Rinunzie e transazioni del lavoratore

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L’art. 2113, 1° co., c.c. dispone l’invalidità di tutti gli atti, unilaterali o contrattuali, con cui il lavoratore abdichi a diritti scaturenti da norme di legge o di contratto ‘inderogabili’. Il regime contenuto in tale articolo è riservato a due particolari tipologie di negozi: le rinunzie e le transazioni. La rinunzia consiste in un negozio unilaterale recettizio finalizzato alla dismissione di un diritto soggettivo da parte del titolare. Essa è valida solo nel caso in cui il titolare del diritto sia pienamente consapevole dell’oggetto della dismissione. Non sono qualificabili come tali le cosiddette rinunce tacite. Dall’ambito di applicazione dell’art. 2113 c.c. sono escluse le cosiddette rinunce collettive, cioè gli accordi stipulati dalle organizzazioni sindacali con riferimento a una generalità di lavoratori, nonché le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto. Ai sensi dell’art. 1965 c.c., la transazione è un contratto con cui le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già insorta o prevengono una lite che stia per sorgere tra loro. A differenza della rinunzia, la transazione costituisce un atto bilaterale, presuppone l’incertezza riguardo alla spettanza o meno dei diritti oggetto della contesa e prevede reciproche concessioni tra le parti. Ai sensi dell’art. 1966 c.c., per procedere alla transazione le parti devono avere la capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della lite; la norma, ripetendo quanto già previsto dall’art. 2113 c.c., precisa altresì che la transazione è nulla se tali diritti, per loro natura o per espressa disposizione di legge, sono sottratti alla disponibilità delle parti. La transazione deve contenere la volontà del lavoratore di transigere a un proprio diritto, volontà che può risultare da una dichiarazione o dal suo comportamento concludente. In assenza di tali elementi, la giurisprudenza considera nullo l’atto erroneamente qualificato come transazione. La transazione deve avere la forma scritta ai fini di prova (art. 1967 c.c.). Quando si applichi il regime giuridico dell’annullabilità, si hanno le conseguenze connesse a questa tipologia d’invalidità, ovvero: impossibilità di rilevare d’ufficio l’invalidità dell’atto, prescrizione quinquennale dell’azione e natura costitutiva della sentenza. Altra conseguenza, è che il lavoratore potrebbe rendere valido in via definitiva l’atto originariamente viziato omettendo di proporre l’impugnazione entro il termine previsto dalla legge.

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