REGOLAMENTAZIONE

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1994)

REGOLAMENTAZIONE

Pierluigi Sabbatini

Economia e finanza. - Con il termine ''regolamentazione'' generalmente s'intende un intervento pubblico di carattere amministrativo, realizzato da un ente all'uopo preposto e volto a condizionare i meccanismi spontanei del mercato. Pertanto, nell'ambito dei possibili interventi statali, la r. si colloca in una zona intermedia tra il controllo indiretto effettuato, per es., tramite tasse e incentivi e il controllo diretto riconducibile alla proprietà pubblica delle unità produttive (nazionalizzazione). Nell'ambito della r. ricadrebbero invece gli interventi, orientati alla difesa della concorrenza, che prendono nome di attività antitrust (v. concorrenza, in questa Appendice), ma tale inclusione non è unanimemente accettata.

È stato obiettato che la disciplina della concorrenza ha una valenza solo negativa e non positiva: vieta cioè le pratiche collusive o alcune concentrazioni ma non impone, com'è tipico di un intervento regolamentativo, comportamenti agli operatori del mercato. Tale affermazione non sembra del tutto convincente sul piano fattuale, laddove le decisioni delle varie autorità antitrust hanno spesso riguardato anche criteri di determinazione dei prezzi e di utilizzo dei vari fattori della produzione. Una seconda obiezione tende a sottolineare le finalità perseguite dai regolamentatori, generalmente individuate nell'annullamento del meccanismo di mercato, cui non potrebbero essere ricondotti gli obiettivi di fondo a favore della competitività perseguiti dalle autorità antitrust. Anche tale distinzione sembra trascurare che in varia misura tutti gli interventi sul mercato comportano un effetto sui meccanismi di allocazione delle risorse e che le stesse ragioni per le quali è auspicabile dal punto di vista concorrenziale un intervento antitrust possono legittimare altre forme di regolamentazione. La r., come anche la politica per la concorrenza, implica, per usare la distinzione introdotta da I. Berlin (1969), una riduzione della libertà negativa a favore della libertà positiva, che nel caso specifico viene a essere identificata con il benessere collettivo: l'economia del benessere rappresenta il comune punto di riferimento sia della politica della concorrenza sia delle altre forme di regolamentazione.

La definizione qui adottata comporta che una forma d'intervento pubblico, assai diffusa nei paesi europei, riconducibile all'attività delle imprese nazionalizzate o comunque possedute dallo stato, ricada al di fuori del concetto di regolamentazione. Il ricorso alla proprietà pubblica delle imprese rappresenta un controllo privo di regole prefissate, e anzi quest'aspetto, in un contesto pluriperiodale e caratterizzato da condizioni d'incertezza, può costituirne la giustificazione. Pertanto sembrerebbe inopportuno, anche per un rispetto lessicale, parlare di r. senza regole. Inoltre, le finalità perseguite con la proprietà pubblica delle imprese sono generalmente diverse da quelle sottese agli interventi di regolamentazione.

Ragioni della regolamentazione. - La r. è stata spiegata sulla base di due principali teorie: la teoria dell'interesse pubblico e quella della cattura. Ambedue queste concettualizzazioni sono nate nell'ambito delle dottrine politiche e sono state successivamente sviluppate con un bagaglio analitico più propriamente economico. Pur se vengono presentate generalmente come teorie alternative, non sembra improprio evidenziarne gli elementi di complementarità.

La teoria dell'interesse pubblico si basa sulla constatazione che i meccanismi di mercato sono soggetti ad alcuni fallimenti (market failure) e che pertanto un intervento pubblico di natura regolamentativa può consentire l'ottenimento di risultati che le libere forze del mercato non potrebbero raggiungere. La teoria dell'interesse pubblico si basa dunque sui seguenti presupposti: a) la presenza di fallimenti del mercato; b) la maggiore capacità dell'intervento regolamentativo di porre rimedio a tali fallimenti rispetto ad altri tipi di interventi, privati o pubblici che siano.

Il primo ordine di fallimenti del mercato individuati da questa teoria riguarda il monopolio naturale, cioè quando sono presenti economie di scala o, più precisamente, condizioni di subadditività dei costi: in tale contesto la determinazione del prezzo non potrà in generale avvenire sulla base del costo marginale, criterio che assicura il conseguimento del massimo benessere sociale possibile. In tale categoria rientrano tipicamente la maggior parte dei servizi pubblici quali l'elettricità, l'acqua, il gas, i trasporti ferroviari, le telecomunicazioni. Tale forma di r. ha costituito storicamente la prima e principale area d'intervento pubblico. L'intervento della r. si giustifica anche nei casi in cui il monopolio naturale non sia sostenibile, cioè una parte della produzione può essere prodotta a costi inferiori rispetto a quelli in cui incorre il monopolista quando copre tutto il fabbisogno del mercato: ciò determina situazioni di concorrenza distruttrice (cream skimming). In questi contesti la r. delle condizioni di entrata sul mercato serve a conseguire un più efficiente utilizzo delle risorse. Un secondo tipo di fallimenti del mercato deriva dall'incompletezza delle informazioni. In tale contesto l'esito dei meccanismi di mercato determina inefficienze che si traducono in una sottoccupazione delle risorse, o nella loro non efficiente allocazione. Un'area tipicamente caratterizzata da queste problematiche è quella dei servizi finanziario-assicurativi, che in quasi tutti i paesi è stata assoggettata a regolamentazione. Connessa a tale tipo di tematiche è la r. relativa ai cosiddetti beni di merito. Con tale termine s'intendono i beni o servizi, come per es. l'istruzione, utili per il consumatore ma che lo stesso non percepisce come tali. Una terza tipologia di fallimenti del mercato deriva da quelle che sono state chiamate esternalità: effetti su terzi causati dalla produzione o lo scambio di beni tra agenti economici. Ricadono in questa categoria, per es., i danni all'ambiente. In tali circostanze il meccanismo di mercato lasciato a se stesso non consente di tener conto di tutti gli effetti di un'azione economica e porterà a risultati inefficienti. Altro fattore che induce interventi regolamentativi è l'esistenza di beni pubblici. Con tale termine ci si riferisce ai beni o servizi la cui fruizione non può essere delimitata. In questo campo generalmente l'intervento pubblico è diretto (giustizia, difesa, ecc.), ma esso può anche essere svolto da imprese private sottoposte a r. (per es., messa in opera e manutenzione delle strade, funzionamento del sistema dei pagamenti).

La seconda teoria, che ha visto la luce negli anni Sessanta, è la cosiddetta teoria della cattura che interpreta la r. come frutto di interessi particolari che da essa risultano favoriti. Tale teoria, sorta in contrapposizione alla precedente, parte dalla constatazione che i settori dov'è maggiormente presente la r. non sempre sono caratterizzati dai fallimenti del mercato sopra ricordati: in tali circostanze la r. sembra volta a favorire alcune categorie di imprese, o lavoratori, a scapito di altre. Tali considerazioni, di natura prevalentemente politica, devono la loro celebrità a un articolo (Stigler 1971) che reinterpreta tali meccanismi sulla base di tradizionali schemi analitici propri dell'economia: vengono elencati i vantaggi che possono derivare al settore economico regolamentato (barriere all'entrata, prezzi minimi, attenuazione della concorrenza di prodotti o servizi sostitutivi, ecc.) e i costi che devono essere affrontati per propiziare l'adozione della misura regolamentativa. In tale contesto, i meccanismi della politica vengono interpretati come mero frutto di scelte razionali degli operatori economici, tra i quali devono essere ricompresi anche i partiti politici. La teoria della cattura ha dato origine a un filone di ricerca, sviluppatosi di recente, che analizza i rapporti tra decisione politica, scelta amministrativa e condotta d'impresa.

Sono di tutta evidenza gli elementi di contrasto tra le due teorie summenzionate; in particolare, nella seconda la r. perde il suo connotato virtuoso. Peraltro, tra di esse si possono individuare alcune complementarità. La teoria dell'interesse pubblico al suo stadio puro è carente nello spiegare i meccanismi politici che portano all'imposizione e all'attuazione di un meccanismo regolamentativo. La teoria della cattura fornisce spiegazioni su questi aspetti, nella misura in cui individua i gruppi d'interesse che si avvantaggiano degli effetti redistributivi che ogni forma di r. inevitabilmente arreca. D'altro canto, la teoria della cattura, nella sua forma pura, implica un sistema democratico assai peculiare dove lobbies particolari impongono direttamente i propri interessi. Invece una lobby riesce a ottenere leggi o interventi regolamentativi a essa favorevoli solo se questi possono essere presentati come soluzione di problemi generali. La teoria della cattura, priva del supporto della teoria dell'interesse pubblico, darebbe del processo decisionale politico o amministrativo, quale che sia lo specifico assetto istituzionale, una descrizione troppo brutale e probabilmente irrealistica.

Principali forme della regolamentazione. - La r. è stata caratterizzata da diversi connotati che possono essere sintetizzati in: controllo dei prezzi e delle condizioni di entrata (r. economica), controllo delle condizioni di lavoro e dell'ambiente (r. sociale), controllo della concorrenza (antitrust). Il controllo dei prezzi, pur se utilizzato in molteplici occasioni, trova una giustificazione economica soprattutto nei casi di monopolio naturale. Il fine è quello di mimare l'esito della concorrenza individuando quei prezzi che massimizzano il benessere collettivo. Il problema presenta notevoli complessità in quanto di solito l'impresa regolamentata produce numerosi beni e servizi tra i quali occorre ripartire i costi comuni.

Seguendo l'approccio di F. Ramsey (1927), la determinazione ottimale dei prezzi è quella che associa i maggiori sovrapprofitti ai segmenti di domanda caratterizzati da una minore elasticità: questo principio può essere applicato sia a un'impresa multiprodotto in relazione a beni caratterizzati da differenti elasticità della domanda sia a un'impresa monoprodotto, quando è possibile discriminare tra diverse categorie di utenti. A. de Viti de Marco (1939) si basa sullo stesso principio per mettere in evidenza una regolarità storica: quando un servizio − per es. quello ferroviario − viene introdotto, le spese iniziali sono talmente elevate che un sistema tariffario basato sulle diverse elasticità delle domande degli utenti è indispensabile per coprire i costi produttivi. Successivamente, con la crescita della domanda e con l'attenuarsi delle economie di scala, la tariffazione si semplifica avvicinandosi al prezzo unico.

Sul piano pratico gli enti preposti alla r. procedono nel modo seguente: individuano i costi dell'azienda, aggiungono ad essi i profitti, calcolati sulla base di una prefissata proporzione con il capitale, e determinano infine la struttura dei prezzi tra i diversi beni prodotti dall'impresa assoggettata a regolamentazione. In tal modo il controllo è esercitato sul tasso di profitto. Oltre ai diversi problemi pratici connessi con l'esatta individuazione dei costi (e degli ammortamenti) da parte del regolamentatore, questo metodo ha il serio inconveniente che elimina gli incentivi a produrre nel modo più efficiente: l'impresa non beneficia infatti dei miglioramenti di produttività se non grazie ai ritardi con cui la r. viene attuata. Un diverso metodo, che di recente ha avuto una notevole diffusione in Inghilterra, è quello del cosiddetto price cap. Esso consiste nello stabilire una struttura iniziale dei prezzi e successivamente riconoscere all'impresa aumenti dei prezzi in linea con un indice generale dei prezzi (per es. prezzi al consumo) meno una componente dovuta agli aumenti di produttività: giacché tale componente è stabilita ex ante, gli ulteriori miglioramenti di produttività vanno a vantaggio dell'impresa.

Il controllo delle condizioni di entrata viene attuato con modalità variabili in funzione delle finalità che l'ispirano. Quando il problema da risolvere è connesso con l'instabilità di un monopolio naturale, il controllo all'entrata è assai rigido e consiste nel mero divieto all'operare per imprese diverse da quella monopolista. Laddove il problema da risolvere è principalmente di natura informativa o è dovuto a esternalità, il controllo all'entrata si riduce all'imposizione di standard qualitativi − a volte anche prezzi minimi − che devono essere adottati dalle imprese che decidono di operare sul mercato. Questo tipo di controllo riguarda diffusamente i mercati finanziari e assicurativi nonché le attività professionali, commerciali, ecc. In generale queste attività, non essendo caratterizzate da rilevanti economie di scala, possono essere svolte in condizioni di concorrenza: i controlli all'entrata, ostacolando l'ingresso di nuovi operatori, possono mettere a repentaglio tale concorrenza. Si determina pertanto una contrapposizione tra diverse esigenze regolamentative quali quella di sopperire a carenze informative e quella di garantire la concorrenza, con ciò che da essa deriva in termini di efficienza e di livello dei prezzi.

Analoghe motivazioni regolamentative hanno portato alla verifica preventiva degli standard di sicurezza per alcuni tipi di prodotti quali, per es., quelli farmaceutici. Evidentemente ciò induce un rallentamento dell'attività d'innovazione oltre che una lievitazione dei costi in conseguenza delle verifiche richieste dall'agenzia regolamentatrice. In alcuni casi è stato ritenuto che alla scelta di standard qualitativi obbligatori fosse da preferire una maggiore diffusione delle informazioni lasciando al consumatore la scelta tra qualità e prezzo.

Costi di transazione ed esigenza di tutela delle parti più deboli hanno portato alla r. delle condizioni di lavoro (normativa antinfortunistica) che si traduce nell'imposizione di standard di sicurezza nonché nell'obbligo di una copertura assicurativa, di solito fornita da apposite agenzie pubbliche. Esternalità di varia natura portano alla r. delle attività che hanno un impatto ambientale. Questo tipo di r., che si è sviluppato soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, è teso a quantificare i costi ambientali e a stabilire i criteri con cui questi devono essere ripartiti tra gli agenti economici che li hanno causati.

Il controllo della concorrenza si realizza lungo tre principali direttrici: il controllo delle acquisizioni, dei comportamenti delle imprese in posizione dominante e delle intese tra imprese. Con il primo tipo di interventi s'intende evitare la costituzione di una posizione dominante ottenuta tramite l'acquisizione di imprese: pertanto la politica della concorrenza non impedisce la costituzione di una posizione di monopolio qualora questa sia conseguita tramite la crescita interna dell'impresa. Il controllo dei comportamenti delle imprese in posizione dominante cerca invece di minimizzare gli effetti negativi dei monopoli già costituiti e, soprattutto, d'impedire che si estendano ad altri mercati. Il controllo delle intese è rivolto a contesti oligopolistici per i quali si vuole impedire l'instaurarsi di comportamenti collusivi.

Critiche alla regolamentazione. - Nel corso degli anni Settanta e soprattutto Ottanta si è sviluppato un filone critico della r. che in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, si è riflesso in un minore intervento pubblico (deregolamentazione) e in orientamenti più permissivi da parte delle autorità antitrust. Non è difficile scorgere in tali correnti l'influenza delle sottostanti condizioni economiche. Il processo inflazionistico degli anni Settanta e la rapidità, e soprattutto la natura, del progresso tecnico degli anni Ottanta hanno reso più difficile il compito della r., necessitando essa di adeguamenti sempre più rapidi e ampi. Alle mutate condizioni economiche hanno fatto riscontro correnti di pensiero favorevoli a un minore intervento dello stato nell'economia.

Le critiche rivolte alla r. sono state sostanzialmente di due tipi: la prima è una critica alla teoria positiva della r., la seconda a quella normativa. Sul primo versante la teoria della cattura ha cercato di sostituire la teoria dell'interesse pubblico come spiegazione delle effettive cause della regolamentazione. Sul secondo versante la logica stessa della teoria dell'interesse pubblico è stata fortemente messa in discussione sulla base di diverse argomentazioni. In primo luogo si è osservato (approccio del cosiddetto second best) che intervenire sulle imperfezioni del mercato in un settore specifico può condurre a esiti controproducenti se negli altri settori non prevalgono condizioni concorrenziali. H. Demsetz (1968) ha inoltre fatto presente che la concorrenza nel mercato può essere efficacemente sostituita dalla concorrenza per il mercato. Casi di monopolio naturale non devono pertanto essere affrontati con la r. bensì con meccanismi d'asta ed eventualmente con sussidi. La teoria dei mercati contendibili, che rappresenta una generalizzazione di questo approccio, sostiene che la concorrenza potenziale esercitata da imprese esterne al mercato, quando questo non è protetto da barriere all'entrata o all'uscita, può condizionare i comportamenti delle imprese operanti su tale mercato, facendo prevalere spontaneamente una struttura dei prezzi che massimizza il benessere sociale. Tali teorie sono ben note in Italia, essendo state avanzate già negli anni Trenta da E. Barone.

Su di un piano più fattuale è stato poi osservato che le agenzie di r. hanno in genere un'informazione assai incompleta − soprattutto in relazione alle funzioni di costo delle imprese − e pertanto non sono in grado di svolgere efficientemente i compiti che vengono loro assegnati. Inoltre, grande notorietà ha avuto l'idea che il meccanismo utilizzato per il controllo dei prezzi, basato sul riconoscimento di un tasso di rendimento ''equo'' sul valore del capitale, porta a eccessivi investimenti in beni capitali, determinando una distorsione nell'utilizzo delle risorse (H. Averch, L. Johnson 1962). Riscontri empirici, condotti in diversi paesi, non sono però unanimi nell'attestare la presenza di tale effetto distorsivo dovuto alla regolamentazione.

È ancora prematuro un primo bilancio del processo di deregolamentazione. Negli Stati Uniti questo ha interessato prevalentemente il settore dei trasporti e, alla luce di analisi preliminari, sembra aver comportato minori costi e miglioramenti nella produttività delle imprese (Winston 1993) mentre più controversi sono gli effetti sulla qualità del servizio. Al fine di favorire la costituzione di un effettivo mercato unico, anche nell'ambito della Comunità europea è stato avviato un intenso programma di deregolamentazione che ha interessato soprattutto i servizi finanziari e assicurativi e i principali servizi di rete (telecomunicazioni, energia, poste).

Regolamentazione in Italia. - Va preliminarmente ricordato che in Italia, come generalmente è avvenuto anche per gli altri paesi europei, l'intervento pubblico sull'economia ha riguardato principalmente le nazionalizzazioni più che la r. di imprese private, e che la r. ha svolto un ruolo di carattere prevalentemente integrativo. Ciò ha determinato una considerevole sovrapposizione di ruoli: per es., la stessa impresa a partecipazione statale, cui inoltre era stata conferita la concessione di un servizio pubblico, era solita fornire anche il supporto tecnico per le scelte di r. realizzate dal ministero competente. Tale assetto, che ha visto privilegiato il momento della partecipazione pubblica alle imprese, è soprattutto frutto della politica di salvataggi la quale, a partire dalla crisi degli anni Trenta, si è protratta senza soluzione di continuità fino agli anni Ottanta. Non va comunque trascurato un diffuso scetticismo, presente in passato in larghi settori dell'opinione pubblica nazionale, sull'efficienza dell'apparato amministrativo nonché sull'effettiva possibilità di successo della regolamentazione. Si veda al riguardo il dibattito degli Amici del Mondo sulla ''Lotta contro i monopoli'' (Scalfari 1955) e la Commissione d'inchiesta della Camera dei deputati sui ''Limiti posti alla concorrenza nel campo economico'' che ha rassegnato le sue conclusioni nel 1965. Tali discussioni hanno fornito il presupposto per la nazionalizzazione dell'industria elettrica e delle telecomunicazioni avvenuta negli anni Sessanta. È interessante notare che laddove è stato messo in atto un intervento sui prezzi, per es. tramite il Comitato Interministeriale dei Prezzi (CIP), questo ha generalmente riguardato settori non in monopolio ed è stato quasi sempre mosso da una finalità prettamente redistributiva piuttosto che regolamentativa. La r. ha assunto un ruolo di rilievo, e di maggiore indipendenza rispetto alle altre forme d'intervento pubblico, soprattutto nei mercati finanziari e assicurativi. Le principali agenzie di r. sono la Banca d'Italia per gli enti creditizi, l'ISVAP (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni Private e di Interesse Collettivo) per le assicurazioni, la Consob (Commissione Nazionale per le Società e la Borsa) per il mercato finanziario.

Negli ultimi anni, in sintonia con un mutamento di opinione rispetto all'intervento diretto nell'economia da parte dello stato e in vista di un ampio processo di privatizzazioni, si è avvertita la necessità di una più precisa definizione dei compiti della r. e si è fatta più pressante l'esigenza di costituire apposite agenzie dotate di un'adeguata capacità tecnica. Nel 1990 è stata varata la normativa antitrust e istituita l'Autorità garante della concorrenza e del mercato. Un'apposita agenzia, cui affidare la r. dei principali servizi pubblici (telecomunicazioni, energia, ecc.), è stata istituita alla fine del 1993. Su tale organo ricadranno alcune delle competenze precedentemente assegnate ai ministeri nonché al CIP, che pertanto è stato abolito.

Bibl.: F. Ramsey, A contribution to the theory of taxation, in Economic Journal (1927), pp. 47-61; E. Barone, Principi di economia politica, Bologna 1936; A. de Viti de Marco, Principi di economia finanziaria, Torino 1939; La lotta contro i monopoli, a cura di E. Scalfari, Bari 1955; H. Averch, L. Johnson, Behavior of the firm under regulatory constraint, in American Economic Review, dicembre 1962, pp. 1052-69; H. Demsetz, Why regulate utilities?, in Journal of Law and Economics, 11 (1968), pp. 55-65; I. Berlin, Four essays on liberty, Oxford 1969 (trad. it., Milano 1989); G.J. Stigler, The theory of economic regulation, in Bell Journal of Economics, 2 (1971), pp. 3-21; A.E. Kahn, The economics of regulation, New York 1971 (nuova ed. Cambridge, Mass., 1988); P.L. Joskow, R.G. Noll, Regulation in theory and practice: an overview, in Studies in public regulation, a cura di G. Fromm, Cambridge (Mass.) 1983; M.A. Utton, The economics of regulating industry, Oxford 1986; M. Waterson, Regulation of the firm and natural monopoly, ivi 1988; D.S. Spulber, Regulation and markets, Cambridge (Mass.) 1989; R. Schmalensee, R. Willig, Handbook of industrial organization, 2 voll., Amsterdam 1989, pp. 1253-1550; Regolamentazione, efficienza, mercato, a cura di A. Pera, Milano 1991; J. Laffont, J. Tirole, A theory of incentives in procurement and regulation, Cambridge (Mass.) 1993; C. Winston, Economic deregulation: Days of reckoning for microeconomist, in Journal of Economic Literature, settembre 1993, pp. 1263-89.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata