Regione e aree protette

L'Italia e le sue Regioni (2015)

Regione e aree protette

Luigi Piccioni

Regioni e aree protette: problemi di metodo e prime linee di ricostruzione

Le politiche italiane per le aree protette hanno conosciuto una storia altamente e costantemente drammatica, con un’alternanza di fasi di slancio, di stasi, ma anche di decisa regressione. Nonostante ciò, gli esiti di questa storia non sono, almeno sulla carta, dei peggiori. Tra i Paesi dell’Europa allargata, dall’Atlantico agli Urali, l’Italia è infatti stata tra i primi a istituire grandi riserve naturali. La creazione dei parchi nazionali del Gran Paradiso e dell’Abruzzo, nelle settimane a cavallo tra il 1922 e il 1923, avvenne con un ritardo di tredici anni rispetto alla pionieristica Svezia, ma nel frattempo solo Svizzera e Spagna si erano dotate di questi strumenti di tutela, per cui l’Italia ha occupato il quarto posto in ordine di tempo, laddove gli altri grandi Paesi industriali hanno dovuto attendere ancora diversi decenni, come nel caso della Gran Bretagna (1949), della Francia (1963) o della Germania (1970). Il risultato finale di questo lungo processo, inoltre, è notevole anche dal punto di vista quantitativo. La superficie terrestre nazionale tutelata mediante parchi e riserve naturali si aggira ufficialmente attorno al 10,5% e – ciò che più conta – tale percentuale è composta per il 90% da parchi nazionali e regionali, cioè da aree protette dotate di un profilo organizzativo alto e di un regime di protezione forte.

A questo risultato le regioni hanno contribuito in modo determinante, istituendo dalla metà degli anni Settanta a oggi, quindi in 45 anni circa, oltre 150 parchi regionali e 400 riserve naturali, la cui superficie terrestre assomma alla metà di quella di tutte le aree protette italiane e al 7% di quella dell’intero Paese. Alcune regioni hanno inoltre contribuito in modo determinante ad accelerare il processo di formazione di una rete nazionale di parchi e riserve naturali capace di rompere il quadro cristallizzatosi alla metà degli anni Trenta e hanno avviato una serie di sperimentazioni che si sono positivamente riflesse sulla più generale politica nazionale delle aree protette. La legge quadro che regola questa politica, la l. 6 dic. 1991 nr. 394, porta in più punti il segno dell’operato di queste regioni.

La storia delle aree protette nel mondo e in Italia

Nell’accezione moderna, le aree protette nascono con l’istituzione, nel 1872, del primo parco nazionale statunitense nella remota area di Yellowstone, esteso su un’area di ben 500.000, ettari destinati con il tempo a divenire quasi 900.000, una superficie paragonabile a quella delle Marche. A partire dai primi casi americani, esse si contraddistinguono per tre caratteristiche principali: sono territori set apart, vale a dire collocati in una sfera amministrativa e giuridica distinta da quella degli altri territori, servono a tutelare specificità naturali e sono creati per il godimento pubblico. Un altro elemento di grande importanza e interesse è dato dal fatto che la prima grande area protetta moderna, ancor oggi la più famosa, cioè Yellowstone, viene istituita in forma di parco nazionale. L’idea è infatti quella di realizzare un’istituzione classicamente patrimoniale, che appartenga cioè alla comunità nazionale, contribuisca alla crescita culturale e civile di tale comunità, accresca il prestigio della nazione e le fornisca elementi di identificazione. Se oggi questa può sembrare una scelta tra le tante possibili, bisogna ricordare che nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento, età d’oro del nation building, essa appariva invece la più ovvia, tanto più in un Paese come gli Stati Uniti che, in mancanza di un patrimonio storico-monumentale paragonabile a quello degli Stati europei, sentiva fortemente la necessità di inventare dei punti di riferimento simbolici cui ancorare la propria identità nazionale.

È per questo che le prime aree protette europee sono invariabilmente dei parchi nazionali, di competenza ministeriale, istituiti con provvedimenti di legge emanati dai parlamenti nazionali, anche in casi come quello svizzero, in cui tale opzione non sarebbe di per sé affatto scontata.

L’Italia, come si è accennato in apertura, si inserisce molto precocemente nel dibattito e nelle iniziative europee per la costituzione delle aree protette. Se negli anni Settanta dell’Ottocento passa inosservata la traduzione della relazione di viaggio dei promotori della tutela di Yellowstone, diversamente vanno le cose nel 1907 quando il deputato Giambattista Miliani (1856-1937) pubblica sulla «Nuova antologia» il resoconto del suo viaggio del 1904 attraverso il parco americano. Negli anni immediatamente precedenti si è formato infatti in Italia, anche grazie all’iniziativa dello stesso Miliani, un importante embrione di movimento protezionista, ben collegato con gli ambienti scientifici, con gli uffici ministeriali e con le corrispondenti iniziative di altri Paesi europei, e l’articolo del politico marchigiano costituisce un vigoroso stimolo per inserire la questione dei parchi nazionali tra gli obiettivi principali del movimento medesimo.

A partire dal biennio 1909-10 si apre così un ampio dibattito sui parchi nazionali ‒ sulla necessità e sulla possibilità di istituirli anche in Italia ‒ al quale danno un contributo decisivo soprattutto botanici e zoologi, ma che presto verrà egemonizzato da grandi associazioni nazionali, come la Pro montibus et silvis, il Club alpino italiano (CAI) e il Touring club italiano (TCI). Le numerose proposte avanzate nel corso degli anni Dieci fanno tutte invariabilmente riferimento al modello del parco nazionale, nonostante qualche diatriba, anche accesa, sul modo di intendere le finalità e il modo di gestione di tale tipo di riserva.

La congiunzione tra questa notevole ricchezza di iniziative pubbliche e la disponibilità di due ex riserve reali di caccia, caratterizzate dalla presenza di due grandi mammiferi estremamente rari come l’orso e lo stambecco, fa in modo che, all’inizio degli anni Venti, l’Italia sia il quarto Paese europeo, dopo Svezia, Svizzera e Spagna, a dotarsi di parchi nazionali e a farlo in modo piuttosto generoso, tenuto conto del territorio largamente antropizzato. Istituiti nelle settimane a cavallo tra il 1922 e il 1923, il Parco nazionale Gran Paradiso e il Parco nazionale d’Abruzzo occupano infatti, rispettivamente, 65.000 e 30.000 ettari di superficie, risultando secondi solo ai due colossali parchi svedesi di Sarek e Stora Sjöfallet, che sono quasi del tutto spopolati e addossati al Circolo polare artico, ma decisamente maggiori del parco svizzero dell’Engadina e di quello spagnolo di Ordesa e Monte Perdido, che si aggirano entrambi intorno ai 15.000 ettari. La fase eroica e pionieristica dei parchi nazionali italiani si chiude presto, nel 1933, quando il modello dell’autonomia amministrativa dei due parchi nazionali, democratico e di notevole efficienza, viene eliminato e sostituito da un controllo ministeriale, burocratico e inefficiente, esercitato dalla Milizia nazionale forestale, che provvede comunque a istituire due nuovi parchi nazionali, nel 1934 nell’area costiera del Monte Circeo e nel 1935 nel massiccio dello Stelvio, quest’ultimo per finalità eminentemente politiche (italianizzazione dell’area) e imprenditoriali (sviluppo del turismo). A partire dal 1935 le aree protette italiane entrano in una lunga, quarantennale fase che si può ben definire di ‘glaciazione istituzionale’, nella quale il Paese perde il suo carattere di apripista europeo e scivola inesorabilmente tra quelli ritardatari, situazione in cui resta fino alla prima metà degli anni Settanta. Questa lunghissima stasi si manifesta principalmente nella mancata istituzione di nuovi parchi nazionali e, da un certo momento in poi, anche nell’incapacità di dotarsi di una legge che regoli complessivamente la materia, così come invece hanno fatto nel frattempo prima la Gran Bretagna (1949) e poi la Francia (1960). Da altri punti di vista, tuttavia, non si tratta di una fase del tutto sterile: sotto la coltre del gelo la vita ferve e prepara nuove fioriture.

Tra i segni di vita, per quanto marginali e stentati, che si manifestano dopo la caduta del fascismo, si possono elencare la rinascita a partire dal 1944 del Parco nazionale Gran Paradiso sotto la guida dinamica e visionaria di Renzo Videsott (1904-1974), il ritorno all’amministrazione autonoma dei parchi del Gran Paradiso e d’Abruzzo tra il 1947 e il 1951, la creazione delle prime riserve statali, per quanto molto piccole, a opera del Corpo forestale dello Stato dal 1959, la comparsa di prime proposte di legge quadro sulle aree protette a partire dal 1962, la creazione – sulla scia delle riserve statali – nel 1968 di un parco nazionale in Calabria, voluto principalmente dai forestali, e, nel 1967, la decisione della Provincia di Trento di istituire due riserve nei gruppi del Brenta-Adamello e di Paneveggio-Pale di San Martino. Nonostante la creazione di nuovi parchi di grandi dimensioni e di caratteristiche gestionali avanzate debba aspettare la prima metà degli anni Settanta, sin dall’inizio degli anni Sessanta la questione delle aree protette pare pertanto mettersi in movimento, anche grazie a iniziative provenienti dalla società civile. Il periodo che va dal 1962 alla fine del decennio è segnato oltretutto da alcuni altri eventi che vale la pena di ricordare rapidamente.

Nel 1962 esplode anzitutto il caso del Parco nazionale d’Abruzzo: un perverso intreccio di interessi tra amministratori locali, dirigenti del Corpo forestale dello Stato, speculatori edilizi e politici locali e della capitale, genera un attacco all’esistenza stessa della riserva, ma favorisce al contempo un’energica reazione da parte dell’associazionismo, di importanti organi di stampa e di alcune forze politiche, che contribuisce a portare per la prima volta la questione dei parchi all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale. La battaglia per la salvezza della riserva abruzzese diviene così il catalizzatore di due processi in corso di maturazione nello stesso periodo: la richiesta di una legge nazionale che regoli il settore dei parchi naturali e l’emergere di un associazionismo ambientalista diffuso, dai caratteri più moderni e cosmopoliti rispetto a quello tradizionalmente rappresentato dalla Federazione nazionale pro natura.

La prima proposta di legge quadro viene infatti presentata nel 1962 dal senatore democristiano Vincenzo Rivera (1890-1967) sulla base di un testo discusso all’interno della Commissione per la protezione della natura del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), ma da questa data al 1970 verranno presentate altre sette proposte di legge quadro, a volte di ispirazione molto diversa, se non conflittuali tra loro, il cui impianto è sempre fortemente condizionato dal dibattito pubblico e dalle vicende, a volte drammatiche, riguardanti i parchi nazionali esistenti.

Su un altro versante la prima metà degli anni Sessanta vede il lento strutturarsi di una nuova generazione di protezionisti che si muove in modo diverso, più agile e più efficace, sia rispetto a figure pur rilevanti e amate come Alessandro Ghigi (1875-1970) e Videsott sia rispetto all’associazionismo ancora un po’ provinciale rappresentato dalla Federazione nazionale pro natura o dalla stessa Italia nostra, cui molti di questi giovani pur appartengono. Si tratta di una generazione aperta all’influenza dell’ambientalismo anglosassone, che coglie con fiducia i segnali provenienti da una società in rapido mutamento e li tramuta in slancio propositivo, che si muove in modo critico ma anche con relativa disinvoltura nel mondo della politica e dei ministeri, con una spiccata preferenza per l’ala riformista del centro-sinistra, e che, infine, conosce bene i meccanismi di creazione del consenso e dell’organizzazione della società civile in una moderna società industriale. Per questi giovani, che alla metà del decennio avviano esperienze innovative come la sezione italiana del World wildlife fund (WWF) op-pure la Lega nazionale contro la distruzione degli uc-celli (LENACDU), poi Lega italiana protezione uccelli (LIPU), e per figure pubbliche dell’autorevolezza di Antonio Cederna (1921-1996), la battaglia per la salvezza del Parco nazionale d’Abruzzo costituisce un momento insostituibile di crescita e una verifica delle proprie potenzialità.

Ma il germogliare di questo nuovo ambientalismo, che nelle aree protette vede una delle sue priorità, è a sua volta il frutto di una società che sta cambiando rapidamente, che si sta cioè definitivamente trasformando – come non era mai riuscita a fare nei decenni precedenti – da una società ancora prevalentemente agricola a una società compiutamente industrializzata, con tutto ciò che questo comporta in termini di stili di vita, mentalità, consumi materiali e immateriali. Una società, in particolare, ove l’immagine della natura coltivata da milioni di persone si trasforma, divenendo, da un lato un mito, tanto più attraente quanto più raro e distante, e, dall’altro, un bisogno molto concreto. Una società, di conseguenza, ricca di segmenti ben disposti ad aderire a narrazioni e a proposte di tipo protezionista, sino ad appassionarvisi e impegnarsi in prima persona. In questa temperie, i parchi nazionali italiani – che in seguito saranno definiti storici – divengono oggetto di una crescente attenzione che ne esalta le ricchezze naturalistiche, le peculiarità antropiche, le possibilità che offrono di accostarsi a una natura a volte grandiosa e discretamente incontaminata in modi rispettosi grazie alle loro strutture di accoglienza ed educative.

La convergenza di tutti questi fenomeni crea aspettative nell’opinione pubblica e forme embrionali di sensibilità in alcune forze politiche, aspettative e sensibilità che contribuiscono a erodere ulteriori strati dell’ormai quarantennale calotta di ghiaccio istituzionale che ricopre le aree protette italiane. Anche se la situazione legislativa rimane ferma e l’istituzione di nuove aree protette è sporadica e di non grande qualità, la seconda metà degli anni Sessanta vede una straordinaria fioritura di proposte e di studi tecnici che preannuncia la nuova stagione degli anni Settanta. Tra gli esempi più rilevanti, si può citare l’approvazione nel 1967 del pionieristico piano urbanistico provinciale di Trento, che prevede al suo interno la creazione di due grandi riserve naturali montane, i piani realizzati per il rilancio dei parchi nazionali d’Abruzzo e dello Stelvio, editi rispettivamente nel 1968 e nel 1969, e la pubblicazione nel 1969 da parte del Ministero del Bilancio e della Programmazione economica del Progetto 80, con la sua articolata proposta di una rete nazionale di aree protette. È proprio in questo momento di fioritura di proposte, di dibattiti e di interesse diffuso nei confronti dei parchi che prende finalmente avvio la realizzazione delle regioni a statuto ordinario.

Regioni a statuto ordinario e ‘primavera dell’ecologia’

L’operato delle più avvertite tra le neonate regioni ordinarie viene presto influenzato da questo clima di effervescenza, ma saranno presto esse a dare a loro volta un contributo decisivo allo sviluppo della politica delle aree protette in Italia. Per quanto riguarda invece le regioni a statuto speciale, nella loro ormai ultraventennale storia non hanno dato grande prova di interesse verso le riserve naturali, a eccezione del Trentino-Alto Adige, ove la Provincia di Trento ha iniziato, con il citato piano urbanistico provinciale del 1967, una politica di tutela diffusa del territorio che in seguito contribuirà a fare della regione una delle più avanzate d’Italia.

Il piano urbanistico della Provincia di Trento si situa cronologicamente a ridosso dell’istituzione delle regioni a statuto ordinario ed esemplifica bene il mutamento di clima in atto in Italia e nei Paesi industrializzati in generale. L’epoca che va dalla prima metà degli anni Sessanta alla metà dei Settanta è caratterizzata infatti da una forte spinta progressista, che si esprime in varie forme. Si tratta di una fase in cui la straordinaria crescita economica, dei redditi e dei consumi si accompagna non soltanto a un rafforzamento dei sindacati e delle formazioni politiche riformiste, ma anche al massimo dispiegarsi dell’influenza keynesiana, con la diffusione delle politiche di programmazione e di pianificazione, con l’allargamento degli istituti di partecipazione democratica, con l’emergere e il consolidarsi di movimenti per i diritti sociali e civili di vaste dimensioni, che ampliano progressivamente e in senso sempre più radicale la gamma delle issues culturali e politiche. In questa fioritura di sensibilità, di bisogni e di forme di mobilitazione collettiva la richiesta di ambiente – l’ecologia, come si comincia a dire, prendendo a prestito un termine scientifico – assume un peso di grande rilievo, con un certo anticipo negli Stati Uniti, ma ben presto anche in tutti i Paesi occidentali. Le tematiche ambientali faticano, almeno fino all’inizio degli anni Settanta, a entrare in modo organico nelle agende dei governi, sia nazionali sia locali, ma assumono una nuova e inedita popolarità presso fasce consistenti dell’opinione pubblica, soprattutto nelle aree urbane.

La creazione delle regioni ordinarie è anch’essa in qualche modo frutto di questa temperie, poiché l’iter che condurrà all’approvazione della l. 17 febbr. 1968 nr. 108 per le elezioni dei consigli delle regioni ordinarie inizia con il primo governo appoggiato esternamente dal Partito socialista italiano (PSI), cioè il quarto governo di Amintore Fanfani (1908-1999), del febbraio 1962. Come è ben noto, l’avventura delle regioni ordinarie comincerà con le elezioni del giugno del 1970, proprio nell’anno dell’esplosione planetaria della ‘questione ecologica’. Al momento della loro nascita, tuttavia, le regioni a statuto ordinario sono caratterizzate non solo da gruppi dirigenti, da capacità di governo e da sensibilità ambientali molto diverse tra loro, ma anche da poteri estremamente limitati per quanto riguarda la gestione ambientale. Le materie delegate alle regioni in virtù del dettato costituzionale con i decreti del gennaio 1972 non contengono anzi alcun riferimento diretto alla protezione della natura ed è per questo che le prime iniziative delle regioni a statuto ordinario in questo campo devono limitarsi all’elaborazione di semplici linee programmatiche o a battere la faticosa strada della sperimentazione di nuovi metodi e nuovi strumenti di intervento.

Tutti questi problemi si riflettono bene nell’esordio delle regioni ordinarie nel campo dei parchi: da un lato, infatti, inizia a manifestarsi già nei primissimi anni Settanta un divario tra le regioni capaci di iniziativa e di sperimentazione e quelle meno capaci, divario che si consoliderà nel corso dei decenni successivi e, da un altro, le prime sono costrette a immaginare le forme di istituzione dei loro parchi naturali nella gabbia stretta e in parte impropria delle poche e frammentarie materie delegate inizialmente dallo Stato.

È il caso, anzitutto, della Regione Lombardia, ove le elezioni hanno largamente premiato la Democrazia cristiana (DC) guidata da Piero Bassetti. Poliedrica figura di imprenditore, politico, intellettuale e animatore culturale che, tra le tante altre cariche, ha ricoperto proprio alla fine degli anni Sessanta anche quella di presidente del Comitato regionale per la programmazione economica della Lombardia, è un economista specializzato nelle problematiche di piano ed è uno dei regionalisti democristiani più consapevoli e convinti. I primi atti della sua giunta dimostrano una sensibilità ambientale precoce e già ben strutturata: tra i nuovi assessorati figura subito quello all’Ecologia e nel proprio discorso programmatico indica tra i quattro «punti fermi della strategia della nostra Regione» quello del «rapporto tra uomo ed ambiente, un rapporto che, oggi in Lombardia, è più che mai compromesso da un progresso tecnologico ed economico ispirato ad una logica e a finalità di tipo particolaristico, diverse, quando non opposte, da quelle della collettività regionale e nazionale». Nel trattare la problematica uomo-ambiente Bassetti mette in evidenza la necessità di creare «grandi parchi naturali [e] nuove aree attrezzate per il turismo e lo sport di massa lungo i laghi ed i fiumi, sulle colline e montagne». Da questo esplicito impegno programmatico nasce una delle esperienze regionali più incisive e fruttose nel campo delle aree protette.

La faticosa conquista di competenze e strumenti operativi

Le materie delegate alle regioni nel 1972 sulla base dell’articolo 117 della Costituzione non comprendono, come si è accennato, la protezione della natura, né di conseguenza la realizzazione di parchi naturali. Una di tali materie, tuttavia, appare subito particolarmente adatta a giustificare e a orientare l’intervento regionale nel campo delle aree protette: l’urbanistica. Nel suo piano urbanistico provinciale del 1967 Trento ha infatti dimostrato come una pianificazione territoriale ampia possa coerentemente prevedere la creazione di parchi, in un’ottica al tempo stesso di protezione ambientale, di sviluppo economico, di ricreazione e di educazione. Nonostante i due parchi previsti dal piano stentino per qualche anno a decollare, l’iniziativa trentina introduce due novità di assoluto rilievo, destinate a fare scuola. La prima è data dall’affermazione di una volontà locale, non più dipendente da Roma, di creazione dei parchi e da un’affermazione di potestà sulla loro istituzione e sulla loro gestione. Un aspetto banale solo in apparenza, dato che in quasi mezzo secolo tutti i parchi e le riserve realizzati in Italia sono sorti esclusivamente grazie a iniziative ministeriali o parlamentari. La seconda novità risiede nell’intimo collegamento tra politiche di piano ampie, urbanistiche e socioeconomiche, e istituzione di aree protette.

Sin dalle loro prime manifestazioni le politiche regionali per i parchi si caratterizzano insomma per una consapevole combinazione di tre elementi: la tendenza a pensare le nuove aree protette all’interno di contesti territoriali più vasti mediante la pianificazione urbanistica; il coinvolgimento delle popolazioni locali e l’affermazione di un controllo democratico; un ampliamento e una diversificazione delle finalità istitutive dei parchi. Si tratta di quello che nei primi anni Ottanta alcuni studiosi definiranno il ‘modello urbanistico’ dei parchi, contrapposto a quello ‘naturalistico’.

A parte il precoce caso della Provincia di Trento, è la Regione Lombardia a elaborare e portare sin dai suoi primi atti a un livello esemplare il ‘modello urbanistico’. Qui un apposito gruppo di lavoro opera sin dal 1970 all’interno dell’assessorato all’Ambiente in vista dell’emanazione di una legge generale sui parchi inserita nell’alveo della programmazione regionale, e qui viene ideata una metodologia in tre tempi, che sarà alla base della l. reg. 9 genn. 1974 nr. 2: analisi del territorio per individuare le aree meritevoli di tutela e redazione di un piano regionale dei parchi; emanazione delle leggi costitutive dei singoli parchi; redazione del piano territoriale specifico di ciascun parco. Nel solco tracciato dalla Lombardia si pone poco dopo anche la Regione Piemonte, ove la creazione di parchi e riserve naturali è stata già esplicitamente prevista nello statuto regionale approvato nel 1971. In questo caso è l’assessore al Turismo Mario De Benedetti (1924-1984) a creare nel 1973 un’unità operativa incaricata dell’elaborazione di una politica regionale dei parchi. Il risultato del lavoro di questo gruppo è la l. reg. 4 giugno 1975 nr. 43, che ricalca abbastanza fedelmente lo schema lombardo e fa al contempo tesoro della ricca elaborazione tecnica e giuridica prodottasi nella regione vicina a partire dal 1970. Per quanto l’applicazione della legge non conduca a risultati quantitativi paragonabili a quelli lombardi, l’iniziativa degli organismi regionali piemontesi si dispiega nel tempo in modo talmente coerente e sistematico da porre le basi di un prestigio che si protrarrà fino a oggi. Il piano regionale dei parchi, prima delle tre fasi di applicazione della legge, viene realizzato attraverso un’approfondita e laboriosa consultazione di enti locali, di associazioni naturalistiche, protezionistiche e di categoria, e di studiosi. Alla fine di questa consultazione si giunge all’individuazione di ben 130 aree meritevoli di tutela e all’inserimento di 29 di esse nel piano vero e proprio, varato nel 1977 in parallelo e in stretta connessione con la legge urbanistica disegnata dall’assessore Giovanni Astengo (1915-1990), una delle prime e più avanzate leggi urbanistiche regionali.

L’iniziativa legislativa e di piano condotta da Lombardia e Piemonte sul fronte dei parchi e la tenace rivendicazione della legittimità del proprio operato in tale campo contribuiscono, sempre nel 1977, a un risultato di grande portata: tra le materie di competenza statale trasferite alle regioni grazie al d.p.r. 24 luglio 1977 nr. 616 vengono infatti compresi anche gli «interventi per la protezione della natura, le riserve e i parchi naturali», riconoscendo finalmente e pienamente la competenza regionale in fatto di parchi e riserve naturali.

Questo straordinario successo non è tuttavia sufficiente a orientare il complesso delle regioni italiane nella medesima direzione: dopo Lombardia, Piemonte, Lazio, Liguria, solo il Veneto e la Sicilia si doteranno negli anni immediatamente successivi (1980 e 1981) di una legge quadro, mentre tutte le altre lo faranno o a ridosso dell’approvazione della già citata legge quadro nazionale nr. 394 del 1991 o, più spesso, in seguito. Un effetto pressoché immediato del trasferimento di competenze è però quello di accelerare il processo di creazione di aree protette regionali: se tra il 1974 e il 1977 se ne istituiscono due l’anno, nel 1978 se ne istituiscono già sette e nel 1980 addirittura tredici. Le regioni divengono così consapevoli protagoniste dell’espansione delle aree protette italiane e della loro crescita culturale e istituzionale, pur in una fase di perdurante stasi dell’iniziativa centrale che continuerà fino al 1987.

Gli attori: opinione pubblica, movimenti e autonomie locali

Come si è già osservato, le prime iniziative delle regioni speciali e l’esordio di quelle ordinarie nel campo dei parchi coincidono con il manifestarsi della ‘primavera dell’ecologia’ anche in Italia. Questa ‘primavera’ può essere però in parte interpretata come una rinascita, cioè come la ripresa del movimento protezionista nato negli anni a cavallo tra Otto e Novecento. Eclissatosi sotto il fascismo, esso era stato ravvivato e tenuto faticosamente in vita negli anni Quaranta e Cinquanta dal solo Movimento italiano per la protezione della natura, divenuto successivamente Federazione nazionale pro natura; la situazione è iniziata a cambiare nel 1962 – anno in cui peraltro, con l’astensione socialista in appoggio al quarto governo Fanfani, si è inaugurata la stagione del centrosinistra – quando l’attacco al Parco nazionale d’Abruzzo ha conquistato la scena mediatica, tanto che è stata presentata la prima proposta di legge quadro per i parchi e Cederna con un gruppo di giovani di Italia Nostra si è convertito alla protezione della natura, nonostante la sostanziale indifferenza dei vertici del sodalizio.

Il biennio 1965-66 ha presentato caratteristiche an-cora più vivaci: in questo periodo è stata avviata a soluzione la drammatica situazione del Parco nazionale d’Abruzzo, Laura Conti ha pubblicato Che cos’è l’ecologia. Capitale, lavoro e ambiente (1965) – il primo libro italiano in cui il termine ecologia viene considerato anche nella sua accezione politica –, è stata varata la prima legge contro l’inquinamento atmosferico, do-po una stasi quasi ventennale sono state fondate nuove associazioni protezionistiche (LENACDU e WWF Italia), si è aperta una vivace dialettica attorno a nuove proposte di legge quadro e il progetto del piano urbanistico provinciale di Trento è stato arricchito della proposta di due ampie aree protette.

In una fase di crescente interesse da parte dell’opinione pubblica, di penetrazione sempre più rapida di suggestioni provenienti dall’estero e di iniziative internazionali di grande risonanza, l’anno 1970 segna poi in Italia – come del resto in tutti gli altri Paesi industrializzati – una forte accelerazione della sensibilità e dell’interesse verso le questioni ambientali: la stampa se ne occupa in modo sistematico, le associazioni conoscono un forte aumento degli iscritti, gli organi di governo sia centrali sia locali adottano o quantomeno progettano di adottare organismi e linee programmatiche dedicati all’ambiente. Grazie a questi fenomeni si innesca, tra opinione pubblica, mass media, associazionismo, ambienti della ricerca, rappresentanze politiche e organi di governo, una dialettica dai caratteri inediti, che avrà un peso cruciale nell’orientare per almeno un ventennio le politiche di tutela ambientale e quelle riguardanti i parchi naturali.

Di tutto ciò si è avuta un’esemplare anticipazione nella lunga ‘battaglia’ per la salvezza del Parco nazionale d’Abruzzo, tra il 1962 e il 1969, ma, su scala minore e con modalità ogni volta diverse, intrecci di questo tipo si moltiplicano a partire dall’inizio degli anni Settanta un po’ in tutta l’Italia. Tra gli esempi più significativi si possono ricordare: l’iniziativa per bloccare lo sfruttamento intensivo dei Colli Euganei da parte delle industrie estrattive, culminato con la l. 29 nov. 1971 nr. 1097 promossa dai parlamentari democristiani veneti, necessaria precondizione del parco regionale che verrà poi realizzato nel 1989; la mobilitazione popolare che conduce alla creazione del primo parco regionale italiano, quello del Ticino; il complesso e lungo lavoro di promozione dei parchi toscani della Maremma e di Migliarino-San Rossore-Massacciuccoli; le spinte associative che conducono alla legge regionale siciliana del 1981; più tardi, infine, l’azione corale che contribuirà, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo, alla creazione del grande sistema dei parchi montani abruzzesi.

Non va dimenticato a questo proposito che, parallelamente all’azione degli enti locali e molto spesso in collaborazione con essi, si dispiega a partire dall’inizio degli anni Settanta una vasta gamma di iniziative di denuncia, ricerca, proposta e progettazione da parte di sodalizi e comitati spontanei locali, di sezioni locali di associazioni nazionali, di studiosi ed esperti ed è in gran parte anche grazie a questa messe di prese di posizione e di documentazioni, come dai confronti pubblici che esse suscitano, che prenderà forma la politica italiana delle aree protette degli anni seguenti. Anche in questo caso pochi esempi tratti dal triennio 1971-73 possono aiutare a farsi un’idea della varietà e della vivacità delle iniziative e dei soggetti operanti in questo periodo.

Sul fronte della ricerca scientifica si segnala anzitutto la pubblicazione del Censimento dei biotopi di rilevante interesse vegetazionale meritevoli di conservazione in Italia (1971), opera del Gruppo di lavoro per la conservazione della natura della Società botanica italiana, frutto di uno sforzo corale voluto da Franco Pedrotti e riuscito tentativo di andare oltre i pur meritevoli elenchi di aree da tutelare su scala nazionale stilati negli anni precedenti. A differenza del passato, infatti, i 314 siti proposti per la tutela vengono schedati singolarmente e in dettaglio, offrendo così un notevole contributo conoscitivo e una solida giustificazione scientifica alle proposte di tutela. Sempre dal mondo delle associazioni protezionistiche, o da alcuni dei loro esponenti, proviene un gran numero di progetti per l’istituzione di nuovi parchi, in taluni casi persino di sistemi di parchi. Tra i molti esempi si può citare la complessa proposta del 1973 elaborata da Fabio Cassola e Franco Tassi per una rete di parchi e riserve in Sardegna, rimasta a lungo un punto di riferimento del dibattito sardo in materia.

Sul fronte istituzionale è esemplare invece il processo di elaborazione collettiva realizzato dalla Regione Lombardia attraverso un’ampia commissione ad hoc creata dal Consiglio regionale e le sue sottocommissioni provinciali. Qui, tra novembre 1972 e maggio 1973, vengono effettuate decine di consultazioni, di incontri pubblici e di audizioni che coinvolgono le amministrazioni locali, l’associazionismo protezionistico, di categoria, venatorio e del tempo libero, il mondo delle professioni e della ricerca. Tutto questo capillare lavoro di stimolo al dibattito e di ascolto viene canalizzato in un ricco e articolato progetto di sistema regionale dei parchi e delle riserve naturali che prevede la tutela di circa 120 ambienti di particolare pregio. La ponderosa opera in due volumi che raccoglie gli atti dei lavori della Commissione (Commissione speciale di studio e di ricerca sui parchi naturali della Lombardia 1974) testimonia, da un lato, della lucidità di visione e della capacità di lavoro dei suoi animatori e, dall’altro, della vivacità della società civile nel rispondere alle sollecitazioni della Regione, a riprova di una domanda di ambiente ormai diffusa, matura e consapevole. Il volume di atti è completato dal testo definitivo della l. reg. 9 genn. 1974 nr. 2, che include il provvedimento istitutivo del Parco regionale del Ticino. La creazione di quest’ultima riserva riveste peraltro per il movimento dei parchi regionali – e continuerà a farlo in seguito – un alto valore simbolico, in qualche modo analogo a quello avuto per i parchi nazionali dalla battaglia per il Parco nazionale d’Abruzzo. Il Parco del Ticino, infatti, non è solo il primo vero parco regionale creato in Italia, un parco di estensione assolutamente ragguardevole con i suoi 83.000 ettari iniziali, che ne fanno la seconda area protetta d’Italia dopo il Parco nazionale dello Stelvio; non solo nasce – nonostante numerose opposizioni locali – grazie a una decisa volontà istituzionale, perché fortemente voluto dalla giunta regionale e approvato con il voto favorevole di quasi tutte le forze politiche; esso è anche e soprattutto il frutto di una forte mobilitazione popolare, che, manifestatasi a partire dal 1967, nel 1972 ha portato in Consiglio regionale una proposta di legge sostenuta da 7000 firme.

La dialettica centralismo-decentramento

La dialettica tra società civile e istituzioni riguardo alle aree protette non è tuttavia né lineare né del tutto positiva, tanto a livello locale quanto a livello nazionale. Un’importante componente di tale dialettica è il conflitto che, a partire dalla fine degli anni Sessanta, vede contrapporsi i fautori di una visione centralista e i fautori di una visione regionalista della gestione dei parchi. Questo conflitto, di lunga durata e a tratti estremamente aspro, ha sostanzialmente tre protagonisti, portatori di visioni e di interessi molto diversi: un associazionismo ambientalista alfiere di un centralismo modernizzatore e dai tratti tecnocratici; i dirigenti, i funzionari e i politici legati al Corpo forestale dello Stato, tenaci difensori delle prerogative ministeriali; e infine le regioni, gli enti locali, i tecnici e i politici sostenitori delle ragioni di decentramento.

L’associazionismo ambientalista

Le associazioni, e in particolare Italia Nostra e WWF che sono le più attive nella prima fase, dichiarano sistematicamente che il loro obiettivo è anzitutto quello di garantire una buona tutela delle aree naturalisticamente pregiate. Per raggiungere questo obiettivo nessun soggetto istituzionale deve essere trascurato a priori, tanto meno le autonomie locali, si tratti di regioni, comuni o province. Fabio Cassola, giurista e per un lungo periodo vicepresidente del WWF Italia, ripete a più riprese negli anni Settanta e Ottanta che nell’ottica delle associazioni ambientaliste la nascita delle regioni ordinarie è considerata un evento sicuramente positivo, in quanto si ritiene che esse siano in grado di affiancare l’operato dello Stato in modo più flessibile e vicino alle realtà locali, permettendo quindi di allargare l’azione di difesa della natura. Anche se questa visione rimane per qualche anno priva di contenuti specifici e venata dalla convinzione che le riserve regionali debbano comunque essere considerate meno importanti dei parchi nazionali, rimane comunque ferma anche la convinzione che le regioni debbano svolgere un ruolo strategico nella creazione di un moderno sistema nazionale dei parchi naturali.

Nel 1985, riprendendo l’argomento alla luce della «sfida del 10%» del territorio nazionale da tutelare, lanciata a Camerino cinque anni prima, Cassola si spinge ad affermare che il 3% di questa superficie dovrebbe essere costituito da parchi nazionali e il 7% da parchi regionali, i quali dovrebbero peraltro avere pari dignità rispetto ai primi. A fronte di questo riconoscimento di principio, mai negato e anzi costantemente riaffermato nel tempo, Italia Nostra e WWF pongono però due riserve importanti, una di merito e una di principio, tendenti spesso a convergere. La riserva di merito riguarda l’analisi del comportamento effettivo delle regioni, che viene monitorato in modo molto costante, ma non diverso da come viene monitorato quello dello Stato centrale. Qui, in coerenza con lo spirito che muove l’associazionismo ambientalista, le critiche sono frequenti e numerose e si appuntano su tre aspetti: l’incoerenza tra le dichiarazioni programmatiche delle singole regioni e taluni loro atti che le smentiscono drammaticamente, l’immobilismo di alcune regioni e i problemi dovuti ad alcune impostazioni strategiche o gestionali. La riserva di metodo, non sempre espressa in modo esplicito, riguarda la possibilità che una gestione esclusivamente locale delle aree protette possa essere veramente efficace ai fini della tutela.

La strategia che risulta da questa visione viene insomma formulata già alla fine degli anni Sessanta, resta immutata nel tempo e risulterà alla fine vincente: lo Stato ha il compito di intervenire garantendo la tutela delle aree realmente più pregiate mediante lo strumento – internazionalmente riconosciuto – del parco nazionale; le regioni devono anch’esse intervenire mediante la creazione di un’articolata e ampia gamma di riserve naturali proprie e la promulgazione di leggi ad hoc; lo Stato deve garantire coerenza ed efficacia sistemica a tutti questi interventi mediante la predisposizione di linee generali dettate da una legge quadro.

Il centralismo ministeriale

Se sulla scena pubblica è l’associazionismo a giocare il ruolo di principale alfiere di un pur temperato centralismo, un altro soggetto rivendica, per lo più dietro le quinte ma con tenacia forse ancor maggiore, le prerogative ministeriali: il Corpo forestale dello Stato. La posizione dei forestali non si giustifica sulla base di una visione generale e articolata, sia perché una visione del genere è probabilmente aliena dalla loro mentalità e dal loro stile, sia perché la loro rivendicazione è legata essenzialmente a una storica convinzione, risalente agli anni Venti, secondo la quale le aree protette italiane devono essere in ogni caso materia di competenza pressoché esclusiva del Corpo e del ministero che si occupa di materie forestali. Per quanto raramente in evidenza, i forestali combattono in modo costante e spesso molto efficace le posizioni e le proposte autonomiste, in sede sia governativa sia parlamentare.

Le regioni

Il fronte regionalista è comprensibilmente più sfaccettato, sia nei soggetti sia nelle motivazioni. Esso non è anzitutto omogeneo dal punto di vista spaziale: per tutti gli anni Settanta, e spesso anche negli anni Ottanta, molte regioni, sia speciali sia ordinarie, non mostrano particolare interesse per la problematica della tutela ambientale e per i parchi, limitandosi a interventi marginali e di scarso significato: queste regioni danno in genere anche uno scarso contributo al dibattito centralismo-regionalismo, anche se non mancano talvolta di rivendicare la propria piena potestà in materia di parchi.

I tre pilastri del decentramento: regionalismo ‛moderno’, pianificazione, democrazia

Molto più coerenti e incisive sono invece le iniziative regionaliste fondate su visioni ambiziose e innovative dei compiti delle autonomie locali. Tali visioni ruotano prevalentemente attorno a tre pilastri: il valore e il senso dell’autonomia, la necessità delle politiche di piano e la centralità della volontà e dei bisogni delle popolazioni locali.

La prima di queste pietre angolari trova in Lombardia un interprete di alto livello in Piero Bassetti, che arriva alla presidenza della Regione Lombardia dopo un’intensa esperienza svolta nel ruolo di presidente del Comitato regionale per la programmazione economica della Lombardia (CREPEL), forte di un’ambiziosa elaborazione autonomista. Nel corso di una tavola rotonda organizzata dal quotidiano «La Stampa» il 16 aprile 1970, egli illustra così la sua visione del ruolo delle regioni: «Vorrei che le regioni fossero l’inizio di un cambiamento di marcia nella nostra storia politica. Dalla fase attuale di progressivo decadimento delle istituzioni e della fiducia in esse, si deve passare a una fase nuova nella quale le regioni offrono agli italiani l’occasione di tornare a occuparsi della cosa politica, di ritrovare la fiducia nel loro Stato e quindi di dar mano a ricostruirlo».

Accanto a un autonomismo convinto delle virtù civili, democratiche ed economiche del decentramento, il secondo pilastro che contribuisce alla rivendicazione della potestà regionale sui parchi è la cultura del piano. Decollata effettivamente a partire dal primo governo organico di centro-sinistra, nel 1962, la programmazione italiana ha raggiunto il suo momento di maggior prestigio e di più forte radicalità nel 1969, con la pubblicazione del Progetto ’80, cosicché le regioni ordinarie avviano la loro attività proprio nel momento apicale della programmazione, momento che peraltro precede l’inizio del loro declino. Questa coincidenza temporale manifesta chiaramente i suoi effetti sugli statuti stessi delle regioni ordinarie, che contengono ampi riferimenti alla programmazione negli articoli fondamentali e in diversi casi anche in titoli appositi. La programmazione, nei vari settori e alle varie scale, viene considerata insomma dalle nuove regioni uno strumento fondamentale per stimolare, ordinare e indirizzare la vita collettiva. Di essa è parte strategica la pianificazione urbanistica, che vive ugualmente un momento di grande fortuna e che – elemento molto importante – costituisce una delle poche materie delegate alle regioni già dall’articolo 117 della Costituzione e di conseguenza dai decreti delegati del gennaio 1972.

Terzo elemento cruciale, che attraversa e innerva gli altri due, è la centralità dei bisogni e della volontà politica delle popolazioni locali. Nelle visioni più articolate e ambiziose le regioni ordinarie nascono al contempo per creare un nuovo e più intimo rapporto tra cittadino e amministrazione pubblica, per rispondere in modo più pronto ed efficace ai bisogni e alle aspettative dei cittadini stessi e per favorire la nascita di rappresentanze elettive più vicine ai territori e alle popolazioni. Alcune delle visioni regionaliste che si abbeverano a queste tre fonti di ispirazione e cercano di coniugarle in modo coerente finiscono, nei primi anni Settanta, con il produrre innovazioni importanti anche nel settore delle aree protette.

Nascita di un paradigma regionalista

L’iniziativa lombarda e, dal 1973, quella piemontese, che si pone consapevolmente sulla scia della prima, producono una serie di effetti importanti. Esse favoriscono anzitutto l’affermarsi dell’idea di una possibile ed efficace alternativa regionale all’immobilismo ministeriale nel campo delle aree protette. Rafforzano inoltre le convinzioni dei fautori della necessità di trasferire tutta la materia dei parchi alle regioni, ivi inclusa la potestà sui parchi nazionali. Danno legittimità più tardi, nel 1977, al trasferimento alle regioni anche delle materie di tutela ambientale nel suo senso proprio e più ampio. Ma esse portano soprattutto un contributo decisivo all’affermarsi di un peculiare paradigma regionalista e di un vivace movimento in suo sostegno; un paradigma e un movimento destinati in seguito a infondere tratti di notevole originalità alla vicenda italiana delle aree protette. In un lucido intervento del 1984, quando la fase più acuta dello scontro centralisti-regionalisti sta faticosamente iniziando a sfumare, Mario Libertini fornisce un’immagine equilibrata e innovativa del conflitto, riformulandolo in termini di «modello naturalistico» contro «modello urbanistico» (Libertini, in I parchi nazionali e i parchi regionali in Italia, 1984).

Al centro del primo, quello delle associazioni protezioniste, sta l’obiettivo della tutela, da garantire mediante un ‘parco’ inteso anzitutto come zona a impatto antropico basso o nullo, da sottrarre alle attività produttive. Questo modello affonda le sue radici nelle riserve di caccia nobiliari, le cui finalità divengono ora quelle della riserva scientifica, dello svago e dell’educazione popolare, della garanzia di un diritto all’ambiente che assume caratteri sempre più universali, cioè non solo sovralocali, ma anche sovranazionali. Il modello, insomma, è quello del ‘parco-riserva’ che nella sua forma ideale dovrebbe essere privo di insediamenti produttivi umani e con una superficie interamente demaniale: l’esempio statunitense in questo senso fa scuola. Libertini aggiunge subito che in Europa questo modello ha dovuto subire notevoli cambiamenti per adattarsi a un continente densamente popolato, il principale dei quali è stato – a partire dagli anni Sessanta – quello della zonizzazione, cioè della distinzione tra zone a tutela forte e zone a tutela temperata all’interno di uno stesso parco.

La problematica della zonizzazione, secondo Libertini, ha contribuito alla nascita del nuovo modello, quello che viene definito «urbanistico» e che si afferma soprattutto negli anni Settanta. In esso la principale competenza culturale passa dai naturalisti agli urbanisti e la competenza politico-amministrativa tende a passare agli enti locali, cosa che tendenzialmente contribuisce anche a risolvere il problema della conflittualità locale riguardo ai parchi, attraverso un coinvolgimento democratico più ampio delle popolazioni e una considerazione più attenta dei loro interessi e delle loro aspirazioni. All’interno di questo modello nasce, coerentemente, anche la rivendicazione che la politica delle aree protette venga interamente affidata alle popolazioni residenti.

Una ricostruzione paziente e attenta delle vicende della protezione della natura in Italia nel corso del Novecento sarebbe in grado di dimostrare facilmente il carattere idealtipico di questa contrapposizione, come cioè elementi di ciascun modello abbiano convissuto quasi sempre con elementi dell’altro, sin dalla costituzione delle prime aree protette italiane agli inizi degli anni Venti, e come l’esito normativo costituito dalla legge quadro 394 del 1991 costituisca non tanto una faticosa composizione tra fazioni irriducibili, ma piuttosto il compimento armonico di un lungo percorso storico e di un dialogo difficile, ma ininterrotto. Nonostante ciò, la diatriba centralismo-regionalismo è destinata a marcare a lungo e in profondità il dibattito sulle aree protette italiane e le scelte dei soggetti in campo, e in alcuni periodi appare persino incomponibile.

I termini del conflitto

La fase più acuta di questo conflitto si verifica probabilmente tra il 1972 e il 1980, un periodo in cui le regioni – o almeno alcune di esse – sono in pieno slancio creativo, l’attenzione e le aspettative dell’opinione pubblica aumentano sensibilmente e le autorità centrali appaiono preda di un immobilismo apparentemente senza rimedio. Per alcuni anni il punto del contendere è quello della potestà o meno delle regioni in materia di parchi; una volta che quest’ultima viene riconosciuta, la discussione si inverte di polarità e si incentra sull’ipotesi di trasferire tutte le competenze in materia di aree protette alle regioni. Quelle più attive, con in testa la Lombardia, hanno rivendicato, già dai primi anni del decennio, una potestà in materia che i decreti delegati del 1972 sembravano non concedere e che la Corte costituzionale ha per un periodo fieramente negato; e l’hanno ottenuta dimostrando come il tema dei parchi debba e possa essere legittimamente ed efficacemente affrontato facendone un trait-d’union che connette materie già delegate in virtù dell’articolo 117 della Costituzione, come l’urbanistica, la caccia, l’agricoltura e le foreste, il turismo e la viabilità. A partire dalla metà degli anni Settanta, la richiesta di riportare tutta la materia in capo alle regioni viene invece corroborata da una ricca e autorevole letteratura giuridica, mentre il d.p.r. 24 luglio 1977 nr. 77 attribuisce finalmente piena potestà alle regioni in materia di parchi in generale, ma rimanda la normazione specifica su quelli nazionali «esistenti» a una legge da emanare entro la fine del 1979.

È attorno all’ipotesi che tutti i parchi, inclusi quelli nazionali, e le riserve naturali divengano regionali che si raggiunge il punto più alto del conflitto tra lo schieramento centralista e quello regionalista, ma già nel 1980 il primo progetto di legge quadro di iniziativa governativa, dovuto al ministro dell’Agricoltura e delle Foreste Giovanni Marcora (1922-1983), propone una sorta di mediazione che tra alti e bassi attraverserà gli anni Ottanta e giungerà in porto con successo nel 1991 con l’approvazione della legge 394.

Nuove leggi e nuovi parchi dalle regioni nella persistente immobilità ministeriale

All’inasprirsi del conflitto tra centralisti e regionalisti contribuisce, come si è avuto già modo di osservare, la constatazione del divario tra la capacità di iniziativa di alcune regioni e il permanente immobilismo governativo. Superati alcuni importanti ostacoli come la bocciatura governativa della prima legge quadro regionale e la dialettica apertasi con coloro che avevano raccolto le firme per il Parco del Ticino, la Regione Lombardia approva infatti, tra la fine del 1973 e l’inizio del 1974, sia la legge quadro regionale sia l’istituzione del suo primo parco, quello appunto del Ticino. A partire da un ampio studio realizzato coinvolgendo centinaia di soggetti su tutto il territorio regionale, l’attività della Lombardia non si limita a questi due pur importanti atti, ma si dispiega nel triennio successivo con la costituzione di altri tre parchi regionali, sia pure di dimensioni più ridotte. Tra il 1978 e il 1983 non si verificheranno più nuove istituzioni, a testimonianza forse di una certa stanchezza, anche se nel 1981 verrà presentato un nuovo e più avanzato progetto di legge quadro destinato a essere approvato nel 1983 e contenente il piano generale delle aree protette. Sulla base degli impegni della nuova legge il processo di creazione di nuovi parchi riprenderà spedito a partire dallo stesso 1983.

Nel 1973, come già ricordato, prende ufficialmente le mosse anche l’esperienza piemontese. Analogamente alla Lombardia il processo si avvia sotto una giunta di centro-sinistra dalla fisionomia moderna e progressista che, dalla fine del 1973, ha alla sua guida Gianni Oberto Tarena (1902-1980), da oltre tre lustri presidente del Parco nazionale del Gran Paradiso, cosicché proprio in chiusura di legislatura, nel giugno 1975, anche il Piemonte può dotarsi di una legge quadro sulle aree protette piuttosto avanzata. La nuova giunta, a maggioranza socialcomunista, non solo non lascia cadere l’impegno di quella precedente, ma lo prosegue con dedizione ancor maggiore grazie alla volontà dell’assessore Luigi Rivalta, esponente di quel ristretto numero di amministratori cui la politica italiana delle aree protette deve veramente qualcosa. Lo sforzo di applicazione della legge può così proseguire nei tempi previsti: nel gennaio 1977 viene approvato il Piano regionale dei parchi e delle riserve naturali e da questo momento prende concretamente avvio la politica di creazione della rete regionale di aree protette. Tra il 1978 e il 1980 vengono istituiti ben 20 tra parchi e riserve regionali, per una superficie complessiva che si avvicina ai 50.000 ettari.

Un altro esempio di dinamismo, se possibile ancor maggiore, è offerto in questi anni dalle due province del Trentino-Alto Adige. Se quella di Trento non è riuscita a dare concretamente seguito alle indicazioni del piano urbanistico del 1967, in quanto i due grandi parchi da esso previsti non sono stati di fatto istituiti (lo saranno solo nel 1988), la Provincia di Bolzano ha previsto già nella sua legge sul paesaggio del 1970 la possibilità di individuare parchi e riserve naturali. Nonostante la genericità di tale enunciazione, tra il 1974 e il 1981 la facoltà di istituire aree protette viene concretamente utilizzata per realizzare ben sei parchi regionali su una superficie di quasi 95.000 ettari.

In altre regioni non si riesce invece a ripetere l’organicità dell’intervento lombardo, piemontese e della Provincia di Bolzano; all’approvazione di leggi quadro anche di buona qualità non fanno infatti seguito istituzioni di parchi, se non dopo diversi anni. È il caso della Liguria (l. reg.12 sett. 1977 nr. 40) e del Lazio (l. reg. 28 nov. 1977 nr. 46), che approvano entrambi una legge nel 1977, ma non riescono ad applicarla concretamente prima del biennio 1982-83.

Un caso analogo, sia pure con qualche anno di ritardo, è quello siciliano. Grazie al ruolo molto attivo dell’associazionismo, alla presenza di giuristi avveduti come Libertini e di politici sensibili e dinamici come Giacomo Cagnes (1924-2005) la Sicilia sembra poter appartenere al novero delle regioni capaci di dotarsi di una politica di sistema avanzata: una legge quadro regionale – caso unico nel Mezzogiorno – viene in effetti approvata nel 1981 con caratteri anche in questo anticipatori dei contenuti di quella che sarà dieci anni dopo la legge quadro nazionale, ma le grandi aree protette indicate nel testo verranno realizzate soltanto con ritardo, tra il 1987 e il 1993.

Caratteristiche opposte – ma con effetti politici e culturali non inferiori – presenta il caso toscano, ove se non si riesce ad avviare una politica organica e ad approvare una legge quadro, vengono in compenso istituiti – rispettivamente nel 1975 e nel 1978 – due parchi regionali estesi e di rilevante importanza: quello della Maremma e quello di Migliarino-San Rossore-Massacciuccoli, su quasi 23.000 ettari di superficie complessiva. Sarà soprattutto grazie a queste due esperienze che la Toscana potrà partecipare in prima fila al dibattito sulle aree protette delle autonomie locali.

Riassumendo, si può dire che tra il 1970 e il 1981 alcune province autonome e alcune regioni riescono a introdurre un’intensa ventata di novità nel panorama italiano delle aree protette, un panorama fino a questo momento sostanzialmente fermo alla situazione di metà anni Trenta, salvo l’eccezione molto parziale costituita dalle riserve naturali istituite dai forestali. La novità è duplice ed è costituita, da un lato, dall’adozione di leggi quadro regionali spesso molto sofisticate, che innovano il concetto di parco naturale e il modo di gestirlo, e, dall’altro, da un’ondata di creazione di nuovi parchi che fa tangibilmente avanzare la politica delle aree protette in Italia. Se nel cinquantennio intercorso tra il 1922 e il 1973 i parchi nazionali e le riserve statali hanno contato tra il 99 e il 100% della superficie delle aree protette italiane, a partire dal 1974 tale equilibrio inizia rapidamente a modificarsi, finché nel 1981 le riserve degli enti locali giungono a contare il 47% di tale superficie. All’interno di questa modificazione degli equilibri colpisce anche il fatto che essa si realizza nella totale assenza di istituzioni di nuovi parchi nazionali, mentre otto delle venti regioni e province autonome riescono ad avviare ben 25 parchi regionali o provinciali con una superficie media di circa 12.000 ettari, più un gran numero di riserve di dimensione maggiormente ridotta.

Strumenti normativi e modelli gestionali innovativi e anticipatori

Come tuttavia si è già avuto modo di accennare, l’operato degli enti locali più consapevoli e dinamici non contribuisce soltanto all’espansione e all’articolazione territoriale dei parchi e delle riserve italiane. Le varie leggi quadro regionali approvate e molti dei nuovi parchi introducono importanti novità concettuali e di metodo, che contribuiscono a dare una nuova impostazione al dibattito nazionale sulle aree protette.

Sul piano concettuale si fa strada e assume piena legittimità il modello definito da Libertini «urbanistico», che si affianca con successo a quello «naturalistico» tradizionale; o, per dirla con Roberto Saini, l’idea del «parco territorio» tende a sostituire l’idea del «parco isola» (Libertini in I parchi nazionali e i parchi regionali in Italia, 1984; Ostellino, Saini 2010, p. 23). Come si sa, il nuovo paradigma introdotto dall’azione legislativa e pianificatoria delle regioni pone al centro della missione dei parchi naturali il soddisfacimento di una vasta gamma di bisogni sociali tanto locali quanto extralocali, richiede un’ampia partecipazione democratica sia nella fase di progettazione delle aree protette sia in quella della loro gestione e considera la riconfigurazione del territorio effettuato mediante la creazione dei parchi come parte di un disegno di pianificazione territoriale più ampio. Tutti questi elementi, già presenti nel pionieristico piano urbanistico provinciale di Trento, vengono organicamente sviluppati nelle leggi quadro lombarda e piemontese e successivamente adottati in quelle della Liguria, del Lazio e della Sicilia fino a trovare consacrazione teorica in Uomini e parchi, un’importante opera di Valerio Giacomini e Valerio Romani, pubblicata nel 1982 e destinata a divenire un punto di riferimento per tutto il movimento delle autonomie locali grazie alla sua ragionata enfasi sul ruolo delle comunità locali nelle scelte sulla tutela del territorio.

Le innovazioni di metodo che conseguono da questa nuova visione non sono da meno e riguardano principalmente quattro aspetti.

La prima innovazione metodologica non è in realtà una novità assoluta, ma assume per la prima volta un carattere programmatico e sistematico: si tratta del fatto che le aree da sottoporre a tutela mediante parchi e riserve vengono individuate all’interno di un processo di programmazione territoriale di scala ampia e con finalità più articolate rispetto alla sola conservazione della natura. Sia nel caso trentino sia in quelli lombardo e piemontese non si procede semplicemente all’indicazione puntuale di questa o quell’area da proteggere, ma si parte dall’idea di costituire un sistema di aree protette che si collochi armonicamente e razionalmente all’interno di un’organica pianificazione territoriale di scala provinciale o regionale. Il principio non è del tutto nuovo, in quanto in Italia alcuni elenchi di possibili parchi – pensati talvolta anche in termini sistemici – sono comparsi periodicamente sin dall’inizio del Novecento, da quelli delle società naturalistiche del 1911-12 a quello immaginato da Luigi Vittorio Bertarelli (1859-1926) nel 1918, da quello ipotizzato nel 1964 da Alberto Mario Simonetta all’ampio elenco contenuto nel Progetto 80. L’inserimento dei due parchi trentini all’interno del piano urbanistico provinciale e poi la previsione all’interno delle leggi lombarda e piemontese di un piano regionale dei parchi, tuttavia, istituzionalizzano e rendono familiare l’idea che le aree protette vadano pensate in modo sistemico: in relazione tra loro da un lato, e, da un altro, in rapporto con la programmazione urbanistica e socioeconomica del territorio circostante.

Il secondo campo di innovazione metodologica, anch’esso tuttavia non totalmente originale, riguarda gli strumenti e le modalità di gestione delle aree protette, tanto in sede di progettazione quanto in sede di funzionamento ordinario. In questo campo l’eredità delle aree protette «storiche», cioè i parchi nazionali e le riserve istituite dal 1922, viene certamente presa in considerazione, ma può essere di esempio e di aiuto solo in modo molto parziale, in quanto riguarda un piccolo numero di esperienze e alcune situazioni relativamente semplici. Al contrario, gli enti locali si trovano ad affrontare problemi di grande varietà e spesso di notevole complessità, tanto più che la missione che attribuiscono alle aree protette è più ampia di quella tradizionalmente assegnata a parchi nazionali e riserve statali. Si innesca così, sin dall’inizio degli anni Settanta, un ricco dibattito sulla partecipazione popolare alla progettazione e alla gestione dei parchi, sui soggetti da coinvolgere nelle varie fasi, sui procedimenti e sugli strumenti operativi della progettazione e della gestione, dibattito che contribuirà a orientare non soltanto le scelte degli enti locali ma anche quelle adottate a livello centrale, compresa la legge quadro che verrà approvata nel 1991. In discussione sono principalmente le procedure di coinvolgimento dei soggetti sociali, culturali e istituzionali nella fase progettuale, le forme istituzionali che deve assumere la gestione delle varie aree protette (enti parco, consorzi di comuni, agenzie regionali di coordinamento, gestori privati, singoli comuni o province), le modalità della rappresentanza degli interessi all’interno degli enti gestori. Da questo punto di vista, i parchi e le riserve regionali divengono sin dai primi anni Settanta un esteso laboratorio di sperimentazione e di verifica di soluzioni che consente la costituzione di un inedito patrimonio di modelli concettuali e operativi. Anche di esso si gioveranno sia l’ondata di istituzioni di nuovi parchi degli anni Ottanta e Novanta sia la legge quadro del 1991.

Terzo elemento che contraddistingue l’esperienza delle autonomie locali è la centralità attribuita alla pianificazione – intesa nelle sue varie accezioni – delle singole aree protette. Anche in questo caso qualche precedente non manca, visto che già nella seconda metà degli anni Sessanta sono stati predisposti piani naturalistici – come nel caso dello Stelvio – oppure addirittura piani integrati che comprendono anche aspetti socioeconomici – come nel caso del piano di Italia Nostra per il Parco nazionale d’Abruzzo. Nelle leggi quadro che le regioni iniziano a produrre dalla metà degli anni Settanta, tuttavia, l’attività di pianificazione diviene un elemento cruciale e distintivo della vita di ciascuna area protetta. Anche in questo caso il tono viene dato dalla legislazione lombarda: se la l. reg. 17 dic. 1973 nr. 58 sulla «istituzione delle riserve naturali» si limita a definire i criteri per l’istituzione delle riserve stesse, la l. reg. 9 genn. 1974 nr. 2 prescrive che ciascuna area protetta regionale venga dotata di un piano territoriale di coordinamento emanato dalla regione, ma concordato con i comuni, le province, i consorzi e le comunità montane. Il piano deve definire la suddivisione dell’area protetta in zone a diverso regime di tutela, individuare le aree soggette ad attività agricole o forestali da mantenere o rivitalizzare, stabilire le norme per la tutela dei valori storici e ambientali delle zone edificate, indicare le metodologie per la redazione dei piani urbanistici locali e fissare le aree da destinare a uso pubblico e da attrezzare per il tempo libero. Il piano diviene pertanto un elemento centrale della vita di ciascuna area protetta, e non soltanto come meccanismo che fonda le prescrizioni normative, ma anche come fonte di identità e di dinamismo culturale, sociale e istituzionale.

L’ultima delle grandi innovazioni introdotte dalle regioni è anche quella meno diffusa e praticata in modo più discontinuo e faticoso, cioè quella delle politiche di coordinamento e di indirizzo dei sistemi regionali. Per le regioni che adottano le prime politiche organiche per le aree protette l’esigenza di dotarsi di strumenti di coordinamento discende in modo naturale da una visione sistemica, che considera i parchi e le riserve come elementi di una più ampia politica urbanistica e di programmazione, ma anche in questo caso le esperienze storiche cui si può fare fruttuosamente riferimento sono poche e molto giovani. Il riferimento necessariamente più famoso è quello del National park service, l’agenzia federale istituita nel 1916 per gestire i parchi nazionali statunitensi e un gran numero di monumenti, naturali e storici, ma si tratta un riferimento lontano ed effettivamente poco e mal conosciuto.

In Italia alcune interessanti proposte di coordinamento, come quella lanciata insistentemente da Videsott tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, hanno incontrato ostacoli insormontabili e sono cadute nel dimenticatoio, o sono state realizzate in forma molto parziale e poco efficace. L’esperienza più vicina, sia geograficamente sia istituzionalmente, diviene quindi quella francese dove, sin dal marzo del 1967, un decreto del presidente Charles De Gaulle ha previsto l’esistenza di parchi regionali a tutela meno rigida rispetto ai parchi nazionali e con più spiccate finalità sociali: l’anno successivo è stata istituita su 12.000 ettari di terreno nei dintorni di Lille la prima riserva di questo genere e nel 1971 il ministro dell’Ambiente ha creato la Fédération des parcs naturels régionaux de France. Neanche l’esperienza francese, tuttavia, risulta molto conosciuta, cosicché le prime sperimentazioni nel campo del coordinamento si svolgono in modo piuttosto empirico.

Nonostante il carattere anticipatorio della legislazione lombarda, la prima regione a lanciare un tentativo di coordinamento consapevole e incisivo del proprio sistema di aree protette è il Piemonte che, parallelamente all’avvio del piano regionale, rafforza il suo Servizio parchi naturali, portandolo da 3 a 17 unità mentre, sempre tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, vengono istituiti gli uffici regionali della Lombardia, del Lazio e delle province di Trento e di Bolzano. A queste esperienze pionieristiche ne faranno seguito altre, molto più tardi, in ordine sparso e con alterni successi. Nonostante questa riuscita a macchie di leopardo, il principio secondo cui a una concezione sistemica delle aree protette debbano corrispondere adeguati strumenti di coordinamento e di indirizzo verrà poi recepito nel testo della legge quadro del 1991, che all’articolo 3 prevederà un Comitato e una Consulta tecnica per le aree naturali protette.

Due dinamiche centripete: Coordinamento nazionale e iter della legge quadro

Come si è già osservato, negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta le istituzioni di parchi e riserve regionali, l’emanazione di leggi quadro, la creazione di uffici di coordinamento, le attività di pianificazione riguardanti il sistema e le singole aree protette si susseguono congiuntamente e a ritmi serrati soltanto in Lombardia, in Piemonte e nelle Province di Trento e di Bolzano. È qui che si situa in effetti il nucleo dinamico e maggiormente innovativo dell’esperienza regionale italiana delle aree protette, seguito da un secondo nucleo, comprendente Sicilia, Lazio e Toscana, in cui le iniziative, pur numerose e spesso di qualità, non presentano lo stesso grado di complessità e di organicità. Dietro queste sei realtà, tutte le altre regioni italiane arrancano faticosamente e con risultati alterni tra complessi dibattiti tecnico-politici, ritardi nella legiferazione o nell’applicazione delle leggi già approvate, difficili mediazioni con le comunità locali e, in qualche caso, puro e semplice disinteresse.

In questi anni si vengono insomma affermando in Italia alcune politiche dei parchi innovative, diffuse e in rapida evoluzione, ma anche a più velocità, in gran parte sconnesse tra loro e senza alcun efficace agente di raccordo nazionale, dato che i ministeri competenti continuano a non intervenire e le forze politiche non sono capaci, nonostante un gran numero di tentativi e di proposte, di convergere su un testo di legge quadro condiviso. Queste politiche regionali hanno tuttavia il merito di creare una sorta di massa d’urto che contribuisce a infondere un inedito dinamismo al quadro nazionale. Tra i primi anni Settanta e il 1987, ultimo anno della stasi ministeriale prima dell’istituzione di tre nuovi parchi nazionali, vengono infatti create 150 aree protette regionali su una superficie che si avvicina ai 580.000 ettari, ben più dei circa 260.000 ettari dei parchi nazionali «storici» o dei circa 125.000 ettari di riserve statali create dalla Forestale a partire dal 1971; al contempo vengono inoltre emanate sei leggi quadro regionali, tutte contenenti importanti innovazioni teoriche e tecniche. Nei primi anni Ottanta secondo alcuni osservatori questo slancio globale sembra affievolirsi, ma si tratta di una stasi solo apparente: molte sono infatti le dinamiche che in questo periodo danno un ulteriore impulso al cambiamento.

In primo luogo, la popolarità della natura incontaminata e delle questioni ecologiche, che dall’inizio degli anni Settanta ha preso sempre più piede nell’opinione pubblica italiana, continua a crescere. Due semplici dati possono rendere plasticamente l’idea di questa crescita: il WWF Italia, che rappresenta un ambientalismo tradizionalmente alieno da contaminazioni politico-ideologiche e fortemente legato a un immaginario naturalistico, passa dai 30.000 iscritti del 1983 ai 120.000 del 1987; nel maggio del 1981 avviene, fra molte esitazioni e timori, il lancio del nuovo mensile «Airone», prima rivista italiana di turismo naturalistico, che riscuote un’accoglienza straordinariamente calorosa con 65.000 copie all’avvio e un assestamento attorno alle 250.000 nel 1985.

Questa persistente e anzi crescente popolarità dell’ambientalismo di tipo naturalistico è in rapporto dialettico con le iniziative dell’associazionismo, in quanto la prima viene alimentata dalle seconde e le rende a sua volta più ambiziose ed efficaci. In questo senso vanno letti altri due eventi emblematici, entrambi del 1980.

Il primo è la fondazione, da una costola dell’Associazione ricreativa e culturale italiana (ARCI), della Lega per l’ambiente: sodalizio ambientalista dalle caratteristiche relativamente nuove, in quanto si pone l’obiettivo di un radicamento di massa, discende in parte da comitati locali e movimenti politicizzati, si colloca all’interno di un’associazione capillarmente presente sul territorio e sceglie di assumere in pieno la dimensione politica dell’ecologia. Si tratta di una grande novità, impensabile ancora pochi anni prima, che offre un saldo sbocco associativo a una crescente domanda di ambiente e di ambientalismo ormai diffusa anche a sinistra. La Lega diverrà molto presto protagonista attiva del dibattito e dell’iniziativa istituzionale per i parchi italiani.

Il secondo evento è costituito dal convegno Strategia 80 per i parchi e le riserve d’Italia, tenutosi nell’ottobre dello stesso anno presso l’Università di Camerino e promosso da WWF, Federazione pro natura e Comitato parchi e riserve analoghe. Facendo leva su patrimonio di conoscenze, progetti e mobilitazioni ormai ultradecennali e confortati da un consenso pubblico crescente, i vertici del WWF e del Parco nazionale d’Abruzzo lanciano in questa occasione l’evocativa parola d’ordine della «sfida del 10%», cioè l’obiettivo di giungere alla tutela del 10% della superficie territoriale nazionale entro la fine del secolo. In termini di puro realismo politico la sfida potrebbe apparire insensata, dato che in sessant’anni si è riuscito faticosamente a tutelare appena un 2%, le iniziative delle regioni appaiono molto disomogenee e le strutture centrali dello Stato non sembrano essere in grado di uscire da un prolungato immobilismo. Tuttavia, proprio come alla metà degli anni Sessanta, quando Fulco Pratesi polemizzava con il rassegnato difensivismo di Videsott a proposito di nuovi parchi, anche in questa occasione l’intuito degli ambientalisti del WWF si rivela giusto: essi colgono correttamente la domanda di natura crescente, vedono il dinamismo di una parte delle autonomie locali, avvertono che l’ormai quasi ventennale iter della legge quadro ha più possibilità che in passato di essere portato a conclusione, ritengono di avere energie e capacità sufficienti per affrontare una sfida di medio periodo e di potervi coinvolgere altri soggetti. Criticata, discussa, talvolta contrastata anche nel mondo ambientalista e fuori di esso, la «sfida del 10%» fissa però un parametro simbolico di grande importanza sul quale negli anni seguenti finiranno con il misurarsi tutti i soggetti attivi nel campo delle aree protette italiane, né è senza significato sottolineare che l’obiettivo della sfida verrà effettivamente superato già nel corso del 1997.

Un ulteriore elemento di dinamismo è costituito dall’apparizione, a partire dal 1985, delle Liste verdi e subito dopo della Federazione dei verdi, una nuova formazione politica nella quale confluiscono vari fenomeni: il tentativo di dare rappresentanza istituzionale a vari movimenti single issue o a base locale, l’onda lunga della primavera dell’ecologia italiana iniziata alla fine degli anni Sessanta, il dissolversi dell’egemonia culturale marxista all’interno dello schieramento progressista e l’incipiente crisi della tradizionale forma partito. Presentatisi per la prima volta nelle elezioni regionali del 1985, i Verdi mietono un buon successo in quelle politiche del 1987, anche sull’onda dell’emozione suscitata dalla catastrofe di Černobyl′: con il 2,51% dei voti essi portano alla Camera 13 deputati e con l’1,96% conquistano un senatore. Nelle elezioni politiche del 1987, tuttavia, le tematiche ambientaliste finiscono con il pervadere diffusamente anche altre formazioni politiche come i Radicali, portatori comunque da molto tempo di istanze ecologiste, Democrazia proletaria (DP) e infine il Partito comunista italiano (PCI) e gli indipendenti di sinistra eletti nelle sue liste. La rappresentanza parlamentare ambientalista che esce dalle elezioni del 1987 finisce dunque con l’essere la più nutrita di sempre e anche quella con la più forte presenza di figure storiche dell’ambientalismo italiano tra cui Laura Conti, Giorgio Nebbia, Antonio Cederna e Gianluigi Ceruti. Questa fase di popolarità dell’ambientalismo politico italiano si conferma negli anni successivi non solo a livello nazionale, ma anche a livello europeo e regionale: nelle elezioni europee del 1989 la Lista Verde e i Verdi arcobaleno totalizzano oltre 2.100.000 voti ed eleggono cinque rappresentanti, mentre nelle elezioni delle regioni ordinarie del 1990 le due liste raccolgono 1.585.874 voti ed eleggono 28 consiglieri. Già nel 1995 il consenso a liste elettorali che fanno esplicito riferimento all’ecologia diminuirà sensibilmente, avviando un processo, piuttosto anomalo in Europa, di inarrestabile erosione della rappresentanza verde. In ogni caso, e per quanto riguarda più direttamente le tematiche qui esaminate, è senz’altro possibile affermare che il periodo che va dalla metà degli anni Ottanta ai primi anni Novanta segna il culmine della popolarità dell’ecologia politica e dei suoi temi presso l’opinione pubblica italiana.

È – non casualmente – in un contesto di questo tipo che le politiche italiane dei parchi, di per sé caratterizzate da un forte dinamismo, trovano alcuni punti di sintesi che consentono di superare almeno parzialmente sia la frammentazione dei provvedimenti regionali sia l’immobilismo centrale. Tra questi punti di sintesi, due coinvolgono più direttamente le regioni: l’accelerazione dell’iter parlamentare destinato a concludersi nel dicembre del 1991 con l’approvazione della l. quadro 394 sulle aree protette e la costituzione, nel maggio 1989, del Coordinamento nazionale dei parchi e delle riserve regionali.

L’iter parlamentare della legge quadro si svolge su un terreno politico-culturale estremamente complesso, popolato da soggetti molto diversi tra loro e portatori di interessi spesso conflittuali, come testimonia il fatto che la prima proposta di legge è del 1962 e che nel ventennio successivo saranno redatte oltre venti proposte di legge che però non arriveranno mai al voto in aula. Le differenze di impianto di tutti questi progetti, a volte molto profonde, mostrano in filigrana sia gli interessi concreti, sia le differenti visioni che i vari soggetti hanno della difesa della natura, del modo di concepire il ruolo dei parchi, del rapporto tra Stato e autonomie locali, sia l’evoluzione di queste visioni nel corso degli anni.

Nella prima metà degli anni Sessanta i soggetti interessati da sponde diverse all’emanazione di una legge quadro sono principalmente i protezionisti ‘storici’ raccolti nella Commissione pro natura del CNR, i forestali e i giovani protezionisti che fanno riferimento a Italia Nostra e poi al WWF. Nel corso degli anni Settanta l’iniziativa si restringe soprattutto a questi ultimi e al contempo si allarga ai fautori degli interessi autonomistici. Tra il 1974 e la fine del decennio compaiono infatti sia progetti che articolano il modello centralistico già elaborato a metà degli anni Sessanta, sia progetti che rappresentano un nuovo modello nel quale il peso delle regioni è centrale, tanto nella fase di determinazione delle aree da proteggere quanto in quella della loro gestione.

Un passaggio fondamentale di questa nuova dialettica, destinato a portare all’estremo lo scontro tra regionalisti e centralisti, è, come ben si sa, l’emanazione del d.p.r. 616 del 1977, che trasferisce nuove funzioni alle regioni e grazie al quale la competenza in fatto di protezione ambientale e di parchi naturali viene trasferita in toto agli enti locali, riservando allo Stato la sola competenza sull’individuazione delle aree da tutelare mediante parchi o riserve interregionali. Si rovescia in tal modo l’impostazione dei decreti di delega del 1972, che riservavano quasi tutta la materia alle autorità centrali. La battaglia che si scatena attorno all’applicazione del citato d.p.r. conduce in sostanza a due risultati: da un lato, induce lo schieramento regionalista, forte di un’interpretazione letterale del provvedimento, a proporre delle leggi quadro che esautorano quasi totalmente i ministeri, riconducono la gestione di tutte le aree protette – compresi i parchi nazionali – alle autonomie locali e, nei casi più radicali, prevedono l’impossibilità di aggiungere nuovi parchi nazionali ai cinque esistenti; da un altro lato, essa induce il governo e lo schieramento ambientalista ad articolare meglio i propri progetti mediante una più ampia e precisa inclusione delle autonomie locali nei processi di individuazione, istituzione e gestione delle aree protette.

L’evento più significativo in questo senso è costituito dalla proposta di legge governativa del febbraio 1980 che porta la firma del ministro dell’Agricoltura e delle Foreste, Marcora. Per quanto tale proposta sia un atto dovuto in base a un articolo del d.p.r. 616 del 1977, essa contiene importanti elementi di novità. Il primo è costituito sicuramente dal fatto che per la prima volta un governo interviene direttamente nel dibattito ormai quasi ventennale sulla legge quadro con una propria proposta e lo fa non solo perché costretto da una legge, ma anche grazie alla sensibilità personale del ministro. Marcora, infatti, titolare del suddetto dicastero dal 1974, è un democristiano milanese della stessa corrente di Piero Bassetti, e ha dimostrato in più di un’occasione un interesse non superficiale per le questioni ambientali e per i parchi. Di fronte alla minaccia di una totale esautorazione del ruolo dello Stato in materia di parchi naturali Marcora affida quindi la redazione del progetto di legge a un gruppo di lavoro costituito da funzionari ministeriali e da esperti delle principali associazioni ambientaliste nazionali. Il risultato è un testo che, con i suoi 39 densi articoli, è di gran lunga più ampio e dettagliato di tutti quelli presentati fino a quel momento e raccoglie molti degli elementi più sofisticati dell’elaborazione sui parchi emersi nell’ultimo decennio. L’aspetto più significativo è tuttavia il riconoscimento attribuito alla funzione delle regioni nella costruzione della politica nazionale delle aree protette. Qualche riferimento al ruolo delle regioni e ai parchi regionali era già comparso in realtà nei progetti di legge quadro ispirati dall’associazionismo già dai primi anni Settanta, ma questa volta un intero titolo, il quarto, è dedicato esplicitamente alle «aree protette istituite dalle Regioni» e, ciò che più conta, l’organismo designato a sovrintendere la politica delle aree protette italiane comprende una solida rappresentanza regionale. Si tratta evidentemente di un tentativo di superare dialetticamente l’impasse tra centralismo e regionalismo, riconoscendo i poteri delle regioni e attribuendo a esse un ruolo nelle scelte nazionali, e allo stesso tempo recependo implicitamente una sentenza della Corte costituzionale in materia di parchi nazionali del 12 luglio 1976 nr. 175, secondo la quale «competenza regionale e competenza statale devono […] coordinarsi tra loro, di guisa che possa realizzarsi un giusto temperamento delle finalità rispettive».

Il biennio 1980-81 segna insomma l’apogeo dello scontro tra centralismo e regionalismo e al tempo stesso l’inizio di una sua potenziale ricomposizione, anche se poi, tra la fine del 1982 e la prima metà del 1987, l’iniziativa governativa e parlamentare si spegne del tutto e l’iter della legge quadro torna praticamente a zero. Solo con l’inizio della decima legislatura, infatti, e con l’ingresso nelle aule parlamentari del gruppo ambientalista, la questione della legge quadro viene risollevata con rinnovata passione, tanto che tra la metà del 1987 e la metà del 1991 vengono presentati ben cinque progetti di legge, l’ultimo dei quali è costituito da un testo unificato. Così, il grande slancio della decima legislatura non è più sotto il segno del conflitto Stato-regioni, ma riprende e amplia – in un’atmosfera complessivamente concorde, nonostante scontri anche aspri su aspetti accessori – l’ispirazione del decreto Marcora, corroborato in questa sede anche da importanti pronunciamenti della Corte costituzionale: a fare da punto di riferimento a tutta l’iniziativa parlamentare, in ogni caso costantemente sostenuta dal ministro socialista dell’Ambiente Giorgio Ruffolo, è infatti il testo presentato nel novembre 1987 da una quarantina di deputati di vari schieramenti, primo firmatario Ceruti del Gruppo verde, ma elaborato da un ristretto gruppo di ambientalisti tra cui Cassola, Cederna, Mario Fazio (1925-2004), Pedrotti, Pratesi e Tassi. Stavolta il riconoscimento delle autonomie locali è più ampio che in passato: nell’organismo nazionale di supervisione sono comprese sia le regioni sia i comuni, per i parchi nazionali viene proposta una Comunità del parco composta in gran parte da eletti locali, il potere legislativo regionale viene riconosciuto in modo ancor più circostanziato. L’iter parlamentare, tuttavia, sarà ancora piuttosto lento e contrastato e passerà per diverse riscritture destinate, tra l’altro, ad ampliare il riconoscimento della potestà delle autonomie locali e il loro potere consultivo, anche per quanto riguarda le aree protette statali.

Il secondo elemento che contribuisce a ridurre e incanalare la frammentarietà e l’incoerenza delle iniziative regionali è costituito, nel maggio 1989, dalla creazione del Coordinamento nazionale dei parchi e delle riserve regionali. Esso nasce per iniziativa di un ristretto numero dirigenti di parchi regionali, quello toscano di Migliarino-San Rossore-Massacciuccoli, quelli piemontesi dell’Alta Valle Pesio e della Mandria e quello lombardo del Ticino, e persegue un duplice obiettivo: da un lato, creare un luogo di confronto culturale tra amministratori, tecnici e politici che si occupano di aree protette all’interno delle regioni e, dall’altro, creare un organismo capace di far pesare a livello nazionale le posizioni e le istanze dello schieramento regionalista. L’iniziativa incontra un immediato successo: nel giro di poco più di un anno aderiscono al Coordinamento 40 parchi regionali su 80 più diverse riserve e amministrazioni provinciali e al tempo stesso viene lanciata una rivista mensile, «Parchi», che si segnala da subito per vivacità, ampiezza di prospettive e qualità dell’approfondimento.

Alla rivista faranno seguito altre iniziative di riflessione e di ricerca come la fondazione del Centro studi Valerio Giacomini, operante per alcuni anni dopo il 1997 a Gargnano, nel Parco Alto Garda Bresciano, con il sostegno della Regione Lombardia. Il Coordinamento, la rivista e il Centro, come altre iniziative analoghe, contribuiscono a potenziare il lavoro degli enti locali in favore delle aree protette, a raffinarlo ma anche a dargli coerenza, visibilità e incisività a livello nazionale. Alla fine degli anni Novanta, le esperienze maturate e il prestigio acquisito nel frattempo permetteranno al Coordinamento, con la nuova e più adeguata denominazione di Federparchi, di divenire il punto di riferimento principale di tutte le aree protette italiane, comprese quelle statali.

Il Coordinamento riesce tra l’altro, a partire dalla metà del 1990, a rivestire un significativo ruolo di supplenza rispetto all’iniziativa delle regioni nel dibattito parlamentare sulla legge quadro. Mentre le seconde continuano infatti a procedere in ordine sparso e senza linee guida approfondite, il Coordinamento dà voce in modo organico e competente, sia in sede istituzionale sia presso la stampa e l’opinione pubblica, alle esigenze non solo delle aree protette, ma anche delle regioni e degli enti locali in generale. È soprattutto grazie al Coordinamento che il comitato ristretto della Commissione ambiente della Camera chiamato a redigere il testo unificato della legge quadro recepisce alcune indicazioni e richieste delle autonomie locali. Tra il 1990 e il 1991, tuttavia, si tratta ormai di schermaglie su questioni delicate, ma relativamente marginali riguardanti soprattutto la possibilità di mantenere i consorzi di gestione, il fatto che lo Stato non possa istituire parchi nazionali su parchi regionali preesistenti, ovvero la possibilità che finanzi anche le aree protette delle autonomie locali, e così via. L’impianto della legge, largamente tributario della proposta Marcora del 1980, viene ormai ritenuto un compromesso che, pur non soddisfacendo pienamente nessuna delle forze in campo, appare comunque largamente accettabile, tanto più che una legge cornice non pare più rinviabile e sembra al tempo stesso finalmente a portata di mano.

Con l’approvazione della l. 394 del 1991 si apre in effetti una nuova stagione per le aree protette italiane, in quanto la normativa assimila sostanzialmente i parchi e le riserve dello Stato e quelle delle regioni e degli altri enti locali, assoggetta tutti ai medesimi principi di fondo, chiama le autonomie locali a un’ampia partecipazione nella gestione dei parchi nazionali e soprattutto immagina un sistema organico delle aree protette italiane fondato sul principio di leale collaborazione tra i vari livelli istituzionali. Qualche residua coda della dialettica centralismo-regionalismo persisterà qui e là negli anni a venire, rinfocolata ora da un ritorno di visioni eccessivamente centraliste, ora dagli effetti della vague culturale federalista, ma il mondo delle aree protette trova con la legge un equilibrio piuttosto avanzato e sostanzialmente condiviso, che costringe alcune regioni a uno sforzo di adeguamento al nuovo contesto, mentre induce altre a un vero e proprio avvio, cioè a partire da zero.

Espansione, tentativo di sistemazione e primi sintomi di crisi

Per concorde volontà di coloro che l’hanno voluta, progettata e quindi approvata, la legge 394 ha come principale obiettivo la creazione di un coerente sistema nazionale di aree di protette. Parchi e riserve, come si è appena accennato, devono condividere finalità comuni, avere alcuni principi di funzionamento condivisi, fare riferimento ad alcuni strumenti nazionali di coordinamento, come il Comitato e la Consulta tecnica per le aree naturali protette, il programma triennale e la Carta della natura. Uno specifico articolo prescrive infine che le normative regionali vengano adeguate alle disposizioni della stessa legge.

Se a oltre vent’anni di distanza dall’approvazione della legge quadro non si può non constatare come tutti gli strumenti di coordinamento in essa contenuti siano rimasti inattuati o, peggio ancora, siano stati via via abbandonati, è altrettanto vero che nel corso degli anni Novanta l’impulso da essa dato all’espansione e alla riqualificazione delle aree protette italiane è stato innegabile, sia a livello statale sia a livello regionale. Le regioni e le province autonome che si erano già dotate di leggi quadro approfittano infatti dell’obbligo di adeguamento per riformularle e renderle più coerenti, in prima fila Piemonte ed Emilia-Romagna già nel corso del 1992, mentre altre ne approfittano per dotarsene per la prima volta, in modo tale che entro il 2004 tutte le regioni dispongono di una legge generale rispondente ai requisiti della 394. In alcuni di questi casi, come quelli del Friuli Venezia Giulia, del Molise e della Campania, l’emanazione della legge costituisce anche l’occasione per creare i primi parchi regionali.

La legge quadro, con la previsione di sette nuovi parchi nazionali che si aggiungono ai sei già istituiti nel biennio 1988-89, contribuisce inoltre in modo formidabile all’ampliamento del numero delle aree protette italiane e della superficie territoriale da esse tutelata. Grazie a essa, e più in generale allo slancio impresso dall’ondata ambientalista diffusa nei consigli regionali nel 1985 e in Parlamento nel 1987, gli anni della decima legislatura repubblicana si configurano come una sorta di età dell’oro delle aree protette italiane. Se si prendono in considerazione infatti – con tutto quanto di arbitrario ciò può comportare – le nuove superfici che vengono protette durante il quinquennio 1988-92 e le si confrontano con quelle dell’epoca dei parchi nazionali storici (1922-70), con quelle della stagione delle riserve statali e della prima iniziativa regionale (1971-87) e infine con quelle dell’epoca successiva, che si potrà definire dell’assestamento (1993-2012), si hanno per approssimazione i dati espressi nella tabella.

In una temperie che vede risvegliarsi, per la prima volta da oltre mezzo secolo, un protagonismo del Parlamento e del governo nazionale, capaci peraltro di realizzazioni straordinarie sia in termini di quantità sia di qualità, il ruolo delle regioni resta centrale e la loro iniziativa si espande ulteriormente. Grazie all’obbligo di adeguamento richiesto dalla l. 394 del 1991 dieci regioni si dotano infatti per la prima volta di una legge quadro sulle aree protette, sei istituiscono le loro prime riserve e alcune di quelle già da tempo impegnate si rimettono in movimento: nel quinquennio considerato il Piemonte istituisce infatti ben 33 riserve, la Lombardia 22, l’Emilia-Romagna 10 e il Lazio 7. Le regioni nel loro complesso si segnalano inoltre – e questo è un elemento di grande rilievo – per una generosità finanziaria decisamente maggiore rispetto a quella dello Stato, nonostante la superficie protetta sia all’incirca la stessa. Alla fine del processo di assestamento che si sta descrivendo, cioè in anni più recenti, le regioni impiegano oltre il triplo del personale e riservano a parchi e riserve il quadruplo degli stanziamenti, fenomeno dovuto certamente alla molto maggiore frammentazione delle aree protette regionali, ma anche al cronico sottofinanziamento dei parchi nazionali (spesa per ettaro del 40% inferiore alla media europea).

Di questo dinamismo fanno anche parte alcune iniziative di tipo nuovo, che riprendono su scala tematica o spaziale l’ispirazione sistemica della legge quadro e nelle quali alcune regioni sono attive promotrici. È il caso, per fare gli esempi più noti, dell’iniziativa APE-Appennino parco d’Europa, lanciata nel 1995 da Ministero dell’Ambiente, Regione Abruzzo e Legambiente prendendo ispirazione dal precedente progetto ARVE-Appennino regione verde d’Europa, al quale aderiranno due anni dopo anche Lazio, Marche, Toscana e Umbria e successivamente altre nove regioni appenniniche.

Tabella 1 Superfici delle aree protette

In questo caso il tentativo è quello di concordare e applicare una visione del turismo naturalistico come ricerca di valori, basato sul recupero in chiave moderna delle attività tradizionali svolte nelle aree protette e su un’organizzazione dell’offerta reticolare, tecnologicamente avanzata e ambientalmente sostenibile. Di carattere diverso, ma di analoga ispirazione sistemica sarà quindi, a partire dal 1999, il progetto CIP-Coste italiane protette, avviato dal Parco regionale del Conero, dalla Regione Marche e da Federparchi con lo scopo di mettere in rete le aree protette costiere. Gli anni Novanta appaiono quindi come un decennio di ulteriore evoluzione e di forte crescita per i parchi italiani, un periodo in cui si afferma – quanto meno a livello programmatico – una logica sistemica, le regioni vedono confermato il proprio ruolo storico e la propria importanza e Federparchi si afferma oltretutto come l’organizzazione leader di tutte le aree protette.

In questo stesso decennio, tuttavia, e sin dall’inizio, si manifestano anche i germi di un rallentamento e persino di una regressione. Ciò che anzi si può dire a vent’anni di distanza è che l’approvazione della legge quadro non costituisce un promettente avvio, bensì il punto più alto di una parabola, un punto che prelude a un declino. Come hanno anzitutto osservato in più occasioni diversi protagonisti, se la legge quadro non fosse stata approvata proprio nello scorcio della decima legislatura il suo futuro non sarebbe stato più così sicuro. Questa osservazione coglie un elemento generale sicuramente importante, cioè il fatto che i primi anni Novanta segnano in Italia l’inizio di un affievolimento della popolarità dell’ecologia politica. Le associazioni ambientaliste restano forti e influenti, per qualche anno la rappresentanza parlamentare rimane consistente, ma l’inedito interesse e l’empatia di tanta parte dell’opinione pubblica per le questioni ambientali manifestatesi negli anni Ottanta iniziano lentamente a svaporare. A livello analitico, è però forse più importante osservare che i mesi stessi in cui viene approvata la legge quadro e quelli immediatamente successivi sono anche quelli dell’agonia e della repentina fine della prima repubblica e del profilarsi della seconda, con le radicali modificazioni che tutto ciò comporta in campo politico, istituzionale e culturale.

Negli ultimi tre lustri di quella che si usa definire convenzionalmente ‘prima repubblica’, il conflitto politico tra le due principali forze politiche si svolgeva nell’alveo del comune riconoscimento dei valori costituzionali e di un consolidato savoir-faire istituzionale, che sconfinava a tratti nel consociativismo. La storia politica dei grandi partiti costituzionali faceva inoltre in modo che ciascuno di essi contenesse al proprio interno istanze contraddittorie e persino conflittuali, circostanza che paradossalmente facilitasse il dialogo e l’accordo a livello istituzionale. Si è visto quanto la sinistra democristiana lombarda della corrente di base abbia dato alla storia delle aree protette sia a livello regionale sia a livello nazionale; sono in molti a ricordare come la politica delle aree protette piemontesi sia stata sempre realizzata con spirito unitario e proprio per questo non abbia mostrato alcuna discontinuità nella transizione dalle giunte di centro-sinistra a quelle di sinistra, a metà degli anni Settanta; la medesima concordia tra parlamentari di centro e di sinistra si ritrova nell’iter della legge quadro durante la decima legislatura, nella quale hanno giocato un ruolo significativo esponenti democristiani come Piero Angelini e Franco Ciliberti.

Lo scenario che si presenta a partire dalla dodicesima legislatura, cioè dalle elezioni del marzo 1994, è invece profondamente diverso. Dei tre partiti che sette anni prima hanno totalizzato i tre quarti del consenso popolare o non rimane neanche il nome, ed è il caso del PCI e della DC, oppure rimane un consenso di un paio di punti percentuali che non permette nemmeno la conquista di un parlamentare, ed è il caso del Partito socialista italiano (PSI). La legge maggioritaria, adottata per la prima volta in ottica bipolare per favorire la governabilità, fa oltretutto quasi scomparire la rappresentanza parlamentare di centro, che per quasi mezzo secolo ha dominato la scena politica italiana e quella che si profila è una maggioranza che, a eccezione di Alleanza nazionale (AN), erede del Movimento sociale italiano (MSI), non ha sostanzialmente radici né nei partiti della prima repubblica, né nelle loro culture politiche ufficiali. In questa nuova maggioranza le questioni ambientali non hanno pressoché diritto di cittadinanza: il MSI non ha mai mostrato interesse per esse e non è stato protagonista, né a livello regionale né a livello nazionale, della politica delle aree protette; Forza Italia (FI) ha un impianto culturale schiettamente neoliberista, di derivazione anglosassone, alieno quindi da ogni sollecitudine patrimonialista; la Lega esprime infine soprattutto subculture locali intrise di individualismo proprietario, che confliggono in modo esplicito con le visioni sociali e pubbliche della tutela ambientale. Grazie al controllo della scena mediatica, il nuovo presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, riesce inoltre a imporre all’opinione pubblica e anche a molti dei suoi avversari una sua versione radicalizzata e fortemente semplificata della cultura neoliberista che dai primi anni Ottanta ha sconfitto e soppiantato valori e obiettivi del progressismo keynesiano in quasi tutti i Paesi industrializzati. In questo modo viene rapidamente meno il terreno condiviso che era stato alla base degli sforzi di costruzione di un sistema italiano delle aree protette, a partire dalle culture della democrazia diffusa, dei beni pubblici e del piano.

Questi mutamenti, che hanno luogo in modo piuttosto repentino nella prima metà degli anni Novanta, non si riflettono immediatamente sulle politiche dei parchi o sull’applicazione della legge quadro, tanto più che la nuova configurazione del contesto politico porta per la prima volta al governo maggioranze progressiste in regioni che erano state sempre o quasi sempre dominate dalla DC, come l’Abruzzo, la Basilicata e la Liguria. La tempistica e la qualità dell’adeguamento delle regioni alla legge quadro dipende spesso dai tipi di maggioranza politica e si ricreano anche per questo motivo le storiche divaricazioni che hanno contraddistinto sin dall’inizio le politiche dei parchi; ma a ciò si aggiunge il fatto che molto presto a livello centrale si rinuncia a esercitare il ruolo di coordinamento e di stimolo che la normativa attribuiva all’iniziativa ministeriale. Già a metà degli anni Novanta, per es., nonostante le denunzie di molti osservatori, inizia lo smantellamento di fatto delle parti più strategiche della legge quadro, abolendo oppure non rendendo neanche operativi strumenti come il Comitato, la Consulta e la Segreteria tecnica per le aree naturali protette e la Carta della natura. La sfida della legge quadro, voluta e accolta dalle associazioni ambientaliste, da una parte del mondo politico, dalle rappresentanze dei parchi e dalle regioni tradizionalmente più attive, si inizia infine a perdere proprio in questo lasso di tempo, nel quale invece lo slancio del periodo precedente sembrerebbe ancora integro.

Su questo quadro, già di per sé impaludato e in perdita di coerenza, si abbatte a partire dal 2008 la crisi economica globale. Essa viene gestita sin dall’inizio da una maggioranza costituita – come si è accennato – da formazioni politiche che sono del tutto estranee, o addirittura apertamente ostili, alle aree protette e ai loro valori e che utilizzano la crisi stessa, al pari di quanto avviene in molti altri Paesi, come occasione per legittimare e ampliare ulteriormente l’operazione di smantellamento delle politiche pubbliche. Nella sedicesima legislatura si assiste così, per la prima volta nella storia d’Italia repubblicana, ad attacchi di un ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare alle aree protette in quanto tali e addirittura a proposte, da parte di un altro ministro, di smantellamento di tutti i parchi regionali, in un contesto in cui il governo ha rinunciato da tempo e del tutto a qualsiasi ruolo attivo nella politica delle aree protette, e anche gli stanziamenti regionali e nazionali si riducono progressivamente e in misura drammatica.

In questa occasione, tuttavia, le regioni non sembrano svolgere più il loro ruolo storico di sperimentazione, di innovazione e di stimolo, ma subiscono piuttosto rassegnatamente il clima di dismissione, quando addirittura non si adeguano in modo convinto. In questo senso sembrano andare le modifiche delle legislazioni regionali proposte o apportate negli ultimissimi anni in molte regioni, con l’unica eccezione realmente rimarchevole, a quanto pare, costituita dall’amministrazione da cui tutto, alla metà degli anni Sessanta, partì, cioè la Provincia di Trento. Colpiscono in particolare provvedimenti come quelli che tendono, un po’ ovunque, ad accorpare gli enti di gestione dei parchi regionali proprio mentre alle regioni sta per essere affidata la gestione di un ulteriore 10% del territorio nazionale protetto attraverso i siti Natura 2000. Paradossalmente, dunque, nel momento in cui si apprestano a gestire in maniera protetta il 15% del territorio italiano, contro il 5% dello Stato, le regioni pensano di ridurre, se non di eliminare, gli enti di gestione.

Uno scenario emergenziale e un protagonismo regionale ormai appannato

Volendo riassumere questa rapida carrellata sulle politiche regionali delle aree protette e sul ruolo svolto dalle regioni nel plasmare la politica nazionale del settore, si potrebbe concludere che l’Italia – recuperando un ritardo di decenni – è arrivata nei primi anni Novanta alla soglia di una grande svolta, grazie all’approvazione di una legge quadro molto avanzata anche in termini di standard europei. Le regioni hanno dato un contributo determinante e sofisticato alla costruzione di questa legge, sia con le loro elaborazioni teoriche e giuridiche, sia con le loro sperimentazioni concrete, e sono state protagoniste di primo piano dell’iter legislativo. La svolta sistemica prevista dalla legge si è verificata però soltanto in parte e se ne sono anzi persi presto per strada gli elementi strategici, rendendo i parchi italiani più fragili e l’iniziativa delle stesse regioni più difficile e meno qualificata. Pur entro un orizzonte di realizzazioni, nazionali e regionali, che in termini quantitativi e qualitativi non sfigura a livello internazionale, le aree protette italiane finiscono attualmente per lottare in buona sostanza per la propria sopravvivenza.

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