CAVALCHINI, Rinaldo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 22 (1979)

CAVALCHINI (de Cavalchinis, Cavalcanis, Cavalchino), Rinaldo (Ranaldus, Renaldus, Rainaldus de Libera Villa, Raynaldus de Libero Pago, de Pago Libero, de Ingenuo pago; Raynaldinus de Villafrancha; Rinaldo da Villafranca; Rinaldo da Verona)

Maria De Marco

Nacque a Villafranca negli immediati dintorni di Verona dal notaio Oliviero, tra il 1288 e il 1290.

Il luogo di nascita si desume dall’epitaffio, composto dal C. circa un decennio prima della morte e da lui stesso trascritto alla fine dell’unica lettera, autografa, a noi giunta (Firenze, Bibl. Laurenziana, cod. Plut. LIII 35, c. 10; edita dal Biadego in Atti d. Ist. veneto, LXVIII, 2, p. 271). L’epoca si ricava dal testamento paterno (datato 11 marzo 1291), in cui il suo nome compare al terzo posto nella serie dei figli costituiti eredi, seguito da quelli d’un altro fratello e di due sorelle. Se i figli del testatore sono elencati, com’è presumibile, in ordine d’età, il C. risulterebbe nato tra la fine del 1288 e l’inizio del 1289; se invece sono disposti in due gruppi, prima quello degli uomini e poi quello delle donne, la data andrebbe posta intorno al 1290. Si risolvono così le incertezze dovute alla scarsità delle testimonianze (raccolte in Biadego, ibid., LXVIII, 2, pp. 277-80; LIX, 2, p. 300).

II nome e la professione del padre hanno la loro documentazione nel citato testamento; il nome della madre è invece incerto, perché nulla prova con sicurezza che si tratti di Tantobella, la moglie di Oliviero, vivente nel 1291, coerede coi figli. Costei aveva sposato in seconde nozze il Cavalchini, che aveva accolto nella sua famiglia il figlio di lei Giacomino. Poiché s’ignorano la data e le circostanze del matrimonio di Oliviero e Tantobella, non si può escludere l’ipotesi di nozze fra vedovi, cioè fra Oliviero vedovo d’una prima moglie, da cui potevano essere nati alcuni figli, compreso il C., e Tantobella, vedova del primo marito, padre di Giacomino.

I caratteri della formazione del C., tipica dell’ambiente culturale veronese del primo Trecento, improntato al preumanesiano dantesco della cancelleria scaligera, si rendono evidenti attraverso il suo deciso orientamento verso gli studi letterari, approfonditi al punto da dar vita ad una scuola di grammatica nella sua abitazione, sita nella contrada di San Quirico.

Non è documentata l’epoca dell’inizio di tale attività, né è noto il momento in cui il C. abbracciò lo stato ecclesiastico, ma esiste una attestazione indiretta d’entrambi i fatti nel verbale d’una riunione (in data 19 marzo 1332) del capitolo della pieve di San Pietro di Villafranca, dove egli è nominato al primo posto fra i chierici non mansionari come “magister Raynaldus artis gramatice de sancto quirico” (in Biadego, LXVIII, 2, p. 266). Dal documento si ricava l’impressione che il C., poco più che quarantenne, fosse oramai in primo piano nel campo professionale, dopo un tirocinio iniziato nella giovinezza quando alla decisione di fondare la scuola avevano contribuito anche le difficoltà economiche della famiglia d’origine, la cui modestia egli mise in rilievo, con voluta esagerazione, nel proprio epitaffio, al fine d’accrescere il lustro d’una fama acquistata coi soli meriti professionali (v. 4: “promerui nomen, licet ortus stirpe pusilla”). In realtà, la situazione economica in cui si erano trovati i Cavalchini alla morte del notaio Oliviero, se non proprio modesta, non era adeguata alla notevole consistenza del nucleo familiare (un settimo figlio, Giovanni, era nato dopo la redazione del testamento del padre o dopo la sua morte: Biadego, ibid., p. 273 n. 3), donde la necessità, per ciascuno, di rendersi indipendente o d’apportare il proprio contributo alle esigenze comuni.

La notevole considerazione in cui era tenuto il C. nell’ambiente cittadino è testimoniata dall’incarico, affidatogli dalla corte scaligera (probabilmente per suggerimento di Guglielmo da Pastrengo, dotto e autorevole consigliere e non soltanto nel campo della cultura) di comporre il testo poetico dell’iscrizione destinata al monumento sepolcrale di Cangrande I (morto nel 1329), quasi a consacrare ufficialmente le sue capacità ed i suoi meriti d’uomo e di letterato.

La prima testimonianza dell’autenticità dell’epitaffio (che consta di sei esametri rimati, di discreta fattura) compare nel commento dantesco di Benvenuto da Imola: “ideo bene Raynaldus poetista [sic] Veronensis bino versiculo epitaphiali eius triumphos breviter complexus est dicens: Si Canis hic Grandis...” (a cura di G. F. Lacaita, p. 198), seguita, a distanza di circa mezzo secolo, da un’attestazione del notaio vicentino Daniele Ferreti che trascrivendo, intorno al 1440, le storie di Ferreto Ferreti (Vicenza, Bibl. comunale, cod. Gonzati 21.10.10), vi incluse l’epigramma con la didascalia: “Epitaphium magnifici domini Canisgrandis primi de la Scala per magistrum Raynaldum de Villafranca gramatice professorem” (Biadego, LIX, 2, p. 300).

Negli anni successivi il C. vide aumentare notevolmente il numero dei suoi allievi, alcuni dei quali di rango assai elevato, con conseguenze positive anche sul piano pratico, quali la possibilità sia di acquistare beni immobili, in società col fratello Gerardo, con cui conviveva (2 apr. 1337), sia di concedere prestiti (18 apr. 1339), mentre continuava a risiedere in contrada San Quirico (Biadego, LXVIII, 2, p. 266). Nell’ambiente letterario veronese, la cui componente più vigorosa e attiva era quella del capitolo della cattedrale, la scuola del C. era inserita oramai degnamente, tanto da apparire strumento e specchio dell’alto livello di quella cultura.

Fu allora che Guglielmo da Pastrengo poté offrire al C. un’altra occasione, quella decisiva, di mettersi in luce fra i letterati più insigni dell’epoca, procurandogli la stima e l’amicizia di Francesco Petrarca, col quale era entrato in rapporti, divenuti presto affettuosi, almeno fin dal 1339, ad Avignone e a Valchiusa. S’ignora se il C. abbia scritto direttamente al Petrarca una volta conosciuto il benevolo interessamento di lui alla sua persona ed alla sua attività, ma uno scambio di lettere può essere ipotizzato in base al tono dell’epistola poetica indirizzate “Raynaldo de Libero Pago Veronensi poetae” da Napoli, nell’autunno del 1343 (Ep. metr., II, 15). Nella lettera, che non sembra la prima dato che presuppone rapporti di familiarità, l’autore descrive una piacevole gita compiuta nei dintorni di Napoli (dov’era stato inviato da Clemente VI in missione diplomatica dopo la morte di Roberto d’Angiò) e informa il C. d’aver resi noti i suoi meriti poetici a Giovanni Barrili ed a Barbato da Sulmona, che lo avevano accompagnato in quel viaggio; essi avevano espresso il desiderio di conoscereil C. e d’averlo con loro, trovando così un compenso alla delusione del rifiuto opposto dal Petrarca allo stesso invito. Più tardi (non dopo il 20 nov. 1347), questi tornava a rivolgersi al C. (Ep. metr., III, 2), probabilmente da Avignone, per raccomandargli, come ad esperto intenditore d’arte e di poesia, un giovane musicista francese, ancora in dubbio se stabilirsi in Italia. Il C. aveva dunque indubbie capacità critiche (Ep. metr., II, 11). L’incontro personale ebbe finalmente luogo nell’estate dell’anno 1345 quando alle angustie e alle preoccupazioni seguì per il Petrarca il periodo di serenità trascorso in quella Biblioteca capitolare con cui aveva già avuto intensi rapporti da più d’un quindicennio e dove scoprì proprio allora le lettere ciceroniane ad Attico. A legarlo ancor più al C. fu la decisione d’affidargli come allievo il piccolo Giovanni, in età di frequentare i corsi elementari. Il fanciullo, che seguiva il padre nei suoi spostamenti, aveva appreso i primi rudimenti a Parma da Moggio Moggi; rimase presso il C. fino al marzo del 1348, quando, dopo aver ottenuto, per i buoni uffici di Guglielmo da Pastrengo, un canonicato dagli Scaligeri, tornò a Parma, dove ebbe a maestro Giberto Baiardi ed approfittò ancora dell’insegnamento di Moggio.

Altri eventi di grande interesse furono vissuti dal C. nel 1346, innanzi tutto la festa celebrativa di Dante, culminata nella declamazione, avvenuta nella centrale piazza dell’Erbe – cioè nell’antico “forum” –, del carme composto e recitato dal figlio del poeta Pietro, che esercitava le funzioni di giudice, come attesta Moggio (Carm. XI, v. 6: “...inclita Pieridum lux, Rainaldus adit”). Fra Moggio, fuggito nel settembre dello stesso anno da Parma insieme col suo protettore Azzone da Correggio, che n’era stato bandito da Luchino Visconti, e il C. si era stabilita presto un’intesa amichevole per cui il giovane letterato divenne il più attivo ed abile collaboratore nella scuola e fu incoraggiato ad impegnarsi maggiormente nell’attività poetica (Carm. IX, vv. 27 s., 31 s.). Nello stesso arco di tempo il C. entrò in relazione con Enrico Pulice da Custoza, che esercitava l’ufficio di procuratore a Vicenza, a quanto si può dedurre dal citato componimento di Moggio, un’epistola poetica diretta a quell’alto personaggio, cultore di poesia e di storia, corrispondente del Petrarca (Fam., XXIV, 2).

Nel 1351, alla morte di Mastino II, l’invito a scrivere l’epitaffio fu rivolto al C., com’è attestato dalla didascalia che precede il testo (otto esametri rimati) nel citato codice del Ferreti: “Epitaphium magnifici et potentis domini domini Mastini de la Scala per antedictum magistrum”, dove non lascia dubbi l’indicazione dell’autore data mediante il richiamo alla didascalia dell’iscrizione di Cangrande I, che precede immediatamente l’altra (Biadego, LIX, 2, p. 300). Nel triennio successivo s’intensificarono i rapporti col Petrarca, che tornò a ricorrere all’esperienza didattica dell’amico, già ammirata ma non compresa come scriveva a Zanobi da Strada (Fam., XII, 3), per risolvere definitivamente il problema, che diveniva sempre più angoscioso, dell’educazione di Giovanni, manifestando le sue delusioni e le sue speranze nella nota lettera, datata Valchiusa 9 giugno 1352, indirizzata “ad Rainaldum Veronensem poetam” (Fam., XIII, 2), scritta qualche tempo dopo l’altra (Sine nomine XI) volutamente priva di firma e di data, amarissimo sfogo, a cuore aperto, in cui si stigmatizza e si deplora la corruzione tipica degli ambienti di corte. Giovanni Petrarca poté riprendere gli studi sotto la guida del maestro della fanciullezza grazie alla munificenza di Cangrande II che nel 1352 gli aveva concesso un canonicato con annessa una discreta prebenda, com’è documentato (Biadego, ibid., pp. 301 ss.).

Nel febbraio del 1354, quando frequentavano la scuola del C. i gemelli Giovanni e Barriano da Correggio, le conseguenze della congiura ordita da Fregnano Della Scala contro il fratello naturale Cangrande II, in cui era implicato il padre dei giovani, Azzone, ebbero le loro ripercussioni sugli scolari più in vista del Cavalchini. Nel dominio scaligero non c’era più posto per Giovanni e Barriano, che condivisero la sorte del loro padre, fuggendo a Milano, e neanche per Giovanni Petrarca, cui fu tolto il beneficio ecclesiastico, mentre a suo padre addirittura veniva proibito d’entrare a Verona. Sulla fine del 1354 il C. scrisse la già citata lettera diretta a Moggio: in essa egli esprime il suo dolore per la morte immatura di Barriano da Correggio, chiede scusa per uno screzio avvenuto fra Moggio e un suo nipote ed alla fine trascrive, affermando di sentirsi vicino a morire, l’iscrizione, costituita di quattro esametri rimati, composta da poco per la propria sepoltura. Amareggiato e affaticato, ma sempre compreso dell’importanza della sua missione educativa, non abbandonò la sua attività; infatti trasferì la scuola nella casa sita nella contrada di San Matteo “Concortine” acquistata il 7 marzo 1357 (Biadego, LVIII, 2, p. 273).

Continuava a dedicarsi all’insegnamento ed agli studi; la nota lettera del Petrarca a Guglielmo da Pastrengo (Fam., XXII, 11) lo mette sullo stesso piano di lui quanto a interessi filologici. Si tratta della richiesta, datata Padova 17 apr. 1360 (Billanovich, Scrittoio del Petrarca, p. 230 n. 1), delle Bucoliche di Calpurnio Siculo e del De agricultura di Varrone, in possesso rispettivamente del C. e di Guglielmo, testi preziosi per la rarità e giunti nelle loro mani forse per scoperte personali.

Il C. dettò il suo testamento il 20 sett. 1362, una diecina di giorni prima della morte avvenuta a Verona alla fine del mese, come si deduce da documenti comprovanti l’attuazione (3 e 8 ott. 1362) d’alcune disposizioni testamentarie da parte degli esecutori, i nipoti Oliviero ed Aimerico, figli del defunto fratello Gerardo e suoi colleghi d’insegnamento (Biadego, LVIII, 2, pp. 278-80; LXII, 2, pp. 619-21).

Fu sepolto, secondo il suo desiderio, nella chiesa di S. Eufemia degli Eremitani; sulla sua tomba fu inciso l’epitaffio, il cui testo fu trascritto in alcuni codici prima che il sepolcro andasse distrutto (Maffei, p. 126). Dal confronto con quello autografo si rileva che al lapicida sfuggirono alcuni errori (v. 2: “requiescet” per “requiescat”; vv. 3-4: invertiti). Fu inoltre aggiunta la data di morte, opera d’un maldestro versificatore, che doveva suscitare notevoli dubbi nei critici con l’espressione “milleque trecentos sex octo peregerat illa / hora sol gyros, cum vitae diruta fila” (vv. 5-6), enigmatica, a meno di non voler pensare ad una confusione della data del completamento della tomba (che potrebbe essere il 1368 = “milleque trecentos sex[aginta] octo”) con quella della morte.

I tratti della fisionomia morale del C., quali si riflettono negli scritti dei suoi amici e ammiratori, sono improntati a un alto senso di dignità umana in cui ebbe gran parte la sincerità della sua fede religiosa coerentemente vissuta. Egli mise in primo piano la formazione morale degli allievi, che educò soprattutto con l’esempio dell’onestà professionale, come attesta Moggio (IX, vv. 35 s.). Nella sua scuola, articolata nelle due sezioni del Trivio e del Quadrivio, erano coltivate la grammatica, la letteratura, la filosofia, la poesia, come ricorda ancora Moggio (II, vv. 168 s.), né mancava l’esercizio fisico, innanzi tutto le lunghe passeggiate in città e nelle campagne dei dintorni. Nel loro corso l’osservazione diretta dei monumenti offriva spunti per lezioni di storia locale, quella dei vari aspetti della natura per lo studio della geografia, in un vespaio di vivaci discussioni che avevano nel maestro il saggio moderatore (ibid., vv. 172 s.).

Il C. non si rese conto d’operare un’autentica rivoluzione anticipando i criteri didattici che avrebbero trovato la loro sistematica attuazione nella scuola “nuova” del veronese Guarino. Caddero perciò nel vuoto inviti lusinghieri a incarichi più onorevoli con la prospettiva allettante d’una vita meno dura e faticosa, come quello del Petrarca che lo chiamava alla corte di Napoli (Ep. metr., II, 15, vv. 108-111); altri erano gl’ideali del C. la cui abituale disponibilità a consigliare e aiutare ha una commovente, estrema testimonianza nei legati a favore di studenti in difficoltà economiche.

La produzione superstite del C. è costituita dai testi poetici di tre epitaffi (per Cangrande I, per Mastino II, per se stesso; quello per Antonio daLegnago, erroneamente a lui attribuito, è stato escluso per varie ragioni: cfr. Biadego, LXII, 2, pp. 583-621; Avesani, Preumanesimo veronese, p. 136 n. 84) e dalla lettera a Moggio. Ma l’insistenza degli elogi dei contemporanei per il suo talento poetico lascia supporre l’esistenza di qualche altro componimento, andato perduto.

Fonti e Bibl.: I documenti relativi alle vicende personali del C. sono conservati a Verona, Antichi Archivi Comunali, Esposti, rot. 928, rot. 66, rot. 2078, rot. 2128, rot. 2827, rot. 2956, 1, rot. 2959, rot. 2960, editi a cura di G. Biadego, in Atti del R. Ist. veneto di scienze, lettere ed arti, LVIII (1898-99), 2, pp. 266-80. Altra fonte è costituita dalle lettere indirizzate al C. dal Petrarca: Ep. metr., II, 15; III, 2 (a cura di D. Rossetti, III, Milano 1834); Fam., XIII, 2 (a cura di V. Rossi, III, Firenze 1937); Sine nomine XI (a cura di P. Piur, Petrarchas Buch ohne Namen”, Halle 1925; ed. e trad. a cura di U. Dotti, Bari 1974); sono anche utili tre lettere a Guglielmo da Pastrengo: Fam., IX, 15; XIII, 3; XXII, 11, (a cura di V. Rossi, II, Firenze 1934; III, ibid. 1937; IV, ibid. 1942: a cura di V. Rossi-U. Bosco), una a Zanobi da Strada: Fam., XII, 3 (ed. cit.), la “risposta ad Omero”: XXIV, 12 (ed. cit.) ed un’epistola metrica a Zoilo: II, 11 (a cura di D. Rossetti, II, Milano 1834): cfr. E. H. Wilkins, Petrarchs Correspondence, Padova 1960; Id., Life of Petrarch, Chicago 1961; A. Campana, Barbato da Sulmona, in Diz. Biogr. degli Ital., VI, Roma 1964. pp. 130-134. Di grande interesse sono anche le lettere in versi di Moggio (a cura di M. Vattasso, Roma 1904: II, pp. 83-90; IX, pp. 96-98; XI, pp. 100 ss.). Per l’autenticità dell’epitaffio per Cangrande I si veda: Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, a cura di G. F. Lacaita, Firenze 1887, V, p. 198.

L’edizione della lettera e dell’epitaffio destinato alla propria tomba è dovuta al Biadego (ibid., pp. 270 ss.); per il testo inciso sul sepolcro cfr. S. Maffei, Verona illustrata, II, 3, Milano 1825, pp. 126 s.; M. Pelaez, Il cod. Vaticano Rossiano 729 (sec. XV), in Atti d. Accademia d. Arcadi, XVIII (1934-35), pp. 67-84; Id., Lepitaffio dun grammatico veronese. (Nota scaligera), in Bull. d. Ist. stor. ital., LII (1937), pp. 81-95. I testi degli epigrammi per i monumenti sepolcrali scaligeri sono riportati in C. Cipolla-F. Pellegrini, Poesie minori riguardanti gli Scaligeri, ibid., XXIV (1902), pp. 55 ss. per Cangrande I, pp. 115 ss. per Mastino II; il proprio a pp. 135 s.

Più in generale: G. Biadego, op. cit., pp. 261-80; Id., Un maestro di grammatica amico del Petrarca. Aggiunta e correzione, in Atti d. R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, LIX (1899-90), 2, pp. 299-302; Id., Per la storia della cultura veronese del XIV secolo. Antonio da Legnago e Rinaldo da Villafranca, ibid., LXII (1902-903), 2, pp. 583-621; Id., Ancora di Rinaldo da Villafranca, ibid., LXV (1905-06), 2, pp. 493-500; D. Montini, Rinaldo da Villafranca e la sua famiglia, Mantova 1903; M. Vattasso, Del Petrarca e di alcuni suoi amici, Roma 1904, pp. 72-75, 79; R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne secc. XIV e XV, a cura di E. Garin, Firenze 1967, p. 22; A. Foresti, Aneddoti della vita di Francesco Petrarca, Brescia 1928, pp. 249 n. 2, 297, 369 n. 2; L. Tonelli, Petrarca, Milano 1930, pp. 121, 188 n. 1, 294; N. Sapegno, Il Trecento, Milano 1966, pp. 158, 180; G. Billanovich, Petrarca letterato, I, Lo scrittoio del Petrarca, Roma 1947, p. 230; Id., Tra Dante e il Petrarca, in Italia medioev. e uman., VIII (1965), pp. 27 s.; M. Carrara, Gli scrittori latini delletà scaligera, in Verona e il suo territorio, III, 2, Verona 1969, pp. 58-65 (dove si riscontrano alcune inesattezze: traduzione dell’epitaffio: p. 61 n. 4; citazione di lettere petrarchesche: p. 62 nn. 1-2, ecc.); R. Avesani. Il preumanesimo veronese in Storia della cultura veneta. Le origini, I, 2, Vicenza 1976, pp. 123-27, 130, 135 s. (con aggiornamento bibliografico e ritocchi all’edizione dei testi poetici).

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