GIROLAMI, Remigio de'

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 56 (2001)

GIROLAMI, Remigio de'

Sonia Gentili

Nacque a Firenze da Chiaro in un anno compreso nell'arco del quarto decennio del Duecento.

Dei natali remigiani conosciamo invece piuttosto bene, grazie all'immenso lavoro di E. Panella, l'estrazione socio-economica e i livelli talora complessi del legame che i Girolami seppero esprimere con la vita comunale di Firenze. Dobbiamo concepire la famiglia del G. come una "tipica rappresentante delle rapide fortune del nuovo ceto urbano del secondo Duecento" (Panella, 1982, p. 43), e in particolare del popolo grasso fiorentino, mentre resta priva di riscontro documentario l'affermazione malispiniana (Storia fiorentina, c. 103) per cui "i Girolami […] furono di ceppo e d'armi discesi di messer santo Zenobio che fu vescovo di Fiorenza". La notizia di un'ascendenza nobiliare dei Girolami, che, pur priva di conferme, resistette inerzialmente nella storiografia novecentesca sul Comune di Firenze (N. Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento, Firenze 1974, pp. 38 n. 2, 67, 97 n. 3), deriva plausibilmente da una mitologia sulle proprie origini circolante all'interno della stessa famiglia, forse in conseguenza del fatto che il ramo dei Girolami appartenente al "popolo" di S. Stefano al Ponte esercitava il giuspatronato sulla cappella dedicata a S. Zenobi, sita nel sesto S. Pier Scheraggio.

Il G. appartenne invece ai Girolami del popolo di S. Pancrazio, in maggioranza guelfi di parte bianca, ben radicati nelle strutture politiche e sociali del Comune: il padre del G., forse notaio, risulta due volte membro degli Anziani del primo popolo, nel 1250 e nel 1251.

Rientrava nel solido assetto consortile della famiglia il legame con S. Maria Novella: una reciprocità di rapporti (sostegno economico ricevuto, reclutamento dei frati attuato all'interno di grandi casate) intercorreva tra il convento e le grandi famiglie fiorentine, ivi compresi i Girolami, dai quali il cenobio ricevette due frati nelle persone del G. stesso e del pronipote Biliotto (morto nel 1280) e sostegno economico, anche per lascito testamentario. La partecipazione alla vita cittadina dei Girolami fu attiva e continua nel decennio 1250-60, dominato dal primo popolo di parte guelfa, al cui violento epilogo - lo scontro coi ghibellini a Montaperti (1260) - anch'essi presero parte; rimane incerto il coinvolgimento diretto della famiglia nella serie di interdizioni, esili e condanne pecuniarie inflitte alle maggiori casate guelfe dai ghibellini vittoriosi e per l'ultima volta al potere in Firenze fino alla definitiva loro cacciata operata nel 1266 dalla lega guelfo-angioina. Salvi di Chiaro, fratello del G., fu protagonista delle principali trasformazioni delle istituzioni comunali dell'ultimo quarto del secolo XIII (governo dei Quattordici, priorato delle arti). Cade insomma nell'ultimo ventennio del secolo una nuova parabola d'ascensione sociale dei Girolami, inseriti in questo periodo nelle arti maggiori (Salvi e Lapo di Girolamo nell'arte della lana, Alberto di Leone in quella dei giudici e notai) e negli organi più importanti della vita politica. Con eccezione di pochi Girolami guadagnati alla causa nera - cioè i figli di messer Alberto, Cardinale e Leoncino - lo spazio ottenuto dalla famiglia nella vita comunale fu radicalmente posto in discussione dalla presa di potere del partito dei neri di Corso Donati nel 1301.

Dalla biografia contenuta nella nota obituaria del G. (Orlandi, 1955, ob. 220, p. 35), fondamento di ogni successiva ricostruzione della vita del frate, si ricava che la sua vita religiosa iniziò a Parigi presso il convento domenicano di St-Jacques nel 1267-68, dopo il conseguimento, sempre a Parigi, della licenza in arti. Vestito l'abito domenicano il G. compì gli studi di teologia ed ebbe verosimilmente tra i propri maestri Tommaso d'Aquino: la locuzione "ut magister meus frater Thoma referebat" (De beato Martino, sermo VI, ms. D 1.937, cc. 354ra-355rb - tutti i manoscritti d'ora in poi citati senza menzione del fondo s'intendono collocati nella Biblioteca nazionale di Firenze, Conventi soppressi -; brano in Panella, 1979, p. 192 e 1990, p. 157) sembra implicare un discepolato concreto e diretto; l'ipotesi trova appoggio nel fatto che tra fine 1268 e il 1272 cade il secondo periodo d'insegnamento dell'aquinate presso l'Università parigina.

Non è possibile qui illustrare la pervasiva incidenza dell'opera di Tommaso d'Aquino su quella filosofica e teologica del G.; si ricorda solo, in tal senso, il caso dell'Extractio ordinata per alphabetum (ms. G 3.465, cc. 1ra-186vb; inedita e non meglio databile se non ante 1314-16, periodo di trascrizione dei codici latori dell'opera remigiana), serie alfabetica di lemmi concettuali, ognuno oggetto d'una breve questione, seguita da una Tabula quaestionum (ibid., cc. 187ra-190va; edita in Cavigioli-Imbach, pp. 115-131) organizzata allo stesso modo e corredata da rimandi a loci paralleli remigiani, la quale documenta una "officina" speculativa in cui si ripetono, con sicurezza tecnica anche maggiore, i metodi di lavoro della tomasiana Tabula libri Ethicorum.

Compiuti gli studi teologici a Parigi il G. tornò in Firenze; un suo sermone (In sabbato post Pentecosten,sermo I, ms. D 1.937, cc. 203ra-vb; brano in Panella, 1990, pp. 162 s.), pronunciato per l'occasione, ne testimonia l'ordinamento diaconale o presbiteriale, celebrato dal vescovo di Fiesole Manetto dei Rigaletti dopo il 1275-76. È forse più probabile che il G. ricevesse in questa circostanza il presbiteriato: poiché il diaconato autorizzava a predicare, sembra difficile che, proprio in occasione della cerimonia che a ciò lo abilitava, si affidasse al G. il sermone ufficiale. La nota obituaria lo dice in ogni caso ancora diacono allorché fu nominato, fra il 1274 e il 1276, lettore nel convento fiorentino di S. Maria Novella, in virtù dei suoi meriti scientifici. La registrazione delle nomine dei lettori negli atti dei capitoli dell'Ordine è piuttosto lacunosa: il G. viene menzionato in tali documenti con la qualifica di lector Florentinus non prima del 1293 (capitolo generale di Anagni, Acta capitulorum provincialium provinciae Romanae [ACP], p. 111, r. 31), ma questo suo ruolo è altrimenti documentato per gli anni 1286 e 1289.

Nella settimana di Pentecoste del 1281 si riunì in Firenze il capitolo generale domenicano per il quale il priore di S. Maria Novella Pagano di Iacopo Naso degli Adimari aveva ottenuto un contributo economico dal Comune, a testimonianza ulteriore del legame tra il convento e la città. Dagli atti di questo consiglio generale (Acta capitulorum generalium Ordinis praedicatorum [ACG], I, p. 214, r. 34) risultarono assolti i predicatori generali in carica; da quelli del consiglio provinciale (ACP, p. 57, rr. 17-19), celebrato immediatamente dopo, risultarono nominati nuovi predicatori generali, tra cui il Girolami.

Gli atti capitolari non offrivano solo una neutra serie di delibere, ma davano anche, introdotte dalla formula monemus o admonemus, regole che rettificassero stati di fatto o prassi da respingere. Il G. intervenne nel dibattito interno all'Ordine sulla durata legale - annuale o perpetua - di queste admonitiones, sostenendone la validità annuale nella Questio de duratione admonitionum factarum in capitulis generalibus et provincialibus (cfr. Panella, Dibattito…, pp. 97-101), in difesa delle delibere del capitolo fiorentino del 1281, cui il testo remigiano sembra di poco posteriore.

Il 5 ott. 1286 il G., lettore fiorentino, e Niccolò di Brunaccio da Perugia, lettore perugino, nominati giudici capitolari dal capitolo provinciale di Gaeta svoltosi nello stesso anno, ridefinivano le pertinenze territoriali, in ordine alla predicazione, dei conventi di Lucca e Pistoia tra loro confinanti. L'esigenza di chiarire e ristabilire i confini entro cui a ognuno dei due conventi competesse di predicare era conseguenza diretta di un più generale riassetto geografico di quei luoghi in seguito alla battaglia della Meloria.

L'imponente lavoro di ricostruzione storica operato dal Panella attorno al G. chiarisce anzitutto che il lettorato remigiano, durato più di 40 anni come recita l'obitus, non si svolse esclusivamente né continuativamente in Firenze. Nel 1289 per almeno due mesi il G. fu a Viterbo, partecipante al capitolo provinciale convocato per il 14 settembre, e poi testimone nel testamento di messer Visconte di messer Ranieri Gatto (Viterbo, 18 ott. 1289), personaggio legato all'Ordine domenicano. In seguito il G. si spostò non infrequentemente per partecipare con varia qualifica a eventi capitolari: fu elettore del maestro dell'Ordine nel capitolo provinciale di Spoleto convocato per il 14 sett. 1291 (ACP, p. 105, r. 15); medesima funzione ebbe nel capitolo generale di Roma del maggio 1292.

L'anno 1293 vide a Firenze il definitivo prevalere della borghesia mercantile con la promulgazione degli ordinamenti di Giustizia - tra i cui firmatari vi fu Mompuccio di Salvi di Chiaro Girolami -, che limitavano notevolmente la partecipazione magnatizia alla vita politica. Nel decennio 1290-1300, caratterizzato dal governo delle arti, ove cadde la fase di più intensa partecipazione politica dei Girolami alla vita del Comune, emersero elementi significativi della sensibilità politica remigiana. Il G., che per altro verso si dimostrò assai poco partecipe - almeno rispetto a confratelli provenuti da potenti casate a S. Maria Novella - agli alterni casi della propria famiglia, in riferimento al primo priorato delle arti (15 ottobre - 14 dic. 1293), che sappiamo caratterizzato da un prevalere degli uomini nuovi sui clan tradizionali, sottolineò la necessità di mantenere, a garanzia della stabilità politica e della governabilità, quell'impianto consortile e dinastico tipico della vita comunale di Firenze. Il progetto di una stabile pacificazione civile passava necessariamente in questo periodo attraverso l'indebolimento delle grandi casate magnatizie, e in questa chiave il G. dovette condividerlo. Tuttavia il primo bimestre priorale potrebbe averlo posto di fronte all'eventualità che questo processo di rinnovamento ed esclusione colpisse forme tradizionali ed ereditarie del potere anche in ambito popolano: così, nel primo dei suoi cinque sermoni Ad priores civitatis, indirizzato ai magistrati del bimestre successivo in merito a contributi comunali per la costruzione di S. Maria Novella (ms. G 4.936, cc. 355rb-va), il G. teorizzava una stabilità politica garantita da famiglie in cui le cariche pubbliche avevano il peso - "gravitas grani" - d'una lunga tradizione, opponendola alla pericolosa instabilità - "levitas palee" - delle magistrature affidate, come nel priorato precedente, a homines novi (brano in Salvadori - Federici, XXIV, p. 481 e in Panella, 1990, pp. 185 s.). Il secondo dei sermoni ai Priori cittadini, collocabile tra la fine del 1294 e il luglio 1295, mostra come questa stabilità si concretizzasse, per il G., anche in una rigida politica di moderazione delle forze popolari in ascesa.

Il governo popolare ispirato da Giano Della Bella era scosso dai conflitti in cui si fronteggiavano al tempo stesso clan familiari, classi sociali e, soprattutto, due diverse concezioni dello Stato: nella pratica politica delle grandi famiglie magnatizie il Comune era oggetto di possesso, lotta e spartizione; nell'ideale remigiano e nelle intenzioni del governo popolare lo Stato era garante del bene di tutti: il priorato voleva essere appunto il mezzo di una pratica di governo imparziale. Presentendo il rischio che la nuova magistratura potesse essere travolta dalla pressione delle fazioni, in questo sermone il G. affermava una concezione della politica come azione "pro bono comunis, scilicet utili delectabili et honorabili; non pro bono huius persone vel domus vel illius" (ms. G 4.936, c. 355va); a tal fine, in concreto "cavendum est vobis [sc. prioribus] ne contra hoc aliquid faciatis vel pro Iano" (brano in Salvadori - Federici, XXV, p. 482 e in Panella, 1990, p. 189). Il monito a non agire contro il principio del bene comune è qui funzionale all'esortazione più particolare - "vel pro Iano" - che segue: l'ideale politico "ad comunis promotionem" imponeva in questo frangente di evitare un'eccessiva affermazione delle forze popolari di Giano Della Bella, le quali, come già visto, non dovevano comunque per il G. mettere in questione la gestione familiare e consortile dello Stato.

A quest'epoca il prestigio culturale del G. in S. Maria Novella era cresciuto in misura sufficiente da avere sicura proiezione politica: un indiscutibile sapore d'ufficialità e di rappresentanza ha il sermone De filio regis (marzo 1294, G 4.936, cc. 352va-353ra; brano in Salvadori - Federici, XVI, p. 479 e in Panella, 1990, pp. 187 s.) dedicato ad accogliere Carlo Martello d'Angiò re d'Ungheria, e quello in morte del confratello cardinale Latino Malabranca (10 ag. 1294, ibid., cc. 381va-382ra; brano in Salvadori - Federici, XXXIX, pp. 488 s. e in Panella, 1990, p. 188), nel 1280 paciere papale in Firenze. Nel 1295 si susseguirono il terzo sermone ai priori (ms. G 4.936, c. 355vb, edito in Salvadori - Federici, XXVII, p. 482 e in Panella, 1990, p. 191), in cui il G. richiedeva la conferma e l'esecuzione d'una serie di decisioni da essi già prese - tra cui l'erogazione di fondi per la costruzione di S. Maria Novella - e il quarto (ms. G 4.936, cc. 355vb-356rb, brano in Salvadori - Federici, XXVII, pp. 482 s. e in Panella, 1990, p. 193), di contenuto assai più politico, posteriore al tumulto di gennaio e all'eliminazione politica di Giano Della Bella (febbraio-marzo). Il G. vi sottolineava la necessità di espungere l'ingiustizia dagli statuti cittadini, e si schierava, a tal fine, coi moderati, a favore del mitigamento delle misure antimagnatizie introdotte da Giano due anni prima, cui effettivamente si pervenne con la modifica della rubrica XVII relativa ai sodamenti dei magnati (luglio 1295).

Eco di questi avvenimenti è forse da riconoscere nel Tractatus de iustitia, che O. Capitani (1960, pp. 125-128) ha dimostrato essere incompiuto, ove si tratta, nell'ambito dei precetti di genere affermativo, della punibilità dei magnati, considerata con abile e cauto realismo solo in quanto utile o disutile alla Comunità. Acutamente il Capitani pone questa posizione a riscontro con la narrazione del Villani, Cronica, VIII, 12: dopo il 6 luglio "il Popolo avrebbe potuto vincere i grandi, ma per lo migliore e per non fare battaglia cittadinesca, avendo alcuno mezzo di frati e di buona gente da una parte e dall'altra, ciascuna parte si disarmò".

All'intensificarsi della forza politica dei Girolami corrispose, in forma forse materialmente irrelata, un ulteriore scatto nella carriera fiorentina del G.: nel 1293 il capitolo provinciale di Anagni, fissato per l'8 settembre, cui egli stesso prese parte, commetteva "curam conventi Florentini […] fratri Remigio lectori" (ACP, p. 111, r. 31). Chiarisce il Panella che la locuzione "cura conventi" non significa, come s'è a lungo creduto, la stabile promozione del G. al priorato, ma l'affidamento al frate della cura del convento nel periodo intercorrente tra la deposizione del priore Ubertino degli Ardinghi, operata dallo stesso capitolo, e l'elezione del suo successore; tale vacanza non poteva superare, di regola, i trenta giorni. D'altronde, nonostante l'autorevolezza della sua figura, difficilmente sarebbe stata affidata al G. la funzione priorale: la promozione dell'attività intellettuale - predicazione o studio - e l'esonero, per chi la esercitasse, da mansioni pratiche o amministrative, caratterizzante da sempre l'Ordine domenicano, era particolarmente curata nel caso dei lettori a motivo della loro carenza numerica.

In veste di lettore il G. potrebbe aver avuto tra i suoi uditori Dante: così suggerisce il Convivio (II, 12, 17), ove l'Alighieri racconta che iniziò ad apprendere la filosofia "nelle scuole delli religiosi" da identificare anzitutto, nella Firenze dell'epoca, con lo Studium domenicano di S. Maria Novella e con quello minoritico di S. Croce. Questa formazione filosofica dantesca è collocata, per tradizionale ma poco rigorosa interpretazione d'un cenno cronologico contenuto nel Convivio, tra il 1291 e il 1295, mentre è corretto ammettere che possa esser durata fino al momento dell'esilio (1302). L'eventualità che l'Alighieri fosse uditore delle lezioni del G. deve esser vagliata anche alla luce delle norme che regolavano l'accesso ai corsi tenuti negli Studia domenicani, le quali testimoniano da un lato copiose interdizioni per i laici ad assistervi e, dall'altro, questioni disputate al cospetto di secolari.

Per le affinità tra l'opera del G. e quella dantesca è doveroso seguire la traccia offerta da tre autorevoli studiosi (Davis, Capitani, Minio Paluello): nella Firenze di Dante il G. era uno fra i più autorevoli esponenti della cultura aristotelica, ma la sua produzione è in parte posteriore all'esilio dell'Alighieri. Le consonanze tra i due, talora importanti (Inf. VII, 56 s.: la pena degli usurai corrisponde a quella immaginata dal G. nel De peccato usurae XXXVI, in cui la categoria di coloro che ebbero in vita il pugno chiuso è condannata a essere percossa dal pugno serrato di Mammona; la generale concezione della ricchezza espressa in quest'opera, iuxta Iovenalem, è affine a quanto dice Dante in Convivio IV, 9, 8 e ibid., 12, 5 e 8) vanno dunque considerate secondo la duplice possibilità di "esiti identici, ma non correlati, di uno stesso tipo di cultura, o riecheggiamenti di cose sentite in gioventù ne le scuole de li religiosi" (Capitani, 1971, p. 209): si potrebbe addurre in tal senso il caso del Quodlibet II del G., certamente composto dopo l'esilio di Dante, dedicato a un problema ("utrum Deus possit facere quod materia actu existat sine forma") toccato pure in Convivio, IV, 1, 8 ("se la prima materia delli elementi era da Dio intesa") e piuttosto comune nelle discussioni scolastiche. I trattati politici del G., di grande interesse per la contestualizzazione e il riscontro del pensiero politico dantesco, mostrano tuttavia, accanto a talune generali convergenze, orientamenti piuttosto distanti da quelli dell'Alighieri. Completamente da studiare, poi, è il contributo che può esser venuto al tema principale della dantesca Questio de aqua et terra, quello della commistione degli elementi, dalle monografie de mixtione elementorum, prodotte non solo dai grandi pensatori due-trecenteschi (Tommaso d'Aquino, Guglielmo da Ockham), ma anche da filosofi vicinissimi a Dante, tra cui Gentile da Cingoli e lo stesso G. con il trattato De mixtione elementorum (ms. C 4.940, cc. 11vb-17rb).

Nel 1297 il G. partecipò in qualità di definitore al capitolo provinciale di Perugia, convocato per l'8 settembre (ACP, p. 128, rr. 1 s.). Nacque poco dopo dagli stessi organi provinciali la decisione di inviarlo al convento di St-Jacques in Parigi, dove aveva iniziato la vita religiosa e ricevuto la propria formazione universitaria; in questa seconda occasione il G. vi svolse l'attività di lettore sentenziario, che gli avrebbe permesso di conseguire il magistero in teologia (tra il 1297-98 e il 1300): è egli stesso a narrare la circostanza nel sermone di congedo (ms. G 4.936, cc. 363rb-364ra; brano in Salvadori - Federici, XXXV, pp. 486 s.; edito in Panella, 1979, pp. 204 s.) rivolto prima della partenza ai propri confratelli. Gli estremi cronologici del soggiorno sono compresi tra i termini massimi 1297-1301, più verosimilmente ristretti al 1298-1300, anche sulla base del fatto che il baccellierato sentenziario constava normalmente, nella prassi dei secc. XIII-XIV, di un biennio.

Al periodo parigino, che vide il G. ancora investito di ruoli istituzionali interni all'Ordine, sono da ascrivere la questione collativa De subiecto theologie (Il "De subiecto", edito in Panella, 1981, pp. 37-71), genere richiesto al baccelliere nell'inaugurazione del corso di lettura; i prologhi alle sentenze del ms. G 4.936, cc. 337ra-341vb, subito precedenti, nel codice, al Prologus in fine Sententiarum (c. 341rb-vb), nel quale, concludendo il suo lettorato, il G. presenta il baccelliere successivo. Come baccelliere il G. era tenuto a raccogliere il tema del sermone mattutino del magister, e a farlo oggetto di collazione serotina: i sermoni remigiani che rivelino queste caratteristiche di composizione vanno dunque riportati al baccellierato (per es., nel ms. G 4.936: Dominica in quinquagesima, sermoVII, cc. 43va-45ra; Dominica in Ramis Palmarum, sermoVIII, cc. 109rb-111vb; Dominica V post Trinitatem, sermo V [6 luglio 1298], cc. 173vb-176va; nel ms. D 1.937: In festo beati Nicholai,sermoIII, cc. 11rb-12rb; stralci di questi sermoni in Panella, 1990, pp. 206 s.). Ancora, sono di questo periodo il sermone di domenica III dopo Pasqua Vado ad Patrem, contenuto in un sermonario universitario (Parigi, Bibliothèque nationale, Fonds lat. 3557, cc. 203r-209v, con correzioni remigiane autografe; il medesimo testo costituisce il sermone quarto della domenica II dopo l'ottava di Pasqua del ms. G 4.936, cc. 148vb-152rb), il ritmo Omnes lucrant preter ego e il distico "Est prior vel locus iste vacans, / rex vadit nos male pacans" (ms. G 4.936, rispettivamente alla c. 407ra-b, in Salvadori - Federici, pp. 502 s. e in Panella, Il "De subiecto", pp. 25 s., e alla c. 407vb, nonché ibid., p. 27 n. 7).

È probabilmente poco anteriore al baccellierato parigino il trattato ecclesiologico Contra falsos Ecclesie professores (apparso parzialmente in Panella, 1979, pp. 109-174, e in edizione completa per cura di F. Tamburini, Roma 1981), il cui argomento era stato già affrontato dal G., ma con impostazione piuttosto diversa e marcatamente didattica, nella Divisio scientie (termini massimi di composizione 1270-95, forse da restringere agli anni tra il 1280 e il 1295, ed. in Panella, 1981, pp. 82-119), testo di scuola destinato a discepoli italiani, forse di S. Maria Novella.

La composizione del Contra falsos Ecclesie professores, certamente posteriore a quella della Divisio scientie e anteriore a quella del De bono comuni (1301), deve probabilmente intendersi di poco precedente alla pubblicazione del Liber sextus Decretalium di Bonifacio VIII (3 marzo 1298). Il tema fondamentale dell'opera è l'ordinata esposizione delle diverse branche disciplinari del sapere; il titolo trova giustificazione nel fatto che alla fine d'ogni sezione relativa a una classe di discipline v'è la descrizione di quanto antiteticamente sostenuto in merito dalla ecclesia infidelium, che è sostanzialmente quella dei catari. Un enunciato esordiale - ogni conoscenza umana è contenuta nella Chiesa di Cristo ("novit universa ecclesia", ed. Tamburini, p. 1, r. 5) - anticipa la complessiva struttura dell'opera. Nella seguente classificazione il G. dà il maggior spazio alle arti meccaniche, e ciò in un momento in cui la combinazione delle vecchie arti liberali con l'ordinamento aristotelico della scienza ha segnato semmai, a livello di sistemazione teorica, una marginalizzazione di queste discipline, intese, per esempio da Robert Kilwardby nel De ortu scentiarum, opera usata dal G., nella Divisio scientie, come strumento di chi le pratica, più che oggetto della speculazione dei filosofi, la quale mira invece esclusivamente alla ricerca della verità.

Nel Contra falsos Ecclesie professores invece il G. rinnova lo schema di Ugo di S. Vittore (sette arti meccaniche, tre interne e quattro esterne al corpo umano), e allegorizza queste discipline per una via che, se non accede all'elaborazione d'un loro specifico valore epistemologico, tuttavia certo nasce da una realtà storica - la Firenze delle arti - in cui l'impatto dell'attività fabrile sulla società come sulle forme di percezione e conoscenza della realtà è un dato di fatto. Dall'asserzione iniziale "novit universa Ecclesia" discende una questione di grande interesse, all'apparenza digressiva rispetto al tema principale: l'universalità della Chiesa comporta l'estensione diretta della sua giurisdizione sul temporale? La posizione del G. è così riassumibile: Cristo ebbe autorità diretta su tutti i principati del mondo, ma non la trasmise al suo vicario: il papa ottiene per trasmissione apostolica solo la regalità spirituale, perché anzitutto a essa abbia modo di votare le proprie energie. Tuttavia il pontefice è capo principale della comunità umana e garante supremo della sua unità: a questo è quindi riservata la massima autorevolezza anche sul temporale, sebbene "non principaliter et directe". Rispetto alla divaricazione tra la proposta teocratica e quella della restituzione del temporale all'autorità laica, attorno a cui si dispone l'ampia messe trattatistica tra la fine del Duecento e il primo ventennio del Trecento, il G. dimostra di avvicinarsi alla prima opzione, ma attraverso una via che legittima, per piegarli ad altro fine, alcuni argomenti della seconda. È per questo che, nonostante il G. affermi nel trattato che la donazione di Costantino immise veleno nella Chiesa di Cristo (fatto sottolineato dal Minio Paluello in rapporto all'Alighieri), la complessiva tessitura dell'opera non suggerisce poi grandi affinità con la posizione dantesca.

Nel 1301, dopo la partecipazione nel maggio al capitolo generale di Colonia come elettore e definitore, il G. fu nuovamente in Firenze. L'ultimo priorato bianco, 15 ottobre - 7 novembre, di cui faceva parte Girolamo di Salvi di Chiaro Girolami, nipote del G., stava per essere travolto dalla presa di potere dei neri. In queste ore estreme sarebbe stato bene "arrotare i ferri" (D. Compagni, Cronica, II, 13): ma, per evitare la guerra civile, i bianchi utilizzarono anche lo strumento della propaganda: d'una pubblica processione per la pace, indetta dai Priori, sembra esser traccia nel primo dei nove sermoni remigiani De pace (tutti contenuti nel ms. G 4.936, cc. 357rb-361rb; editi in Panella, 1985, pp. 187-198).

Commentando un versetto dei Salmi ("Fiat pax in virtute tua", Ps. 121, 7), il G. vi illustra i motivi, di natura eminentemente politica, per cui è utile impetrare la pace. Sono invocate la maggior forza della volontà e dell'impegno collettivo rispetto a quella del singolo e la necessità del clamor, dell'esternazione, che in modo mirabilmente ambiguo è intesa da un lato come utile manifestazione a Dio, dall'altro come propaganda e aggregazione di uomini: infatti "in ista […] processione" (p. 188) - probabilmente, cioè, in quella promossa dall'ultimo priorato bianco, secondo il Compagni II, 13 su suggerimento d'un "uomo di santa vita […] per nome chiamato frate Benedetto" - erano chierici (la cui mediazione, nel dialogo con Dio come nella persuasione delle masse è, nel sermone del G., conditio sine qua non all'efficacia della preghiera), ma anche "multi de omnibus […] unum in volendo" (p. 188).

Ogni sforzo concordista, come si sa, venne travolto dai neri entrati in Firenze il 5 novembre col paciere papale Carlo di Valois, in ricevimento del quale il G. pronunciò un sermone (De domino Carolo, ms. G 4.936, cc. 353ra-va; ed. parziale in Salvadori - Federici, 1901, XVII, p. 479, e completa in Panella, 1985, pp. 39-42). Nel medesimo anno 1301, probabilmente poco dopo l'ingresso in città dei neri, il G. compose il trattato politico De bono comuni (ed. in De Matteis, 1977, pp. 3-51 e in Panella, 1985, pp. 123-168).

Il riferimento esordiale alle tragiche contingenze politiche è per il G. ponte logico ai fondamenti filosofici del trattato: in Firenze sprovvista di giustizia e onestà, i cittadini sono come oggetti inanimati esteriormente simili, ma la cui essenza, isolata nella propria individualità, non stabilisce tra loro alcun legame sostanziale. Essi sono semplici simulacri di cittadini, poiché non sono in grado di percepire l'altro e percepirsi collettivamente, dunque di amare il bene comune più del proprio. Quest'ultimo tema ("bonum commune preferendum est bono particulari et bonum multitudinis"), motivo fondamentale del trattato remigiano, e argomento comunissimo nelle coeve trattazioni di filosofia morale e politica, discende dall'Ethica Nicomachea aristotelica (I, 2, 1094b9-10). Il tema ha in Aristotele, come nel G. e nei filosofi medievali che da Aristotele dipendono, una dimensione ontologica - l'intero ha più essere della parte, la quale esiste solo in subordine a esso - che è stata sviluppata in direzioni alquanto diverse: la realizzazione d'una potenzialità intellettiva comune a tutto il genere umano, che sembra asservire all'argomento politico l'interpretazione monopsichistica dell'intelletto attivo, è per esempio la via percorsa da Dante in Monarchia, I, 3, 8. Nel G. quest'idea ha una decisa impronta dionisiana - l'amore del singolo verso il tutto è mezzo di superamento dei limiti dell'individualità, uscita da sé (extasis) e congiungimento con Dio (Dionigi, De divinis nominibus, cap. 4) - e agostiniana - la congruenza della parte col tutto coincide con la bellezza dell'universo (Agostino, Confessiones, III) -. Tuttavia, come è merito del Panella aver chiarito, questo organon filosofico, applicato alla realtà comunale, determina nell'opera il passaggio dal concetto di bene comune alla concreta formulazione del bene del Comune, ch'è il tratto più originale del pensiero politico remigiano.

Collegato alla medesima situazione di conflitto tra bianchi e neri, e probabilmente anteriore all'interna scissione della fazione nera (1304), è anche il trattato Speculum (brano in Panella, 1985, pp. 36-39), in cui l'allegorismo applicato alle parti del corpo umano è esplicitamente finalizzato a interpretare e correggere la realtà contemporanea di Firenze.

Nel 1303, dopo esser stato definitore nel capitolo generale di Besançon (Cronica romana, p. 17), poco prima della morte di Bonifacio VIII (11 ottobre), il G. si recò a Roma per ricevere dal pontefice il magistero in teologia: dal 15 agosto il Caetani, in lotta con Filippo IV di Francia, aveva privato le Università francesi della facoltà di rilasciare la licentia ubique docendi. Ma ecco che, racconta il G. nel ritmo dedicato a questa circostanza (Ad urbem vocat Remigium, ms. G 4.936, cc. 406va-vb, edito in Salvadori - Federici, pp. 503 s. e in Panella, 1990, p. 219), il Caetani "infirmatur, / mors succedit, tumulatur". Il G. "non est ex hoc turbatus": sorretto dalla serena consapevolezza che, morto un papa, un altro tosto o tardi gli succede, si dispone ad attendere. Finalmente il "presul Predicator" Benedetto XI, che era maestro dell'Ordine quando il G. fu inviato a Parigi come lettore sentenziario, fa da licentiator al confratello. Il rilascio del titolo accademico, in primo luogo databile entro i termini del pontificato di Benedetto XI (22 ott. 1303 - 7 luglio 1304) avvenne più probabilmente entro l'aprile, quando il pontefice si spostò con la Curia a Perugia. Dopo varie soste il papa giunse in maggio nella città umbra, ove venne accolto da un sermone remigiano (De papa, sermo VI, ms. G 4.936, c. 348va-vb; brano in Salvadori - Federici, IV, pp. 476 s. e in Panella, 1984, p. 236). Il G., trasferitosi presso il convento perugino di S. Domenico, continuò a essere assai vicino al suo licentiator per tutta la durata del pontificato: compose ritmi e sermoni funebri in morte del pontefice (ritmo Hic Benedictus, ms. G 4.936, c. 408va; edito in Salvadori - Federici, p. 505 e in Panella, 1984, p. 237) e di suoi collaboratori.

Durante il soggiorno perugino del G., compreso tra il 1303 e il 1305-07, il lettorato fiorentino fu affidato a Giordano da Pisa. Il G. lasciava una Firenze men che mai pacificata, in cui i Girolami non avevano praticamente più spazio politico (Girolamo, Chiaro e Mompuccio, figli del fratello del G., Salvi, furono banditi nel 1302): con la presa di potere dei neri il conflitto fazioso, lungi dall'esaurirsi, s'era tradotto in lotta tra esterno e interno, cioè tra i fuoriusciti bianchi, legatisi ai ghibellini e facenti perno sulle bianche Pistoia e Forlì, e il Comune fiorentino. Nel periodo compreso tra gli estremi cronologici delle bolle Transiturus (31 genn. 1304) e Rex pacificus (21 giugno 1304), obiettivo politico di Benedetto XI fu la stabile, reale pacificazione di Firenze, affidata dal pontefice al legato Niccolò da Prato. Il trattato del G. De bono pacis (edito in Davis, 1959, pp. 123-136; in De Matteis, 1977, pp. 55-71 e in Panella, 1985, pp. 169-183), certamente posteriore alla bolla Quod olim (12 maggio 1304) e molto probabilmente anteriore al fallimento della mediazione papale constatata nella Rex pacificus, va anzitutto considerato opera di sostegno teorico offerta - in termini teologici e più latamente culturali - all'impresa diplomatica papale.

Il trattato è redatto in forma di quaestio scolastica, la quale ricerca se sia possibile che, per ottenere la pace, comunità in conflitto operino, anche contro la volontà di singoli loro membri - ivi compresi gli ecclesiastici -, la vicendevole remissione di ingiurie ed espropri perpetrati e subiti. La risposta affermativa è sottesa da una base teorica già integralmente elaborata nel De bono comuni, cioè il bene comune anteposto a quello del singolo. Il G. vide, con grandissima lucidità, che la tradizionale volontà ecclesiastica di reintegro di beni alienati con la violenza, fatto di incidenza politica ed economica all'epoca del trattato, costituiva un enorme ostacolo alla tutela del bene comune al di sopra di quello particolare. Ciò che egli anteponeva al bene temporale era una pace intesa come conservazione degli equilibri di potere e della divisione degli spazi sociali. Il valore concreto più che ideale di questa etica del bene pubblico è esemplarmente chiaro in un brano del sesto sermone In capitulo provinciali (ms. G 4.936, cc. 261vb-263vb; brano in Panella, 1990, pp. 190 s.): contribuire al bene comune è obbligatorio perché esso è conditio sine qua non della conservazione del singolo; coloro che concepiscono lo Stato come patrimonio da saccheggiare per il proprio esclusivo vantaggio lo distruggono causando con ciò anche la propria individuale distruzione, come insegna la fabula del re Mida narrata da Aristotele (Politica, I, 9, 1257b16). Alla posizione di Dante nella Monarchia, anch'essa frutto dell'idea che la realizzazione della collettività sia condizione necessaria alla realizzazione individuale, la proposta remigiana è a un tempo vicina nello schema di fondo, ma lontana proprio in questo aspetto di funzionalità comunale. Tale distanza va riportata alla diversa finalità complessiva delle due elaborazioni: il G. rifletteva da politico integrato nel proprio contesto cittadino e di potere, il cui equilibrio e la cui conservazione era chiamato concretamente a difendere, mentre dal lucido rifiuto dantesco d'ogni soluzione politica in atto nasceva una critica di altra radicalità e di diverso respiro teorico. Il G. era un uomo d'ordine, lontanissimo dal dissenso e dall'antitemporalismo radicale serpeggiante in quegli anni per opera degli spirituali francescani, il quale, suggerisce Panella (1990, pp. 234 s.), costituisce forse un implicito obiettivo polemico nel sermone remigiano di commemorazione della morte di Benedetto XI (7 luglio 1305, De papa, sermo III, ms. G 4.936, cc. 378rb-379va): la menzione di aliqui maligni che tentarono di "benignitatem eius", cioè Benedetto XI, "detractionibus depravare" (brano edito in Salvadori - Federici, XXXVII, p. 487) ha naturale riscontro nei violentissimi attacchi contro Benedetto di Ubertino da Casale nell'Arbor vitae, composto anch'esso nel 1305. Tuttavia va considerato anche l'effetto ottico generato dall'eccezionalità che la figura del G. offre allo studioso, in quanto al vasto insieme dei suoi scritti viene a corrispondere un addentellato biografico e politico noto attraverso una copiosissima documentazione; per molte altre figure l'assenza di questo quadro di fatti contingenti ed esigenze concrete, spesso non ricostruibile anziché non esistito, genera in noi e silentio la valutazione d'una consistenza esclusivamente teorica di certe posizioni.

Morto Benedetto XI il G. fu ancora in Perugia, ove iniziò il conclave per l'elezione del successore; nel 1305 vi accolse Carlo II d'Angiò e il figlio Roberto, duca di Calabria e capitano della Lega guelfa. Terminati i lavori del conclave, il G. dedicò un sermone al nuovo papa elettovi, Clemente V (5 giugno, De papa, sermoII, ms. G 4.936, cc. 345rb-346vb; brano in Salvadori - Federici, II, p. 476 e in Panella, Il Repertorio…, p. 231). Clemente V, trasferitosi dal seggio arcivescovile in Lione a quello papale in Avignone, non venne mai in Italia; poiché un altro sermone remigiano dedicato a Clemente V (De papa, sermo III, ms. G 4.936, cc. 346vb-347va; brano in Salvadori - Federici, III, p. 476 e in Panella, Il Repertorio…, p. 232) e di poco posteriore alla sua elezione implica la presenza del pontefice, va supposto un viaggio del G. presso Clemente V. In quale sede? Possibili contesti d'una presenza remigiana, tra i luoghi di sosta papale, potrebbero esser stati il monastero di Prouille (2-3 ott. 1305 e gennaio 1309) e il convento domenicano di Avignone, ove il pontefice fu in un primo tempo accolto. Circa due mesi dopo l'elezione di Clemente V, permanendo incerta la definitiva sede papale, presso la quale G. aveva negli anni precedenti risieduto, il capitolo provinciale di Rieti, per volontà del maestro dell'Ordine Aimerico da Piacenza, assegnò al G. il lettorato fiorentino: Giordano da Pisa, dispensato dall'insegnamento, avrebbe continuato a godere dei privilegi dello stato di lettore, mentre il lettorato perugino sarebbe stato tenuto da frate Iacopo da S. Cristina. Tuttavia, se il G. fosse rimasto ancora nel conventus Curiae, l'insegnamento fiorentino sarebbe stato ancora di Giordano da Pisa. Così effettivamente andarono le cose: il G. rientrò in Firenze solo nel 1306-07.

Nel frattempo la situazione fiorentina si manteneva grave, e la città restava, nei suoi tratti peggiori, identica a se stessa: "un inferno economico, nemico della buona coscienza" (Delcorno, p. 55). L'avarizia, sommo peccato del Comune, sovvertiva un valore intrinsecamente positivo, il commercio, ossia la più immediata conseguenza della vita associata, e quindi, come questa, aristotelicamente morale e cristianamente provvidenziale. Essa divenne dunque obiettivo polemico di personaggi tra loro assai diversi: coloro che del Comune fiorentino, al suo stato presente, non difendevano e non accettavano più nulla, come Dante, o chi, pur continuando a vivervi e operarvi, prudentemente lontano da ottiche pauperistiche, si scagliava in modo indistinto sulla mercatura e sulle arti, finalizzate solo a depredarsi a vicenda, come Giordano da Pisa. Il politico G., i cui sermoni alle autorità fiorentine furono costellati, per buoni trent'anni, da garbati solleciti a che il Comune erogasse il peculio destinato alla costruzione di S. Maria Novella, ma che dimostrava di subordinare il patrimonio di singoli e singole istituzioni - ivi compresa la Chiesa - alla conservazione politica e sociale del Comune, non poteva non riflettere sul problema con più compiuta etica economica: tale è l'impianto del suo De peccato usure (edito in Capitani [Il De peccato], pp. 611-662), posteriore al 1305-06, largamente dipendente dal De malo di Tommaso d'Aquino composto fra il 1269 e il 1270, epoca in cui il G. era con ogni probabilità discepolo, in Parigi, dell'Aquinate.

L'opera tomasiana aveva collocato la negatività dell'usura, già oggetto di copiosa trattazione, entro il quadro del finalismo morale aristotelico: posto che ci si comporta moralmente quando si realizzano, col proprio atto, le potenze proprie delle cose, l'usura mistifica un dato di realtà: e cioè che il valore e la substantia del danaro coincidono col suo uso (q. XIII, art. 4, responsio: "sunt enim inventa nummismata commutationis gratia ut Philosophus dicit in II Politice [Politica I, 9, 1257b 1-2] usus autem pecuniae […] non est aliud quam eius substantia"). La superfetazione d'un costo attribuibile alla stessa mutuatio del danaro, allo stesso uso, è dunque contro la giustizia naturale: e ciò a prescindere dal vecchio argomento per cui il danaro, non deteriorabile dall'uso, non giustifica il prestito a interesse. Il trattato remigiano, uno fra i primi d'ambiente domenicano, ripropone integralmente lo schema di Tommaso; come rileva Capitani, il danaro vi è assimilato a un bene di consumo primario, che non è dunque possibile trattenere, sottrarre alla circolazione: è questa una negazione a priori dell'"idea di capitale, cioè di potenzialità di guadagno contenuta nel danaro" (Capitani, Il De peccato, p. 590). Se l'argomento tomasiano è conchiuso nella sua dimensione concettuale, quello del G. non può non incarnarsi nella necessità di preporre la tutela della collettività - in questo caso lo scambio e l'uso del danaro - all'augmentum patrimoniale del singolo. Il confronto operato dal Capitani tra il testo remigiano e il De usuris del francescano Alessandro d'Alessandria dimostra tuttavia che, in termini di riflessione economica applicata alla realtà comunale - in Alessandro quella di Genova -, si era andati più lontano di quanto il G., anche nella Determinatio utrum sit licitum vendere mercationes ad terminum (successiva al 1303, edita in Capitani, 1958, pp. 343-345) più tenacemente ancorato alla dimensione del peccato che a quella tecnica dell'atto usurario, non avesse fatto.

L'ultima fase della vita del G. fu dedicata da un lato al compimento della sua carriera politica e dall'altro a una attività intellettuale progressivamente sganciata dall'insegnamento. Dal settembre 1309 al maggio 1313 il G. fu priore provinciale; nell'anno 1314 fu priore di S. Maria Novella.

Tra il 1314 e il 1316 sovrintese, "con palesi intenti di pubblica utilizzazione" (Panella, 1981, p. 29), alla trascrizione della propria opera, effettuata da un amanuense ma rivista dallo stesso Girolami. Le raccolte così realizzate sono le seguenti: ms. G 3.465 (Extractio ordinata per alphabetum, Questio de duratione admonitionum); ms. G 4.936, trascritto tra fine novembre 1314 e agosto 1315 (sermoni de tempore e de diversis materiis, Expositio de duratione admonitionum - primitiva redazione della citata Quaestio -, ritmi latini); ms. C 4.940 (trattati filosofici, teologici e politici); ms. D 1.937 (sermonario De sanctis), trascritto tra il maggio 1314 e l'agosto 1316 dal solito copista, e, in piccola parte, dal G. stesso. Indipendente da questo periodo di riordinamento delle opere e non meglio databile se non ante la morte del G. (1319) è la sezione di un manoscritto composito (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Conv. soppr. 362, cc. 221r-268v) contenente le Postille super Cantica Canticorum del G., trascritte da mano diversa da quella delle raccolte citate, ma sempre rivista dal G., e il frammento autografo delle Distinctiones bibliche.

Nel 1318 il G. indirizzò un ultimo sermone ai Priori di Firenze, ancora una volta allo scopo di chiedere sovvenzioni per l'edificazione di S. Maria Novella (ms. G 4.936, cc. 355v-356v; brano in Salvadori - Federici, pp. 483 s. e in Panella, 1979, pp. 101-103).

Per ingentilire la richiesta il frate si abbandonava al gioco della derivatio nominum, applicato ai nomi dei priori in carica sulla base di più o meno comuni fonti etimologiche e lessicografiche coeve, qui come altrove strumento di proiezione in una surrettizia realtà onomastica delle simpatie o avversità politiche remigiane: Federico II è doppiamente odioso al G., che è cittadino d'un Comune geloso della propria autonomia, ma anche esponente d'una Chiesa imbattutasi, con l'imperatore svevo, nel più compiuto progetto politico che minacciasse la funzione temporale del Papato. Federico reca dunque oggettivamente inscritta nel nome una natura tutt'altro che amichevole e aperta ("frigidus et ricus, idest curvus", ms. G 4.936, c. 202v, cit. in Panella, 1979, pp. 98 s.). Il più gradito Carlo d'Acaia, nipote di Carlo d'Angiò, è dotato invece di un nome che, offesa ogni logica grammaticale, lo rivela per natura caro al suo prossimo: "Carlo idest carum habeo eum" su base paretimologica volgare Carlo = Car l'ho (cit. in Panella, 1979, pp. 103 s.: tratta dal De mortuis, sermoXLVIII [29 ag. 1315], ms. G 4.936, cc. 387v-388r; brano del sermone edito, inoltre, in Salvadori - Federici, XLVIII, p. 493 e in Panella, 1990, p. 293). Chissà se nella coscienza del G. l'auspicio favorevole tratto dal nome del papa Giovanni XXII, appena succeduto a Clemente V ("de eo [Giovanni XXII] bene sperare debemus tum ratione vocabuli tum ratione numeri") avrà poi patito il contrasto con l'impietosa realtà dei fatti (In decollatione beati Iohannis Baptiste, sermo VI [29 ag. 1316], ms. D 1.937, cc. 278r-280v; brano in Salvadori - Federici, V, p. 477 e in Panella, 1979, pp. 236-241; la citazione è a p. 238, rr. 61 s.).

Il G. morì a Firenze, in S. Maria Novella, nel 1319, computato secondo lo stile fiorentino: quindi tra il 25 marzo 1319 e il 24 marzo 1320.

Oltre a quelli già ricordati, il G. è stato autore di altri trattati, fra i quali si rammentano: De modis rerum (ms. C 4.940, cc. 17va-70ra), la cui composizione cade tra il 1280 e il 1301; De uno esse in Christo, composto tra il 1303 e il 1307 (edito in Grabmann, 1924, pp. 260-277); Quodlibet duo, il primo dei quali disputato a Roma tra l'ottobre 1303 e l'aprile 1304 e il secondo, già ricordato, in S. Domenico a Perugia (editi in Panella, 1983, pp. 66-146); De misericordia, composto post 1301 e ante il De iustitia (ms. C 4.940, cc. 197ra-206rb); De via Paradisi, composto successivamente al 1301 e prima del 14 apr. 1314 (ibid., cc. 207ra-351vb). Anteriori al 1314-16, periodo in cui, come già ricordato, cade la trascrizione dei codici latori delle opere del G., sono il De mutabilitate et immutabilitate (ibid., cc. 131ra-135va), il De contrarietate peccati (ibid., cc. 124vb-130rb) e le opere perdute De domo Dei, De homine, De malo peccati, De mundo. Il perduto De cruce era anteriore al De misericordia; il perduto De virtute Christi precedente al De via paradisi.

Un posto a sé all'interno della produzione del G. assumono i ritmi latini: d'occasione o autobiografici essi sorgono talvolta, in forma di marginalia, dall'urgenza di commentare un altro testo. Nel ms. G. 1. 695, a margine soprattutto del Moralium dogma philosophorum di Guglielmo di Conches, le chiose del G. assumono forma di ritmi dalla cadenza sommariamente esametrica. Legati al testo di Guglielmo nei temi (vizi, virtù, avarizia, invidia, l'uomo orizzonte tra cielo e terra, e creato per "erectos ad sidera tollere vultus", la fortuna), i versi del G. sono largamente debitori, nella forma, alla più comune poesia profana mediolatina: per esempio la fortuna in G. "rotatur in orbita lune / crescit descrescit in eodem sistere nescit" (edito in Orlandi, 1955, p. 305) sul modello della diffusissima, formulare definizione - "o fortuna, velut luna […] semper crescis et decrescis" - di Carmina Burana, 17.

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