RINALDO DʼAQUINO

Federiciana (2005)

RINALDO D'AQUINO

CCorrado Calenda

Rinaldo (o Rainaldo, come viene sistematicamente designato in P) d'Aquino è quasi certamente il poeta della prima generazione siciliana che ha stimolato l'interesse particolare di eruditi e biografi per varie, significative ragioni: il posto di prestigio occupato in V, ad apertura del secondo dei fascicoli dedicati alle canzoni; la non comune estensione della sua raccolta (dieci canzoni e un sonetto); l'indubbio richiamo del cognome (comunque, si vedrà, lo si voglia interpretare), soprattutto in relazione al contemporaneo autore della Summa theologica; il rilievo assegnatogli nel De vulgari dantesco che ne cita due volte (a I xii 8 e II v 4, nel primo caso senza il nome dell'autore come esempio di un "apulo" staccatosi dai modi della sua parlata locale unitamente al Giacomo da Lentini, autore, anch'esso taciuto, di Madonna, dir vi voglio) la canzone Per fino amore vo sì letamente (la variante letamente, sconosciuta ai manoscritti, confermerebbe, secondo Contini, l'allegramente di PCh contro altamente di V); le deduzioni cronologiche, ormai peraltro quasi da tutti respinte, che si riteneva di poter trarre dal celebre lamento per la partenza del crociato, Giamai non mi conforto, testo di grande fama tra i lettori romantici.

Non si può dire però che gli sforzi degli studiosi abbiano consentito, in questo caso, conclusioni meno generiche od opinabili di quelle relative alla quasi totalità dei rimatori della Scuola; anzi, a dire il vero, ancor più sproporzionato si fa qui il rapporto tra l'ampiezza e il dettaglio delle ricostruzioni e la loro persuasività (sintomatico il vastissimo affresco di Scandone [1904] con albero genealogico annesso).

Il collegamento precocemente instaurato allo stesso casato di s. Tommaso ha piuttosto complicato che agevolato l'identificazione, soprattutto per il gran numero di Rinaldi ad esso ascrivibile. Tra i candidati non si dirà più attendibili, ma certo più intriganti c'è il fratello del grande filosofo, definito da Tolomeo da Lucca (peraltro, secondo Torraca, testimone malfido) "dominus Reginaldus, vir probitatis non modice et inter maiores in curia Frederici, quamvis postea ab ipso fuerit interfectus" (definizione che ben si attaglia al titolo di "messere" attribuitogli dai codici), il quale nel 1243-1244 ad Acquapendente "cum Petro de Vineis et suis famulis, germanum suum subtraxit" ai frati del suo Ordine "impositoque in equo, violenta manu cum bona comitiva ipsum in Campaniam misit ad quoddam Castrum ipsorum vocatum Sancti Joannis": insomma, prima tra i maggiorenti della Magna Curia, poi caduto in disgrazia presso l'imperatore che lo avrebbe fatto addirittura ammazzare, organizzò, in combutta con Pier della Vigna, il rapimento a cavallo del fratello da Acquapendente, presso Perugia, al castello campano di S. Giovanni, di proprietà degli stessi d'Aquino. Il quale Rinaldo poi potrebbe anche coincidere (come voleva De Bartholomaeis, il quale però proponeva a sua volta la candidatura di un altro magister Rinaldo, attestato in un documento del 1238) con il secondo, più noto aspirante al riconoscimento, il giovane Rinaldo falconiere, nel febbraio 1240, di Federico II, le cui tracce, secondo Torraca, si possono seguire fin oltre il penultimo venticinquennio del secolo (ma tra il valletto di Federico e quest'ultimo personaggio altri negano qualsiasi relazione). Altre fantasiose congetture si è inteso trarre dai vv. 58-60 di Amorosa donna fina "se non este u Montellese, / cioè 'l vostro serventese, / a voi lo dica in cantando", da cui risulterebbe che R. sia stato nativo di Montella, nel Principato Ulteriore; o, più ancora, come si è detto, dal lamento Giamai non mi conforto, che alluderebbe (ma la traccia è esilissima) alla crociata del 1228, con conseguenze non trascurabili sulla datazione complessiva della Scuola. Di recente Brugnolo ne ha parlato come della riproposta (nient'affatto arcaica o 'popolare') di un tema convenzionale, o tutt'al più riferibile "alla spedizione del 1239, guidata dal re-troviero Thibaut de Champagne, dopo la rinuncia di Federico II" (Brugnolo, 1995, p. 275; per inciso i citatissimi vv. 33-36 in cui compare l'unico riferimento, nelle poesie siciliane, alla persona dell'imperatore: "Lo 'mperadore con pace / tuto lo mondo mantene / ed a meve guerra face, / che m'à tolta la mia spene", per giunta con intonazione apparentemente critica, si risolvono in realtà in una dichiarazione encomiastica, anche se il caso rimane senz'altro eccezionale).

Più prudente, in una tale congerie di dati difficilmente razionalizzabili, mantenersi al profilo obbiettivo del rimatore, tra i più prolifici della Scuola. Cospicuo il numero di codici che ce ne hanno tramandato la produzione. Delle sue dieci canzoni, tre sono trasmesse dal solo V: Amor, che m'à 'n comando, Giamai non mi conforto, In gioi' mi tegno tutta la mia pena; una è solo in P, Ormai quando flore; tutte le altre (Amorosa donna fina, In amoroso pensare, In un gravoso affanno, Per fin amore vao sì allegramente, Poi li piace c'avanzi suo valore e Venuto m'è 'n talento) e il sonetto Meglio val dire ciò c'omo à 'n talento sono in V e in altri manoscritti con un'uniformità attributiva pressoché assoluta che non lascia spazio a questioni di paternità. Se ne trae la fisionomia di un rimatore molto legato alla tradizione occitanica (non sfugga fin amore incastonato al centro dell'incipit citato da Dante) non solo, come si è sempre notato, per la fedele importazione di temi caratteristici, ai limiti della maniera (su tutti la simmetria tra rapporto amoroso e rapporto feudale, che prevede assoluta fedeltà e sottomissione ad Amore da parte dell'amante e obblighi precisi per l'amata), ma proprio, tecnicamente, per l'ampia competenza testuale da lui esibita nei riguardi di un'ampia serie di rimatori provenzali (cf. Fratta, 1996), che, nel caso di Poi li piace c'avanzi suo valore, può giungere fino al confronto serrato con un testo specifico di Folchetto da Marsiglia, Chantan volgra. Senza indugiare sul resto della produzione di R., varrà forse la pena sottolineare come i due testi maggiormente valorizzati dagli studiosi siano stati da una parte il 'lamento' Giamai non mi conforto, dall'altra Per fin amore vao sì allegramente. La fama del primo componimento (contaminazione della 'canzone di crociata' con la 'canzone di donna') è certo legata ad una celebre pagina della Storia desanctisiana dove il grande critico, molto severo nei confronti del "manierismo" dei Siciliani, individua nel "lamento per la partenza del crociato" uno dei rarissimi esempi di ispirazione schietta e di tonalità popolare rinvenibili tra i poeti della Magna Curia (v.), con ciò stesso autorizzando di fatto tutte le illazioni cronologiche e le interpretazioni 'realistiche' che del pezzo furono fornite, e ancorando il giudizio su R. a parametri destinati a condizionarne pesantemente le letture successive; laddove pare piuttosto evidente che l'intonazione non sostenuta del dettato sia l'esito di una scaltra intenzionalità stilistica decisa a misurarsi con un repertorio, questo sì, di maniera. Qualche quesito non banale può suscitare il posto da Dante assegnato a Poi li piace nel De vulgari, che è poi la ragione prima del privilegiamento di questo testo in antologie molto prestigiose (su tutte i Poeti del Duecento di Contini). La canzone, trasmessa da V, P, dal Chig. L. VIII. 305 e dalla Poetica di Trissino, incomincia, è vero, con un endecasillabo (che è il motivo della seconda sua menzione nel trattato), ma esibisce una struttura piuttosto lontana dal modello fissato di lì a poco da Dante: le stanze sono unissonans, capfinidas, mancano concatenatio e combinatio, ecc. Siamo insomma molto lontani, e per più ragioni, dalle grandi canzoni di Guido delle Colonne (v.), celebrate come esiti assoluti, esemplari della Magna Curia federiciana. È molto probabile dunque che Dante accomunasse R. e Giacomo da Lentini (v.) non in quanto doctores illustres della Magna Curia, ma, più riduttivamente, come rimatori meridionali (apuli) staccatisi lodevolmente dalla loro esecrabile parlata dialettale. Solo a questo patto è possibile comprendere l'ammirazione dantesca per la "media eleganza artificiosa del dettato" (Quaglio, 1970, p. 211) di Rinaldo. Nell'unica, vera consacrazione dell'assoluto primato 'siciliano' (De vulgari, I xii 2-5), solo il giudice di Messina, Guido delle Colonne, può ambire all'investitura di autentico iniziatore della tradizione illustre della lirica italiana.

Fonti e Bibl.: i testi si citano secondo la lezione fermata nella nuova edizione critica e commentata in corso di allestimento da parte di vari autori per il Centro di studi filologici e linguistici siciliani; le rime di R. sono state curate da Annalisa Comes. I componimenti di R. sono compresi naturalmente nella raccolta complessiva di B. Panvini, Le rime della scuola siciliana, I, Firenze 1962, pp. 95-118 e 408-409 (lo stesso Panvini ha poi aggiornato la sua edizione in Poeti italiani della corte di Federico II, Napoli 1994, pp. 147-177 e 293-300). Un testo critico "di cui si può lodare la diligenza più che l'acume" (Contini) si deve a O.J. Tallgren, Les poésies de Rinaldo d'Aquino, rimeur de l'école sicilienne du XIIIe siècle, "Mémoires de la Société Néophilologique de Helsingfors", 6, 1917, pp. 173-303 (cf. la recensione di L. Spitzer, "Neuphilologische Mitteilungen", 19, 1918, pp. 6-9). Nei suoi Poeti del Duecento, I-II, Milano-Napoli 1960: I, pp. 111-114; II, p. 808, Contini ha edito la canzone Per fin'amore vao sì allegramente. Tra le altre edizioni ancora di qualche utilità si segnalano le sezioni dedicate a R. di C. Salinari, La poesia lirica del Duecento, Torino 1951, e di M. Vitale, Poeti della prima scuola, Arona 1951. Importante l'edizione diplomatico-interpretativa compresa nelle Concordanze della lingua poetica italiana delle origini, a cura di d'A.S. Avalle, I, Milano-Napoli 1992, passim. Tra i pochi contributi, tutti in sostanza di carattere biografico e documentario: F. Scandone, Appunti biografici sui due rimatori della scuola siciliana Rinaldo e Jacopo di casa d'Aquino, Napoli 1897; F. Torraca, Studi su la lirica italiana del Duecento, Bologna 1902, pp. 102-110 e 185-202; F. Scandone, Notizie biografiche di rimatori della scuola poetica siciliana con documenti, Napoli 1904, pp. 134-211; V. De Bartholomaeis, Ricerche intorno a Rinaldo e Jacopo d'Aquino, "Studi Medievali", n. ser., 10, 1937, pp. 130-167, e 12, 1939, pp. 102-132; A.E. Quaglio, I poeti della 'Magna Curia' siciliana, in Laletteratura italiana. Storia e testi, diretta da C. Muscetta, I, Il Duecento dalle origini a Dante, a cura di N. Mineo-E. Pasquino-A.E. Quaglio, Bari 1970, pp. 169-240, in partic. pp. 211-216; M. Marti, Dante e i poeti della scuola siciliana, in Con Dante fra i poeti del suo tempo, Lecce 1971, pp. 7-28; M. Beretta Spampinato, La scuola poetica siciliana, in Storia della Sicilia, IV, Napoli 1980, pp. 387-425, in partic. pp. 413-414; F. Brugnolo, La scuola poetica siciliana, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Malato, I, Dalle origini a Dante, Roma 1995, pp. 265-337, in partic. pp. 274-275 e 297-298; A. Fratta, Le fonti provenzali dei poeti della scuola siciliana. I postillati del Torraca e altri contributi, Firenze 1996, pp. 14-15, 74-82.

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