Reato e pene

Il libro dell anno del diritto 2019 (2019)

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Reato e pene

Guglielmo Leo

Successione di leggi penali nel tempo

Con una recente decisione (sent. 19.7.2018, n. 40986), le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affrontato un tema di grande rilievo teorico, e al tempo stesso gravido di conseguenze pratiche, specie in un’epoca di frequente variazione delle previsioni punitive. Si trattava in sostanza di stabilire se la disciplina codicistica della successione di leggi penali (art. 2 c.p.), nel fissare il principio di non retroattività della norma sfavorevole sopravvenuta, abbia riguardo al tempo della condotta o piuttosto, quando quest’ultimo sia diverso, al tempo dell’evento naturalistico che segna la consumazione del reato. In altre parole, se possa applicarsi nei confronti del reo una norma sfavorevole sopravvenuta al suo comportamento, e però antecedente all’evento che fonda il disvalore della fattispecie (nel caso concreto, la morte della vittima di un sinistro stradale).

Nella giurisprudenza sul tema, non molto cospicua, si erano registrate prese di posizione contrapposte. I fautori della soluzione più severa si erano espressi sul presupposto che il reato è “commesso” (co. 4 dell’art. 2 c.p.) quando si perfeziona in tutti i suoi elementi, e che dunque la legge antecedente all’evento non è anche antecedente al fatto consumato, potendo di conseguenza essere applicata sebbene più sfavorevole di quella vigente al momento della condotta.

Un remoto precedente contrario aveva invece valorizzato la distinzione tra “commissione” del reato e sua “consumazione”, ancorando dunque la legge del fatto all’esaurimento della condotta umana.

Le Sezioni Unite hanno accreditato il secondo orientamento, inserendo il proprio argomentare in un contesto di progressiva valorizzazione dei principi di colpevolezza e di necessaria finalizzazione rieducativa della pena, nella declinazione che attribuisce al reo il diritto di conoscere le conseguenze sanzionatorie del proprio agire già nel momento in cui si determina a delinquere, senza che possa subire la circostanza (casuale o non) dell’intervento di una nuova legge a monte dell’evento successivo. La “necessità” di una interpretazione adeguatrice (anche rispetto alla giurisprudenza della C. eur. dir. uomo sull’art. 7 della CEDU) non trova ostacolo – secondo la Cassazione – nella lettera dell’art. 2 (co. 4) c.p. Il codice, in particolare,

non esprime una descrizione unitaria del tempus commissi delicti, che anzi è declinata diversamente nei vari contesti, e va ricostruita su basi sistematiche e logiche: dunque, anche con lo strumento dell’interpretazione costituzionalmente orientata. Nella disciplina della successione di leggi, insomma, il tempo del “commesso” reato è il tempo della condotta.

La soluzione è compatibile, secondo le Sezioni Unite, con la consolidata giurisprudenza in materia di reato permanente od abituale, per effetto della quale la norma sfavorevole sopravvenuta si applica a condotte avviate nella vigenza di una norma meno severa: in questi casi, infatti, la deliberazione criminosa è assunta e mantenuta alla luce del trattamento più rigoroso, e non a caso, del resto, si richiede a questo fine che la porzione della condotta tenuta dopo il mutamento normativo sia tale, di per sé, da integrare l’intera previsione incriminatrice (cioè da produrre l’evento antigiuridico sotteso alla fattispecie a prescindere dalla porzione antecedente al novum).

Circostanze del reato

Va segnalata, tra le novità recenti che riguardano le circostanze comuni, la “ricollocazione” della previsione relativa ai reati commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità. L’aggravante era stata introdotta nell’ordinamento ex art. 3 del d.l. 26.4.1993, n. 122 (come convertito dalla l. 25.6.1993, n. 205), ma la norma è stata successivamente abrogata, in ossequio alla direttiva della “riserva di codice”, ex art. 7, co. 1, lett. c), del d.lgs. 1.3.2018, n. 21. Il legislatore delegato ha introdotto nel codice penale (titolo XII del libro II) una nuova sezione Ibis, dedicata ai delitti contro l’uguaglianza, cui afferiscono gli artt. 604 bis e 604 ter. La seconda delle due norme sostituisce appunto l’art. 3 del d.l. n. 122/1993, e sulla stessa deve intendersi trasferito, ovunque si trovi, qualsiasi riferimento alla disposizione ormai abrogata (art. 8, co. 1, del citato d.lgs. n. 21/2018).

Cause di estinzione del reato

Il tema della prescrizione, anzitutto, ha continuato ad impegnare la giurisprudenza nei suoi massimi livelli. Un cenno si impone, anche nella sede presente, agli sviluppi recenti del caso Taricco, originato dalla sentenza della Corte di giustizia europea (Grande Sezione) dell’8.9.2015, in causa C105/14. La Corte aveva stabilito che il giudice nazionale dovesse disapplicare le norme sulla prescrizione del reato (in sostanza, gli artt. 160, co. 1, e 161 c.p.) qualora le stesse impedissero di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave con effetti lesivi per gli interessi finanziari dell’Unione europea. Le reazioni della dottrina e della giurisprudenza erano state numerose, trovando ampia illustrazione anche in quest’Opera (si veda in particolare, Viganò, F., Nuovi sviluppi in materia di legalità penale, in Libro dell’anno del Diritto 2018, Roma, 2018). Di particolare rilievo la “risposta” venuta dalla Corte costituzionale italiana in merito alla pretesa disapplicazione in malam partem di norme del diritto penale sostanziale, tali dovendosi considerare (ancora una volta) quelle concernenti la durata del termine prescrizionale: con l’ord. 26.1.2017, n. 24, la Consulta aveva sollecitato la Corte di Lussemburgo, mediante un rinvio pregiudiziale, a chiarire se davvero il diritto dell’Unione imponesse la disapplicazione delle norme sulla prescrizione pur mancando nel diritto nazionale «una base legale sufficientemente determinata», e pur trattandosi di disciplina sostanziale soggetta al principio di legalità. In sostanza, chiamata dai giudici rimettenti ad azionare i cosiddetti controlimiti, la Corte nazionale aveva inteso prima verificare l’esatta portata della regola giuridica individuata dalla Corte europea. Ebbene, come meglio illustrato in altra parte di quest’area (1.1.1 Ancora sviluppi in materia di legalità penale), l’ultimo anno ha registrato la deliberazione dei giudici europei sul rinvio pregiudiziale (Grande Sezione, 5.12.2017, in causa C-42/17), e poi la decisione della Corte costituzionale sulle questioni incidentali che avevano originato il citato rinvio (sent. 10.4.2018, n. 115). La Corte europea, per parte sua, ha chiarito che la disapplicazione imposta dalla “regola Taricco” non è dovuta quando comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene, a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile o dell’applicazione retroattiva di una normativa che prevede un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato. Il provvedimento della Consulta, di conseguenza, ha escluso che la legge di ratifica del TFUE, in relazione all’art. 325 del Trattato medesimo, violi una serie di parametri nazionali (artt. 3, 11, 24, 25, co. 2, 27, co. 3, e 101, co. 2, Cost.). Infatti la disapplicazione degli artt. 160 e 161 c.p. non è imposta né consentita dalla norma sovranazionale, perché sarebbe operata in base ad una disciplina priva di determinatezza (riguardo al «numero considerevole di casi» di fallimento della pretesa punitiva) e comunque non previamente conoscibile dagli interessati: diritto dell’Unione e principi fondamentali dell’ordinamento nazionale, alla fine, sono risultati compatibili. Va evidenziata l’esplicita insistenza della Consulta sulla natura sostanziale della prescrizione: «un istituto che incide sulla punibilità della persona, riconnettendo al decorso del tempo l’effetto di impedire l’applicazione della pena, nel nostro ordinamento giuridico rientra nell’alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. con formula di particolare ampiezza. La prescrizione pertanto deve essere considerata un istituto sostanziale, che il legislatore può modulare attraverso un ragionevole bilanciamento tra il diritto all’oblio e l’interesse a perseguire i reati fino a quando l’allarme sociale indotto dal reato non sia venuto meno (potendosene anche escludere l’applicazione per delitti di estrema gravità), ma sempre nel rispetto di tale premessa costituzionale inderogabile». Proprio al tema del bilanciamento tra gli interessi sottesi alla disciplina della prescrizione sono dedicate due ulteriori e recenti sentenze della Corte costituzionale, di oggetto analogo: in entrambi i casi, era censurato il co. 6 dell’art. 157 c.p., che raddoppia i termini prescrizionali per vari delitti colposi; in entrambi i casi, per effetto della norma denunciata, la durata del termine coincide con quella relativa alla fattispecie dolosa corrispondente; in entrambi i casi, la disciplina era parsa ai giudici rimettenti irragionevole, e lesiva del principio di uguaglianza. La Corte ha dichiarato infondate le questioni, con argomenti sostanzialmente sovrapponibili: così con riguardo alla fattispecie di disastro colposo (artt. 449434 c.p.), cui si riferisce la sent. 22.11.2017, n. 265, e così in rapporto all’ipotesi di frana colposa (artt. 449-426 c.p.), presa in considerazione nella sent. 30.5.2018, n. 112. Va premesso che vi era già stata una dichiarazione di illegittimità parziale del co. 6 dell’art. 157 c.p. (C. cost., 28.5.2014, n. 143), nella parte in cui raddoppiava il termine prescrizionale per la fattispecie dell’incendio colposo (artt. 449-423 c.p.). In quel caso, tuttavia, la norma implicava addirittura che la prescrizione maturasse più velocemente per il delitto doloso che per quello involontario, e la circostanza era stata determinante per la decisione assunta (così almeno si legge nelle sentenze più recenti, impegnate com’è ovvio nell’opera di distinguishing). Nei nuovi provvedimenti la Corte, ribadita la natura sostanziale della disciplina della prescrizione, ha confermato l’esigibilità di un rapporto di tendenziale proporzione tra gravità del fatto e tempo necessario per l’estinzione del reato. Residuano però, per il legislatore, margini di discrezionalità, utili al miglior bilanciamento tra l’entità e la durata dell’allarme sociale suscitato dal reato, la complessità delle indagini usualmente necessarie per il relativo accertamento, l’aspirazione all’oblio che deve essere riconosciuta al presunto reo. Per effetto di tale bilanciamento, la corrispondenza dei termini tra fatto doloso e fatto colposo può o può non essere conforme a ragionevolezza, a seconda dei casi. Quelli esaminati nelle due sentenze giustificano – secondo la Corte – la scelta legislativa, essendo equiparabili sia l’allarme sociale suscitato da eventi comunque disastrosi, sia le difficoltà di ricostruzione dell’evento tipico, ed essendo tra l’altro matura, nell’ordinamento, una particolare reattività per comportamenti di grave danno sociale, quand’anche non volontari.

Concorso di norme e di reati

Cospicue novità hanno segnato il diritto vivente a proposito del meccanismo di cumulo giuridico delle pene delineato all’art. 81 c.p., con riguardo anzitutto, ma non esclusivamente, al reato continuato. Si allude ad una recente decisione delle Sezioni Unite penali della Cassazione (sent. 21.6.2018, n. 40983), deliberata con il palese intento di mettere ordine in un quadro che, nonostante ripetuti interventi delle stesse Sezioni Unite, risultava ancora segnato da prassi applicative disomogenee. Alla base del problema, l’eventualità che i reati commessi con l’unica azione od omissione, o con condotte pertinenti ad un disegno criminoso unitario, siano puniti con sanzioni eterogenee, soprattutto in rapporto alla specie (pena detentiva e pena pecuniaria). Un problema così serio che la Corte, in primo luogo, ha ritenuto di dover ribadire che la disciplina della continuazione “può” essere applicata anche in situazioni del genere, restando appunto da stabilire secondo quali criteri di computo della pena. Al proposito è possibile qui solo riassumere le conclusioni “operative” cui la Corte è pervenuta, a partire da una sintesi originale tra argomenti riferibili alla lettera della legge (“pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata fino al triplo”) e rilievi più attenti alla ratio del cumulo (cioè al favor per il reo) ed al principio di proporzionalità nella determinazione del trattamento sanzionatorio. In sintesi, nel caso di concorso tra reato a pena detentiva e reato a pena pecuniaria, il giudice aumenterà la prima (cioè la “stessa pena”) per sanzionare il secondo, e subito dopo, però, convertirà la relativa quota di detenzione nella specie non detentiva, secondo gli ordinari criteri di legge (art. 135 c.p.). Di rilievo la precisazione che, nel caso di reato base con pene di specie diversa, e di reato satellite con pena pecuniaria, andranno aumentate entrambe le sanzioni principali, salvo poi convertire la quota della pena detentiva e riversarne il quantum in addizione su quella pecuniaria. Nella situazione inversa, andrà aumentata la sola pena pecuniaria. Al tema del cumulo giuridico di pene, per effetto della continuazione, è dedicata anche un’ulteriore e recente decisione delle Sezioni Unite (sent. 22.2.2018, n. 35852), relativa ai casi in cui una parte soltanto dei reati compresi nel disegno criminoso è giudicata col rito abbreviato. In effetti, una porzione della giurisprudenza aveva sostenuto che, quando il cumulo è compiuto dal giudice del rito speciale, l’intera pena sarebbe applicata in quell’ambito, e dunque sarebbe soggetta alla riduzione ex art. 442 c.p.p. In base ad alcune considerazioni sulla natura processuale e premiale della riduzione, per vero piuttosto ovvie, le Sezioni Unite hanno invece ribadito che la diminuzione del terzo va computata esclusivamente con riguardo alle pene concernenti i reati posti ad oggetto del giudizio condotto con rito abbreviato.

Misure di sicurezza

Nel magma della legislazione e delle pronunce in materia di confisca, si segnala tra i fatti recenti una ulteriore decisione delle Sezioni Unite penali della Corte di cassazione, la quale, pur riferita al provvedimento strumentale di sequestro, attiene al profilo sostanziale della questione: se la misura di sicurezza sia applicabile, nella configurazione “allargata” (ora regolata dall’art. 240 bis c.p.), con riferimento al mero tentativo dei delitti per i quali è prevista, appunto, la “confisca in casi particolari”. Va brevemente premesso un cenno all’evoluzione della disciplina positiva. La severa previsione di confisca era stata introdotta nell’ordinamento ex art. 12 sexies del d.l. 8.6.1992, n. 306, come convertito dalla l. 7.8.1992, n. 356 e come in seguito più volte modificato. In attuazione della delega per l’adeguamento alla “riserva di codice” (art. 6 del d.lgs. 1.3.2018, n. 21), il testo delle norme è stato trasferito, appunto, nel codice penale, all’art. 240 bis. La decisione della Corte è riferita, ratione temporis, alle disposizioni originarie, ma l’esito del ragionamento è stato espressamente testato anche riguardo al nuovo assetto normativo. Ora, la lettera delle previsioni non distingue, e non ha mai distinto, tra forma tentata e forma consumata dei delitti in esse elencati. In questa situazione, una parte della giurisprudenza ha ritenuto, essenzialmente sulla base dell’asserita autonomia di ogni delitto tentato rispetto alla corrispondente fattispecie consumata, che la confisca non potrebbe essere disposta nel caso del mero tentativo di uno dei delitti nominativamente indicati nella previsione di riferimento. Ciò che varrebbe, sempre secondo l’orientamento in questione, anche per ognuna delle fattispecie aggravate ex art. 7 del d.l. 13.5.1991, n. 152, incluse nella previsione di confisca per il rinvio compiuto al comma 3bis dell’art. 51 del codice di rito: si tratterebbe pur sempre di “delitti” da considerare consumati, in assenza di indicazioni diverse del legislatore. Proprio la mancanza di specificazioni nel testo normativo, tuttavia, ha indotto altra parte della giurisprudenza alla soluzione opposta, sul rilievo che in casi diversi il legislatore ha puntualmente circoscritto, quando ha voluto, l’applicazione di una determinata disciplina alle sole ipotesi di reato consumato. Non è mancato neppure un orientamento intermedio, sensibile all’argomento dell’autonomia fra delitto tentato e delitto consumato, ed attento però, nel contempo, alla pluralità dei criteri normativi di identificazione dei reati suscettibili di condurre alla confisca “allargata”. In particolare, nei casi di indicazione nominativa della fattispecie interessata, non potrebbe che farsi riferimento ai fatti di piena integrazione della medesima (in altre parole, e per esempio, il riferimento al delitto di cui all’art. 629 c.p. non potrebbe essere esteso al tentativo di estorsione). In altri casi, però, il criterio sintetico utilizzato nella previsione vale ad includere ogni fattispecie delittuosa che presenti determinate caratteristiche. In particolare, tramite il rinvio al co. 3-bis dell’art. 51 c.p.p., la confisca può riguardare ogni “delitto” aggravato dalla connotazione mafiosa, e, poiché la relativa aggravante è applicabile anche al mero tentativo di un delitto, che resta a sua volta un “delitto”, la misura di ablazione può essere disposta in piena e rigorosa applicazione del testo normativo. Resta da dire che le Sezioni Unite hanno accreditato proprio l’orientamento intermedio, riprendendone gli argomenti, testandone la congruenza con la soluzione adottata per questioni analoghe ed affermandone la pertinenza, come sopra accennato, anche riguardo al nuovo testo dell’art. 240 bis c.p. Quindi, ed in definitiva, la confisca “allargata” sarà applicabile anche ai delitti tentati, quando posti in essere nel contesto mafioso.

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