Reattore

Enciclopedia on line

In chimica e nella tecnica nucleare, dispositivo, apparecchio, impianto in cui si fanno avvenire reazioni chimiche (per lo più a fini industriali) o nucleari.

In elettrotecnica, apparecchio o circuito elettrico destinato a offrire una certa reattanza al passaggio della corrente.

Nella tecnica dei mezzi di trasporto: propulsore (terrestre, marino, aereo, spaziale) che utilizza la reazione di masse (➔ propulsione). In aeronautica, oltre che il propulsore a getto, il termine indica il velivolo così propulso ed è sinonimo di aviogetto.

R. chimici

R. impiegati nella chimica industriale. Possono essere di dimensioni, forma e caratteristiche varie a seconda della natura delle sostanze trattate, della potenzialità richiesta e delle quantità di calore scambiato. Per piccole capacità produttive o quando sia richiesto un funzionamento molto flessibile, cioè caratterizzato da condizioni operative molto variabili, si preferisce condurre la reazione in modo discontinuo, caricando tutti i reagenti all’inizio dell’operazione e attendendo un tempo sufficiente a consentire il raggiungimento del grado di conversione prefissato. Questo tipo di conduzione è tipico di molti r. impiegati nell’industria farmaceutica e nelle produzioni chimiche ad alto valore aggiunto.

Nelle lavorazioni chimiche con elevata capacità produttiva sono preferiti r. in cui le operazioni possano essere condotte in modo continuo, cioè attraverso flussi materiali entranti (reagenti) e uscenti (prodotti e reagenti non convertiti) che non subiscono interruzioni durante l’esercizio. I r. continui presentano maggiori costi di installazione rispetto ai r. discontinui, ma tale differenza, che peraltro va diminuendo al crescere della capacità produttiva, è generalmente più che compensata dai minori costi di esercizio (in quanto i r. continui non necessitano di operazioni onerose dal punto di vista della manodopera, quali il caricamento della miscela reagente e lo scarico dei prodotti) e dal più agevole controllo automatico del processo che consente minori fluttuazioni delle condizioni operative e, conseguentemente, maggiore costanza delle caratteristiche dei prodotti. Alcuni processi avvengono in r. semicontinui in cui non tutti i componenti del sistema reagente fluiscono con continuità attraverso il r. (per es., la clorurazione del benzene è spesso realizzata inviando un flusso continuo di cloro dentro a un r. in cui si immette, all’inizio dell’operazione, l’intera carica liquida di benzene).

Restringendo l’esame ai r. continui, una loro caratteristica importante è il grado di mescolamento. Esistono al riguardo due casi limite ideali: r. a mescolamento completo (spesso indicati con la sigla CSTR, continuous stirred tank reactors) nei quali si assume che siano così intensamente agitati che ogni loro punto interno ha gli stessi valori di temperatura e di composizione, uguali a quelli della corrente materiale uscente; r. con flusso a pistone, che hanno forma tubolare e nei quali ogni porzione della miscela reagente che fluisce vi permane per lo stesso tempo. I r. con flusso a pistone richiedono un volume minore, a parità di grado di conversione finale e di condizioni operative dei r. a mescolamento. Per contro, questi ultimi consentono più efficaci trasferimenti di materia e di calore.

Un altro importante elemento di caratterizzazione dei r. continui è dato dal numero e dalla natura delle fasi coinvolte nelle reazioni chimiche in gioco. La situazione più semplice si riscontra nei sistemi omogenei, in cui è presente un’unica fase, gassosa o liquida, le cui trasformazioni vengono per lo più condotte in r. tubolari nei quali l’emissione o l’assorbimento di calore sono condotti mediante uno scambiatore di calore costituito, per es., da una semplice camicia in cui scorre in controcorrente un altro fluido.

Di maggiore complessità risultano i sistemi eterogenei in cui avvengono reazioni che coinvolgono più fasi quali un fluido e un solido, un liquido e un solido o due liquidi non miscibili. In essi rientrano le reazioni che avvengono in presenza di un catalizzatore solido e le reazioni con formazione di un solido. Nelle reazioni gas-liquido e liquido-liquido i reagenti sono distribuiti in due fasi fluide immiscibili e deve aver luogo, pertanto, il loro trasferimento da una all’altra, con successiva reazione. Più complesse sono le reazioni gas-liquido-solido in cui i reagenti sono distribuiti in due fasi fluide immiscibili, gassosa e liquida, ma necessitano di un catalizzatore solido per dare origine alla reazione.

Le reazioni catalitiche eterogenee vengono spesso condotte in r. tubolari nei quali è contenuto un letto costituito dalle particelle solide del catalizzatore, aventi la forma di sferette o cilindretti; se il processo è fortemente esotermico risulta necessario rimuovere il calore di reazione mediante un mantello di raffreddamento o un fascio tubiero immerso nel letto di particelle catalitiche. Talora le reazioni catalitiche eterogenee vengono condotte in r. in cui le particelle sono in movimento (è il caso, per es., del processo di cracking catalitico di idrocarburi in r. a letto fluidizzato).

fig. 1
fig. 2

Le reazioni in fase liquida sono spesso condotte, soprattutto quando sono presenti due fasi liquide che devono essere disperse una nell’altra, in r. a grado di mescolamento molto elevato (r. agitato); si tratta, in genere, di recipienti a tino, muniti di un efficiente agitatore a elica o a pale, corredato da un sistema di scambio termico costituito da una camicia o da un serpentino interno (fig. 1). Le reazioni in cui sono presenti una fase gassosa e una fase liquida vengono invece condotte in r. a colonna verticale di vario tipo (fig. 2) in cui le due fasi si muovono in controcorrente, la gassosa dal basso e la liquida dall’alto.

R. biologici. Nel settore microbiologico industriale le reazioni di fermentazione sono condotte per lo più in r. biologici (detti anche bioreattori) a funzionamento discontinuo. Un tipo particolare di r. biologico, molto impiegato quando occorre trasferire al brodo di fermentazione ingenti portate di ossigeno (come accade, per es., nei r. in cui avviene la produzione di proteine da idrocarburi), è il fermentatore del tipo air lift in cui, sfruttando la spinta ascensionale delle bolle d’aria immesse nella parte inferiore del r., si ottiene una intensa ricircolazione interna della fase liquida, con conseguente massimizzazione del trasporto di ossigeno. Le reazioni di fermentazione possono essere condotte anche in r. in cui i microorganismi (o gli enzimi da essi ricavati) vengono immobilizzati su opportuni supporti utilizzando vari metodi (attacco covalente a polimeri attivati, adsorbimento, reticolazione con macromolecole insolubili, inglobamento fisico in membrane polimeriche permeabili a composti chimici di basso peso molecolare). L’immobilizzazione elimina le laboriose operazioni di separazione del biocatalizzatore dal mezzo di reazione e conferisce alla cellula o all’enzima una maggiore stabilità strutturale.

Altri tipi di r. chimici. I r. dove avvengono processi elettrochimici, fotochimici o radiochimici non sono facilmente inquadrabili in categorie generali, in quanto il loro progetto è altamente specifico, cioè strettamente legato alla particolare natura delle reazioni coinvolte. Fattori molto importanti per la scelta della geometria del r. e delle condizioni di flusso sono: il materiale e la configurazione degli elettrodi nel caso di r. elettrochimici, l’intensità e la lunghezza d’onda della sorgente luminosa nei r. fotochimici, il sistema adottato per la protezione dalle radiazioni nel caso di r. radiochimici.

R. elettrici

Il r. può essere costituito da un condensatore oppure da un induttore (o bobina d’induttanza, in tal caso detta bobina di reattanza), a seconda che interessi avere una reattanza capacitiva oppure induttiva. I r., oltre che come componenti di circuiti a bassa potenza (si parla allora preferibilmente di induttori o di bobine d’induttanza), sono impiegati anche nelle reti di trasporto e di distribuzione dell’energia elettrica (r. di potenza), presentando in tal caso particolari problemi di progetto e d’impiego, data l’elevata potenza in gioco. I r. di potenza possono essere inseriti in serie alla linea per limitare l’intensità della corrente oppure connessi in parallelo per controllare la potenza reattiva. I r. del primo tipo non hanno nucleo di ferro e possono essere isolati in aria o immersi in olio. I r. isolati in aria sono costituiti da un certo numero di spire di rame, a sezione piena o cava; il valore della reattanza è costante e l’isolamento verso terra e tra le fasi è garantito da isolatori di porcellana e di resina epossidica; a causa del forte campo magnetico attorno al r., questo deve essere collocato ben lontano da parti metalliche, generalmente in appositi locali. I r. immersi in olio hanno un cassone metallico, per cui il campo magnetico deve essere schermato onde evitare perdite e sovrariscaldamenti per correnti parassite; gli schermi sono costituiti da lamierini magnetici (schermi magnetici), che incanalano il flusso magnetico evitando che raggiunga il cassone, oppure da cilindri di rame o di alluminio, che per effetto delle correnti indotte evitano l’uscita del flusso. I r. connessi in parallelo funzionano con tensione pressoché costante e quindi hanno quasi sempre un nucleo ferromagnetico e sono di costruzione molto simile a quella dei trasformatori. Si ha inoltre un r. nelle lampade elettriche fluorescenti (➔ lampada).

R. nucleari

In genere, in un r. nucleare hanno luogo numerose reazioni nucleari; nel complesso esse debbono essere esoenergetiche (cioè debbono dar luogo a un rilascio netto di energia) e controllabili (cioè deve essere possibile programmarne lo svolgimento). Proprietà comune a tutti i r. di potenza oggi operanti è inoltre l’autosostentamento, ovvero la capacità delle reazioni, una volta avviate, di procedere senza interventi esterni. Peraltro sono in linea di principio concepibili r. il cui funzionamento è sostenuto da immissione esterna di energia (r. a fissione sottocritici o r. a fusione non igniti). L’energia liberata nelle reazioni (tipicamente una principale, o reazione base, e altre secondarie) viene convertita nel r. in energia termica; questa liberazione di energia è accompagnata dall’emissione di particelle e di radiazioni (neutroni, elettroni, raggi γ ecc.) e dalla formazione di un certo numero di nuclidi, spesso radioattivi, non esistenti nel r. all’inizio del funzionamento. Fra tutte le reazioni nucleari esotermiche due sono i tipi utilizzabili: le reazioni di fusione (➔) e le reazioni di fissione (➔). Le prime non hanno ancora trovato impiego pratico nei r., anche se sono in atto in tutto il mondo gli studi per giungere a tale impiego. Le reazioni di fissione invece sono utilizzate negli attuali r. nucleari, il primo dei quali è stato la pila atomica realizzata nel 1942 a Chicago da E. Fermi e dai suoi collaboratori.

Fisica del r. nucleare a fissione

Reazioni e reattività. Elementi pesanti possono subire la fissione se bombardati con neutroni di energia sufficientemente elevata; soltanto pochi elementi, detti fissili, possono subire la fissione con neutroni di tutte le energie. Di questi, l’unico esistente in natura è l’uranio, che è costituito da una miscela dei seguenti isotopi: 99,28% di U238 (cioè dell’isotopo di uranio con numero di massa 238), 0,71% di U235 e 0,0058% di U234. L’isotopo U235 è fissile ai neutroni di tutte le energie, mentre l’U238 subisce la fissione soltanto con neutroni di energia elevata. Altri materiali fissili possono essere prodotti artificialmente in notevoli quantità: essi sono il plutonio 239 e il plutonio 241, ottenuti per cattura neutronica a partire dall’U238, e l’U233, prodotto dal torio232. Quando un nucleo subisce la fissione, si liberano in media circa 200 MeV di energia e circa 2,5 neutroni. Circa l’85% dell’energia liberata è sotto forma di energia cinetica dei frammenti di fissione, mentre il restante 15% è associato ai neutroni (che hanno energia media di circa 2 MeV) e alle altre particelle nucleari prodotte; tutte queste particelle dissipano, per rallentamento o per assorbimento, la loro energia, che si converte in calore.

La probabilità dell’assorbimento di un neutrone da parte dei nuclei di un elemento, individuata dal parametro detto sezione d’urto, aumenta in genere con il diminuire dell’energia dei neutroni. Così, la sezione d’urto di fissione dell’U235 è di 1,4 barn (1 barn=10–28 m2) per neutroni cosiddetti veloci (con energie dell’ordine del MeV o superiori), mentre raggiunge 580 barn per neutroni di energia dell’ordine di quella di agitazione termica (circa 0,025 eV), cosiddetti termici o lenti: è pertanto conveniente rallentare considerevolmente i neutroni emessi per effetto della fissione. Il processo di rallentamento si ottiene collocando nel nucleo attivo (detto nocciolo o core) del r. un moderatore, cioè un materiale non assorbente i neutroni e di basso peso atomico, in modo che i neutroni, urtando contro i nuclei di questo materiale perdano rapidamente energia.

I neutroni emessi nella fissione possono subire tre tipi di interazione con i materiali presenti nel r. e in particolare con lo stesso combustibile nucleare: diffusione (o scattering), con perdita di energia, fissione, cattura (cioè assorbimento in un nucleo senza dar luogo a fissione). Nel caso in cui il combustibile sia costituito da uranio naturale, data la grande prevalenza dell’U238 rispetto all’U235, esiste una probabilità molto forte d’interazione dei neutroni con l’U238; poiché quest’ultimo è fissile ai neutroni veloci, sarebbe a prima vista possibile mantenere una reazione a catena nell’U238 con neutroni veloci. Peraltro la probabilità della diffusione è molto maggiore di quella della fissione e quindi i neutroni verrebbero rapidamente degradati a energie al di sotto della soglia di fissione dell’U238 per cui la reazione si spegnerebbe. Se si aumenta la probabilità che i neutroni colpiscano i nuclei di U235 dando luogo a fissione a basse energie d’impatto, e cioè in zona termica, è possibile che, mediamente, almeno uno dei neutroni prodotti da ogni fissione provochi a sua volta un’altra fissione, e così via, innescandosi in tal modo una reazione a catena: è quello che viene chiamato un sistema critico a neutroni termici (r. termico). La presenza di un moderatore (costituito, per es., da acqua naturale, acqua pesante, o grafite), che consente di portare rapidamente l’energia dei neutroni emessi per effetto della fissione a valori molto bassi, aumenta quindi considerevolmente la probabilità di provocare la fissione degli isotopi fissili dell’uranio.

Un altro metodo per ottenere lo stesso risultato può consistere nell’utilizzare, anziché uranio naturale, uranio a elevato arricchimento di U235. In questo caso la probabilità di fissione per neutroni veloci è confrontabile con quella di diffusione e maggiore della probabilità di cattura: è quindi possibile realizzare una reazione a catena con neutroni ad alta energia. Ciò avviene nella categoria dei r. veloci o a neutroni veloci.

Gli elementi di combustibile nucleare si presentano sotto forma di barre, di sezione relativamente modesta, associate in fasci disposti entro il moderatore. È questa la disposizione detta eterogenea; se il moderatore è mescolato con il combustibile, si ha la struttura omogenea. In un r. deve inoltre essere presente un fluido refrigerante (che può anche coincidere con il moderatore), che asporta il calore prodotto dalla fissione.

Criticità. Il mantenimento della reazione a catena è ostacolato dalla presenza in ogni r. di elementi quali il fluido refrigerante e la struttura portante del r. stesso, che danno luogo ad assorbimento, o cattura parassita, di neutroni. Si può al riguardo introdurre una grandezza, detta costante di moltiplicazione, k, definita come il numero di neutroni prodotti per ogni neutrone comunque catturato: essa dipende esclusivamente dalla natura dei materiali (materiale fissile, moderatore, materiali strutturali ecc.), dalla loro quantità, forma e distribuzione geometrica. Condizione necessaria perché la reazione si automantenga è che sia k>1.

Tale condizione non è però sufficiente, perché neutroni possono sfuggire dal mezzo al contorno. Se P è la probabilità che un neutrone di fissione ha di non sfuggire dal mezzo prima di essere catturato, affinché la reazione si possa autosostenere occorre che sia maggiore o uguale all’unità il prodotto ke=kP, detto costante di criticità (o talvolta costante effettiva di moltiplicazione). Il calcolo di ke costituisce l’obiettivo principale della teoria dei reattori. Si possono distinguere tre casi: nel caso in cui ke<1, il numero di neutroni catturati o che sfuggono al contorno (per es., per unità di tempo) è inferiore a quello prodotto (nello stesso intervallo di tempo), la reazione tende a estinguersi e il r. si dice sottocritico. Nel caso in cui ke=1 si ha un esatto bilancio fra neutroni prodotti e neutroni che sfuggono o sono catturati; la reazione a catena è stazionaria e il r. si dice critico. Nel caso in cui ke>1, il numero di fissioni per unità di tempo, e quindi la potenza prodotta, cresce con il tempo; la reazione a catena è divergente e il r. si dice sopracritico.

Mentre la costante k dipende solo dalla natura del materiale reattivo, la probabilità 1−P di fuga dei neutroni al contorno dipende sensibilmente dalle dimensioni geometriche del r.: si può, grosso modo, affermare che essa dipende dal rapporto fra la superficie e il volume del reattore. Conviene pertanto aumentare le dimensioni geometriche del r. per aumentare P: anche a questa esigenza si provvede mediante l’introduzione del moderatore, pur non essendo questa la sua funzione principale. Per aumentare P nei r. termici è anche possibile circondare il nocciolo del r. con materiale fortemente diffondente i neutroni (per es., grafite), avente la funzione di rinviare (‘riflettere’) nel nocciolo parte dei neutroni fuoriusciti. La presenza del riflettore è tanto più efficace quanto più piccolo è il r., ragione per cui esso di norma manca nei grandi r. di potenza.

Combustibili nucleari. Nonostante l’improprietà del termine (‘combustibile’ presuppone la combustione di un carburante con un comburente), è invalso l’uso di chiamare combustibile nucleare ogni materiale capace di sostenere una reazione nucleare a catena di fissione e produrre pertanto energia: sono combustibili nucleari l’U233, l’U235 e il Pu239, puri o in combinazione con altri nuclidi, e anche l’uranio naturale. I combustibili nucleari sono caratterizzati, dal punto di vista nucleare, dal numero medio η di neutroni utilizzabili nella reazione per ogni neutrone assorbito dal combustibile. In generale η risulta minore del numero ν dei neutroni effettivamente emessi nella fissione; indicando con σf la sezione d’urto di fissione del combustibile in esame e con σα la sezione d’urto totale di assorbimento, relativa cioè al processo cattura più fissione, la relazione fra η e ν è la seguente: η=νσfα. Se con σc si denota la sezione d’urto di cattura radiativa (ossia non seguita da fissione del materiale), si ha anche: η=ν(1+α), dove α=σcf. Osserviamo che η risulta sempre minore di k.

L’uranio naturale è un combustibile nucleare di qualità piuttosto scadente, caratterizzato da η=1,34, poiché è formato da una miscela di isotopi di cui solo l’U235 è fissile (per neutroni termici), mentre l’U238 assorbe i neutroni. Ne consegue che in ogni r. alimentato a uranio naturale, la probabilità P dei neutroni di non sfuggire al contorno deve essere uguale o superiore a 1/1,34=0,74; in effetti deve essere assai superiore per tener conto delle catture passive nel moderatore e nei materiali strutturali: ne segue che i r. a uranio naturale debbono essere di dimensioni piuttosto notevoli.

L’U235 deve essere estratto dall’uranio naturale mediante costosi e complicati procedimenti di separazione isotopica. Poiché il parametro η per i neutroni termici, ηt, è molto elevato (2,07), l’U235 consente notevoli risparmi nelle dimensioni del nocciolo, in quanto si possono tollerare dei valori bassi di P. Tuttavia per il suo alto costo l’U235 è impiegato a forte arricchimento, oltre che negli esplosivi nucleari, solo nei r. di bassa potenza, come i r. di ricerca, o là dove il requisito della compattezza sia indispensabile, come nei r. trasportabili. Nei r. di potenza si usano arricchimenti in U235 che raramente superano pochi percento.

Il Pu239, e l’U233 vengono prodotti artificialmente nei r. per effetto dell’assorbimento dei neutroni da parte di nuclei non fissili. Il Pu239 risulta come prodotto finale del processo cui dà luogo la cattura di un neutrone da parte dell’U238: pertanto si forma sempre, per effetto di cattura dei neutroni, quando sia presente nel r. U238. Ai fini pratici si può considerare che il quantitativo di Pu239 che si produce in un r. a uranio naturale corrisponda, grosso modo, al quantitativo di U235 ‘bruciato’, tramite il processo

formula

L’U233 si produce secondo un processo simile, per assorbimento di neutroni da parte del torio:

formula

Quindi anche l’U233 si produce sempre nei r. nucleari quando sia presente del torio. Pu239 e U233 si estraggono per separazione chimica dall’U238 e dal Th232 rispettivamente, e non richiedono quindi i costosi e complicati impianti di separazione isotopica. Il procedimento chimico con cui vengono ottenuti è tuttavia reso alquanto laborioso dal fatto che, a causa dell’alta radioattività, le operazioni di estrazione devono essere compiute in impianti speciali forniti di opportune schermature. Dal punto di vista nucleare questi due nuclidi hanno ottime caratteristiche come combustibili. Infatti ηt(Pu239)=2,085, ηt(U233)=2,29. Per il Pu è tuttavia da notare che la sua alta tossicità ne ha finora limitato grandemente l’impiego come combustibile nei r. (mentre è notevolmente impiegato come esplosivo nucleare).

L’U238 e il Th232, che, per assorbimento neutronico, possono dar luogo a prodotti fissili, sono detti materiali fertili, e quindi possono essere considerati, indirettamente, come combustibili.

Conversione e autofertilizzazione. Si chiama coefficiente di conversione, c, il rapporto fra il numero di nuclei fissili prodotti (per ‘fertilizzazione’) per assorbimento dei neutroni e il numero di nuclei fissili ‘bruciati’ nello stesso tempo nella reazione. Nella reazione principale di fissione si consuma un atomo fissile contro una produzione netta di η−1 neutroni. In un r., per il quale a un’energia E si abbia ηE>2, si può quindi verificare la circostanza c>1; in tal caso il materiale fissile prodotto è maggiore di quello che si brucia nel r. e il r. si dice autofertilizzante (in inglese breeder). Se c<1 il r. si dice invece convertitore. In un r. a uranio naturale, per ogni neutrone termico assorbito nell’U235, 0,59 neutroni termici sono assorbiti nell’U238 e producono Pu239; poiché altri nuclei di Pu si producono per cattura di neutroni epitermici e veloci, il valore 0,59 rappresenta solo un limite inferiore per la produzione di Pu. Poiché d’altra parte ηt(U235)=2,07, il numero massimo di neutroni disponibili per la fertilizzazione risulta 1,07. Così, in un r. termico a uranio naturale si avrà 1,07>c>0,59. Resta quindi un margine estremamente piccolo per ottenere la fertilizzazione; di fatto un r. a uranio naturale non sarà mai autofertilizzante. Risultati analoghi si ottengono anche quando si consideri il ciclo integrale U-Pu, con qualunque arricchimento iniziale di Pu239, dato che il valore di ηt(Pu) è molto prossimo a 2 per neutroni termici, il che lascia un margine troppo ristretto per le catture passive. L’autofertilizzazione dell’U238 è però possibile nel ciclo U-Pu in r. in cui la reazione di base avvenga mediante neutroni veloci (autofertilizzazione veloce). Il ciclo U-Th, in conseguenza dell’elevato valore di ηt(U233) è possibile invece anche con neutroni lenti: di qui l’interesse per i r. a U-Th. Poiché i materiali fertili sono presenti in natura in quantità di gran lunga maggiore di quelli fissili, è evidente l’importanza, dal punto di vista dello sfruttamento delle riserve energetiche mondiali, del processo di conversione.

Ciclo del combustibile nucleare. La permanenza del combustibile nel r. rappresenta una fase di un ciclo che può sommariamente articolarsi come segue: a) ricerca e coltivazione dei giacimenti di uranio (ed eventualmente di torio); b) estrazione del metallo e dell’ossido di uranio (o di torio) dal minerale; c) purificazione del concentrato e conversione nel prodotto immediatamente utilizzabile nella fase d nel caso di combustibili arricchiti e nella fase e nel caso di combustibili a uranio naturale; d) arricchimento dell’uranio nell’isotopo 235, ovvero aggiunta di plutonio all’uranio naturale; e) fabbricazione dei combustibili a base di uranio, per lo più sotto forma di ossido U3O8, ovvero di carburi o anche, ma sempre meno, di uranio metallico; f) combustione o irraggiamento del combustibile nel r.; g) trattamento per la separazione degli elementi fissili e fertili riutilizzabili (quali uranio, plutonio e torio 232); h) eventuali processi di trasformazione (detta anche trasmutazione) di alcuni isotopi radioattivi a lunga vita in isotopi stabili o a vita più breve; i) sistemazione dei residui radioattivi a lunga vita in depositi che offrano le massime garanzie di sicurezza (smaltimento delle scorie).

L’elemento maggiormente impiegato nei r. è l’uranio; l’impiego del torio, come materiale fertile, è stato finora limitato e la sua applicazione di maggiore interesse è quella legata ai r. a gas ad alta temperatura. L’arricchimento dell’uranio nel suo isotopo U235 richiede anzitutto la conversione dell’U3O8 in esafluoruro di uranio, UF6. In via di principio vari processi permettono di arricchire l’uranio (➔ separazione), ma l’unico impiegato su ampia scala industriale è quello a diffusione gassosa; le caratteristiche intrinseche di tale processo, che è stato sviluppato a partire dal 1942, sono tali da rendere necessari impianti estremamente impegnativi per le loro dimensioni e i grandi investimenti richiesti. In alternativa al processo sopraindicato, un notevole sforzo è da tempo dedicato allo sviluppo del processo di centrifugazione.

La fabbricazione degli elementi di combustibile comprende operazioni e trasformazioni che permettono di passare dalla materia prima di partenza (in genere UF6) all’elemento di combustibile finito, pronto per essere inserito nel reattore. Si tratta di numerose lavorazioni di natura essenzialmente chimica e meccanica. Per i combustibili destinati ai r. ad acqua e a gas di tipo avanzato, le principali operazioni sono: conversione dell’esafluoruro di uranio arricchito in ossido, fabbricazione dei rivestimenti metallici e dei componenti meccanici dell’elemento, lavorazione della polvere di ossido e riduzione in capsule o pastiglie, caricamento delle pastiglie nei canali di rivestimento, chiusura dei canali, montaggio di questi ultimi e dei componenti meccanici dell’elemento.

Fattore determinante del ciclo dei neutroni in un r. nucleare è la composizione dei combustibili. All’inizio del funzionamento di un r. i combustibili contenuti nel suo nocciolo risultano composti esclusivamente da elementi fissili e fertili, ma dopo un certo tempo di esercizio, e cioè dopo che i combustibili stessi sono stati soggetti all’irraggiamento dovuto al flusso neutronico esistente nel r., i nuclidi fissili che hanno subito la fissione scompaiono e cedono il posto, come si è già detto, ai prodotti di fissione, nuclidi il cui numero di massa è grosso modo compreso fra 60 e 160. Alcuni di questi, come lo Xe135, detti veleni a causa della loro elevatissima sezione d’urto di assorbimento di neutroni, sono in grado di esercitare una notevole influenza negativa sul bilancio dei neutroni (avvelenamento del combustibile). Nello stesso tempo l’irraggiamento neutronico dei nuclidi fertili dà luogo a reazioni nucleari che conducono alla formazione di altri elementi fertili o fissili.

Al fine di recuperare gli elementi pregiati, in particolare il plutonio, si procede al trattamento (o riprocessamento) degli elementi irraggiati, cioè degli elementi di combustibile scaricati dal r. dopo un prefissato periodo di irraggiamento.

Lo smaltimento delle scorie radioattive è uno dei problemi più delicati connessi con l’impiego dei r. a fissione. Una tonnellata di uranio usato come combustibile in un moderno r., contenente inizialmente circa 33 kg di U235, allo scarico dopo circa 3 anni di funzionamento contiene circa 8 kg di U235, circa 35 kg di prodotti di fissione e circa 9 kg di transuranici che la rendono fortemente radioattiva. La sua attività, dell’ordine di 1018 becquerel dopo qualche giorno dallo scarico, si riduce di un fattore 10−2 dopo circa 10 anni e di un fattore 10–3 nei successivi 400 anni; l’attività residua, in gran parte dovuta a plutonio e americio, scende di un fattore 10−2 in 100.000 anni. Questi dati mostrano l’enorme importanza del problema dello smaltimento delle scorie radioattive, sia a tempi brevi rispetto alla durata della vita umana, sia a tempi lunghi e lunghissimi. Gli elementi di combustibile esauriti vengono dapprima posti in piscine di raffreddamento per tempi variabili da qualche mese a qualche anno; successivamente, una soluzione temporanea consiste nel depositarli in contenitori a secco almeno per alcune decine di anni; gli elementi esauriti possono poi essere inviati a un impianto di riprocessamento chimico, ove si riesce a estrarre sino al 99,5% di uranio e plutonio, e riciclati in nuovi elementi di combustibile. Oltre a questi elementi è possibile riciclare anche elementi transuranici e prodotti di fissione ad alta attività (per trasmutarli in elementi stabili). Il residuo a elevata attività viene solidificato con l’aggiunta di opportuno inerte, per esempio vetrificato, e posto in contenitori d’acciaio seppelliti in profondità, in formazioni geologicamente stabili e non invase dalle acque, come, per esempio, miniere di salgemma (➔ scoria). Negli USA il riprocessamento del combustibile è stato sospeso dal 1978 con il fine dichiarato di ridurre i rischi di proliferazione nucleare.

Costante di moltiplicazione e formula dei quattro fattori. Consideriamo, a titolo di esempio, un r. termico eterogeneo. Supponiamo che in un ‘mezzo moltiplicante infinito’, costituito da sbarre di uranio naturale regolarmente intervallate (reticolo) e da un moderatore, a un certo istante vengano emessi N0 neutroni veloci di fissione; questi, all’interno delle sbarre nelle quali sono generati, prima di entrare nel moderatore, possono dare luogo a vari processi contro i nuclei di uranio, come urti elastici, urti anelastici e anche fissioni: in conseguenza di quest’ultima possibilità, nuovi neutroni si aggiungeranno agli N0 preesistenti. Come effetto delle nuove fissioni provocate dai neutroni veloci si avranno quindi N0ε neutroni veloci, dove ε è un fattore, di poco maggiore dell’unità, detto appunto fattore di fissione veloce. Gli N0ε neutroni che entrano nel moderatore rallentano fino a raggiungere energie epitermiche. Mentre si può trascurare la cattura del moderatore durante il rallentamento, non altrettanto può farsi per le catture in uranio: nella zona epitermica, infatti, la sezione d’urto di cattura dell’uranio, σεU(E), presenta dei massimi di risonanza molto pronunciati. Nella teoria del r. si tiene conto della perdita di neutroni per cattura di risonanza nell’uranio introducendo un fattore p<1 che rappresenta la probabilità che un neutrone ha di sfuggire alla cattura di risonanza: alla soglia termica arrivano quindi N0εp neutroni, per i quali ha inizio il processo di diffusione termica. Di essi, parte sarà catturata in uranio (fenomeno predominante) e parte nel moderatore. Si indica con f (fattore di utilizzazione termica) la percentuale di neutroni catturati in uranio: degli N0εpf neutroni termici catturati in uranio soltanto la frazione σfU/σUα (dove i simboli f e a si riferiscono alla fissione e all’assorbimento) dà luogo a fissione. Se ν è il numero di neutroni termici emessi in ogni fissione dell’U235 (ν=2,5), per ogni neutrone termico catturato in uranio vengono emessi, come si è visto, η neutroni veloci di fissione. Dopo un ciclo completo di moltiplicazione gli N0 neutroni veloci iniziali sono divenuti N0εpfη, così che, ricordando la definizione di costante di moltiplicazione k, si ha la cosiddetta formula dei quattro fattori: k=εpfη.

Mezzo moltiplicante finito: calcolo neutronico del reattore. In effetti, il nocciolo del r. è costituito da una porzione, di dimensioni finite, di mezzo moltiplicante. Vi saranno pertanto perdite di neutroni dal ciclo di moltiplicazione, dovute alle fughe al contorno. Perché la reazione si autosostenga occorrerà quindi che la costante di moltiplicazione sia maggiore dell’unità; inoltre essa dovrà essere tanto più grande quanto più piccole si vogliono le dimensioni del reattore. In luogo della costante k si deve considerare una costante di moltiplicazione effettiva ke, che risulta legata a k tramite la relazione

[1] formula

formula

dove τ è la lunghezza di rallentamento (pari a 1/6 della media quadratica delle distanze percorse da un neutrone dalla sua creazione fino a raggiungere le energie termiche), L è la lunghezza di rallentamento (pari a 1/6 della radice della media quadratica delle distanze percorse da un neutrone termico da quando supera la soglia termica fino alla sua cattura) e B è il cosiddetto buckling geometrico. Per un r. sferico, di raggio R, si ha B=π/R. Nella [1] il fattore exp(−τB2) rappresenta la probabilità che un neutrone non sfugga dal r. durante il rallentamento, mentre il fattore (1+L2B2)−1 rappresenta la probabilità che un neutrone termico rimanga all’interno del reattore. Poiché la criticità del r. richiede ke=1, la condizione di criticità di un r. di dimensioni finite può essere posta nella forma

formula

Quanto detto finora si riferisce a un r. puramente ideale, per il quale si sono completamente trascurati alcuni fenomeni importanti connessi con il funzionamento del r., come l’effetto di temperatura (aumento delle dimensioni dei componenti del r. per riscaldamento durante il funzionamento), l’avvelenamento del combustibile, l’impoverimento del combustibile (per il progressivo esaurimento del materiale fissile), la presenza di materiali strutturali (che assorbono neutroni); di questi fenomeni si tiene conto nel progetto di un r. introducendo un’opportuna sovracriticità nel r. ideale.

Struttura dei r. nucleari

In tutti i r. nucleari termici si trovano i seguenti componenti essenziali: a) il combustibile nucleare, costituito da uno o più isotopi fissili e da uno o più isotopi fertili; b) un fluido vettore termico (gas, acqua, metalli liquidi) che circola attraverso il r. e asporta il calore prodotto durante il funzionamento, di natura tale da non comportare un assorbimento neutronico che incida di molto sull’economia neutronica; c) il moderatore, spesso coincidente con il fluido vettore termico (per es., nel caso di acqua, naturale o pesante); d) un sistema di controllo della reattività e quindi della potenza prodotta, costituito per lo più da un complesso di barre che presentano un forte assorbimento per i neutroni e la cui inserzione nel nocciolo provoca lo ‘spegnimento’ del r., cioè il disinnesco della reazione a catena che dà luogo alla produzione di energia; e) il complesso delle strutture portanti, che tengono insieme e sostengono i componenti precedenti. Nei r. veloci si ritrovano gli stessi componenti, con l’esclusione del moderatore.

Il ‘recipiente’ del r. è costituito da un contenitore a tenuta stagna, resistente alla pressione, alla corrosione e all’irraggiamento; le sue pareti in corrispondenza del nocciolo vengono protette mediante apposito schermo termico di acciaio, che ha la funzione di ridurre l’irraggiamento gamma e neutronico.

Agli elementi costituenti il r. propriamente detto si aggiungono il circuito del fluido vettore termico (circuito primario), un’efficiente schermatura per l’assorbimento delle radiazioni nucleari, atta a rendere accessibile al personale la maggior parte dei locali in cui sono installate le apparecchiature essenziali per l’esercizio dell’impianto, un sistema di contenimento per ridurre al minimo la fuoriuscita verso l’ambiente esterno di prodotti di fissione in caso di rottura del circuito primario.

Classificazione dei r. nucleari

In relazione allo scopo cui sono destinati, i r. possono essere suddivisi in r. per produzione di energia (o r. di potenza), r. sperimentali e r. di ricerca.

I parametri caratterizzanti i r. destinati principalmente a produrre neutroni e altre radiazioni per scopi generali di ricerca sono il flusso neutronico, espresso in neutroni/(cm2•s) e lo spettro energetico. È entrato nell’uso corrente chiamare r. per prove tecnologiche (engineering test reactors) i r. con flussi di neutroni veloci dell’ordine di 1015 neutroni/(cm2•s) o maggiori, r. per prova di materiali (material test reactors) quelli con flussi (veloci) dell’ordine di 1014 neutroni/(cm2•s), r. di ricerca propriamente detti quelli con flussi compresi tra 1013 e 1011 neutroni/(cm2•s), e r. per addestramento del personale (training reactors) quelli con flussi inferiori.

tab. 1

Altre classificazioni dei r. (tab. 1) possono basarsi su struttura di base del r., energia dei neutroni, carattere del ciclo di combustibile, combustibile (fissile e fertile), moderatore e fluido refrigerante. Riguardo all’energia dei neutroni utilizzati per la fissione, i r. possono essere veloci, quando la maggior parte delle fissioni sono prodotte da neutroni di energia superiore a circa 0,1 MeV, intermedi o epitermici, quando la fissione avviene principalmente per assorbimento dei neutroni nell’intervallo delle energie intermedie, termici, quando la fissione avviene principalmente per assorbimento di neutroni termici, cioè con energie inferiori a 1 eV.

R. di potenza per produzione di energia elettrica

Sono r. nucleari di grande potenza cui è associato un circuito primario per la generazione del vapore che aziona turbogeneratori a spese del calore prodotto nel nocciolo.

tab. 2

Distribuzione. R. nucleari di potenza sono installati nella maggior parte dei paesi industrializzati e in alcuni grandi paesi in via di sviluppo. Il primo r. fu connesso alla rete elettrica nel 1955. Il numero di r. e quello della potenza elettrica installata registrarono una rapida crescita fino al 1985, seguita da una stasi, a partire approssimativamente dal 1990, causata sia dalle ripercussioni dell’incidente al r. di Černobyl´ del 1986, sia dalla saturazione del mercato in alcuni paesi (Francia, Svizzera, Giappone), sia dall’allora basso costo di petrolio e gas naturale. Nel 2009 erano in esercizio 436 reattori, che hanno prodotto in quell’anno circa 2600 miliardi di kWh di energia elettrica, pari al 15,5% della produzione elettrica mondiale (tab. 2). Si prevede una nuova notevole crescita nei primi decenni del 21° sec., soprattutto nei paesi asiatici, per la necessità di incrementare la produzione di energia elettrica senza accrescere la produzione di gas serra, e senza ricorrere a petrolio e gas naturale i cui prezzi sono fortemente volatili e mediamente in crescita. Secondo le stime delle maggiori agenzie internazionali, fra il 2010 e il 2050 saranno realizzati fra 600 e 1600 nuovi reattori.

Nonostante l’Italia sia stata fra i primi paesi a installare impianti nucleari, nel territorio italiano non vi sono centrali funzionanti: nel 1987, a seguito di un referendum popolare, fu decretata una moratoria quinquennale all’impiego del;l’energia nucleare, che portò alla chiusura degli impianti in esercizio e alla cancellazione di quelli in costruzione. Nel 2008 è stato avviato un processo di revisione del;la normativa con l’intento di rendere possibile nuovamente la costruzione di r. nucleari in Italia.

Nei primi vent’anni di impiego dell’energia nucleare (1955-75) si è passati dalla potenza unitaria di alcuni MW (elettrici) dei primi prototipi e impianti dimostrativi, a potenze dell’ordine di 1000 MW. Questo rapido aumento è dovuto al fatto che per i generatori nucleari di vapore la diminuzione del costo specifico d’impianto all’aumentare della potenza è maggiore di quella che si verifica per le centrali termoelettriche tradizionali.

fig. 3

Generazioni di reattori. Si distinguono convenzionalmente tre generazioni di r. nucleari, cui se ne aggiunge una quarta relativa a r. attualmente in fase di studio e che potrebbero essere operativi su grande scala a partire, orientativamente, dal 2030. La prima generazione è costituita dai r. sperimentali o dimostrativi e dai primi prototipi realizzati fra l’immediato secondo dopoguerra e, approssimativamente, il 1965. La seconda generazione include i r. commerciali (prevalentemente r. refrigerati ad acqua), realizzati fra il 1965 e il 1990. Questi sono sostanzialmente versioni di maggior potenza e standardizzazione dei modelli di maggior successo della I generazione e costituiscono la quasi totalità dei r. operanti all’inizio del 21° secolo. I r. di terza (e terza+) generazione, progettati a partire dal 1985 durante la fase di stasi nella realizzazione di nuovi impianti (fig. 3), sono r. ad acqua le cui scelte progettuali garantiscono una migliore efficienza, sistemi di sicurezza passiva e maggiore standardizzazione (che, insieme alla riduzione dei costi di gestione, comporta un’accresciuta sicurezza). Sono progettati per una vita operativa di 60 anni; il primo di essi è entrato in funzione nel 1996.

Nel 2001 nove paesi (Argentina, Brasile, Canada, Corea del Sud, Francia, Giappone, Regno Unito, Repubblica Sudafricana, USA) avviarono un’iniziativa denominata Generation IV International Forum (GIF) per «sviluppare una nuova generazione di sistemi energetici che soddisfi i futuri bisogni di energia». All’iniziativa hanno successivamente aderito Svizzera, Euratom, Cina e Russia. Nel 2005 cinque nazioni (Canada, Francia, Giappone, Regno Unito e USA) hanno firmato un primo accordo per svolgere ricerca collaborativa sui r. di quarta generazione, caratterizzati non da tipologie e tecnologie, ma da requisiti. In particolare, i r. della IV generazione dovranno soddisfare requisiti di sostenibilità (impiegare il combustibile in modo efficiente e minimizzare la produzione di scorie), di economicità (producendo energia a costi inferiori rispetto alle altre fonti e con un livello di rischio finanziario paragonabile a quello degli altri progetti energetici), di sicurezza e affidabilità (in particolare eliminando la necessità di ogni azione di emergenza fuori dal sito) e di resistenza alla proliferazione nucleare. Il GIF ha selezionato sei modelli di r., di cui si intende approfondire lo studio e realizzare prototipi: un r. veloce raffreddato a elio (GFR, gas fast reactor), un r. termico moderato a grafite e raffreddato da elio ad altissima temperatura (VHTR, very-high-temperature reactor), un r. termico ad alta pressione ad acqua sopracritica (SCWR, super-critical water reactor), r. veloci con efficiente gestione degli attinidi e fertilizzazione dell’uranio raffreddati a sodio (SFR, sodium-cooled fast reactor) o a piombo o eutettico piombo-bismuto (LFR, lead-cooled fast reactor) e infine un r. a spettro epitermico raffreddato a sali fusi (MSR, molten salt reactor).

Sicurezza e ubicazione dei reattori. I criteri di progettazione dei r. nucleari, per quanto attiene alla sicurezza, sono ottenuti, in genere, da considerazioni probabilistiche e analisi statistiche dei rischi e considerazioni dettagliate sulle conseguenze degli incidenti ipotizzabili. Da questi deriva la definizione del parametro frequenza-danno che deve essere valutato quantitativamente. Infatti, partendo dal cattivo funzionamento di un componente dell’impianto, si devono ricercare tutte le possibili catene incidentali che da esso possono discendere, assegnando a ognuna di esse un valore di probabilità di evenienza; successivamente si deve valutare, per ognuna di tali catene, il danno relativo; la confidenza connessa con la valutazione delle probabilità relative ai meccanismi iniziatori dell’incidente, ai cattivi funzionamenti dei componenti e sistemi, e alle conseguenze incidentali, deve essere proporzionata alla gravità della catena incidentale medesima.

Le linee guida per il progetto di r. sono basate su una strategia generale contro il rilascio nell’ambiente dei nuclidi radioattivi strutturata su tre livelli. Il primo livello, di natura preventiva, è basato su un progetto e una costruzione eseguiti secondo i più restrittivi canoni della garanzia di qualità. Il secondo, di natura protettiva, prevede la presenza di sensori e macchine in grado di attivarsi in caso di anomalie e guasti per impedire il propagarsi di incidenti a catena. A tal fine si ricorre all’uso simultaneo di numerosi sistemi di sicurezza, che possono essere schematicamente distinti in sistemi attivi e passivi. I primi per funzionare hanno bisogno di sensori e di attuatori alimentati da energia elettrica. I secondi, invece, intervengono per leggi di natura, indipendentemente dall’alimentazione di energia. Il terzo livello, di natura mitigativa, prevede la realizzazione di strutture e dispositivi atti a frenare e contenere gli effetti dannosi degli incidenti che dovessero innescarsi nonostante i primi due livelli di difesa, impedendo il rilascio incontrollato del materiale radioattivo. Si ricorre a tal fine ad almeno tre barriere diverse, e cioè la guaina delle barre di combustibile, il circuito primario e il contenitore del reattore.

Le misure di sicurezza sono attuate con l’impiego di principi di progetto che possono rientrare, schematicamente, entro tre categorie: ridondanza, diversità, e separazione fisica. La ridondanza assicura la presenza di più componenti o sottosistemi di un sistema di sicurezza, così che la sicurezza non dipenda dal funzionamento di una singola unità. La diversità riguarda l’impiego di due o più sistemi di sicurezza, basati su principi fisici diversi, ma che garantiscano la stessa funzione (lo spegnimento di un r., per es., può essere contemporaneamente garantito per caduta delle barre di controllo e per iniezione di veleno liquido). La separazione fisica impone che componenti e sistemi preposti alla stessa funzione non siano esposti alla stessa causa comune di guasto (per es., incendio o allagamento), ma siano posti in ambienti separati da barriere fisiche adeguatamente resistenti.

Un impianto nucleare deve essere trattato come un impianto industriale contenente sostanze potenzialmente inquinanti e quindi, alla fine della sua vita utile, non può essere lasciato incustodito, ma richiede il mantenimento di una sorveglianza fino all’eliminazione del rischio residuo attraverso opportune operazioni che permettano di raggiungere una condizione priva di vincoli all’uso del sito, in particolare dal punto di vista della radioprotezione. Le attività di disattivazione dell’impianto (decommissioning) hanno origine al termine della sua vita produttiva e si considerano concluse solo con la liberazione del sito per nuovi usi. Devono essere effettuate nel rispetto della protezione sanitaria dei lavoratori addetti, per cui occorre un’accurata pianificazione che deve essere concepita fin dall’inizio della progettazione dei nuovi insediamenti, per evitare la costruzione di strutture che risultino poi impossibili da rimuovere. Di conseguenza, tra gli aspetti economici della produzione di energia elettrica da fonte nucleare, occorre evidentemente considerare, da un lato, il costo dello smantellamento, dall’altro, il costo della custodia e manutenzione.

L’ubicazione dei r. nucleari è un problema molto importante, anche per la riluttanza delle popolazioni ad accettare nel proprio sito una centrale nucleare. È necessario cercare di ridurre l’influenza che il r. ha sull’ambiente, in condizioni sia normali sia accidentali, di progettare l’impianto tenendo conto dell’impatto che il sito esercita per esso, di paragonare il livello di radioattività degli effluenti al livello naturale di radioattività presente nel sito in esame, di ipotizzare situazioni accidentali e di definire, infine, un accurato piano di emergenza per l’evacuazione rapida della popolazione in caso di incidenti. I r. di quarta generazione vengono progettati in modo che anche il peggior incidente ipotizzabile non richieda evacuazione della popolazione residente in prossimità del reattore. Un altro problema connesso con l’ubicazione di una centrale nucleare (come peraltro di una qualsiasi centrale termica) è lo smaltimento del calore che richiede ingenti quantitativi di acqua di raffreddamento (che verrà reimmessa nell’ambiente a temperatura superiore a quella a cui è stata prelevata)

Tipologie di reattori

I r. possono impiegare diversi combustibili, refrigeranti, moderatori, e diverso spettro neutronico. Per quanto riguarda il moderatore e il vettore termico, furono prese inizialmente in considerazione nei programmi dell’AEC (Atomic Energy Commission degli USA, poi denominata Nuclear Regulatory Commission, NRC) diversi elementi alternativi e in particolare la grafite e l’acqua naturale, l’acqua pesante e i liquidi organici, il sodio liquido. Apparve però chiaro fin dall’inizio che i r. moderati e raffreddati ad acqua naturale avrebbero permesso di ottenere risultati soddisfacenti a più breve scadenza per il minore sviluppo tecnologico richiesto. Mentre l’AEC orientava i suoi programmi soprattutto verso r. impieganti tecnologie più avanzate, che avrebbero potuto risultare convenienti in un futuro meno prossimo, alcune grandi industrie americane, in particolare la Westinghouse e la Gener;al Electric, indirizzarono i propri sforzi allo sviluppo dei r. ad acqua. La situazione negli altri paesi era diversa. L’orientamento assunto ha risentito dell’esigenza di sviluppare il proprio programma in maniera autonoma, senza incorrere in investimenti proibitivi e utilizzando quale combustibile l’uranio naturale, il cui uso limita però la scelta dei materiali da impiegare nella composizione del nocciolo. Tra i moderatori utilizzabili (e cioè acqua pesante e grafite), in Canada fu scelta l’acqua pesante, mentre nel Regno Unito e in Francia la preferenza fu data alla grafite. Il vettore termico prescelto nei r. inglesi e francesi fu l’anidride carbonica, che riuniva i vantaggi di un basso costo e di buone caratteristiche termiche. In seguito anche in Francia e nella maggior parte delle altre nazioni sono stati realizzati principalmente reattori ad acqua.

fig. 4
fig. 5

R. ad acqua in pressione. I risultati delle prime ricerche, svolte intorno al 1946, indussero l’AEC prima a varare un programma inteso a utilizzare il r. ad acqua in pressione (pressurized water reactor, PWR) per la propulsione di sottomarini, e poi, nel 1954, un impianto da 60 MW, quello di Shippingport, entrato in funzione nel 1957. Da questo prototipo di Shippingport traggono origine i primi impianti di grande potenza ad acqua in pressione, fra cui quello della Yankee (da 185 MW, entrato in funzione nel 1960) e quello italiano di Trino Vercellese (da 260 MW, avviato nel 1964). A essi sono seguiti reattori di maggiori dimensioni, con potenze attorno ai 1000 MW, operanti secondo schemi molto simili fra loro. L’acqua, a una pressione di 150-170 bar, superiore alla tensione di vapore alla temperatura di funzionamento, circola nel nocciolo e convoglia il calore al circuito secondario, che produce vapore per le turbine. Un pressurizzatore, collegato a uno dei rami del circuito primario (fig. 4), provvede al controllo della pressione. Il nocciolo (fig. 5) è costituito da elementi di combustibile, ognuno dei quali è formato da un certo numero di sottili tubi metallici (barrette), contenenti il materiale combustibile, costituito per lo più da pastiglie di ossido di uranio arricchito (circa al 3%). Tali barrette sono sistemate secondo un reticolo e mantenute nella giusta posizione mediante griglie distanziatrici a molla. In alcune posizioni del reticolo le barrette di combustibile sono sostituite da tubi di acciaio inossidabile, in cui sono libere di muoversi verticalmente altrettante barrette cilindriche contenenti elementi assorbitori di neutroni (lega Ag-In-Cd), unite alla sommità da una crociera a razze in modo da costituire una barra di controllo. Il recipiente a pressione è un cilindro d’acciaio avente la parte inferiore e il coperchio emisferici. La separazione assoluta tra fluido termico primario e fluido secondario rappresenta una delle principali caratteristiche del r. ad acqua in pressione. Tra i vantaggi è da ricordare l’assenza di ogni vincolo per la manutenzione della turbina e dei circuiti vapore-acqua a essa associati; tutto il circuito secondario è infatti esente da contaminazione radioattiva. Le caratteristiche del vapore prodotto assicurano un rendimento termico del 33-34%.

fig. 6
fig. 7

R. ad acqua bollente. Il piano quinquennale dell’AEC del 1954 prevedeva anche la costruzione di un prototipo ad acqua bollente, l’EBWR (experimental boil;ing water reactor) della potenza elettrica di 5 MW, che presentava caratteristiche interessanti, in particolare per l’eliminazione dei generatori di vapore. L’EBWR entrò in servizio alla fine del 1956 e da esso derivarono i primi impianti di grande potenza, fra cui quello italiano del Garigliano, da 160 MW. A essi sono seguiti, come nel caso dei PWR, r. di taglia maggiore. Tutti i r. ad acqua bollente (boiling water reactor, BWR) utilizzano uranio arricchito nella misura media del 2,5%. Nel nocciolo (fig. 6) ha luogo l’ebollizione parziale dell’acqua; il vapore saturo prodotto, dopo aver attraversato separatori di umidità ed essiccatori, installati all’interno del recipiente a pressione, è inviato direttamente alla turbina. Nei separatori il contenuto di umidità del vapore viene abbassato a meno del 5% e successivamente, attraverso gli essiccatori, ulteriormente ridotto a meno dello 0,1%. La circolazione dell’acqua è assicurata da pompe e da eiettori idraulici. Un carattere specifico del r. ad acqua bollente è la variazione automatica di potenza ottenuta utilizzando l’effetto dei vuoti causati dalla mescolanza del vapore con l’acqua. I primi r. ad acqua bollente erano equipaggiati con contenitori metallici in grado di resistere alla massima pressione conseguente a un’accidentale rottura del circuito primario. Successivamente è stato adottato invece il contenitore a soppressione di pressione che può essere realizzato in diversi modi. Un esempio di r. BWR della terza generazione è illustrato nella fig. 7. In tutti i r. ad acqua vi è la possibilità di produrre vapore surriscaldato anziché vapore saturo; il surriscaldamento del vapore migliora infatti il rendimento del ciclo termodinamico e consente l’adozione delle turbine di tipo convenzionale, ampiamente sperimentate, in sostituzione delle turbine a vapore saturo. R. moderati a grafite e raffreddati ad acqua vennero sviluppati nell’Unione Sovietica (filiera RBMK), e sono stati ampiamente utilizzati per produzione di energia. Di questo tipo erano i r. di Černobyl´ (➔), ove il 26 aprile 1986 avvenne il più grave incidente della storia dell’impiego dell’energia nucleare.

fig. 8

R. moderati e raffreddati ad acqua pesante. Il paese che si è rivolto per primo e con il mas;simo impegno allo sviluppo dei r. a uranio naturale e acqua pesante (heavy water reactor, HWR) e che ha conseguito le maggiori realizzazioni in questo campo è stato il Canada, che ha sviluppato la filiera detta CANDU (Canadian deuterium uranium), esportata in varie nazioni, fra cui l’India. Il primo r. sperimentale canadese di potenza, da 20 MW elettrici, denominato NPD (nuclear power demonstration), entrò in funzione nel 1962. L’impiego dell’acqua pesante come moderatore comporta, rispetto all’acqua naturale, il notevole vantaggio di un assorbimento neutronico di molto inferiore, il che consente di adoperare l’uranio naturale quale costituente essenziale del combustibile. L’acqua pesante impiegata come moderatore è contenuta in un recipiente attraversato in senso orizzontale da numerosi canali costituenti un reticolo abbastanza fitto (fig. 8); in essi sono contenuti tubi nei quali sono collocati gli elementi di combustibile. In questi tubi circola acqua pesante in pressione, che opera come vettore termico. Lo sviluppo della tecnologia dei recipienti a tubi in pressione ha fatto pensare all’opportunità di impiegare come veicolo termico un fluido meno costoso dell’acqua pesante. Gli stessi Canadesi costruirono (a partire dal 1965) un impianto prototipo da 250 MW, denominato CANDU-BLW (boiling light water). Su un concetto analogo si basava il CIRENE (CISE r. a nebbia), che l’italiano CISE (Centro Informazioni Studi Esperienze) iniziò a studiare nel 1958; prevedeva l’impiego come vettore termico di una miscela acqua-vapore in condizioni di cambiamento di fase. La costruzione del CIRENE venne tuttavia interrotta prima del suo completamento.

R. raffreddati a gas. Impianti raffreddati a gas (gas cooled reactor, GCR), a uranio naturale e moderati a grafite, furono costruiti a Windscale negli anni del primo dopoguerra per la produzione di plutonio, in base al programma nucleare militare della Gran Bretagna. In seguito furono costruite centrali (come quella di Calder Hall, operativa dal 1956 al 2003, con quattro r. e una potenza totale di 180 MW), sempre ottimizzate per la produzione di plutonio, e poi una serie di nove centrali di grande potenza, ciascuna dotata di due reattori. Alle centrali inglesi vanno aggiunte la centrale di Latina, da 160 MW, entrata in funzione nel 1963 e chiusa nel 1986, quella di Tokai Mura in Giappone, da 166 MW, divenuta critica nel 1965, e alcuni r. sviluppati in Francia. Nonostante i notevoli perfezionamenti, il r. a gas-grafite e uranio naturale presenta talune limitazioni intrinseche; è per questo che si sono sviluppati r. a gas di tipo più avanzato che producono calore a temperatura molto maggiore, al fine di consentire l’impiego di gruppi turbogeneratori del tipo di quelli usati nelle centrali termoelettriche tradizionali. Allo sviluppo dei r. a gas-grafite di tipo avanzato, in relazione a possibili aumenti delle prestazioni del combustibile, della densità di potenza e della temperatura del vettore termico, si sono dedicati da vari anni la Gran Bretagna e gli USA. In Inghilterra è stato realizzato, a Windscale, fin dal 1962 un r. prototipo, AGR (advanced gas reactor), della potenza elettrica di 33 MW. I risultati dell’esercizio di tale prototipo hanno condotto alla progettazione di centrali di grande potenza e di caratteristiche industriali. L’AGR, grazie all’impiego di uranio arricchito, permette di superare molte delle limitazioni del tipo Calder Hall, senza richiedere nello stesso tempo tecnologie troppo avanzate. Nell’AGR viene utilizzato per l’impianto di produzione vapore surriscaldato a condizioni molto spinte (circa 160 bar a 565 °C), corrispondenti a quelle delle centrali a combustibile fossile. Una seconda linea di sviluppo dei r. a gas-grafite ha portato alla realizzazione, in Gran Bretagna, di un reattore (denominato DRAGON) avente caratteristiche molto più spinte dell’AGR e basato su tecnologie più avanzate. Il combustibile di questo r. è composto da particelle di carburi di uranio fortemente arricchito e torio, rivestite con due strati di carbonio pirolitico e uno strato intermedio di carburo di silicio, e disperse in una matrice di grafite. Il vettore termico impiegato è elio in pressione, che consente di raggiungere temperature molto alte (all’uscita del r. la temperatura è di circa 760 °C), ed elevate densità di potenza.

fig. 9

R. veloci a uranio-plutonio raffreddati a metallo liquido. Un r. veloce è caratterizzato da una densità di potenza molto elevata nel nocciolo e quindi da esigenze di trasferimento del calore particolarmente severe. Di qui la scelta di metalli liquidi, il sodio in particolare, quale fluido vettore (liquid metal fast breeder reactor, LMFBR) a preferenza di altre soluzioni, una delle quali, che prevedeva l’impiego di vapore acqueo, è stata definitivamente abbandonata. Il calore generato dalla fissione, e asportato per mezzo di sodio liquido, viene fatto circolare con apposite pompe attraverso il r. e gli scambiatori di calore intermedi (la fig. 9 riporta lo schema di un r. LMFBR di IV generazione). Negli scambiatori di calore intermedi il sodio primario cede calore a un altro circuito attraversato da sodio secondario, che, per mezzo di apposite pompe, è fatto circolare nei generatori di vapore, dove cede calore al ciclo acqua-vapore. Gli scambiatori intermedi assicurano, anche in caso di rotture, che il sodio primario, attivato ed eventualmente contaminato nel passaggio attraverso il nocciolo, non entri in contatto con l’acqua provocando una violenta reazione chimica e un forte inquinamento radioattivo dell’ambiente. Il nocciolo del r. è costituito da elementi di combustibile a sezione quadrata o esagonale, formati a loro volta da barrette contenenti leghe metalliche di uranio o ossido di uranio o ossidi misti di uranio e plutonio, con arricchimenti elevati (20%-60%). Il nocciolo è generalmente suddiviso in più parti; in una zona centrale è disposto il combustibile arricchito, e si produce la maggior parte della potenza sviluppata, mentre nelle zone esterne è disposto l’uranio naturale o anche impoverito e si ha essenzialmente la trasformazione del materiale fertile in fissile per opera dei neutroni che sfuggono dalla zona centrale. Dato che il sodio opera a pressione atmosferica, il recipiente a pressione del r. non comporta particolari esigenze di resistenza a pressione.

La possibilità pratica di realizzare un r. autofertilizzante fu dimostrata negli USA fin dal 1953 con il r. veloce EBR-1 (experimental breeder reactor), che già nel 1951, per la prima volta nel mondo, aveva prodotto energia elettrica. Nel 1956 il gruppo americano Power Reactor Development Co. iniziò la costruzione di un r. veloce denominato Enrico Fermi (a ricordo del fatto che il grande fisico italiano aveva già previsto e sottolineato il ruolo fondamentale riservato in futuro ai r. veloci) per una potenza elettrica inizialmente prevista di 100 MW; pur con notevole ritardo rispetto ai programmi, il r. divenne critico nell’agosto del 1963 e nell’estate del 1966 produceva energia elettrica. Anche in altri paesi i r. veloci sono stati oggetto di programmi di sperimentazione: tra i maggiori si ricordano quello francese, che ha portato in particolare alla costruzione di un r. a sodio, sperimentale, da 20 MW termici, il Rapsodie (divenuto critico nel marzo 1967), di un prototipo di grande potenza, il Phenix, da 250 MW elettrici (divenuto critico a fine agosto 1973), e infine del Superphenix da 1500 MW elettrici, costruito a Creys Melville sul fiume Rodano, in funzione dal 1986 al 1996. La chiusura anticipata fu determinata soprattutto da una serie di guasti legati alla corrosione causata dal sodio.

Oltre al sodio, anche il piombo o eutettici piombo-bismuto possono essere usati come refrigeranti di r. veloci. R. refrigerati a piombo sono stati sviluppati nell’Unione Sovietica; 7 sottomarini della classe Alpha sono equipaggiati con r. di questo tipo da 60 MWt.

R. termici autofertilizzanti a uranio-torio. Il ciclo uranio-torio consente di realizzare il processo di autofertilizzazione in r. termici. In linea di principio esso ha notevole interesse in quanto: permetterebbe di utilizzare le notevoli risorse di torio quale elemento fertile, la tecnologia dei r. termici è meglio conosciuta di quella dei r. veloci e nei r. termici non occorre raggiungere le elevatissime densità di potenza necessarie per i r. veloci; infine, lo sviluppo di combustibili di lunga durata comporta problemi meno gravi e complessi che nel caso dei r. veloci. Di fronte a questi vantaggi potenziali, lo sviluppo dei r. autofertilizzanti a torio è tuttavia molto arretrato rispetto a quello dei r. autofertilizzanti veloci poiché l’avvelenamento causato dall’accumulo dei prodotti di fissione è molto maggiore nei r. termici che in quelli veloci, con la conseguenza di un sensibile abbassamento del fattore di conversione all’aumentare dell’avvelenamento. Altre complicazioni derivano poi dall’alta radioattività dell’uranio prodotto nel ciclo uranio-torio, dovuta in particolare alla presenza dell’isotopo 232 dell’uranio, che rende necessaria un’adeguata schermatura nelle operazioni di rifabbricazione degli elementi di combustibile, con l’impiego di tecniche non ancora completamente sviluppate.

La soluzione più promettente di questi problemi dovrebbe essere rappresentata dall’impiego del combustibile nucleare sotto forma fluida. Un prototipo di tale r. (il molten salt reactor experiment, da 10 MWt) fu realizzato negli USA attorno al 1965. Si tratta di un r. moderato a grafite nel quale il combustibile, sotto forma di fluoruro di uranio e torio, è mescolato con una miscela liquida di fluoruri di litio e berillio. La miscela, ad alta temperatura, viene fatta circolare all’esterno del r. e può essere utilizzata per produrre vapore in appositi scambiatori di calore.

R. sottocritici sostenuti da acceleratori. I r. sin qui descritti e tutti gli attuali r. per produzione di energia sono r. a fissione critici. Vengono però studiati anche r. sottocritici, in cui il mantenimento della reazione è assicurato da neutroni non generati da fissioni interne al r., ma da altre fonti. Si possono, per esempio utilizzare neutroni generati da reazioni di spallazione, causate da protoni con energia di alcune decine di MeV prodotti da una macchina acceleratrice (accelerator driven systems, ADS). Viene anche studiato l’impiego di neutroni rilasciati da reazioni di fusione nucleare (per realizzare quindi un r. ibrido a fissione-fusione). I r. sottocritici hanno l’ovvio svantaggio di richiedere una sorgente esterna di neutroni; d’altra parte sarebbero intrinsecamente sicuri, comportandosi in un certo senso come amplificatori di energia (termine introdotto da C. Rubbia nel 1993). Sarebbero inoltre particolarmente adatti all’impiego del torio. R. sottocritici veloci sostenuti da acceleratori e raffreddati a piombo si presterebbero inoltre alla trasmutazione di scorie nucleari ad alta attività (sia elementi fissili transuranici, sia prodotti di fissione).

R. nucleari a fusione

Generalità. La fusione (➔) di nuclei di elementi a basso numero atomico è, anch’essa, accompagnata da perdita di massa e dalla conseguente liberazione di un’ingente quantità di energia. Dall’immediato secondo dopoguerra (fino al 1957 in regime di segretezza e poi senza più vincoli, anzi spesso in collaborazione internazionale) i maggiori paesi industrializzati, cui si sono aggiunte più recentemente alcune potenze emergenti (Cina, India, Corea del Sud), impegnano notevoli risorse umane e finanziarie in ricerche volte alla realizzazione di r. a fusione nucleare. Lo scopo è rendere disponibile una fonte energetica caratterizzata da risorse quasi illimitate, sicurezza intrinseca, modesto impatto ambientale, assenza di emissioni di gas serra, e costi competitivi.

I r. a fusione in fase di studio sfrutteranno la reazione fra deuterio e trizio,

formula

che si fondono in un nucleo di elio (particella alfa) e liberano un neutrone ed energia, con resa energetica elevatissima. Un grammo di miscela deuterio-trizio può produrre 341 GJ, la stessa quantità di energia della combustione di 8 t di petrolio. Il deuterio si estrae dall’acqua di mare, in cui è presente nella misura di 30 grammi per metro cubo, mentre il trizio, che non esiste in natura, si può produrre efficientemente irraggiando con neutroni il litio. A tale scopo, attorno al cuore del r. a fusione si disporrà un mantello contenente litio; i neutroni prodotti dalle reazioni di fusione trasformeranno il litio in trizio, producendo, a regime, il trizio necessario per l’alimentazione del reattore. Solo per l’avvio del r. sarà necessario un piccolo quantitativo di trizio prodotto con altre tecniche. Poiché il litio è presente in notevoli quantità nella crosta terrestre e, soprattutto, nell’acqua di mare, e considerando che un r. da 1000 megawatt elettrici richiederà solo 100 kg di deuterio e da 300 a 600 kg di litio ogni anno, non vi saranno né limiti alla disponibilità delle risorse, né problemi legati alla loro distribuzione geografica. Il r. a fusione non rilascerà gas serra. L’impatto ambientale del ciclo del combustibile sarà minimo, per le modestissime quantità coinvolte e il loro semplice trattamento. Riguardo alla sicurezza, poiché in ogni istante il r. conterrà solo piccole quantità di combustibile, non saranno possibili escursioni incontrollate di potenza: in caso di perdita di controllo, la reazione si interromperà per assenza di combustibile. Anche nel caso del più grave incidente ipotizzabile, sistemi multipli di contenimento impediranno che la fuoriuscita del trizio (radioattivo con vita media di 12 anni) e dei materiali del r. attivati possa richiedere evacuazione della popolazione. Infine, la radioattività delle scorie, costituite dai soli materiali attivati, dopo 100 anni dallo spegnimento del r. sarà 100.000 volte inferiore a quella delle scorie di un r. a fissione della seconda o terza generazione.

D’altra parte la realizzazione di un r. a fusione richiede il conseguimento di condizioni estreme, in quanto la sezione d’urto di fusione diviene apprezzabile solo quando l’energia dei nuclei reagenti supera le decine di keV. Si dimostra facilmente che per ottenere un rilascio netto di energia da parte di reazioni di fusione non è possibile utilizzare collisioni tra nuclei accelerati e un bersaglio o tra fasci accelerati in un collisionatore. Si deve invece ricorrere a reazioni (perciò dette termonucleari) in un mezzo a temperatura elevatissima, dell’ordine di 108 K (o, misurando le temperature in unità di energia, come usuale in fisica dei plasmi, 10 keV). Tale materia, allo stato di plasma, deve essere confinata (cioè mantenuta a densità sufficiente in uno spazio limitato) e le sue perdite di energia debbono essere ridotte affinché l’energia prodotta ecceda quella spesa per riscaldarla. Una stima dei parametri di plasma necessari per realizzare produzione netta di energia è fornita da una condizione dovuta al fisico britannico J.D. Lawson (1957). A rigore, il criterio si applica a plasmi in condizione stazionaria (come si cerca di realizzare nel confinamento magnetico), ma esso fornisce una ragionevole stima anche nel caso di altre forme di confinamento.

Una versione leggermente modificata rispetto alla trattazione originale è la seguente. Si considera un plasma di deuterio e trizio, in condizioni stazionarie, con densità (di elettroni e nuclei) n e temperatura T. Un volume unitario di plasma rilascia potenza, tramite la reazione deuterio-trizio, in misura proporzionale al quadrato della densità e alla reattività <σv>, funzione della sola temperatura (qui σ è la sezione d’urto di fusione e v è la velocità relativa dei nuclei che reagiscono e le parentesi uncinate indicano una media sulle funzioni di distribuzione). Si assume che 1/5 di questa potenza, associata alle particelle alfa, venga depositata nel plasma stesso, mentre i rimanenti 4/5, associati ai neutroni vengono rilasciati come potenza termica al vettore termico del reattore. Il plasma, a causa dell’elevata temperatura, perde potenza sotto forma di radiazione di bremsstrahlung, o di frenamento (➔ plasma), in misura proporzionale (sempre per unità di volume) a n2T1/2 e per conduzione (e/o convezione) termica. Questa ulteriore perdita di potenza può essere scritta come rapporto fra il contenuto energetico del plasma stesso, 3nkT (con k costante di Boltzmann) e un tempo caratteristico τE, detto tempo di confinamento dell’energia. Si ipotizza infine che per mantenere il plasma in condizioni stazionarie si utilizzi una sorgente (detta ausiliaria) di potenza che immette nel plasma una frazione 1/Q della potenza di fusione prodotta. Nel caso in cui 1/Q=0 il plasma si autosostiene, cioè la potenza delle particelle alfa di fusione consente di mantenere il plasma in condizioni stazionarie, senza dover ricorrere ad alcun riscaldamento ausiliario: si parla in questo caso di regime di ignizione termonucleare. Con semplici calcoli si giunge alla relazione (criterio di Lawson)

formula
fig. 10

dove QDT=17,6 MeV per reazione e CB è un’appropriata costante. Curve della condizione di Lawson per Q=5 e per funzionamento autostenuto sono mostrate nella fig. 10. Si vede che è necessario raggiungere temperature di 10-20 keV e valori del cosiddetto parametro di confinamento E dell’ordine di 1014 cm−3s. Il prodottoΕΤ fra temperatura e parametro di confinamento deve superare il valore 1015 cm−3s keV per ottenere Q=5, e 3∙1015 cm−3s keV per l’autostentamento. Per confinare un plasma termonucleare si seguono due approcci principali, detti, rispettivamente, magnetico e inerziale.

fig. 11

R. a confinamento magnetico. Le configurazioni magnetiche più promettenti (e con le quali sono stati ottenuti valori record di temperatura e confinamento) sono quelle tokamak (➔). La camera della macchina a plasma che contiene inizialmente la miscela gassosa combustibile è sagomata a forma di toro (fig. 11), ovverosia di ciambella; le linee del campo magnetico nella camera sono chiuse su se stesse, di modo che vengono evitate le perdite di particelle lungo le linee magnetiche presenti nelle strutture aperte. All’intenso campo magnetico toroidale viene sovrapposto quello poloidale (meno intenso) prodotto da una corrente toroidale indotta dall’esterno nel plasma. Il principio di funzionamento del tokamak è piuttosto semplice: la configurazione toroidale del campo magnetico costante e molto intenso (~10T) determina le condizioni per il confinamento; un campo magnetico poloidale variabile nel tempo, le cui linee sono concatenate alla ciambella, produce nel plasma una corrente molto intensa (dell’ordine della decina di MA), la quale a sua volta genera il campo poloidale necessario per la stabilità del plasma. Il tokamak più grande al mondo è il JET (➔), in funzionamento dal 1985.

fig. 12

La corrente nel plasma è un elemento cruciale per la topologia magnetica, che determina il confinamento e inoltre riscalda il plasma fino a una temperatura di qualche keV (sopra questa temperatura la resistività del plasma, che varia come T−3/2, diviene troppo bassa per provocare un significativo ulteriore riscaldamento ohmico); temperature superiori vengono raggiunte con l’immissione di energia nel plasma mediante l’iniezione di onde elettromagnetiche a radiofrequenza o di atomi neutri (con energie dell’ordine delle centinaia di keV). Il progresso nelle prestazioni dei tokamak (risultato di ricerche condotte con decine di macchine diverse) è illustrato nella fig. 12. Si osserva che in circa trent’anni il parametro ET è cresciuto di un fattore 10.000. In un esperimento su JET è stata ottenuta una potenza di fusione di 16 MW per circa un secondo.

fig. 13

Altre macchine, impieganti magneti superconduttori, sono in grado di mantenere il plasma in equilibrio per diversi minuti. Il comportamento macroscopico del plasma, l’interazione con i sistemi di riscaldamento e con le pareti, i processi di irraggiamento sono ben compresi e prevedibili. Non altrettanto può invece dirsi riguardo alle perdite di energia per conduzione termica, per le quali sono però state ottenute leggi empiriche che consentono di dimensionare con una certa affidabilità una macchina che finalmente dimostri la possibilità di realizzare una produzione netta di energia. In estrema sintesi, questa macchina dovrà avere caratteristiche simili, ma dimensioni e campo magnetico abbastanza maggiori di quelle del JET, oppure dimensioni anche inferiori, ma campo magnetico nettamente più intenso. La maggioranza della comunità internazionale ha ritenuto preferibile seguire la prima strada, procendendo al progetto della macchina ITER (international tokamak experimental reactor), un tokamak che dovrà sia dimostrare la fattibilità scientifica della produzione energetica sia verificare e sperimentare soluzioni tecnologiche innovative (fig. 13). La ciambella di plasma, con un volume di circa 850 m3, avrà raggio esterno di 6 m, sarà circondata da grandi magneti superconduttori che genereranno un campo magnetico di circa 5 tesla (100.000 volte più intenso del campo magnetico terrestre) e vi circolerà una corrente di 15 MA. Fasci di particelle e microonde inietteranno nel plasma una potenza di 50 MW, mentre le reazioni di fusione dovrebbero rilasciare 500 megawatt. ITER sarà costruito in Francia da un’impresa mondiale che unisce, con sette partner (UE, Russia, Cina, Giappone, India, Corea del Sud e USA), tutti i maggiori paesi del mondo. Oltre alla costruzione di ITER, gli accordi internazionali prevedono la realizzazione di macchine per studi su alcuni specifici problemi fisici e un vasto programma per lo sviluppo delle tecnologie dei materiali necessari per un r. affidabile ed economico. L’Italia partecipa tramite l’associazione con l’Euratom, che ha per capofila l’ENEA e che include CNR e gruppi universitari. Si prevede che la costruzione di ITER terminerà verso il 2018 e che i primi esperimenti con plasma di deuterio trizio verranno eseguiti dopo altri tre anni. Se le previsioni saranno rispettate, ITER produrrà, in ogni impulso, una potenza di 500 MW termici. Per passare da ITER al r. si dovrà aumentarne la potenza e la disponibilità (ovvero realizzare impulsi di maggiore durata e più frequenti), realizzare in piena scala sistemi per la fertilizzazione del trizio dal litio (ITER non prevede che un piccolo ‘campione’ di mantello triziogeno) e, soprattutto, dimostrarne affidabilità ed economicità. La successiva strada verso la realizzazione di un impianto commerciale prevede la realizzazione di un prototipo dimostrativo (detto demo), che potrebbe entrare in funzione attorno al 2030 e quindi, in caso di esito positivo, l’entrata in esercizio di un primo r. commerciale fra il 2040 e il 2050.

I principali componenti di un futuro r. che impieghi una miscela deuterio-trizio sono: la prima parete della ciambella, il mantello, il magnete superconduttore e inoltre le bobine per il campo magnetico, gli iniettori di potenza, gli iniettori di combustibile (tipici del tokamak, connessi con l’avvio della macchina). La prima parete, cioè la parete della camera toroidale affacciata sul plasma, è soggetta a un intensissimo flusso di neutroni e a un carico termico notevole; si pone il problema di realizzare la parete con materiali che subiscano nella minor misura possibile il danneggiamento dovuto al flusso dei neutroni veloci: nelle attuali macchine a plasma sono utilizzati acciai austenitici e ferritici, che non potranno sicuramente essere impiegati nei futuri r. commerciali per i quali andranno trovate altre soluzioni. Il mantello, situato dietro la prima parete e costituito da elio a pressione, che arresta i neutroni da 14 MeV emessi nelle reazioni di fusione e quindi assorbe l’80% dell’energia prodotta, svolge le mansioni di fluido refrigerante; in esso viene posto del litio per produrre, secondo le reazioni

formula

il trizio richiesto per alimentare a regime la macchina. I magneti superconduttori producono il campo magnetico toroidale costante di confinamento e il campo magnetico poloidale variabile che produce la corrente nel plasma e ne controlla la forma e la posizione: l’uso di bobine superconduttrici è indispensabile per ottenere campi sufficientemente intensi, evitando inaccettabili dissipazioni ohmiche di potenza.

R. a confinamento inerziale. Un secondo tipo di r. a fusione, del quale sono allo studio le potenzialità e l’attuabilità, è basato sul confinamento inerziale. Il principio base è la compressione di piccole sfere, contenenti all’interno una miscela deuterio-trizio, mediante intensissimi fasci laser o di ioni veloci per raggiungere le condizioni di ignizione. Ogni sferetta è generalmente costituita da uno strato di deuterio e trizio in fase condensata, depositato sulla superficie interna di un guscio sferico solido (che può essere di vetro, di speciale materiale plastico ecc.), le cui dimensioni variano dal millimetro al centimetro. La sfera viene posta al centro di un contenitore metallico (camera di reazione) e irradiata con fasci laser (o, in un’alternativa finora meno studiata, fasci di ioni pesanti). Ripetendo il processo si può ottenere una produzione praticamente continua di energia, analogamente a quanto accade in un motore a combustione interna. Per conseguire l’ignizione è necessario comprimere il combustibile a densità superiori ai 200 g/cm3 e produrre una zona calda centrale in cui il prodotto tra densità e raggio sia superiore a 0,2 g/cm2 e la temperatura sia superiore a 5-7 keV. È essenziale che i fasci siano in numero sufficiente affinché le forze di reazione sulla superficie della microsfera siano uniformemente distribuite e non provochino alterazioni della forma durante la compressione. È stato anche sviluppato un metodo indiretto per irradiare la microsfera, consistente nell’utilizzare un solo driver e nel circondare la microsfera con una camera, realizzata con materiale ad alto numero atomico, che funziona da diffusore e assorbitore per la radiazione che viene convertita in un campo di raggi X molli.

I principali esperimenti sulla fusione inerziale sono stati eseguiti negli USA (ma notevoli sono anche i risultati conseguiti in Francia e Giappone), presso il laboratorio nazionale Lawrence di Livermore con il laser NOVA, che emetteva impulsi di energia di circa 20 kJ e della durata di 1ns), e presso l’università di Rochester con il laser Omega (con impulsi di luce ultravioletta di circa 60 kJ in 1-3 ns, distribuiti su 60 fasci). In questi esperimenti sono state ottenute densità prossime a quelle richieste, è stato dimostrato che la luce laser può essere assorbita in modo efficiente e uniforme e che le instabilità di varia natura possono essere controllate. I risultati degli esperimenti sono predetti da sofisticati programmi di simulazione numerica, che possono quindi essere usati per progettare in modo accurato nuovi esperimenti. Sono confermate le previsioni della fine degli anni 1970, in base alle quali per ottenere l’ignizione termonucleare e una significativa moltiplicazione energetica (rapporto fra energia di fusione ed energia dell’impulso) sono necessari impulsi di luce laser ultravioletta di circa 1 megajoule in alcuni nanosecondi (e con potenze di picco di 400-500 TW), distribuiti su un centinaio di fasci. Un laser con tali prestazioni, la national ignition facility (NIF), presso il laboratorio Lawrence già citato, è operativo dal febbraio 2009. Un altro grande laser (laser megajoule) è in costruzione a Bordeaux. Entrambi questi laser sono realizzati nell’ambito di attività nazionali, finanziate in prevalenza da programmi militari, che hanno lo scopo principale di mantenere e sviluppare competenze su aspetti critici per il mantenimento degli armamenti e la controproliferazione nucleare. La situazione è però in evoluzione: vincoli di segretezza esistenti in passato sono stati quasi completamente rimossi; anche in Europa, dove l’Euratom a suo tempo decise di perseguire quasi esclusivamente la linea magnetica, è in corso di sviluppo un progetto per una grande facility internazionale, denominata HIPER (high power laser energy research facility), con significativa partecipazione scientifica italiana. Obiettivo della NIF è la dimostrazione, entro il 2013, che una microesplosione indotta da laser possa rilasciare almeno una ventina di megajoule (a fronte del megajoule dell’impulso laser impiegato per indurla). La realizzazione di un r. a fusione inerziale richiederà successivi ed estremamente impegnativi sviluppi tecnologici, per i quali saranno necessari alcuni decenni: si dovrà accrescere la resa energetica del singolo bersaglio, incrementare di un fattore 10 l’efficienza del laser (o sostituirlo con un altro ‘driver’) e sarà necessario aumentare di 100.000 volte la frequenza delle microesplosioni: da una ogni ora, come previsto per NIF, a una o più al secondo. Vigorosi programmi per lo sviluppo delle tecnologie laser sono comunque già in corso. Da notare, infine, che nuovi sviluppi della tecnologia laser, che consente di realizzare impulsi di potenza anche superiore al PW, hanno fatto sorgere linee alternative di ricerca (sulla cosiddetta ignizione veloce), che potrebbero portare alla realizzazione di r. più efficienti di quelli sinora ipotizzati.

Fusione catalizzata da muoni. Una possibilità alternativa di avvicinare in maniera efficace i nuclei degli isotopi dell’idrogeno, al fine di ottenere la loro fusione, è costituita dalla preparazione di ioni molecolari, nei quali il legame tra i due nuclei di tali isotopi sia realizzato, invece che da elettroni, dai muoni μ, particelle aventi stessa carica dell’elettrone ma una massa circa 200 volte maggiore (➔particelle elementari). Il μ può sostituirsi all’elettrone in qualsiasi isotopo dell’idrogeno dando vita a un atomo muonico (μp, μd, μt, dove p, d, t indicano rispettivamente un protone, un deutone, un tritone) le cui dimensioni lineari sono circa 200 volte minori del corrispondente atomo elettronico (il raggio di Bohr è pari a 0,26•10−12 m per un atomo muonico e 0,53•10−10 m per un ordinario atomo elettronico). Gli atomi di idrogeno muonico, data la loro neutralità e le loro dimensioni ridotte, si possono muovere facilmente all’interno della miscela di isotopi di idrogeno in cui sono stati preparati mediante esposizione a un fascio di muoni di bassa energia, dando luogo alla formazione di ioni molecolari muonici, per esempio, mediante le reazioni

formula

In questi ioni molecolari i nuclei distano l’uno dall’altro circa 200 volte meno che negli ioni molecolari ordinari, e diventa così significativa la probabilità che i due nuclei fondano spontaneamente. Questa fusione può quindi dirsi catalizzata dal muone, in quanto quest’ultimo non partecipa al processo di fusione, ma lo facilita. Il muone è però instabile, anche se la sua vita media (2,2•10−6 s) è sufficientemente lunga perché esso possa svolgere le mansioni di ‘catalizzatore’ delle reazioni nucleari di fusione. È stato sperimentalmente verificato che un muone può dar luogo a quasi 200 fusioni, con rilascio di energia di circa 3 GeV. Peraltro produrre un muone (dal decadimento di un pione) richiede circa 5 GeV, e considerazioni tecniche ed economiche indicano che per la realizzazione di un r. è necessario che un muone catalizzi 3000 reazioni. Raggiungere questo valore non appare, allo stato delle conoscenze, possibile, non tanto per la breve vita del muone, quanto per la possibilità che questo venga catturato (processo di sticking) dal nucleo di elio prodotto nella reazione.

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