Realismo

Dizionario di filosofia (2009)

realismo


Nella filosofia scolastica, una delle posizioni nei riguardi del problema degli universali, consistente nell’attribuire ai concetti universali una realtà oggettiva. Nella filosofia moderna, ogni dottrina che consideri l’oggetto della conoscenza come esistente in sé, indipendentemente dall’attività conoscitiva. Questi due significati sono distinti, e sotto un certo aspetto antitetici.

Nella filosofia scolastica

Il primo significato è quello che il termine possiede nella filosofia scolastica, in rapporto con la grande questione degli universali (➔): ed è anzi proprio in tale occasione che il termine comincia a essere usato. «Realisti» (realistae, reales) vengono definiti coloro che sostengono la realtà oggettiva dei concetti universali, e che si oppongono perciò ai «nominalisti» (➔ nominalismo) e ai «concettualisti» (➔ concettualismo). Il r. scolastico si presenta d’altronde in aspetto duplice, a seconda che la realtà degli universali venga concepita come trascendente rispetto agli individui (r. estremo, platonico) o come immanente negli individui stessi (r. moderato, aristotelico). Capo della scuola realistica propriamente detta è Guglielmo di Champeaux: tra i massimi seguaci del r. scolastico sono da ricordare, oltre a Tommaso d’Aquino, Anselmo d’Aosta e Duns Scoto.

Nella filosofia moderna

L’altro significato del termine r. è quello che esso assume nella filosofia moderna in forza dell’antitesi con l’opposto termine di idealismo: le diverse forme di r., pur affermando tutte genericamente l’indipendenza della realtà empirica e sensibile, in contrapposizione al tentativo idealistico di ridurla al mentale o spirituale, si differenziano tra di loro a seconda del diverso tipo di idealismo contro cui si polemizza. Così in nome del r. si batté la corrente filosofica che, nata con l’Inquiry into the human mind (1764) di Reid, continuò poi con Stewart, Hamilton e altri pensatori di lingua inglese. Si faceva appello al senso comune per rifiutare il «sistema ideale» della conoscenza che, nato con Cartesio ed enunciato nelle sue forme più compiute da Locke, avrebbe caratterizzato la filosofia moderna, con la tendenza a considerare come oggetto specifico della conoscenza le «idee» e non gli oggetti e le cose; estrema conseguenza di questa posizione sarebbero le conclusioni scettiche di Berkeley e Hume. Positivamente gli esponenti di questa forma di r. proponevano di identificare con le stesse cose reali l’oggetto proprio delle percezioni sensibili: una teoria che tra l’altro avrebbe avuto il merito di adeguarsi pienamente a ciò che implicitamente suggeriva la visione ingenuamente realistica del senso comune. In funzione anti-idealistica si richiamava al r. empirico anche Kant, quando nella Critica della ragion pura (➔) (1781, 2a ed. 1787) intendeva con ciò affermare l’impossibilità di dedurre integralmente i fenomeni degli elementi a priori della conoscenza e dunque la necessità di riconoscere in essi un nucleo indipendente e reale che viene immediatamente percepito dal soggetto nella sensazione. Contro le varie forme di idealismo di Fichte, Schelling, Hegel, si schierava Herbart con un’ontologia pluralistica che riconosceva come esistenti al di fuori del soggetto conoscente una molteplicità di esseri o reali, relativamente alla cui natura intrinseca si riproponeva la tesi di un’inconoscibilità o trascendenza. Ancora in funzione anti-idealistica si presenta quel movimento verso l’oggettività e il r. che ebbe tra i suoi iniziatori Brentano e Meinong e che suggerì a Husserl le linee fondamentalmente realistiche delle prime fasi della sua riflessione gnoseologica. È affermata la necessità di riconoscere l’autonoma realtà di ciò che la mente conosce, e nel momento stesso si rifiuta però l’identificazione del contenuto dell’atto mentale con l’oggetto reale. In difesa del r. sono intervenuti, specialmente dopo il 1890, numerosi pensatori anglosassoni, contro le analisi idealistiche di Bosanquet, Bradley e Green. Così alla fine del 19° sec. J.C. Wilson iniziava quella confutazione dell’idealismo che troverà nelle pagine di Moore e Russell una più sistematica formulazione. Moore affermerà, contro la tendenza da lui considerata tipica dell’idealismo di ridurre l’esse al percepi, l’istanza realistica di un’irriducibilità del reale al mentale e della necessità di riconoscere nella sensazione la presenza di due elementi che sono in una relazione del tutto estrinseca tra di loro. S’impegnerà poi, principalmente nei Principia ethica (1903; trad. it. Principia ethica), nell’articolare una ontologia realistica, contrapponendo al monismo di Bradley un deciso pluralismo che riconosce autonomia e realtà peculiare oltre che alle qualità sensibili anche ai significati, agli universali e ai valori etico-estetici. Non diversamente Russell in una prima fase del suo pensiero non solo affermava l’irriducibilità del reale a ciò che è percepito, ma cercava di fondare le sue scoperte in logica e matematica su un’ontologia realistica, spesso caratterizzata come una forma di r. platonico, che dava un’autonoma esistenza alle relazioni logiche, ai significati e ai numeri (Principia mathematica, 1910-13; trad. it. Introduzione ai Principia mathematica). Nel 20° sec. è stato in partic. il pensiero americano a riprendere la problematica del r., cercando di sviluppare in una forma più esauriente gli accenni gnoseologici contenuti nella confutazione dell’idealismo di Moore. Nel 1912 comparve un vero e proprio manifesto del neorealismo (➔) – i cui esponenti più significativi erano Montague, Perry, Edwin B. Holt, T.P. Nunn, S. Alexander – che, analizzando la sensazione, identificava il dato sensoriale oggetto diretto della conoscenza con le stesse cose e qualità reali. A questa conclusione si opporranno (1920) gli esponenti del r. critico (per es. Lovejoy, Pratt, Santayana, R.W. Sellars), criticando l’ingenuo dualismo della gnoseologia dei neorealisti e avanzando invece una teoria della conoscenza umana che vede la presenza di almeno tre elementi: l’atto percipiente, il carattere o dato direttamente colto nella percezione e la cosa od oggetto extramentale a cui il dato, essendone un segno, rinvia. Nel corso della storia della filosofia moderna si sono altresì avute altre forme specifiche di r.: sono da ricordare il r. trasfigurato a cui Spencer si richiamava, intendendo affermare l’indipendenza della realtà oggettiva dal soggetto conoscente nel momento stesso in cui però ne rifiuta la coincidenza con le apparenze con cui ci mette in contatto la percezione sensibile; e ancora il tentativo di costruire un r. assiologico in cui di volta in volta si sono impegnati vari pensatori, fino a J. K. Feiblemann, partendo dall’assunzione che gli universali, i valori etici e quelli estetici, pur se costituiscono un dominio separato dell’essere, sono reali non diversamente dagli oggetti fisici.

Nella filosofia della scienza

Il problema del r. ha ricevuto nuova attenzione nella filosofia della scienza contemporanea all’interno del dibattito sullo status ontologico delle entità teoriche (non osservabili) postulate dalle teorie scientifiche. Alle prospettive fenomeniste e convenzionaliste, tendenti a considerare le teorie scientifiche come utili strumenti per la sistematizzazione dell’esperienza, da valutare esclusivamente sul piano del loro potere predittivo, Popper ha contrapposto, sin dalla Logik der Forschung (1935; trad. it. Logica della ricerca scientifica), la tesi che le teorie scientifiche descriverebbero in modo sempre più adeguato una realtà indipendente. Entro tale prospettiva Popper ha ripreso la definizione semantica di verità di Tarski, riproponendo il concetto di verità come corrispondenza e considerando la successione storica delle teorie scientifiche come un continuo avvicinamento alla verità. Posizioni realiste ha sostenuto anche Putnam, che tuttavia, dall’originaria adesione a un r. metafisico, per il quale esiste una totalità data di oggetti indipendenti dalla mente che le teorie scientifiche, se vere, descrivono oggettivamente, si è poi orientato, in parte sotto l’influsso di Goodman, verso un r. interno che riconosce la parziale dipendenza della realtà dai modi in cui viene descritta e concettualizzata, senza per questo sconfinare nel relativismo. Va comunque rilevato che quest’ultima posizione, che solo in senso debole può dirsi realista, è soprattutto un tentativo di salvaguardare l’oggettività scientifica dal relativismo di Kuhn e Feyerabend, che dovevano ridimensionare la consolidata immagine del sapere scientifico come accumulo di teorie sempre più vere proponendo, in sua vece, la tesi della dipendenza delle ontologie scientifiche da presupposti e ‘schemi concettuali’ storicamente mutevoli. La prospettiva di Putnam si inquadra così nella crisi della teoria della conoscenza come rispecchiamento (o rappresentazione) e nel recupero della tradizione pragmatista rappresentato, tra gli altri, da Rorty, per il quale, più che nei termini della corrispondenza a una realtà data, il discorso scientifico va valutato in base alla sua conformità a sistemi di credenza e pratiche intersoggettivi.