RESTAURO

Enciclopedia dell' Arte Antica (1996)

Vedi RESTAURO dell'anno: 1965 - 1996

RESTAURO (v. vol. VI, p. 654)

A. Melucco Vaccaro

p. 654). - Definizione. - Nella letteratura specializzata, come anche nelle espressioni correnti, il termine r. viene impiegato in alternativa o in opposizione al termine conservazione senza precise demarcazioni lessicali. Negli ambienti scientifici anglofoni si è tentata una distinzione che attribuisce a conservazione il significato di intervento, anche preventivo, sul manufatto, ma soprattutto sul suo contesto ambientale, volto a prolungarne la sopravvivenza e a minimizzare i fattori di degrado, designando invece con r. l'insieme delle operazioni che mirano alla riqualificazione estetica e alle possibilità di fruizione (Coremans, 1969; Di Matteo, 1986). Questa distinzione, però, non appare soddisfacente, non essendo spesso chiaro il confine tra i due tipi di operazioni e non potendosi considerare meno invasive e guidate da esigenze «obiettive» le prime rispetto alle seconde.

Nella ben più complessa sistematizzazione teorica e metodologica avanzata da Cesare Brandi nella sua Teoria del restauro si propone invece la definizione di r. come «qualunque operazione volta a ripristinare l'efficienza di un prodotto dell'attività umana», un'operazione che, quando la si applica alla funzionalità di quegli oggetti, che oggi si conviene di chiamare beni culturali, deve essere consapevole della loro peculiare natura e pertanto della necessità di impiegare a tal fine procedimenti e strumenti compatibili con la configurazione materica e storica del bene, come ci è pervenuto, quindi non invasivi e non snaturanti. Nel tempo trascorso dalla prima apparizione della fondamentale opera (1963), alcuni temi centrali si sono confermati tali, e anzi hanno acquisito ulteriore rilievo, mentre altri, marginali, anche per la diversità delle condizioni oggettive, hanno ora assunto ben altra evidenza. L'antichistica sta prestando maggiore attenzione alle problematiche del r., mentre ricerche e riflessioni autorevoli vi hanno riconosciuto un preciso riflesso delle idee sull'antico nelle diverse epoche. Secondo tale approccio, dunque, il r. può dirsi un aspetto precipuo della rilettura e della nuova funzionalizzazione che monumenti e manufatti del passato assumono nel tempo; ciò che, al contrario, con il trascorrere e il mutare dei contesti, non ha più significato, si perde e attende nel terreno che l'archeologia lo riscopra e riapra in tal modo il ciclo della trasmissione, cioè la fase dei riusi e delle manomissioni. R., manomissione e riuso possono dunque considerarsi strettamente collegati, in particolare nel caso del patrimonio classico, che nella civiltà occidentale ha subito periodiche «rinascenze» e successive rivisitazioni.

Il r. come manomissione non è però limitato agli interventi del passato. In quest'ultimo cinquantennio l'innovazione tecnologica e le mutazioni da essa indotte nella cultura e nei procedimenti tradizionali hanno investito anche questo settore, causando l'abbandono di procedimenti e materiali di sicura origine artigianale e l'adozione, spesso priva di sperimentazione o compiuta con inadeguate verifiche di compatibilità con la materia antica, di prassi di cantiere e di prodotti concepiti per l'edilizia corrente e per altre attività produttive. Nell'ingegneria, soprattutto strutturale (e non ancora in altri campi del sapere tecnico-scientifico, quali la chimica e la fisica), è però iniziata un'approfondita riflessione teorica sull'impatto, potenzialmente distruttivo, che possono avere le discipline estranee alla cultura storica, quando intervengono nella conservazione del patrimonio antico, sottovalutandone la specificità. Tale atteggiamento mostra ancora una dipendenza dai modelli dello scientismo ottocentesco, che era giunto a investire globalmente la tradizione preindustriale di un giudizio negativo e a valutarla come erronea e regressiva. Appare dunque necessaria una più attenta riflessione negli apporti multidisciplinari finalizzati alla conservazione, un più generale riconoscimento della centralità della domanda storica e un radicale riesame della compatibilità rispetto ai caratteri propri del manufatto antico, di prodotti e metodi di intervento. Lo storicismo di Brandi sottolineava il carattere relativo di qualunque r., che immancabilmente denuncia il tempo in cui è stato eseguito. Oggi si tende a porre l'accento sui limiti di efficacia del r. stesso, addirittura sulla sua potenziale pericolosità (resa più evidente da recenti semplificazioni ed errori, compiuti in nome di una presunta apertura alle conquiste tecnologiche), e quindi sull'opportunità di operare secondo il criterio del «minimo intervento». Poiché il r. comporta inevitabilmente delle manomissioni, la misura minima in cui appaiono accettabili al fine della ulteriore trasmissione del bene, non è un termine fisso, ma una variabile che cambia nel tempo, con il mutare delle sensibilità culturali. La teoria del r. è dunque l'individuazione di questa soglia critica, che dovrebbe fornire un riferimento metodologico per discriminare le manomissioni accettabili da quelle non accettabili. Il principio brandiano dell'inutilità di un r. che non rimuova le cause del degrado, ora basato su una più approfondita conoscenza dei processi di alterazione, ha spostato progressivamente l'attenzione dal manufatto al suo contesto museale, territoriale o urbano, sicché ogni approccio teorico e ogni misura conservativa, che prescindano dalle condizioni d'uso di un bene e dal suo ambiente, appaiono oggi vani e impropri. Un'altra riflessione, centrale nella Teoria di C. Brandi, ossia l'insistente richiamo a considerare il r. non mera attività tecnica subalterna, ma momento critico e conoscitivo, interno alla ricerca storica, è il fondamento dell'istanza volta ad ammettere il r., non diversamente dallo scavo, tra le materie metodologiche afferenti alla disciplina archeologica, per l'acquisizione da parte dell'archeologo di un'adeguata formazione specifica. Mantenendo il confronto con la metodologia dello scavo, il r. presenta qualche complessità in più, dal momento che si tratta di un percorso euristico che l'archeologo non compie da solo, ma in concorso con un'altra figura specifica, il restauratore, che con lui condivide l'intelligenza critica della materia, ma a cui compete una manipolazione diretta del manufatto.

Teoria del r. e archeologia. - Rispetto agli anni di formazione dell'ideologia di Brandi, è però mutata la disciplina archeologica: essa pone l'accento sul reperto, non solo come opera d'arte, ma soprattutto quale fonte specifica, con un suo peculiare potenziale informativo, da interrogare con tecniche proprie; inoltre, per l'affinamento delle tecniche di scavo e di ricognizione sul campo, si è oggi in grado di recuperare dal terreno molte più informazioni e molti più reperti che in passato, anche quelli costituiti da materiali particolarmente deperibili, quali p.es. legno, cuoio, ambra e altri materiali organici. In conseguenza di ciò la gamma di quanto oggi è richiesto di conservare si è fatta molto ampia. Rispetto a questa evoluzione della disciplina appare più sensibile la distanza da talune formulazioni della Teoria, nelle quali si esprime l'insanabile dissidio tra materia e immagine e che, poste in relazione alla tematica del manufatto archeologico, si presentano particolarmente inattuali. Brandi ammetteva che l'immagine è sostanziata di materia e questa è «coestesa» a tutta l'opera, tuttavia di fatto imponeva una gerarchia, quando distingueva una materia come supporto e una materia come aspetto, immagine appunto. Questa distinzione che nasce dalla stratificazione del dipinto, con la sua sequenza di supporto, preparazione, pellicola pittorica, non ha applicazione possibile ad alcun manufatto tridimensionale, dalla ceramica alla scultura, ancor meno all'architettura, se non postulando l'eguaglianza aspetto = superficie. Questi enunciati teorici hanno infatti finito per attribuire alla superficie uno statuto particolare, di portatrice dell'immagine e testimone dell'autenticità dell'opera e della sua vicenda storica e, ben oltre le intenzioni dello stesso Brandi, hanno avuto precise conseguenze sulla pratica del r. perché hanno orientato verso la scelta di materiali di intervento che, nell'immediato, apparivano non alteranti. Da questo nodo teorico è infatti derivato un incoraggiamento all'abbandono dei materiali tradizionali, già indotto dai mutamenti tecnologici, e la delega alle scienze, in particolare alla chimica, per la ricerca di prodotti senza impatto visivo, quindi non tradizionali, cioè trasparenti. Da qui nasce anche l'accezione di «superficie di sacrificio» come è intesa nel linguaggio tecnico attuale: non più un intonaco o un rivestimento visibile, ma uno strato invisibile, applicato nella fase conclusiva dell'intervento e destinato a deteriorarsi al posto della superficie originale e a essere sostituito quando ha perso efficacia, con il minimo possibile di manipolazione e di danno per l'opera. I prodotti di sintesi, concepiti per applicazioni ai materiali moderni e alle strutture in cemento, sono sembrati illusoriamente rispondere ai requisiti necessari, ma nel tempo hanno dimostrato di essere tutt'altro che durevoli e privi di interferenze visive, determinando scurimenti, patine deturpanti o risultando non compatibili, quindi distruttivi, per la radicale diversità del loro comportamento meccanico o termico rispetto alla materia antica. Gli interventi sulla struttura del monumento e del manufatto antico, in quanto materia non visibile, che dunque non ha rapporti con l'immagine e quindi può essere sostituita e alterata, hanno seguito una logica analoga: si sono scelte tecniche di consolidamento dei materiali o di rinforzo statico delle strutture con procedimenti chimico-fisici di totale trasformazione della materia, o invasive e indebitamente mutuate dalle pratiche del cantiere edile, che di fatto hanno alterato i caratteri materici, presupponendo nelle antiche fabbriche gli stessi comportamenti delle strutture moderne in cemento armato e presumendo che tali operazioni non avrebbero avuto effetti indesiderati sull'immagine: postulati questi che raramente si sono realizzati.

Un altro punto di difficile recezione è il concetto brandiano del «rudero», inteso come ciò che, avendo perduto ogni tratto dell'originale elaborazione formale, non è più riconducibile a unità, a figura e pertanto non potrebbe essere restaurato, ma solo conservato nello status quo. Ma poiché tutte le strutture archeologiche sono ruderi, cioè sono caratterizzate da frammentarietà, incompletezza, interruzione dell'uso, non proponibilità del riuso, se non nell'accezione della visita e della fruizione culturale, non se ne dovrebbe proporre il restauro. In realtà non è neanche qui netto il confine tra ciò che può essere, sia pur limitatamente, integrato e ciò che può essere solo mantenuto nella sua presente condizione. Dopo il quasi secolare abbandono delle pratiche manutentive tradizionali bisogna pur sottolineare che interventi capaci di assicurare la conservazione non sono senza incidenza sull'immagine: non è insomma affatto agevole raggiungere l'obiettivo della conservazione mantenendo lo status quo. Risulta dunque stretto lo spazio assegnato dalla Teoria all'intervento di r., se esso deve, secondo il dettato purovisibilista, avere efficacia sui processi materici, ma riflessi minimi sull'immagine, identificata con la superficie.

Anche il concetto di «patina» richiede qualche puntualizzazione in relazione alla fenomenologia archeologica, rendendosi necessaria in primo luogo la distinzione tra patina artificiale o intenzionale, e patina di alterazione. La difficoltà di recepimento di questo dato elementare è oggi la probabile conseguenza di un progressivo affievolimento delle conoscenze sulle tecniche antiche di finitura, protezione superficiale, manutenzione e una residua influenza della concezione romantica, che introdusse l'espressione «tempo pittore», con ciò rivalutando l'effetto estetico di un fenomeno naturale, ossia i segni del trascorrere del tempo, considerati allora assai più apprezzabili dei risultati di un restauro. Anche Brandi ritiene la patina essenzialmente il segno del passaggio del tempo sull'opera (ma è ancora una volta la fattispecie del dipinto che ha come riferimento), senza tuttavia distinguere gli esiti degli interventi umani da quelli dei processi naturali. Secondo l'istanza del rispetto della storicità non dovrebbe essere rimossa, ma poiché può determinare un notevole disturbo, secondo l'istanza estetica dovrebbe essere eliminata. Siamo quindi anche su questo terreno di fronte a un conflitto tra materia e immagine. Soprattutto per il metallo (bronzo e ferro) proveniente da scavo, le alterazioni interessano tutta la materia e possono giungere a inglobare nei loro strati anche la superficie «originaria» (che pertanto in tal caso è da considerare perduta) e con essa spesso anche le tracce delle decorazioni e delle finiture di superficie. Il criterio da seguire nella pulitura sarà allora meramente conservativo e consisterà nell'eliminazione dei prodotti instabili di alterazione, in modo da ridurre i fattori elettrochimici responsabili dei processi ciclici di corrosione. Per i materiali lapidei il problema della patina e della sua rimozione si pone in modo ancora diverso. In occasione dei restauri recenti ai monumenti marmorei di Roma (1982-87), si è evidenziata la presenza di strati protettivi applicati in antico (le cosiddette «patine a ossalati») che sono stati talvolta confusi con le patine di alterazione, ma a differenza di queste ultime non vanno rimossi: l'operazione è infatti distruttiva, per il forte ancoraggio alla pietra che tali patine a ossalati solitamente presentano, e metodologicamente errata, perché cancella porzioni di storia archiviate sulla superficie dei monumenti. Tra l'altro, una volta rimossi tali avanzi dei trattamenti antichi sarebbe necessario sostituirli con protettivi chimici, per molte classi dei quali mancano ancora prove conclusive di affidabilità e compatibilità.

Nella condizione di maggior rischio a cui il patrimonio all'aperto è esposto, il fenomeno più vistoso è il ruolo crescente che la copia è chiamata a svolgere nelle strategie di tutela conservativa. L'aggravarsi delle condizioni ambientali (furti e vandalismi, spesso congiunti all'inquinamento) impone sempre più spesso di rimuovere dai contesti urbani, dalle ville storiche, dalle aree archeologiche gli originali ancora presenti, anche se un ricorso generalizzato alla sostituzione non è certo da incoraggiare, come sono ugualmente da evitare le tentazioni mimetiche, le patinature all'antica: quelle adottate per le copie dei cavalli di Venezia sono state subito cancellate dai processi di alterazione.

La recezione della «Teoria del restauro». - Nonostante la presenza dell'Istituto Centrale del Restauro, creato nel 1939 per uniformare gli approcci metodologici e tecnici, indirizzare la ricerca, formare nuove figure di restauratori secondo gli orientamenti della Teoria del Restauro, la recezione del pensiero di Cesare Brandi, al di fuori della cerchia storico-artistica, non è stata facile. Presso gli architetti, sia storici sia restauratori, essa è stata decisamente combattuta nei suoi presupposti di fondo e da un lato sono continuati, nella prassi delle Soprintendenze, i rifacimenti puristi, dall'altro la stessa corrente crociana ha opposto al rispetto della storicità il principio della creatività. Presso la cultura archeologica la Teoria non ha avuto miglior fortuna: anche per le diversità del percorso teorico che la disciplina stava imboccando, sono state palesate prese di distanza ed estraneità principalmente a causa dell'approccio purovisibilista brandiano. Sul piano dell'attività pratica, nel complesso si è segnato un ritardo nel percepire la dignità anche estetica dell'oggetto archeologico e l'importanza di una sua corretta manipolazione per giungere alla restituzione critica del testo. Si sperò che per superare queste resistenze e questi ritardi fosse opportuno tradurre i principi della teoria del r. in un testo normativo e vincolante, ma ciò si raggiunse solo nel 1972 con la Carta del Restauro. Essa era preceduta da documenti di analoga ispirazione, detti rispettivamente Carta di Atene (1931), Carta del Restauro Italiana (1931), Istruzione per il restauro dei monumenti (1938), Carta di Venezia (1964), che però avevano per oggetto la esclusiva trattazione dei monumenti (v. vol. VI, p. 665).

La Commissione Ministeriale incaricata della redazione della Carta del 1972, dopo una elaborazione protrattasi per circa vent'anni, lamentò il fatto che le precedenti fossero rimaste «senza forza di legge». Ma la stessa sorte fu riserbata anche al documento del 1972, tutt'ora vigente, che fu diramato solo come circolare ministeriale ed ebbe uguali limiti di efficacia. Tuttavia le difficoltà di recezione non sono da ricercare soltanto, come gli estensori ritennero, nella mancanza di sanzione giuridica, ma in più complesse motivazioni. Il testo rispecchiava indirizzi ed esaminava emergenze e problemi conservativi propri dell'orizzonte del primo dopoguerra, mentre già si stavano affacciando le novità indotte dalla rivoluzione industriale, dalla rapida trasformazione del territorio, dalle prime denunce degli effetti dell'inquinamento atmosferico sulle opere d'arte all'aperto (Spoleto, 1964). La struttura e la concezione stessa della Carta presenta inoltre una intrinseca contraddizione che è anche il suo elemento di debolezza, laddove tenta di comprendere in un sol testo da un lato principi e opzioni metodologiche generali, ma dall'altro anche prescrizioni, accompagnate da dettagli tecnici sulle modalità di esecuzione di alcuni interventi-tipo. Ne è risultata una struttura, differenziata rispettivamente in Articoli e Allegati, nei quali ultimi le istruzioni, per il rapido mutare dei materiali e dei procedimenti, risultano desuete o non applicabili.

Il corpo di norme desunte dalla Teoria del restauro e riproposte nella Carta 1972, che, al contrario delle altre e anche a fronte di ulteriori proposte, mantiene un insuperato e attualissimo valore, è quello relativo alla reintegrazione delle lacune nel manufatto pittorico. Si tratta di riflessioni che Brandi dedusse dalla Teoria della percezione e che ruotano attorno alla scoperta del disturbo che la lacuna induce non solo limitatamente al punto in cui è collocata, ma nel contesto figurale dell'intera opera: ciò avviene perché si determina un'inversione della percezione che fa avanzare la lacuna in primo piano come figura e retrocedere la figura a fondale. Compito della reintegrazione è dunque quello di produrre una nuova inversione, di far regredire la lacuna a fondale, operando secondo i criteri della riconoscibilità (per l'esigenza storica, cioè per il rispetto della storicità dell'opera), ma da posizione ravvicinata (altrimenti la ricomposizione non sarebbe possibile), e della reversibilità, cioè non precludendo futuri interventi. Giudicando nei diversi casi a secondo della collocazione, estensione e tipo della lacuna, è possibile o lasciare in vista il supporto, abbassandolo di tono, o simularne un tratto, suggerendo l'impressione di una parte di pigmento caduta, ovvero reintegrare elementi figurali, la cui «ricollegabilità sia implicita e limitata». È questo ultimo il caso della reintegrazione pittorica attuata secondo gli insegnamenti di Brandi con il metodo detto del rigatino, cioè con una campitura di microscopiche linee discontinue connotate da una impercettibile vibrazione del colore, capace di ridare un ordito al tessuto figurale perduto. Solo di recente, sviluppando un accenno dello stesso Brandi, è stato elaborato un valido metodo di integrazione delle lacune nel mosaico parietale che finora erano state trattate in modo analogico rispetto al dipinto murale, ma senza rispetto della specificità della tessitura musiva.

Fuori d'Italia non sono state elaborate Carte del restauro vere e proprie e, data la complessità teorica del pensiero di C. Brandi e la scarsa fortuna che le correnti del pensiero idealista ebbero nel secondo dopoguerra, la sua Teoria, spesso citata, fu tuttavia accolta solo per singole formulazioni, soprattutto in materia di riconoscibilità dell'intervento, o per ricette, in particolare sulla reintegrazione delle lacune. L'empirismo inglese recepì a suo modo l'esigenza di scientificità del r., indebolendo il legame con la storia e invece stabilendo un forte rapporto con i laboratori scientifici. Nei paesi anglofoni, e negli ambienti e istituti di ricerca a essi ispirati, si è creata un'unica figura, il conservator, con formazione a metà strada tra lo storico e l'esperto scientifico e con una demarcazione non sempre netta rispetto al restauratore inteso come diretto manipolatore dei manufatti. Brandi intervenne in modo assai netto a proposito delle spuliture decise nei laboratorî inglesi a danno non solo dei dipinti della National Gallery, ma anche dei Marmi Elgin del British Museum, dando luogo a quella che fu definita la «Cleaning Controversy». Contro altri interventi, quali gli smontaggi operati dal Magi al Laocoonte Vaticano (v.), lo studioso scese in campo con pari vigore, giudicandoli distruttivi esiti del purismo ottocentesco, in contrasto con il rispetto della storicità. E certo quell'intervento, come l'altro più limitato all'Apollo del Belvedere (v.) in Vaticano, marcano il perdurante influsso della scuola tedesca e segnano una diversità della sensibilità archeologica in fatto di r. delle collezioni storiche.

La più estesa e sistematica operazione di de-r. realizzata in tempi recenti e ispirata alla medesima concezione è quella della Gliptoteca di Monaco che nel panorama dei riordinamenti post-bellici acquista un valore emblematico. Si può osservare in questo caso l'adozione di criteri divergenti per la restituzione architettonica e per la riproposizione delle raccolte di scultura ospitate nel palazzo, in origine progettato in modo unitario e con esplicita finalizzazione museale da Leo von Klenze. L'architettura ricostruita «dov'era com'era» nel suo aspetto esterno è stata privata di ogni dettaglio e rivestimento in stile nella finitura degli interni, che appaiono nudi nel paramento in laterizio. Le collezioni di scultura sono state private di ogni parte dovuta a r. storici, anche quelli, celebrati, di Bertel Thorvaldsen ai complessi frontonali del tempio di Egina, non meno dei rifacimenti del Pasetti al Fauno Barberini con l'esito di ineludibili e incancellabili mutilazioni. Solo negli ultimi anni questa, che come ben vide Brandi è una perdurante influenza del purismo, si è avviata a cedere il passo a considerazioni di maggiore rispetto della storicità e a una più realistica considerazione della natura, in gran parte irreversibile, degli interventi pregressi. A Monaco la radicale mutilazione inferta al Fauno è stata mitigata (1986) da una parziale e non risolutiva ricostruzione. Ma è soprattutto in Francia e in Italia che i de-r. di reperti o collezioni storiche sembrano abbandonati. Tuttavia, mentre il purismo pare perdere terreno nei criteri di intervento sulle collezioni storiche, esso riemerge nei pesanti de-r. di monumenti, quali quelli in corso dal 1984 sull'Acropoli di Atene, e divengono propedeutici a non meno radicali programmi di anastilosi, non disgiunti da interessi di promozione turistica.

Criterî di intervento sui dipinti murali. - La conservazione della pittura parietale antica è un problema al quale l'Istituto Centrale del Restauro e personalmente lo stesso C. Brandi prestarono grande attenzione. Un esame delle premesse e degli orientamenti di metodo che presiedettero, all'inizio degli anni '50, all'intervento su importanti complessi tombali etruschi e romani (v. vol. vi, p. 657 ss., paragrafo 3) lascia emergere il fatto che Brandi teorizzava il ricorso al distacco e allo strappo generalizzato anche per la diversità delle conoscenze di allora sulle patologie da umidità, ritenendo non risanabile la condizione microclimatica di un edificio ipogeo. Questo imperativo determinò la messa a punto di un metodo di consolidamento delle superfici soggette a decoesione, capace di agire anche in ambienti saturi di umidità, e di un sistema di supporti per accogliere il dipinto rimosso: la pellicola pittorica strappata veniva applicata su tela e questa era posta in tiro con un sistema di tensori a molla regolabili. La giustificazione teorica della scelta fu da Brandi così espressa: «il supporto rigido non sarà obbligatorio, in quanto che, quel che risulta necessario, è mantenere integro l'aspetto, non già la struttura. Le pitture si guardano e non si toccano» (1963, p. 112). Tuttavia, a contraddire tale affermazione, il supporto flessibile, con le sue inevitabili spanciature, si mostrò di forte disturbo. La sperimentazione che ha condotto agli attuali supporti rigidi, anch'essi in continua evoluzione, ha come costante alcuni concetti che sono alla base di tutte le prassi operative del r.: rimovibilità e scelta di un materiale più debole dell'antico; per consentire che i materiali, tradizionali o di sintesi, possano essere sostituiti in successivi interventi, con il minimo di danno per l'originale, tra essi e lo strato pittorico da conservare si pone il c.d. strato di intervento che deve permettere la separazione, quando si renda necessaria, nel modo più indolore possibile. Orientamenti analoghi vigono nell'intervento sui mosaici. Tuttavia, nonostante sia possibile adattare alle finalità del r. anche pannelli industriali disponibili sul mercato, è mutata la filosofia dell'intervento. Sulla base di recenti studi sul microclima, considerando l'effetto snaturante della rimozione dal supporto originario e la difficoltà di un nuovo ambientamento museale, si tende, per quanto possibile, al risanamento dell'ambiente ipogeo e al mantenimento in situ del dipinto murale. Si è infatti chiarito che i processi di alterazione non dipendono dall'elevato tasso di umidità relativa, ma dalle sue variazioni, specie se frequenti e accompagnate da ampie escursioni dei valori termici: la causa più comune di queste alterazioni del microclima interno sono dovute all'incontrollata frequentazione umana, che induce anche alterazioni biologiche e chimiche. Gli scambi, che possono avvenire tra materiale e aria interna e/o tra aria esterna e interna causano la formazione di veli offuscanti di composti carbonatici o di efflorescenze di sali solubili che, migrando verso la superficie del dipinto, hanno anche un'azione meccanica devastante. A causa di questo ormai noto meccanismo di alterazione sono da bandire sistemi di risanamento che comportino asciugamenti o ventilazioni forzate, e che possono solo accelerare i fenomeni, fino alla distruzione del dipinto murale. I possibili rimedi, per ora allo stadio di studi di fattibilità, consistono, a seconda dei fenomeni individuati, nella realizzazione di schermi o coperture contro la radiazione solare ovvero di pareti attrezzate poste presso gli accessi che, impedendo gli scambi e le alterazioni indesiderate indotte dalla presenza umana, tuttavia consentano la visione.

Il r. in età antica. - Alla ricognizione delle fonti operata a suo tempo dal Cagiano (v. vol. VI, p. 655 ss., paragrafo 1) poco è stato aggiunto in studi recenti: lo studioso sottolineò l'importanza data nel mondo antico all'eccellenza della materia, alla raffinatezza delle tecniche esecutive e alle pratiche costanti di manutenzione. Manca però tuttora un riscontro nell'esame diretto dei reperti. L'attenzione si è finora limitata alla registrazione sporadica dei casi più evidenti e riconoscibili di grossolane riparazioni nei reperti dei corredi funerari. Disperse nella letteratura e per lungo tempo prive di reale risalto critico sono restate a lungo le osservazioni sulle parti sostituite in antico nei frontoni del Maestro di Olimpia o sulle riparazioni, anch'esse antiche, al Vaso Portland, o la preziosa documentazione pompeiana circa il reimpiego di pitture parietali nei rifacimenti delle decorazioni murali tra il terremoto del 64 d.C. e l'eruzione del 79 d.C. La disciplina archeologica è apparsa prevalentemente tesa a ricostruire i connotati originari di un manufatto, piuttosto che a riconoscere le tracce di vita e d'uso, o ad annotare rifacimenti e sostituzioni alle quali, con attento mimetismo, ricorreva l'artefice antico. Ed è quindi recente l'interesse per r. e rifacimenti antichi (Efebo di Selinunte, Bronzi di Riace, c.d. Trionfi di Marco Aurelio dei Musei Capitolini, ecc.) e per i riusi e le rifunzionalizzazioni e trasformazioni, molte delle quali attuate già in età classica. Si è così giunti a riconoscere il trasferimento della decorazione frontonale dal Santuario di Apollo Daphnephòros a Eretria al tempio romano di Apollo Sosiano, la trasformazione da Domiziano in Nerva del bronzo equestre misenate al Museo Nazionale di Napoli, i successivi adattamenti del ponte di Valentiniano, presso il Ponte Sisto a Roma, relativi sia all'architettura, sia alle figure della decorazione, l'intenzionale reimpiego di vetro millefiori e di vetro-cammeo di età augustea nella mirabile tessitura delle tarsie di Giunio Basso, tutte evidenze raccolte nel corso di attenti restauri, come del resto già era avvenuto nel primo caso segnalato, la Vittoria di Brescia.

Un esempio particolarmente significativo, nel quale le valenze conoscitive del r. sono risultate determinanti per la scoperta di riusi antichi, può ravvisarsi nella recente rilettura dell'Arco di Costantino. L'esame dello spiccato, condotto durante la pulitura delle superfici architettoniche, integrato con indagini stratigrafiche e sondaggi strumentali, ha permesso di evidenziarci nel monumento due fasi ben distinguibili, separate da una linea costituita dalla grande cornice marcapiano; al disopra di quella linea, nell'attico, i blocchi sono disomogenei, recano tracce di riutilizzazione e sono messi in opera in modo irregolare; al disotto della cornice marcapiano la struttura dell'opera quadrata si presenta particolarmente accurata, i giunti non recano tracce di manomissioni e i blocchi marmorei sono tutti dello stesso marmo. Inoltre nella stessa cornice principale gli inserti e le rilavorazioni costantiniane, già da tempo evidenziati nella letteratura critica, si trovano ubicati sempre in corrispondenza dello sporto delle mensole sovrastanti le colonne; l'ipotesi che il monumento non avesse in origine colonne libere, ma solo semicolonne, è avvalorata dall'osservazione degli elementi aggiunti ai pilastri di sostegno delle colonne per aumentarne le dimensioni, dalle tracce di semicolonne» scalpellate, dalle tecniche di inserimento in breccia, nel paramento già in opera, delle attuali lesene. Analoghe tracce di alterazioni si osservano nell'archivolto del passaggio centrale, ove sono evidenti i segni di abbassamento e rilavorazione della cornice di tale passaggio e delle superfici circostanti, nelle quali sono state introdotte le figurazioni simboliche; lo stesso fregio storico appare ottenuto scolpendo in opera i filari di blocchi.

Queste e altre evidenze raccolte, e confortate dallo scavo stratigrafico condotto nelle fondazioni dell'arco, convergono nell'avvalorare l'ipotesi che il Senato romano non abbia dedicato a Costantino un arco elevato per l'occasione, ma abbia rimaneggiato un monumento più antico (caratterizzato da un attico diverso da quello conservato attualmente e senza colonne libere sulle fronti), arricchendolo di splendidi spolia figurati e di fregi decorativi e narrativi appositamente scolpiti sulle superfici dei blocchi già in opera. L'ipotesi non è nuova (fu avanzata all'inizio del secolo dal Frothingham) e trova riscontro sul piano filologico, sia per l'insolito formulario dell'epigrafe dedicatoria, sia per il silenzio dei Cataloghi Regionari, che attribuiscono a Costantino il solo quadrifronte del Foro Boario. Le evidenze dello scavo stratigrafico hanno confermato quanto in precedenza osservato sullo spiccato, e la sequenza delle fasi e delle strutture accertate al disotto del basamento dell'arco si ricollega a quanto acclarato sul lato N, nello scavo della Meta Sudans.

Un altro tema nel quale sembra essenziale un riscontro diretto sui reperti, è quello delle finiture di superficie, alle quali gli antichi attribuivano importanza notevole. Tuttavia, anche nel corso di un r., non è sempre agevole discernere i trattamenti con cui si dava un'ultima mano, protettiva e cosmetica, all'opera appena terminata, dalle successive manutenzioni. Le materie usate (olii, cere, resine, o scialbi e intonaci nel caso di superfici architettoniche) erano spesso le stesse in entrambi i casi. Poter riconoscere, anche con l'ausilio di strumentazioni moderne, i resti di tali trattamenti è occorrenza oggi assai rara: manomissioni e r., insieme alle alterazioni e ai depositi di prodotti dell'inquinamento, congiurano nel rendere la ricerca assai difficile. Sono state tuttavia ricondotte ad antichi interventi di manutenzione i resti di «patine a ossalati» studiate in particolare sulle superfici dei monumenti marmorei di età imperiale di Roma (v. supra) durante i recenti restauri. Nella stessa occasione si sono riconosciute le tracce di interventi puristi di spatinatura (all'Arco degli Argentari, all'Arco di Costantino); trattamenti peraltro documentati già alla metà dell'800 per i Marmi Elgin del British Museum, secondo il gusto classicheggiante che negava la presenza del colore e attribuiva all'antico un uniforme candore. Durante il secolo scorso sono state infatti cancellate dalle superfici le tracce di policromia e, insieme, gli strati dei successivi interventi di manutenzione, interpretando tutto allo stesso modo, cioè come «tartaro del tempo».

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