Revisionismo storiografico

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)

Revisionismo storiografico

Marcello Flores

La complessa questione del r. s., delle sue caratteristiche e delle sue manifestazioni, deve essere situata, per poter essere compresa adeguatamente, nelle dinamiche più generali che hanno investito la storiografia a partire dall'ultimo quindicennio del 20° secolo. Il ruolo dello storico nella società e lo statuto epistemologico della disciplina - in una parola, i fondamenti del 'mestiere di storico' che M. Bloch aveva magistralmente delineato nella sua Apologie pour l'histoire, ou Métier d'historien (1949; trad. it. 1950) - sono entrati profondamente in crisi nell'ultimo quindicennio del Novecento e non sembrano aver trovato risposte soddisfacenti neppure nel primo lustro del 21° secolo. Nello stesso periodo, è mutato in modo altrettanto radicale, il rapporto con il passato della società nel suo insieme, di cui due sono gli aspetti più evidenti: la centralità della memoria (o delle politiche della memoria), che tende a monopolizzare il discorso sul passato sottraendolo all'egemonia che la storia aveva esercitato su esso per quasi due secoli, e l'appiattimento sull'attualità e sul presente di ogni narrazione e riflessione sul passato, soprattutto da parte dei media che si rivolgono a un pubblico di massa.

La declinazione del termine

Il r. s. si caratterizza per un'accentuata indefinibilità e per l'ambiguità accumulata nel tempo soprattutto dal sostantivo (revisionismo), utilizzato in ambiti differenti e con significati multipli e a volte contraddittori, accompagnati in genere da un forte connotato negativo, spesso capaci di suscitare polemiche politico-culturali più che scientifico-disciplinari. Affermatosi come termine attorno agli anni Sessanta, negli Stati Uniti, in una duplice declinazione radicalmente differenziata quanto a significato e obiettivi, il r. s. trova la sua consacrazione 'disciplinare' nell'Historikerstreit, in quella 'controversia tra gli storici' che coinvolge la cultura storiografica tedesca tra il 1986 e il 1987. Termine sempre meno pregnante, utilizzato largamente da non storici e nei confronti di eventi indifferenziati ed eterogenei del passato, il r. s. è divenuto un tassello di quell'uso pubblico della storia che in numerosi Paesi ha focalizzato l'attenzione sul passato, spesso sottraendolo in parte al dibattito storiografico e facendone un momento della contrapposizione politica e dello scontro ideologico.

Ci si può chiedere se esista un denominatore comune per i diversi modi in cui il r. s. è stato usato e declinato dagli storici e dagli intellettuali, e divulgato e utilizzato dai giornalisti e politici. In senso generale, si potrebbe affermare che il r. s. rappresenta un momento forte di ripensamento di interpretazioni egemoniche o prevalenti che hanno un forte legame con la (ri)costruzione di un'identità nazionale o collettiva. Esso costituisce, o può costituire, la narrazione storica capace di divenire momento di suggestione o di coagulo, di spinta o di risultato, per una lettura e visione del passato facilmente spendibile e utilizzabile sul terreno politico o comunque nell'arena pubblica.

Prima di essere legato principalmente e sostanzialmente alla storia, il revisionismo era stato un concetto che aveva avuto particolare rilievo in ambito religioso, istituzionale, politico e diplomatico-internazionale. Sorta per connotare la denuncia di un accentuato ritualismo liturgico nella Chiesa protestante d'Inghilterra attorno al 1860, ed evitare un'eccessiva somiglianza con la Chiesa cattolica romana, la parola revisionismo si spostò nell'ultimo quarto del 19° sec. in Francia, dove fu il termine di riconoscimento per coloro - come i boulangisti - che intendevano revisionare la Costituzione del 1875 in senso marcatamente plebiscitario. Esso acquistò notorietà e piena legittimazione in ambito politico, all'interno del movimento operaio, quando le posizioni riformiste, anticlassiste e antideterministe di E. Bernstein in seno alla socialdemocrazia tedesca e internazionale suscitarono un acceso dibattito, a partire dal 1876, che si concluse con la condanna di questo tentativo di revisione dell'ortodossia marxista nel Congresso di Dresda del 1903.

Come revisionisti si connotarono anche, nella Francia a cavallo tra 19° e 20° sec., i seguaci di G. Sorel, nell'ambito del sindacalismo rivoluzionario, e i cosiddetti dreyfusardi, impegnati nella revisione del processo contro il capitano A. Dreyfus e nella dimostrazione della sua innocenza a seguito della sua degradazione e accusa di tradimento. Sempre nell'ambito del movimento operaio e socialista, nei primi due decenni del 20° sec., il termine conobbe una nuova fortuna grazie alla polemica di Lenin contro K. Kautsky, accusato - lui che aveva fustigato Bernstein come revisionista - di voler revisionare il carattere rivoluzionario del marxismo. Ormai confinato all'interno del movimento comunista, per combattere e classificare negativamente i propri avversari riformisti, revisionismo divenne con gli anni un concetto chiave per riaffermare il potere dei gruppi dirigenti nei confronti dei gruppi - e poi degli Stati - ritenuti eretici, in nome di un'ortodossia che serviva a legittimare e coprire i conflitti tra le correnti e poi tra i Paesi e partiti 'fratelli'. Fu questo il caso della feroce polemica contro J. Broz, detto Tito, e il comunismo iugoslavo da parte di Stalin e del Kominform alla fine degli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta; ma anche, nei primi anni Sessanta del 20° sec., delle accuse formulate da Mao Zedong e dai comunisti cinesi contro i revisionisti sovietici o contro i più noti dirigenti comunisti europei come l'italiano P. Togliatti.

Nel periodo tra le due guerre, intanto, il termine revisionismo era stato adottato in sede diplomatica e di politica internazionale da quei Paesi e da quelle forze che intendevano contrapporsi ai trattati che avevano accompagnato la Conferenza di Pace di Parigi nel 1919-20.

Il concetto e il termine nella storiografia

È solamente nel dopoguerra che sia il termine sia il concetto di revisionismo diventano entrambi applicabili anche alla storiografia, in modi differenziati e a volte anche contraddittori. È in questo periodo, infatti, che si manifesta nel modo probabilmente più limpido il significato etimologicamente più corretto del r. s.: il riesame di un momento storico alla luce di una nuova documentazione e di una spinta interpretativa radicata nelle convinzioni e nelle rappresentazioni culturali del presente. Proprio agli inizi degli anni Sessanta, vi furono due episodi notevoli di revisionismo, benché solo più tardi gli storici che ne erano stati gli autori furono definiti revisionisti. All'epoca, infatti, si parlò di 'dibattito' storiografico e di contrapposizione di interpretazioni. Si trattava della revisione delle più accreditate idee sull'origine sia della Prima sia della Seconda guerra mondiale per opera, rispettivamente, dello storico tedesco F. Fischer (1961) e dello storico inglese A.J.P. Taylor (1961). Fischer sottolineò il carattere interimperialistico del primo conflitto mondiale, diluendo le responsabilità della Germania nell'ambito di un contesto europeo globalmente coinvolto nella spirale di guerra. Taylor sostenne che lo scoppio della Seconda guerra mondiale non fosse il risultato di una coerente volontà espansionista e bellicista di A. Hitler, ma che vi avesse contribuito anche l'incapacità di Londra e Parigi di proseguire in un'intelligente politica di appeasement, abbandonata proprio sul terreno - il corridoio di Danzica - che sembrava il più difficile da difendere.

Non è un caso, tuttavia, se le due più rilevanti querelles storiografiche di taglio esplicitamente revisionistico, negli anni Sessanta e poi negli anni Settanta, riguardano la storia 'del tempo presente', per usare la significativa espressione francese a proposito della storia contemporanea più vicina, degli Stati Uniti e dell'URSS. Si tratta di un dibattito che, pur occupandosi della storia di entrambe le superpotenze nel Novecento, si interessa soprattutto ai suoi esiti, fortemente influenzato dall'evolversi della storia e dalle trasformazioni in corso. Nel 1959 lo storico americano W. Appleman Williams pubblicò The tragedy of American diplomacy, un libro che fu al centro del dibattito storiografico soprattutto dopo la riedizione aggiornata, nel 1962, e in quella successiva, dieci anni dopo. Williams assunse un atteggiamento critico nei confronti della scuola dominante negli anni Cinquanta consensus history, legata a una visione unitaria del carattere della storia americana, alla difesa dei suoi elementi centrali e dello stesso eccezionalismo della sua politica. Egli propose un'interpretazione della storia e soprattutto della politica estera americana fortemente antigiustificazionista, legata a una visione democratica radical della politica e dei suoi compiti.

Furono storici più giovani, che lavorarono e produssero sulla strada aperta da Williams, a offrire una visione più coerente di questo processo storiografico di revisione (Fleming 1961; Kolko 1969). Sottolineando soprattutto le componenti economiche della politica estera americana, il giudizio tradizionale venne spesso rovesciato, principalmente per quanto riguardava i rapporti con i Paesi latino-americani, ma anche le ragioni del confronto/scontro con l'Unione Sovietica. La polemica storiografica innescata dal revisionismo radical di storici spesso legati politicamente alla New Left, favorì comunque la crescita degli studi sull'argomento, permettendo nell'arco di un decennio di giungere a quella che fu definita una nuova sintesi postrevisionista, prodotta dallo storico che lentamente monopolizzò, o quasi, l'interpretazione storiografica sulla guerra fredda, J.L. Gaddis (Gaddis 1982).

Sempre negli anni Settanta, evidentemente influenzato dallo stesso clima culturale e politico che aveva permesso di ribaltare giudizi consolidati sulla guerra fredda e sulla politica estera americana, un gruppo di studiosi americani dell'Unione Sovietica e della sua storia contrappose una versione revisionista di quest'ultima all'interpretazione ancora dominante, segnata dall'influenza incontrastata della scuola 'totalitaria'. Si trattava, in questo caso, di un'operazione in parte diversa in parte convergente con la precedente. La scuola 'totalitaria', infatti, era rappresentata essenzialmente da scienziati politici, sociologi, filosofi politici, mentre tradizionalmente mancava una storiografia statunitense sull'Unione Sovietica.

Le proposte revisioniste - omogenee soprattutto nel respingere un'interpretazione fortemente caratterizzata dall'ideologia e da una visione statica e immutabile dei modelli di società e di governo che si erano succeduti in URSS a partire dalla rivoluzione - rifiutavano al tempo stesso una visione della storia appiattita sul versante politico-istituzionale e un giudizio storiografico ancorato a quello politico-morale. I contributi più rilevanti di questi studiosi revisionisti (Fitzpatrick 1970; Cohen 1973) si muovevano sul terreno dell'economia e dell'analisi della società, della cultura e dello scontro politico interno al Partito comunista, cercando di mostrare una realtà storica complessa, impossibile da comprendere nella monolitica e immobile interpretazione dei fautori della scuola 'totalitaria'. La contesa storiografica aperta per contrastare l'interpretazione totalitaria della storia dell'URSS, si fondava sostanzialmente sull'idea di un multipolarismo presente anche all'interno del PCUS e della dirigenza comunista e di una dinamica sociale che cercava di sfruttare le contraddizioni del regime ai fini di una mobilità sociale accentuata, garantita dal forte tasso di modernizzazione presente nell'epoca della pianificazione. La monodimensione della ricerca 'totalitaria' veniva sostituita da un approccio storicamente più complesso in cui spesso, tuttavia, l'immagine dell'URSS come un Paese vivo, dinamico e non ingessato, lasciava intravedere un approccio più simpatetico rispetto alla condanna senza appello di chi condivideva un giudizio negativo sul sistema comunista.

Il confronto tra revisionisti e antirevisionisti fu altrettanto acceso, in questo caso, quanto quello che aveva riguardato la politica estera americana. Il suo effetto fu ancora più dirompente, in un certo senso, perché coinvolse quasi l'intera classe degli storici slavisti negli Stati Uniti e contribuì fortemente alla sua moltiplicazione e diffusione. Diversamente che nel caso coevo, tuttavia, esso non favorì, almeno in tempi brevi, l'emergere di una posizione di tipo sincretista o comunque capace di utilizzare argomenti, riflessioni e giudizi presenti in entrambi gli schieramenti. La fine del comunismo, l'apertura parziale degli archivi e la possibilità di disporre di una documentazione senza dubbio più ricca e complessa, non crearono nell'immediato nuove prospettive interpretative. Vi fu, al contrario, una ripresa della contrapposizione tra revisionisti e totalitari, in forme storiograficamente più mature, ma accompagnate da polemiche personali assai più accentuate.

La 'controversia tra gli storici'

Un salto di qualità e una nuova direzione nel ruolo e nella diffusione del revisionismo vennero alla luce a metà degli anni Ottanta attorno a un dibattito storiografico che travalicò di gran lunga il campo degli addetti ai lavori. La 'controversia tra gli storici' - Historikerstreit, come presto fu nota in tutto il mondo - fu aperta in Germania da un intervento di E. Nolte sul quotidiano liberalconservatore Frankfurter Allgemeine Zeitung (Nolte 1986), in cui lo studioso tedesco riassumeva e un po' banalizzava la sua idea di 'nesso causale' tra le violenze commesse dai bolscevichi all'epoca e dopo la rivoluzione d'Ottobre e quelle del nazionalsocialismo giudicate come una reazione, sia pure eccessiva, alle prime.

"L''Arcipelago Gulag' non era forse più originario di Auschwitz? L''omicidio di classe' opera dei bolscevichi non rappresentava forse l'antecedente sia logico sia fattuale dell''omicidio razziale' dei nazionalsocialisti?". È in gran parte attorno a questo interrogativo polemico e provocatorio che si sviluppò in modo più ricorrente la controversia tra gli storici. Non è chiaro quanto sia stata l'ambiguità delle dichiarazioni di Nolte - in parte dovuta al linguaggio involuto e in parte alla necessità di riassumere un lavoro, che sarebbe uscito qualche mese più tardi (Nolte 1987), in un articolo di quotidiano - a suscitare le forti reazioni al suo scritto, accusato da alcuni di volere in qualche modo 'giustificare' la Shoah.

L'Historikerstreit fece scendere direttamente gli storici sul terreno della politica e dell'ideologia, focalizzando così il tasso di revisionismo presente (autoaffermato o denunciato in diversi interventi) più sul versante dell'uso pubblico del passato che su quello delle interpretazioni storiografiche contrapposte. Il dibattito politico-culturale, in sostanza, prese il sopravvento; la natura stessa della contesa conobbe una deviazione verso una riflessione sull'appartenenza nazionale tedesca, sul ruolo dell'Olocausto nella storia e nella memoria nazionale, sul significato di una "colpa" collettiva che la Germania sentiva di dover riconoscere senza farla diventare, però, un carattere permanente della propria identità.

Nell'ambito della 'controversia', naturalmente, non mancarono momenti anche alti e profondi di discussione scientifica: soprattutto attorno alla questione della 'singolarità' di Auschwitz e della strategia di distruzione razziale del nazionalsocialismo; sul versante della riflessione politico-culturale, fu importante la contrapposizione tra chi vedeva nella Shoah una frattura irreparabile - di 'civiltà' oltre che nella storia nazionale tedesca - e chi rivendicava un rapporto di tradizione e continuità su questo aspetto (Nolte e i revisionisti accanto a lui nella controversia, soprattutto A. Hillgruber, M. Stürmer e K. Hildebrand).

Verso la fine degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, il termine revisionismo divenne sempre più presente nel dibattito pubblico sul passato, capace di connotare negativamente una narrazione nuova degli eventi alla luce di esigenze politiche e preoccupazioni ideologiche legate al presente, oppure di autorappresentarsi positivamente come il terreno di svecchiamento di convinzioni consolidate e interpretazioni divenute canoniche e, quindi, ideologicamente superate e storiograficamente ormai inadeguate. A contribuire a questa nuova fase furono contemporaneamente sia il dibattito sul bicentenario della Rivoluzione francese sia il crollo del Muro di Berlino e quello dei regimi comunisti dell'Europa centro-orientale nel 1989, cui fece seguito due anni dopo la disintegrazione dell'impero sovietico.

Un'interpretazione revisionista della Rivoluzione francese, in realtà, esisteva già dalla fine degli anni Settanta, quando F. Furet pubblicò il suo lavoro più impegnativo (Furet 1978), riprendendo e ampliando la revisione operata dall'inglese A. Cobban a metà degli anni Sessanta, che aveva dato inizio alla polemica contro l'interpretazione marxista dominante negli studi sulla rivoluzione e sul giacobinismo. È sull'onda del dibattito svolto nel bicentenario, tuttavia, che la revisione dell'interpretazione più diffusa e autorevole nel corso del Novecento - quella 'giacobina' proposta in forme sempre più complesse dalla storiografia marxista - non fu più soltanto messa in discussione, ma sostanzialmente abbandonata. L'idea di non guardare più alla Rivoluzione francese come un movimento sociale che, dopo aver sconfitto l'aristocrazia, rinnegava sé stesso e rendeva necessaria, di conseguenza, una nuova rivoluzione più radicale ed egualitaria - quella comunista - non era solamente l'abbandono di una visione teleologica della storia e di una pratica storiografica fortemente influenzata dall'ideologia e dalla politica. Era anche, secondo Furet, il tentativo di indagare il difficile cammino e costruirsi di un nuovo corpo politico - la democrazia - che corrispondesse alla società civile borghese.

Il negazionismo

Prima di confrontarsi con il decennio conclusivo del 20° sec., quando il significato e il ruolo del r. s. conobbe un mutamento abbastanza rilevante grazie soprattutto all'uso e all'enfasi che ne fecero i media, occorre affrontare l'altra tradizione che, già a partire dagli anni Sessanta, utilizzò o venne contrassegnata con il termine revisionismo. Se nei casi esaminati finora vi era un legame strettissimo con la ricerca storiografica, la cui revisione interpretativa proposta - da qualsiasi cosa fosse motivata - costituiva un elemento di accelerazione e approfondimento, assai diverso è il caso di quei gruppi che sono giunti ad autoproclamarsi essi stessi revisionisti attraverso il passaggio a un antistorico e antiscientifico negazionismo. Negazionisti sono i sedicenti studiosi che negano l'esistenza delle camere a gas e dell'avvenuta eliminazione degli ebrei da parte del nazismo. In tal modo sono stati etichettati dalla storiografia sull'Olocausto (e non solo), di qualsiasi scuola interpretativa, anche se da parte loro preferiscono autoidentificarsi storici revisionisti.

Padre del negazionismo può essere considerato un ex deportato politico di Buchenwald, P. Rassinier, ma è alla fine degli anni Settanta che il negazionismo accomuna gruppi estremisti di diversa origine, e che irrompe nell'arena del dibattito politico e pubblico, in concomitanza con l'emergere di un filone statunitense, anch'esso iniziato in sordina nell'immediato dopoguerra e venuto allo scoperto negli anni Sessanta. A venire negata, ormai, è l'attendibilità delle testimonianze di Norimberga (ritenute estorte) e la responsabilità di Hitler nell'avere scatenato la Seconda guerra mondiale (la cui colpa viene attribuita a polacchi e britannici).

A permettere al negazionismo di conoscere un maggiore successo fu il professore di letteratura francese all'università di Lione R. Faurisson, che iniziò a scrivere testi revisionisti sempre più carichi di interrogativi polemici contro la 'vulgata' ebraica e retoricamente inclini alla negazione. Il tentativo di ancorare a una lettura dissacrante dei testi il suggerimento di una loro consapevole falsificazione si focalizzò nel lavoro sul diario di A. Frank, da sempre oggetto di particolare attenzione dei negazionisti per l'impatto emotivo e il successo mondiale che gli aveva arriso con gli anni (anche se esso non parla, ovviamente, di Auschwitz e delle camere a gas). Il 'caso Faurisson' esplose in Francia nel 1979, dopo la pubblicazione su importanti quotidiani di alcune sue lettere e la sua sospensione dall'insegnamento, cui si affiancarono un documento di trentaquattro storici che lo accusavano di 'oltraggio alla verità' e, di contro, la difesa della sua 'libertà di parola' da parte di numerosi intellettuali di sinistra, tra cui spiccava lo statunitense N. Chomsky. Nello stesso anno l'Institute for Historical Review - che raggruppava in California numerosi antisemiti e razzisti, e che iniziava a pubblicare la rivista The journal of historical review, il cui primo numero portava la data spring 1980 - diventava sempre più il punto di riferimento per le posizioni negazioniste, promettendo premi in denaro a chi avrebbe potuto 'provare' l'esistenza delle camere a gas (su questo tema sarebbe stato condannato da diversi tribunali a risarcimenti cospicui) e aumentando la propria opera di propaganda in tutto il mondo; grazie alla sua esistenza, inoltre, il termine revisionismo è diventato sempre più frequentemente sinonimo di negazionismo, o serve comunque a connotare in modo precipuo coloro che si rifanno - e sono nella stragrande maggioranza lontani dal mondo della storiografia e della ricerca - a un aperto rifiuto di riconoscere la verità storica della Shoah.

Le tesi negazioniste sono tornate alla ribalta nel corso del processo per diffamazione, intentato dallo storico D. Irving contro l'americana D.E. Lipstadt, accusata di avere danneggiato la sua reputazione accademica con il libro Denying the Holocaust (1994), un excursus storico-giornalistico nella letteratura negazionista. Irving è stato condannato a pagare le spese processuali dopo che un tribunale di Londra aveva assolto la Lipstadt. Nel corso del processo erano stati utilizzati i pareri indipendenti di diversi storici, tra i quali va segnalato quello di R.J. Evans, capace di evidenziare le strategie antiscientifiche e retoriche messe in atto da Irving per dare credibilità accademica alle proprie tesi.

Se si considera che l'Historikerstreit ebbe luogo esattamente durante lo scandalo Faurisson e il processo Irving, ci si rende conto di come la contaminazione apportata dal negazionismo al dibattito sul revisionismo sia stata al tempo stesso rilevante e generatrice di confusione e ambiguità. Nolte, cui - come accennato - si deve l'avvio della controversia fra gli storici, era stato accusato di muoversi in una prospettiva revisionista che andava oltre il dibattito storiografico; la sua interpretazione infatti offriva una diversa spiegazione di eventi storici tra loco vicini, creando un nesso causale che ribaltava - o permetteva di legittimare chi lo facesse - la gerarchia di condanna politico-morale esistente (secondo la quale i nazisti andavano considerati i peggiori nemici dell'umanità). L'interpretazione di Nolte, in sostanza, offriva il destro a spiegazioni di carattere 'riduzionista', in cui il ridimensionamento della gravità del male commesso (in questo caso di tipo 'relativo') poteva favorire un parziale autoassolvimento - della Germania, dello Stato tedesco, del regime nazista, dell'identità e della cultura tedesca - che si giocava prevalentemente sul terreno pubblico e politico, non certo storiografico.

Il mutamento alla fine del Novecento

Il crollo del Muro di Berlino (1989), con la cesura profonda che rappresentò in un secolo che molti avevano caratterizzato un po' ingenuamente come 'secolo del comunismo', diede inizio a una fase in cui la riappropiazione del passato e la sovrapposizione della memoria alla storia, spostarono sul versante pubblico un dibattito che venne in parte sottratto al monopolio degli storici, costringendo questi ultimi ad adeguarsi alle regole di una semplificazione del giudizio storico in nome delle priorità (politiche, ideologiche, culturali) del presente.

L'intreccio tra il clima intellettuale e politico di una nuova fase storica e il ruolo crescente dei media nell'attualizzare il passato e permettere un crescente 'uso' pubblico e politico della storia, resero possibile annebbiare le chiare distinzioni interpretative e le contrapposizioni storiografiche che si sono viste a proposito della guerra fredda e della storia sovietica; lasciando che l'influenza ideologica e gli interessi politici del presente fossero assunti anche dagli storici come momento di una battaglia culturale più ampia, che andava oltre il semplice dibattito storiografico.

È quanto avvenuto con particolare rilievo in Italia, dove la polemica attorno allo storico R. De Felice, che aveva apportato le più rilevanti innovazioni interpretative su un periodo centrale della storia dell'Italia nel Novecento, il fascismo, si svolse soprattutto sui giornali e attorno alle interviste giornalistiche rilasciate dallo studioso. Il contributo storiografico di De Felice all'analisi del fenomeno fascista, inserito da una parte all'interno della storia d'Italia e dall'altra nell'ambito dello studio dei totalitarismi tra le due guerre, aveva raggiunto un'organica definizione del fenomeno nella prefazione a un'antologia sulle interpretazioni che se n'erano avute (De Felice 19839). Vi era la consapevolezza che "tutte le interpretazioni del fascismo, tanto quelle più onnicomprensive quanto quelle più articolate, si sono dimostrate via via incapaci di dare una convincente spiegazione del fascismo e tutte inficiate dalla loro estrema unilateralità e, spesso, ideologizzazione", ma anche che la strada non poteva essere quella dei "tentativi di giungere a una spiegazione del fascismo integrandole tra loro" (De Felice 1995, p. xi).

Fu però la più famosa e diffusa Intervista sul fascismo del 1975 a costituire l'oggetto polemico di molti interventi, che forzavano i giudizi politici ivi contenuti legandoli in modo deterministico alle riflessioni storiografiche dell'autore. A venire criticate, e spesso frettolosamente liquidate, non erano soltanto le considerazioni sul superamento del paradigma antifascista (inteso come approccio storico-politico che aveva fatto il suo tempo), ma anche la sostituzione del conflitto fascismo-antifascismo con quello totalitarismo-democrazia come base di una più matura indagine storica. Per circa un ventennio, a partire dall'Intervista, il confronto pubblico su fascismo e antifascismo fu legato a ipotesi interpretative legate all'attività storiografica, anche quando esso avveniva non soltanto tra storici. Fu più o meno con la pubblicazione di un altro libro-intervista (De Felice 1995), che la polemica sfociò nella contrapposizione sempre più marcata tra il revisionismo di De Felice e i suoi critici antirevisionisti, in un'ottica di uso politico del passato che con la ricerca storica aveva legami sempre più tenui. Venne lasciato sempre più sullo sfondo il giudizio storiografico sul fascismo, mentre l'attenzione si focalizzò sui temi della Resistenza, della partecipazione italiana alla guerra, dell'attendismo della popolazione e, infine, della cosiddetta morte della patria. È questa, probabilmente, l'occasione ultima in cui sono stati gli storici (nella fattispecie ancora De Felice ed E. Galli della Loggia) a innescare una discussione attorno a interpretazioni differenti del passato che diventa presto dibattito pubblico con evidenti connotati ideologici e politici. La polemica contro un'ortodossia storiografica che aveva ingessato l'identità repubblicana serve a ridiscutere - con una forte proposta di revisione di giudizi consolidati - la natura e la consistenza dell'identità nazionale non soltanto nel breve periodo della storia repubblicana, ma all'interno dell'intera esperienza dell'Italia unita (Galli della Loggia 1996). Questo dibattito, che aveva radici lontane e riprendeva il confronto delle interpretazioni sulle debolezze e le tare ereditarie della storia unitaria italiana, la natura dello stato liberale (e poi fascista e repubblicano) e i caratteri particolari della società italiana, ha perduto rapidamente il suo orientamento storiografico per diventare sempre più un momento del dibattito pubblico del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica (Detti 2001).

È sempre nel corso degli anni Novanta, tuttavia, nel contesto del nuovo ordine internazionale e della ripresa dei nazionalismi e delle rivendicazioni di appartenenza e identità collettiva segnate da culture, etnie e religioni, che il r. s. trova ancora un'ulteriore declinazione: quella della battaglia sulle interpretazioni ufficiali della storia recente, sui libri di testo da adottare nelle scuole pubbliche, sulle date, sugli eroi, sui momenti simbolici capaci di favorire la costruzione di una memoria collettiva. In molti dei casi in cui ciò è avvenuto, si è trattato di situazioni in cui era presente, o era terminato da poco, un conflitto armato o comunque segnato da un forte tasso di violenza. I casi probabilmente più rilevanti, anche se tra loro molto diversi, di questo tipo di revisionismo, sono quelli che si sono avuti tra gli storici israeliani e in Giappone, anche se non vanno dimenticati i dibattiti accesi che hanno avuto luogo in India, in Irlanda, in Corea e negli Stati emersi dal dissolvimento della Iugoslavia e dell'Unione Sovietica.

Il caso degli storici palestinesi. - Nel primo caso a essere stato messo sotto accusa dai nuovi storici revisionisti fu il mito della fondazione dello Stato d'Israele e, in modo particolare, della 'fuga' più o meno volontaria dei cittadini palestinesi dai confini stabiliti con la risoluzione delle Nazioni Unite e poi dai risultati della prima guerra arabo-israeliana (1948-49). La necessità di demolire la narrazione, tradizionale e sionista, dei primi anni dello Stato dominante in Israele fin dal 1948, è il comune denominatore di opere tra loro assai diverse, come quelle di A. Shlaim (Shlaim 1988) e B. Morris, I. Pappe e T. Segev. Si trattava, in realtà, di abbandonare una visione eroica e celebrativa della storia recente che, coincidendo con l'intera storia nazionale, ne situava i risultati come sbocco necessario di una storia decennale o addirittura secolare e millenaria (a seconda che prevalesse un'ottica politica, culturale o religiosa), cancellando, inoltre, dubbi e contraddizioni riguardanti eventi che mal si conciliavano con quella narrazione ufficiale.

Le proposte degli storici revisionisti erano il frutto in parte di un più ampio accesso alla documentazione archivistica, in parte di una metodologia più matura e del rifiuto di utilizzare la storia come strumento ancillare di una forte costruzione identitaria. Dal momento che la loro produzione, tuttavia, avveniva nel periodo che copriva la prima intifāḍa (esplosa nel 1987) e il Trattato di Oslo (1993), era logico che risentisse del dibattito politico in corso e lo influenzasse a sua volta. È inevitabile che in una situazione di conflitto il processo di riscrittura e selezione della storia contenga elementi di conflittualità e di maggiore adesione o utilità per le posizioni presenti; è tuttavia indubitabile che lo sforzo dei nuovi storici israeliani e il dibattito storiografico - oltre a quello pubblico e politico - che sono stati capaci di suscitare, ha contribuito in modo evidente a un salto di qualità della conoscenza storica e della complessità e maturità delle interpretazioni in conflitto. Basti pensare all'individuazione della collusione giordano-israeliana della fine del 1947 - di cui l'incontro tra G. Meìr e il re 'Abd Allāh nel novembre costituì il momento cruciale - e alla complicità britannica nell'accordo hashimitasionista che frustrava la risoluzione delle Nazioni Unite del 29 novembre sulla spartizione e creava un ostacolo insormontabile alla formazione di uno stato arabo-palestinese; o all'analisi documentata di massacri come quelli di Deir Yassin e di Katr Kasim, e più in generale del carattere violento e persecutorio con cui venne portata avanti dagli israeliani la cacciata dei palestinesi dalle loro terre e abitazioni per precostituire un più favorevole rapporto demografico nel nuovo Stato.

Sia Morris, sia Shlaim e Pappe, hanno proposto una narrazione e interpretazione degli eventi che arriva praticamente fino ai primi anni del Duemila, e si trova coinvolta inevitabilmente in giudizi più direttamente politici e attuali. Ne deriva un approccio che sancisce differenze anche rilevanti all'interno dello stesso gruppo di storici revisionisti. Una visione più coerente e lineare porta Morris e Pappe ad assolvere o criticare in modo unitario i governi che si sono succeduti alla guida dello Stato d'Israele; una maggiore capacità di giudizio articolato e differenziato sui singoli momenti di questa storia conduce Shlaim a ricostruire la lunga e contraddittoria contrapposizione tra i 'moderati' e i 'militari' (nel senso della strategia politica adottata, non per l'appartenenza effettiva all'esercito) nella storia israeliana.

Il caso giapponese. - Le proteste di massa cinesi di fronte all'ambasciata giapponese di Pechino nell'aprile 2005, avvenute al grido di "vergognatevi di distorcere la storia", hanno riproposto, anche a livello di rapporti statuali e diplomatici, una querelle che durava da anni e che si era svolta, in passato, prevalentemente all'interno del Giappone. La protesta si rivolgeva contro l'approvazione, da parte del Ministero dell'educazione giapponese, di otto libri di testo per le scuole: uno dei quali, in modo più deciso degli altri, aveva cancellato i crimini commessi in Cina dall'esercito giapponese di occupazione, gli orrori commessi a Nanchino nel 1937, la vergogna delle 'donne di conforto' coreane utilizzate come prostitute forzate dai soldati del Sol Levante. Questo testo era stato scritto con gli auspici della Atarashii Rekishi Kyokasho Tsukurukai (Società giapponese per la riforma dei libri di testo di storia), istituzione fondata da storici nazionalisti che vedevano con disappunto la perdita dell''orgoglio' di appartenenza nazionale tra i giovani e nelle scuole.

Fin dalla fine della guerra il Ministero dell'educazione stabiliva i manuali scolastici ammissibili. A una prima fase in cui le autorità americane di occupazione volevano impedire un eccesso di nazionalismo subentrò, dopo il 1953, una maggiore autonomia censoria della burocrazia giapponese. Nel 1965 un noto storico democratico, S. Ienaga, iniziò la prima di numerose battaglie giudiziarie per dichiarare incostituzionale l'approvazione ministeriale dei testi scolastici (il suo era stato bocciato nel 1957); battaglia conclusasi nel 1997 con il rigetto del ricorso di Ienaga, ma con l'obbligo, per il Ministero, di motivare adeguatamente le sue scelte. La battaglia per una democratizzazione dei libri di testo conobbe una svolta nel 1982, quando un primo conflitto diplomatico tra il Giappone da una parte e la Cina e la Repubblica di Corea dall'altra si concluse con un accordo di 'buon vicinato'. Circa dieci anni dopo, una commissione mista nippocoreana che era stata creata nel frattempo, s'interruppe dopo anni trascorsi nel tentativo di trovare una narrazione convergente degli eventi su cui il disaccordo era più grande (Gerow 1998).

Malgrado le difficoltà frapposte dalla burocrazia ministeriale, erano cresciuti in quei decenni i libri scolastici in cui era possibile trovare riferimenti agli episodi più controversi in cui il Giappone aveva agito calpestando le leggi internazionali e i diritti delle donne, dei prigionieri, delle popolazioni assoggettate nella guerra di conquista. Fu proprio contro questa nuova consapevolezza, che aveva trovato crescenti consensi tra professori e studenti, che all'inizio degli anni Novanta un professore dell'Università di Tokio, N. Fujioka, iniziò una battaglia per una narrazione 'corretta' degli eventi in cui si enfatizzassero gli aspetti positivi della storia giapponese e si rimuovessero quegli espisodi 'bui' che mettevano in cattiva luce agli occhi dei giovani l'onore della nazione. Furono diversi gruppi di storici nazionalisti che si mossero sulle orme di Fujioka a costituire nel 2000 quella Tsukurukai che produsse il nuovo testo di storia contestato nelle strade di Pechino e di Seoul nel 2001.

Anche nel caso giapponese l'uso del termine revisionismo si è configurato, dopo anni di acceso dibattito sia storiografico sia pubblico sulla storia, come un sinonimo di negazionismo; anche se probabilmente meno coerente e deciso di quello relativo alla Shoah e maggiormente attento a 'nascondere' gli aspetti moralmente esecrabili presenti nella storia del Giappone. L'ultimo e più rilevante caso - questo forse con maggiori somiglianze con il negazionismo classico - è stato quello relativo all'uso estensivo del lavoro forzato da parte del governo giapponese e di alcune aziende nazionali nell'area del Pacifico asiatico occupato dalle truppe del Sol Levante durante il secondo conflitto mondiale.

Altri Paesi. Anche se in forme diverse, con modalità e obiettivi differenti, l'andamento del dibattito revisionista in altri Paesi (India, repubbliche della ex Iugoslavia e della ex Unione Sovietica) è stato ugualmente contrassegnato da una forte presenza statuale e governativa, da un uso prevalente dei media, dalla volontà di mobilitare l'opinione pubblica nell'affrontare le controversie legate al passato. Il lavoro degli storici è stato spesso usato strumentalmente, anche se è parallelamente cresciuta la presenza degli storici nel dibattito politico-culturale dell'attualità.

L'atteggiamento degli storici nei confronti del revisionismo sembra ormai duplice: da una parte - come è accaduto in Italia - la maggioranza di loro si è espressa per evitare di usare un termine che è stato troppo connotato ideologicamente e in senso esclusivamente peggiorativo; dall'altra si sente il bisogno d'interrogarsi in modo approfondito sul significato della revisione della storia - come dimostra la Call for papers della rivista History and theory del marzo 2007 sul revisionismo.

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