RICAMATORE, Giovanni, detto Giovanni da Udine

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 87 (2016)

RICAMATORE, Giovanni, detto Giovanni da Udine

Caterina Furlan

RICAMATORE, Giovanni, detto Giovanni da Udine. – Nacque a Udine il 27 ottobre 1487 da Francesco e da Elena di Zinano di Ribis (Udine, Biblioteca comunale [BCU], Libro dei conti, ms. 1195 [1542-60], c. 38v). Il nonno paterno, morto nel 1457, godeva della qualifica di ricamatore, mentre il padre Francesco alternava l’attività di sarto o più verosimilmente di tintore a quella di ispettore sanitario del Comune. A dispetto delle difficoltà economiche in cui la famiglia venne a trovarsi allo scadere del secolo, nel luglio del 1502 Giovanni fu messo a bottega dal pittore e intagliatore Giovanni Martini, che si impegnò a tenerlo con sé per quattro anni e mezzo, nonché a istruirlo sugli aspetti teorici e pratici del mestiere. Non sappiamo con precisione quale percorso abbia intrapreso l’artista al termine del suo discepolato. Stando a Giorgio Vasari, sarebbe stato condotto dal padre a Venezia e posto a «imparare l’arte del disegno con Giorgione»; in seguito, avendo sentito tanto lodare «le cose di Michelangelo e Raffaello», avrebbe deciso di trasferirsi a Roma, dove, grazie ai buoni uffici interposti dal cardinale Domenico Grimani, sarebbe riuscito a entrare nel novero dei collaboratori di Raffaello (Vasari, 1568, VI, 1906, p. 550).

Gli studiosi si sono giustamente domandati non solo se Francesco Ricamatore, che all’altezza del 1508 risultava infermo da quattro anni, sarebbe stato in grado di introdurlo presso Giorgione, ma anche che tipo di legame potesse mai avere con il cardinale Grimani, definito da Vasari suo «amicissimo». Nell’impossibilità di dare una risposta soddisfacente a tali quesiti, non sarà forse azzardato individuare proprio in Grimani, di cui sono noti il mecenatismo artistico e la protezione accordata a vari artisti, il tramite del suo passaggio dapprima a Venezia, dove Giovanni avrebbe soggiornato per un periodo molto breve, e quindi a Roma, dove si trovava sicuramente intorno al 1516, come risulta da un’annotazione presente nel summenzionato manoscritto udinese (BCU, Libro dei conti, ms. 1195 [1542-60], c. 193r). Comunque sia, nessuna delle opere riferite al suo presunto soggiorno veneziano ha retto al vaglio della critica, mentre per quanto riguarda Roma la proposta di individuare la sua mano in alcune scenette a grisaille affrescate negli sguinci del soffitto della Stanza di Eliodoro presupporrebbe una sua presenza nell’Urbe almeno a partire dal 1514. Da questo momento fino alla morte del Sanzio (1520), egli prese parte a quasi tutte le principali imprese raffaellesche, distinguendosi per la sua capacità di ‘contraffazione’ del vero, per la messa a punto e sviluppo della decorazione a ‘grottesche’, e infine per la riscoperta della ricetta dello stucco bianco all’antica, che avrebbe trovato il suo massimo campo di applicazione nelle Logge vaticane.

A prestar fede a Vasari, fonte non sempre attendibile quanto alla cronologia, il primo impiego ‘ufficiale’ dell’artista da parte di Raffaello si dovrebbe individuare nell’organetto portativo e negli strumenti musicali presenti nella pala di S. Cecilia (Bologna, Pinacoteca nazionale), presumibilmente eseguita intorno al 1514-15, nella quale l’abilità dell’artista sarebbe consistita non solo nella verità della resa, ma anche nella perfetta aderenza allo stile del maestro. Analogo ruolo gli è stato attribuito nel cartone della Pesca miracolosa (Londra, Victoria and Albert Museum), preparatorio per uno degli arazzi destinati alla Cappella Sistina, dove sarebbero riferibili a Giovanni le gru in primo piano e i pesci nelle barche. In questo caso il 15 giugno 1515, data in cui il Sanzio ricevette un consistente acconto per aver lavorato ai suddetti cartoni, potrebbe essere assunto quale termine ante quem per la datazione del manufatto, che confermerebbe il largo grado di autonomia attribuito da Raffaello al suo collaboratore friulano.

La dimestichezza di quest’ultimo con l’Urbinate trova ulteriore conferma nel resoconto vasariano della visita effettuata insieme alle rovine della Domus aurea, che segna la data di nascita di un nuovo sistema decorativo ispirato all’antico: «Queste grottesche adunque (che grottesche furono dette dall’essere state entro alle grotte ritrovate) […] entrarono di maniera nel cuore e nella mente di Giovanni, che datosi a questo studio, non si contentò d’una sola volta o due disegnarle e ritrarle» (Vasari, 1568, VI, 1906, pp. 551 s.). Il riflesso immediato di questa esperienza si coglie nella ‘stufetta’ e nella loggetta del cardinale Bibbiena, due ambienti facenti parte dell’appartamento che papa Leone X aveva messo a disposizione del prelato al terzo piano dei palazzi Vaticani.

Per quanto riguarda la stufetta, se fu Raffaello a fissare lo schema generale della decorazione (realizzata a tempo di record tra l’aprile e il giugno del 1516, seguendo le indicazioni fornite dallo stesso prelato per i soggetti), la sua esecuzione fu demandata interamente ai collaboratori. Tra questi primeggiarono Giulio Romano, che sviluppò i disegni relativi alle storie di Venere illustrate nella volta e sulle pareti, e Giovanni da Udine che, oltre a fornire gli schizzi per gli amorini del registro inferiore e a intervenire personalmente nelle lunette e in varie altre parti del piccolo ambiente, si avvalse a sua volta di aiuti. Per ragioni non note, la loggetta, ultimata in quello stesso periodo insieme alle camere e ai paramenti di cuoio, richiese un secondo intervento, presumibilmente effettuato nell’estate dell’anno successivo, come parrebbe evincersi da una lettera inviata da Pietro Bembo al Bibbiena il 19 luglio 1517 (Golzio, 1936, p. 57).

Come ricordato da Vasari, Giovanni, oltre a sapere imitare «tutte le cose naturali d’animali, di drappi, d’instrumenti, vasi, paesi, casamenti e verdure», si dilettava sommamente di fare «uccelli di tutte le sorti, di maniera che in poco tempo ne condusse un libro tanto vario e bello, che egli era lo spasso e il trastullo di Raffaello» (Vasari, 1568, VI, 1906, p. 550). Sebbene questo libro sia andato perduto, possiamo farci un’idea del suo contenuto grazie a vari fogli conservati in diversi musei e collezioni private. Inoltre, sempre secondo Vasari, Giovanni nella sala dei Chiaroscuri avrebbe dipinto sopra i tabernacoli con gli Apostoli ideati da Raffaello «molti pappagalli di diversi colori, i quali aveva allora Sua Santità, e così anco babuini, gatti mamoni, zibetti et altri bizzarri animali» (p. 555). È molto probabile che, in aggiunta ai disegni in rapporto con tale decorazione e con la perduta uccelliera di Leone X, egli abbia eseguito numerosi studi di botanica, come si evince dalla gran varietà di fiori e di frutti disseminati nei festoni della Loggia di Psiche alla Farnesina, la cui decorazione si svolse nel corso del 1517-18.

Tanto i finti arazzi della volta, che ospitano gli episodi conclusivi del mito di Psiche, quanto le vele sottostanti, dove sono raffigurati i momenti salienti della vicenda, sono incorniciati da festoni dovuti interamente al pennello di Giovanni da Udine. Vera e propria summa delle conoscenze botaniche del tempo, essi si caratterizzano per il naturalismo degli elementi che li compongono. Tuttavia, lungi dal limitarsi ad assolvere una funzione puramente ornamentale o allusiva agli amori del padrone di casa, come dimostra il famoso ‘scherzo’ descritto da Vasari, essi svolsero un ruolo molto importante anche dal punto di vista operativo: infatti nel corso del restauro effettuato nell’ultimo decennio del Novecento si è potuto appurare che la volta è stata suddivisa in sezioni proprio partendo dai punti di incrocio dei suddetti festoni, che furono eseguiti per primi. Inoltre, l’intervento dell’artista, cui probabilmente fu affidato il coordinamento del cantiere, non si limitò all’esecuzione delle originalissime incorniciature, ma si estese ad altri particolari, come, per esempio, il pavone e la sfinge nella scena del Concilio degli dei, e fors’anche ad alcune figure.

Una volta ultimata quest’impresa, Raffaello poté finalmente concentrarsi nella decorazione delle logge al secondo piano dei palazzi Vaticani. I lavori, iniziati nel 1517, si conclusero nel 1519: scrivendo a Isabella d’Este il 16 giugno di quell’anno, Baldassarre Castiglione l’informava infatti che in Vaticano si era «fornita una loggia dipinta e lavorata de stucchi alla anticha: opera di Raphaello, bella al possibile e forsi più che cosa che si vegga hoggi dì de moderni» (Golzio, 1936, p. 100). Anche in questo caso, come già era avvenuto alla Farnesina, Raffaello avocò a sé la progettazione dell’impresa, in rapporto alla quale produsse numerosi disegni, affidando invece a Giulio Romano il coordinamento dell’équipe di pittori incaricati di illustrare le storie bibliche nelle volticelle, e a Giovanni da Udine, coadiuvato a sua volta da aiuti, la decorazione a stucco e a grottesche dei sottarchi e dei pilastri delle varie campate, nonché della parete di fondo, intervallata da finestre. Come già ricordato, spetta infatti al friulano la scoperta, o meglio, riscoperta della ricetta dello stucco antico, costituito da una mistura di polvere di marmo bianco e di calcina di travertino, che permise di creare un’infinita varietà di rilievi non solo di grande compattezza, ma anche di inusitato candore.

Sebbene l’organizzazione del lavoro all’interno dell’équipe raffaellesca fosse piuttosto articolata, come attestano quattro piccoli stucchi sul pilastro esterno tra la prima e la seconda campata, il coinvolgimento di Giovanni anche a livello progettuale trova conferma in un disegno conservato a Dresda (Kupferstichkabinett, inv. n. C.197), preparatorio per la decorazione del VII pilastro, concluso in basso da una suggestiva figura di uccellatore. Le parti meglio conservate sono costituite dai festoni dipinti nelle lunette e intorno alle finestre della parete interna.

L’artista non si ispirò soltanto al mondo della natura, ma anche all’antico, come dimostra il girale vegetale del IX pilastro, il cui modello è stato riconosciuto in un rilievo antico oggi conservato agli Uffizi. Altrettanto possiamo dire per gli stucchi che, derivati da bassorilievi ellenistici e romani, monete e impronte di gemme, contribuiscono a creare una sorta di enciclopedia per immagini leggibile anche in termini di attualità, come dimostrano i ritratti a stucco di papa Leone X, dello stesso artista e persino dell’elefante Annone, beniamino della corte pontificia.

Entro il 1519 Giovanni attese alla decorazione della loggia sottostante, costituita da tredici cupolette, alcune delle quali caratterizzate da un’ornamentazione a stucco, e altre dipinte con aerei pergolati popolati da uccelli e animali di vario tipo. A dispetto dell’affermazione di Marcantonio Michiel, che all’altezza del 27 dicembre di quello stesso anno annotava nei suoi Diarii che la loggia era stata dipinta «assai vulgarmente et con poca spesa, benché vistosamente» (Golzio, 1936, p. 104), la soluzione messa a punto dall’artista conobbe un immediato successo, come attesta la sua adozione nella stufetta del palazzo della Cancelleria, nella cui decorazione fu forse coinvolto lo stesso Giovanni: sul verso di un disegno conservato agli Uffizi, attribuito a Baldassarre Peruzzi, sono registrati infatti pagamenti a vari lavoranti, tra cui «Zouan de Udine pictore», che aveva prestato la propria opera per 22 giornate (Firenze, Uffizi, Gabinetto disegni e stampe, inv. n. UA.410v).

Entro il dicembre del 1521, anno della morte di Leone X, l’artista provvide, insieme con Perin del Vaga e altri collaboratori, alla decorazione del soffitto della sala dei Pontefici, al primo piano dei palazzi Vaticani. Gli affreschi, di carattere astrologico, non si limitano a illustrare il tema natale del papa, ma alludono anche al suo futuro destino e al ritorno di una nuova età dell’oro che costituì uno dei temi ricorrenti del suo pontificato. Inoltre a questo stesso ambiente erano destinati gli arazzi con motivi a grottesche (in realtà trionfi di varie divinità dell’Olimpo) ricordati da Vasari «nelle prime sale del Concistoro», e a suo giudizio eseguiti su cartoni di Giovanni (Vasari, 1568, VI, 1906, p. 555). A Tommaso Vincidor spettano invece i cartoni per gli arazzi con i giochi di putti, destinati alla sala di Costantino, parimenti attribuiti da Vasari al maestro friulano.

Per quanto riguarda i rilievi che impreziosivano la facciata di palazzo Branconio dell’Aquila, edificato tra il 1518 e il 1520, la loro perdita impedisce di stabilire in che misura Giovanni abbia contribuito all’impresa, anche se i festoni sormontati da clipei in stucco visibili in un disegno di Giambattista Naldini agli Uffizi (Gabinetto disegni e stampe, inv. n. 230.Ar) depongono a favore di un suo intervento. Ugualmente perduti sono gli stucchi che abbellivano due ambienti di palazzo Medici a Firenze, cui Giovanni attese anteriormente al 7 aprile 1522, come si evince da una lettera inviata in tale data dall’artista a Michelangelo, responsabile della ristrutturazione della loggia a piano terra e del disegno delle finestre inginocchiate (Il carteggio di Michelangelo…, II, 1967, pp. 347 s.).

La sua andata a Firenze probabilmente ebbe luogo durante un’interruzione dei lavori a villa Madama, intrapresi nell’estate del 1520 insieme con Giulio Romano. Da uno scambio epistolare tra il cardinale Giulio de’ Medici e il vescovo di Aquino Mario Maffei, incaricato di sovrintendere ai lavori, siamo informati dei dissapori che erano venuti emergendo tra gli artisti in merito alla suddivisione dei compiti (Lefèvre, 1973, 19842, pp. 109 s.). Di fatto, mentre spetta sicuramente a Giulio il gigantesco Polifemo affrescato nella parete di fondo della loggia e forse la progettazione di alcune parti della decorazione a stucco, a Giovanni, oltre alle scene dipinte negli scomparti della volta centrale e in alcuni ovati di quella di sud-ovest, possono essere riferiti non solo gran parte degli stucchi della loggia, ma anche quelli bianchi dell’atrio che, essendo firmati e datati 1525, risalgono a un momento posteriore all’elezione a pontefice di Giulio de’ Medici. Tuttavia, anche Giovanni si avvalse della collaborazione di aiuti, tra cui forse Vincenzo Tamagni e Domenico Zaga (che potrebbe essere intervenuto nella sala detta di Giulio Romano). All’artista si devono inoltre la fontana dell’Elefante, in corso d’opera nel 1526, e una seconda fontana ‘selvatica’ oggi non più esistente che, insieme con la prima, dovette costituire un modello per le realizzazioni successive.

Una delle ultime imprese romane alle quali può essere associato il nome dell’artista è costituita dalla stufetta di Clemente VII in Castel S. Angelo, eseguita dopo il 14 dicembre 1525, data di nomina del castellano Guido de’ Medici, i cui stemmi compaiono accanto a quello del papa al centro del soffitto.

Dopo il famigerato sacco di Roma, nel corso del quale – essendo amante della caccia e perciò espertissimo nel tirare d’archibugio – avrebbe ucciso addirittura il gran connestabile di Borbone (impresa rivendicata anche da Benvenuto Cellini), Giovanni fece ritorno a Udine, dove gli fu affidata la progettazione della torre dell’Orologio. La sua permanenza in città fu tuttavia di breve durata, poiché nell’estate del 1528 decise di trasferirsi nuovamente nell’Urbe. Qui attese a varie incombenze per conto di Clemente VII (minuziosamente annotate, a partire dal marzo del 1524, nel libro di conti delle opere fatte per questo papa). Si trattava di incombenze minori, ma comunque ben remunerate, come, per esempio, i pennoni grandi per i trombettieri del Campidoglio o le bandiere destinate a Castel S. Angelo. Inoltre, al tempo di papa Adriano VI Giovanni aveva realizzato alcuni stendardi che gli erano stati commissionati in occasione della canonizzazione di sant’Antonino, arcivescovo di Firenze, e di san Bennone (non Uberto, come riportato erroneamente da Vasari) vescovo di Meissen. Al pontificato di Clemente VII risale invece il consolidamento del mosaico absidale dell’antica basilica di S. Pietro, che, inglobato dapprima entro il cosiddetto tegurio bramantesco, fu distrutto alla fine del Cinquecento. I lavori, incominciati nel giugno del 1531, si protrassero per circa quattro mesi, interessando anche il ‘palcho’ davanti alla cappella. In concomitanza con la conclusione dei lavori gli fu assegnato dal papa il titolo di cavaliere della milizia di S. Pietro, cui era collegato il godimento di una pensione annua di 80 scudi che gli doveva essere corrisposta dall’ufficio apostolico di Sebastiano del Piombo. Infine, nell’ottobre dell’anno successivo, Giovanni si recò a Firenze per dare corso, coadiuvato da Domenico da Forlì, alla decorazione in stucco della cupola della sagrestia nuova di S. Lorenzo, di cui purtroppo non resta più alcuna traccia.

Realizzata su disegno di Michelangelo, essa impegnò l’artista per circa un biennio, ma dopo la scomparsa del papa (25 settembre 1534) rimase incompiuta quando, come ricorda Vasari, «non restava a farsi di quest’opera se non quanto avrebbe potuto finire in quindici giorni» (1568, VI, 1906, p. 561). Da una lettera inviata da del Piombo a Michelangelo il 17 luglio 1533 apprendiamo che la soddisfazione di Buonarroti per l’andamento dei lavori non era condivisa in tutto dall’illustre committente, il quale, lamentando la povertà dei colori, auspicava che il risultato finale fosse più simile a quello della sua ‘vigna’ di Monte Mario (villa Madama) che a quella di Baldassare Turini da Pescia: il riferimento è naturalmente agli stucchi della loggia di villa Lante al Gianicolo riferibili a un artista gravitante nell’orbita di Giovanni (Il carteggio di Michelangelo..., IV, 1979, pp. 17 s.).

In previsione di ristabilirsi definitivamente nella sua città natale, sin dal febbraio del 1534 l’artista aveva inoltrato una supplica al luogotenente di Udine riguardo ad alcuni lavori di ristrutturazione della sua casa di borgo Gemona, dove si stabilì insieme con la consorte, Costanza di Bartolomeo de Becariis, sposata nell’aprile del 1535. A partire da tale anno, malgrado il proposito di «non più adoperare pennelli» (Vasari, 1568, VI, 1906, p. 561), egli venne coinvolto in diversi lavori attinenti non solo con il suo mestiere di pittore e stuccatore, ma anche con quello di architetto, come il disegno del portale e delle finestre della chiesa di S. Maria dei Battuti a Cividale (1535), il modello per la costruzione di una nuova cappella nella basilica di Aquileia (1537), il progetto di ristrutturazione del coro del duomo di Udine (1539), mai realizzato, e ancora quello relativo al campanile del duomo di S. Daniele (1558 circa), rimasto incompiuto all’altezza della cella campanaria. Tra questi, gli incarichi di maggior prestigio riguardarono la predisposizione del modello della fontana pubblica in piazza Mercatonuovo (attuale piazza Matteotti) e la costruzione della scalinata sulla facciata settentrionale del castello di Udine, che gli valse la nomina a ‘proto’ e architetto pubblico (1552).

Sebbene definito da Sebastiano Serlio «intelligente architetto» e apprezzato per il «buonissimo giudizio» acquisito grazie al discepolato presso il «divino Raffaello» (Serlio, 1537, 1584, p. 192), nel corso della seconda parte della sua vita Giovanni dette ancora una volta il meglio di sé come stuccatore e frescante. Prescindendo dalla decorazione della sala di Diana in palazzo Grimani a Venezia, cui attese tra il 1537 e il 1539, e di quella di Apollo nel medesimo edificio, realizzata nel 1540 in collaborazione con Francesco Salviati, la sua opera più significativa è costituita dal lungo fregio conservato in una sala del castello di Spilimbergo (ora sede della Fondazione Ado Furlan), realizzato presumibilmente tra gli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento. Celebrato a partire da Vasari, esso consiste in una serie di putti che sostengono festoni ornati di fiori e di frutti, al centro dei quali sono disposti tre medaglioni a stucco raffiguranti Diana cacciatrice e i ritratti di Giacomo di Spilimbergo e della moglie Aloisa. Oltre alla perduta decorazione in stucco della cappella di S. Maria del Monte presso Cividale (1536-37), anche in patria Giovanni si dedicò, come già aveva fatto a Roma, all’esecuzione di vari lavori minori, tra cui gli stendardi per il capitolo del duomo di Cividale (1539-42), raffiguranti l’Angelo annunciante e la Vergine annunciata, di cui resta il ricordo in uno schizzo tracciato su una pagina dei suoi Libri dei conti. Non del tutto chiaro è invece se e fino a che punto l’artista sia stato coinvolto nella decorazione di una saletta nella torre di ponente del castello di Colloredo, successivamente inglobata nel corpo di fabbrica settecentesco. In gran parte perduta durante il terremoto del 1976, essa era costituita da un dipinto su tela con l’Abdicazione di Carlo V al centro del soffitto e da una serie di scenette ad affresco, inserite entro un’incorniciatura a stucco, illustranti il tema della caduta attraverso episodi mitologici ispirati in gran parte alle Metamorfosi di Ovidio.

In seguito all’elezione di Pio IV, Giovanni, dopo aver redatto il suo terzo testamento (22 febbraio 1560), fece nuovamente ritorno a Roma, dove nel 1561 fu coinvolto nella decorazione delle logge al terzo piano dei palazzi Vaticani. Tuttavia la morte lo colse mesi dopo l’avvio dei lavori, la cui direzione passò a un misterioso artista di origine veneziana rispondente al nome di Sabaoth Denti. Per quanto riguarda la data del decesso, avvenuto presumibilmente nel luglio di quell’anno, un sicuro termine ante quem è costituto dal 12 agosto successivo, allorché il muratore Francesco da Empoli fu rimborsato per l’acquisto di alcuni materiali autorizzato da «messer Ioanne da Udene bonae memoriae». Inoltre pochi giorni dopo (18 agosto) lo speziale Antonio Manini e un figlio di Giovanni ricevettero quanto di loro spettanza per aver fornito la cera per le esequie (Achivio di Stato di Roma, Camerale I, Tesoreria segreta, Reg. 1299.A, c. 28rv). Secondo Vasari, le sue spoglie sarebbero state tumulate al Pantheon, accanto a quelle di Raffaello, ma tale notizia non ha trovato sinora alcun riscontro.

Della sua numerosa prole (nove maschi e tre femmine), solo l’ultimo nato, Pier Paolo, che vide la luce nel 1553 e fu ascritto alla nobiltà udinese nel 1595, ebbe discendenza maschile. La famiglia si estinse con la morte del figlio di costui, Bartolomeo, avvenuta nel 1655 (Battistella, 1922-1923, p. 541).

Fonti e Bibl.: Udine, Biblioteca comunale [BCU], mss. 1195 (1542-60) e 1197.7 (1524-57): Giovanni da Udine, Libri dei conti (trascritti e pubblicati a cura di L. Cargnelutti, Udine 1987); Achivio di Stato di Roma, Camerale I, Tesoreria segreta, Reg. 1299.A, c. 28rv; S. Serlio, Regole generali di architettura […] sopra le cinque maniere degli edifici (1537), in Tutte l’opere d’architettura…, Venezia presso F. De Franceschi, 1584, p. 192; G. Vasari, Le vite (1568), a cura di G. Milanesi, VI, Firenze 1906, pp. 549-565; F. di Maniago, Storia delle belle arti friulane, Venezia 1819, pp. 79-97, 251-260; V. Joppi, Contributo terzo alla storia dell’arte nel Friuli ed alla vita dei pittori e intagliatori friulani, Venezia 1892, pp. 7-28; A. Battistella, Giovanni da Udine nella sua vita privata, in Atti del Reale Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, 1922-1923, vol. 82, parte seconda, pp. 523-548; A. Battistella, Ancora qualche cosa sulla vita e sulla famiglia di Giovanni da Udine, Udine 1927; V. Golzio, Raffaello nei documenti, nelle testimonianze dei contemporanei e nella letteratura del suo secolo, Città del Vaticano 1936, pp. 57, 100, 104; R.U. Montini - R. Averini, Palazzo Baldassini e l’arte di Giovanni da Udine, Roma 1957; Il carteggio di Michelangelo. Edizione postuma di Giovanni Poggi, a cura di P. Barocchi - R. Ristori, II, Firenze 1967, pp. 347 s., III, 1973, pp. 35, 64, 220 s., 224, 227, 425, 436, 438, 440, IV, 1979, pp. 17 s., 35; R. Lefèvre, Villa Madama, Roma 1973, 19842, pp. 107-131, 133-153; C. Furlan, Giovanni da Udine e Michelangelo, in Arte Veneta, XXIX (1975), pp. 150-155; N. Dacos, Le Logge di Raffaello. Maestro e bottega di fronte all’antico, Roma 1977, II ed. aggiornata 1986, passim; A. Cecchi, Le perdute decorazioni fiorentine di Giovanni da Udine, in Paragone, XXXIV (1983), 399, pp. 20-44; B. Contardi, Il bagno di Clemente VII in Castel Sant’Angelo, in Quando gli dei si spogliano. Il Bagno di Clemente VII a Castel Sant’Angelo e le altre stufe romane del primo Cinquecento (catal.), a cura di B. Contardi - H. Lilius, Roma 1984, pp. 51-71; N. Dacos - C. Furlan, Giovanni da Udine 1487-1561, Udine 1987; A. Nesselrath, Giovanni da Udine disegnatore, in Bollettino dei Musei Vaticani. Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie, IX (1989), pp. 237-291; Ph. Morel, Mitologia e natura nella pittura di Giovanni da Udine: Priapo alla Farnesina, in Raffaello e l’Europa. Atti del IV Corso internazionale di Alta Cultura, a cura di M. Fagiolo - M.L. Madonna, Roma 1990, pp. 191-207; G. Caneva, Il mondo di Cerere nella loggia di Psiche. Villa La Farnesina, sede dell’Accademia nazionale dei Lincei, Roma 1992, passim; A. Bristot, Dedicato all’amore per l’antico: il camerino di Apollo a Palazzo Grimani, in Arte Veneta, LVIII (2001), pp. 43-102; Raffaello. La loggia di Amore e Psiche alla Farnesina, a cura di R. Varoli Piazza, Cinisello Balsamo 2002, passim; M.T. Cesaroni, Gli stucchi della loggia di villa Lante, in Villa Lante al Gianicolo: storia della fabbrica e cronaca degli abitatori, a cura di T. Carunchio, Roma 2005, pp. 133-150; N. Dacos, Le Logge di Raffaello. L’antico, la bibbia, la bottega, la fortuna, Milano 2008, passim; S. Pierguidi, Giovanni da Udine, Michelangelo e l’impresa delle tre ghirlande, in Arte in Friuli. Arte a Trieste, XXX (2011), pp. 23-32; M. De Paoli, …Vicinaque sidera fecit (Met. 2, 507): la stanza di Callisto a palazzo Grimani, Venezia, in Il gran poema delle passioni e delle meraviglie: Ovidio e il repertorio letterario e figurativo fra antico e riscoperta dell’antico. Atti del Convegno... 2011, a cura di I. Colpo - F. Ghedini, Padova 2012, pp. 319-330; L. Karafel, Raphael’s tapestries: the grothesques of Leo X and the Vatican’s sala dei pontefici, in Late Raphael. Atti del Convegno... 2012, Madrid 2013, pp. 50-57.

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