franco all'imperatore, facendosela consegnare dall'inviato di Childeberto, e spedendola al papa, in modo che fosse questi stesso a recapitarla a Giustiniano. A Costantinopoli, nell'aprile 550, saputo che Roma era ricaduta in potere di B., il pensiero di Vigilio corse subito ad Aureliano, come alla persona più indicata per sollecitare Childeberto I a scrivere al re ostrogoto che non si lasciasse trascinare dal suo arianesimo ad ingerenze nelle cose della Chiesa cattolica, compiendo o permettendo di compiere atti i quali la pregiudicassero o la perturbassero. Le ingerenze temute dal papa erano certo di natura non religiosa, ma politica, in rapporto appunto con l'attaccamento mostrato dalla Chiesa di Roma alla causa dell'Impero. B., il giorno che Roma gli fu data dal tradimento per la prima volta, si recò a pregare nella basilica di S. Pietro. Fu gesto suggerito dalla reverenza che anche gli ariani nutrivano per il principe degli apostoli. In quella circostanza il re accolse le suppliche del diacono Pelagio perché agli abitanti fosse risparmiata almeno la vita. Ma lo fece solo dopo aver risposto alle prime parole di Pelagio con un sogghigno e in termini di aperto scherno, che palesavano il suo compiacimento nel vedere l'alto ecclesiastico venire al suo cospetto in atto di supplice. E Pelagio lo comprese così bene, che nel rinnovare la supplica disse: "Dio ha fatto di me un tuo servo; ma tu, o signore, risparmia da ora i tuoi servi!". Il re si valse di lui e di un vescovo, Avenzio di Assisi, per trattare con Giustiniano; ma non mancano gli episodi, che palesano in B. il prevalere talora di sentimenti di avversione all'alto clero cattolico. Attribuiva a continue libagioni il rossore diffuso nel volto, cui andava sempre soggetto il vescovo di Narni, Cassio, e perciò lo teneva nel massimo spregio. Già ricordammo le uccisioni dei vescovi di Tivoli e di Perugia. Il vescovo di Perugia, Ercolano, per ordine del re, prima di aver mozza la testa, venne scorticato dal capo alle piante. Per ordine di B. il vescovo di Populonia, Cerbonio, che aveva sottratto alla furia degli Ostrogoti, nascondendoli, alcuni soldati imperiali, fu lasciato, davanti al sovrano e ad una gran folla, in balìa di un orso immane. Si salvò perché l'orso, invece di straziarne le membra, si accucciò a lambire con la lingua i piedi della vittima offertagli in pasto, ed il re dovette seguire l'esempio di mansuetudine datogli da una belva. Il vescovo di Otricoli, Fulgenzio, era così malvisto da B., che questi lo fece tenere nella più rigida custodia, nell'attesa di giudicarlo egli stesso. I casi di Cassio, di Ercolano, di Cerbonio e di Fulgenzio sono raccontati da Gregorio Magno nei suoi Dialogi, ad attestare i miracoli edificanti cui avevano dato occasione. Ma non è motivo sufficiente per metterne in dubbio la realtà storica in sé. D'altra parte, non era un agiografo Procopio, il quale ci dice che a bordo di una delle navi cariche di grano inviate in soccorso di Roma assediata nel 546 per cura di Vigilio dalla Sicilia, si trovava il vescovo di S. Rufina e Seconda, Valentino; e che questi, preso vivo e tratto alla presenza del re, si vide da lui incolpato di aver risposto il falso alle domande rivoltegli, e subì perciò la mutilazione di entrambe le mani. Nei Dialogi gregoriani B. appare "crudelitatis inmanissimae vesania succensus" "perfidus", "crudelissimus", mosso da "furoris vesania"; è detto di "perfida mens" anche nel ben noto racconto della visita da lui fatta a s. Benedetto in Montecassino, probabilmente nell'occasione di una delle marce compiute tra Roma, la Lucania e la Puglia nel 547. Il re si decise all'incontro solo dopo aver saggiato se veramente il santo possedeva, come era fama, spirito profetico, inviandogli camuffato con le proprie vesti purpuree e con le proprie calzature uno dei suoi portaspada, con un seguito di ufficiali quale l'uso riserbava solo al sovrano. B. si prosternò a terra, senza osare di accostarsi al santo, ed attese di essere risollevato da lui. Benedetto gli rimproverò i molti mali che stava operando, ed i molti già operati; gl'ingiunse di astenersi "aliquando ab iniquitate"; gli presagì, per il futuro, l'ingresso in Roma (senza dubbio il secondo, del gennaio 550), il passaggio del mare (e cioè, la spedizione in Sicilia), la morte nel decimo anno di regno. B. ne ebbe terribile spavento, e prima di congedarsi chiese al santo di pregare per lui. Ma Gregorio Magno aggiunge che B., da quel tempo, fu - si badi bene -, "minus crudelis"; non parla dunque di un ravvedimento integrale. Severo giudizio, tuttavia non così duro come nella raffigurazione che negli stessi Dialogi presenta Teoderico dannato alle pene dell'Inferno. L'accusa di crudeltà era certo legata ad una tradizione assai diffusa e tenace nelle masse della popolazione di stirpe italico-romana e nel clero cattolico. L'aveva già mossa a B. uno storiografo contemporaneo della sua stessa gente, Giordane, che aveva detto avvenuto per sventura d'Italia, "malo Italiae", il suo innalzamento al trono; aveva parlato per lui di "tanta crudelitas", e per il suo secondo ingresso in Roma, di "iterata rabies". Ma Giordane scriveva sulle orme di Cassiodoro, ed aveva fatta sua, come lui, la causa imperiale, pur tentando di conciliarla, in qualche modo, col ricordo delle gesta eroiche dei Goti. Né solo a B. ed agli Ostrogoti sono imputabili atti di crudeltà e colpe di assassinii. Il re fece uccidere a tradimento il comandante del presidio imperiale di Perugia, Cipriano, da uno degli ufficiali al seguito personale del generale bizantino; ma l'affidarsi a sicari per togliere di mezzo personaggi temuti era in uso anche nelle tradizioni dell'Impero, e proprio Gregorio Magno l'avrebbe rimproverato ai Bizantini quando l'applicarono nei riguardi dei Longobardi. D'altra parte i casi non rari, in cui Procopio attesta che il re lasciò andare liberi ed illesi ufficiali e soldati nemici arresisi a lui, sono da spiegare non tanto con un suo sentimento personale di umanità, quanto con un calcolo di opportunità e con gli usi di guerra del tempo.

B. fu innegabilmente figura di grande rilievo. Dalla Nagl è messo alla pari con Teoderico. Tra i due re non si può stabilire un confronto perché agirono in condizioni politiche, militari, interne ed estere radicalmente diverse. La grandezza di B. sta soprattutto nello slancio ardimentoso con cui rialzò il vessillo della riscossa ostrogota, e nell'eroismo con cui ne fu il capo per oltre dieci anni di durissima lotta. Questa ebbe fasi nelle quali B. può apparire condottiero di capacità inferiori a quelle di Belisario e di Narsete. Ma non bisogna dimenticare che egli non poteva fare di più di quanto consentivano il numero, l'armamento, l'addestramento e le tradizioni militari dei combattenti ai suoi ordini. Gli va riconosciuto il non piccolo merito di una concezione della guerra, che si estese anche alle operazioni sul mare. Non è da imputare a sue deficienze personali, se le forze navali da lui necessariamente improvvisate non erano tali da reggere di fronte ad una secolare potenza marinara qual'era l'impero. In realtà la lotta era perduta in partenza. I limiti della visione politica di B. sono dati dal fatto, che egli non si rese mai esatto conto di quanto fosse deciso Giustiniano a non rinunciare ai frutti della resa di Vitige, e di quanto il papa e i senatori romani esuli a Costantinopoli, i più autorevoli, fossero dal canto loro decisi a sostenere l'imperatore. Miraggio ingannatore era una pace che lasciasse sopravvivere, fosse pure territorialmente ridotto e in condizioni di tributario, un regno ostrogoto in Italia. Pura illusione che potessero ritornare i tempi di Teoderico e di Anastasio I, illusione da B. espressa anche con l'effigie di quell'imperatore impressa sulle monete coniate quando, dal 543 al 549, poté considerarsi signore di quasi tutta la penisola. Illusione maggiore, quella di una propria indipendenza, espressa nelle monete col suo nome e con la sua effigie, in talune anche con il diadema imperiale, coniate dopo il 549. Per Giustiniano, per Vigilio, per gli esuli romani, B. null'altro era se non un tyrannus,cioè un ribelle usurpatore, da annientare perché fosse definitivamente restaurata la legittima sovranità dell'imperatore. Il giudizio di Giordane, e il ricordo sfavorevole, raccolto da Gregorio Magno, che B. lasciò nelle popolazioni di stirpe italico-romana e nel clero cattolico, sono i segni eloquenti del fallimento di un regime, che era contro la realtà storica del tempo, e che neppure un eroe della tempra di questo re poteva durevolmente rinvigorire.

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Feliciangeli, Una opinione poco nota intorno al luogo della cosidetta battaglia di Tagina, in Nuova rivista misena, VII (1895); Th. Hodgkin, Italy..., pp.643-645; P. Pratesi, Sulvero luogo della battaglia detta di Gubbio o di Tagina, Torino 1897 (estr. dalla rivista Le comunicazioni di un Collega dir. in Cremona da A. Ghisleri); H. Nissen, Italische Landeskunde, II,1, Berlin 1902, pp. 392 S.; L. Ginetti, L'Italia.... pp. 23-30; J. B. Bury, History... 1 pp. 288-291; R. Guerrieri, Storia civile ed ecclesiastica di Gualdo Tadino, Gubbio 1933, pp. 4 s., 9-14; H. N. Roisle, Die Schlacht bei den Busta Gallorum 552 n. Chr.,aggiunte a Fr. Altheim, Geschichte der Hunnen, V, Berlin 1962, pp. 363-377, 431-437. Se si tiene conto, per calcolare le distanze date da Procorio, che il suo stadio equivale a m. 248 circa (Procopio, La guerra gotica,I, 1895, p. 83: stadi 113 miglia romane 19), si è indotti a preferire, come luogo della battaglia, d'accordo col Bury, le vicinanze di Fabriano. Monete di B.: F. F. Kraus, Die Münzen Odowacars und des Ostgotenreichs Italiens, Halle a. d. Saale 1928, pp. 178-199. Inaccettabile è l'ipotesi prospettata da S. Reinach, Un projet de Totila,in Rev. Germanique, II(1906) pp. 472-478 (cfr. Neues Archiv., XXXY, 1908, pp. 236 s., n. 331), che B. avesse vietato ai sudditi di stirpe italico-romana l'uso del latino, ed imposto l'obbligo di imparare il goto.

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