Ripensando la Storia d'Europa

Croce e Gentile (2016)

Ripensando la Storia d’Europa

Gennaro Sasso

Tra storia d’Italia e storia d’Europa

Quando giunse alla fine dell’ultimo capitolo del Contributo alla critica di me stesso (1918), Croce fu tentato di compiere una sorta di riepilogo del lavoro svolto fino a quel momento. Scrisse che la «liquidazione del passato» in cui si era impegnato nei precedenti mesi, ossia fra il 1914 e il 1915, rivedendo, ordinando e correggendo «tutta la [sua] produzione giovanile», era in realtà stata indirizzata «a prepararsi la tranquillità di animo per continuare e intensificare l’opera già [da lui] iniziata intorno agli studi storici». «Soprattutto», proseguì, «avevo in disegno un lavoro sullo svolgimento storico del secolo decimonono in quanto vive nelle condizioni presenti della nostra civiltà, una storia che desse quasi mano alla praxis». Ma, come subito dopo avvertiva, la scrittura di quelle pagine, e la formulazione di quei propositi, avvenivano mentre ruggiva «intorno la guerra, che assai probabilmente» avrebbe investita anche l’Italia;

e questa guerra grandiosa, e ancora oscura nei suoi andamenti e nelle sue riposte tendenze, questa guerra che potrà essere seguita da generale irrequietezza o da duro torpore, non si può prevedere quali travagli sarà per darci nel prossimo avvenire e quali doveri ci assegnerà. L’animo rimane sospeso; e l’immagine di sé medesimo, proiettata nel futuro, balena sconvolta come quella riflessa nello specchio d’un’acqua in tempesta (Contributo alla critica di me stesso, 19262, pp. 74-75).

Nella fin troppo facile previsione di un futuro così incerto che la stessa fermezza del sé ne era messa in discussione, la ‘sospensione’ dell’animo non deve indurre a credere che, per quanto era in lui, Croce avesse dismessa l’intenzione di ricostruire la storia del 19° sec. in una narrazione nella quale la teoresi avesse «quasi» dato mano alla prassi, producendo una sorta di bilancio e altresì indicando quel che agli uomini della sua generazione restasse da fare per compiere l’opera di coloro che li avevano preceduti. Non è chiaro che cosa Croce intendesse realizzare con quel suo lavoro. Ma se si considera che una storia del secolo 19° non poteva, presso di lui, essere se non una storia dell’Europa e che in questa doveva necessariamente trovar posto quella del Paese al quale apparteneva, non si vede perché non dovrebbe essere confermata la supposizione che, in quegli anni, e chi sa per quanto tempo ancora, la storia dell’Italia e quella dell’Europa si presentavano, ai suoi occhi, intrecciate. Resta in ogni caso che, nel periodo che tenne dietro alla data in cui il Contributo era giunto al suo epilogo, a quel proposito Croce non dette attuazione. Si dovette infatti attendere il 1927 e il 1930 per vederlo metter mano, rispettivamente, alla Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928) e, quindi, alla Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932). Con tenacia, tuttavia, e sistematicità, egli cominciò a fare, per la storia, per la storiografia e per la teoria della storia, quel che nel Contributo aveva annunziato; e il risultato fu notevole, com’è dimostrato non solo dall’ampliamento che l’edizione italiana di Teoria e storia della storiografia (1917) fece registrare rispetto alla prima in tedesco (1915), ma anche dai contributi dati alla storia politica, a quella della storiografia e, a partire dal 1918, della letteratura italiana ed europea del 19° secolo. Appartengono infatti a questo progetto i saggi che, raccolti in Poesia e non poesia, offrono, insieme alla monografia su Johann Wolfgang von Goethe, un quadro assai largo di ciò che nel 19° sec. si produsse, in Italia, in Germania, in Francia, nel campo della letteratura e della poesia. A questo appartiene altresì, in modo preminente, la Storia della storiografia italiana nel diciannovesimo secolo, pubblicata a puntate sulla «Critica» a partire dal 1915 e in due volumi nel 1921, un’opera fra le maggiori che egli producesse in questo campo. A quel progetto possono del resto essere riferiti, non solo il saggio sui fratelli Poerio e la parte conclusiva della Storia del regno di Napoli (1925), ma anche alcuni fra i contributi confluiti nel secondo volume di Uomini e cose della vecchia Italia (1927). Se il libro unitario sullo spirito europeo non fu scritto, sono proprio gli studi dedicati a Goethe e ai poeti europei del 19° sec. a suggerire che esso non sarebbe forse stato diverso, nella struttura, dalla Storia dell’età barocca in Italia, che Croce compose nel 1925 e dette alla luce nel 1929.

Resta, in ogni caso, che il libro sullo spirito europeo non fu scritto. Il rischio che Croce avvertiva era, in primo luogo, che, in una trattazione unitaria, non fosse possibile segnare con la dovuta nettezza la specifica differenza, che pure era netta, fra il modo in cui l’Italia aveva conseguita la sua unità e quello in cui l’aveva conseguita la Germania, fra il Risorgimento che in Italia si era realizzato nel segno della libertà e in Germania in quello dell’autorità, fra Camillo Benso conte di Cavour, insomma, e Otto Bismarck. Se questo era il rischio, a esso si aggiungeva la preoccupazione che, in una storia unitaria del secolo decimonono, la parte destinata all’Italia divenuta nazione e impegnata nello sforzo di adeguare le sue discordanti strutture a quelle proprie di uno Stato moderno non avrebbe potuto, nell’estensione, essere pari a quella richiesta dai problemi che si sarebbe dovuto affrontare. Ma soprattutto negli anni della guerra e nei primi del dopoguerra non poteva ancora essersi formata in Croce l’esigenza di rivendicare, contro le denigrazioni dei nazionalisti e soprattutto dei fascisti, la serietà degli sforzi che le classi dirigenti italiane avevano compiuti per conferire all’Italia la dignità di una nazione moderna. A fargli tacitamente abbandonare il progetto di una storia unitaria non poté inoltre non essere, in secondo luogo, la preoccupazione che lo stato delle cose europee teneva desta dentro di lui. Al centro dell’Europa, nella grande nazione germanica che era uscita sconfitta dalla guerra e che le condizioni imposte dai vincitori rendevano ogni giorno più inquieta, le vicende politiche e sociali avevano trovato il loro riscontro nella contrapposizione violenta dei pensieri e delle passioni, nel «disordine» spirituale, morale ed economico a cui Thomas Mann avrebbe dato, in quegli anni, un’indimenticabile espressione in una famosa novella. Eventi traumatici come il crollo della monarchia e la proclamazione della repubblica, i forti contrasti insorti all’interno del partito socialdemocratico, il tentativo rivoluzionario del gruppo spartachista capeggiato da Karl Liebknecht e da Rosa Luxemburg, che tanta preoccupazione aveva suscitata, per citare solo il suo esempio, in Friedrich Meinecke, il suo fallimento reso ancor più drammatico dall’assassinio dei due, la costituzione di Weimar e quel che ne seguì fino alla formazione del movimento nazionalsocialista di Adolf Hitler – tutto questo non poteva non essere presente a Croce, inducendolo a riconsiderare il progetto di una storia dello spirito europeo nel 19° sec. e persuadendolo, infine, a non dargli specifica attuazione.

È probabile che, quando quel progetto cominciò a prendere forma dentro di lui, la sua intenzione fosse di scrivere una storia che, indicando nel costituirsi dello spirito liberale il valore che l’Europa aveva donato all’umanità, anche contribuisse a renderlo vivo e operante nelle coscienze in vista di un futuro migliore (di qui l’accenno, nel Contributo, a una storia che quasi desse mano alla prassi). Altresì non può escludersi che quel proposito fosse stato determinato da una sorta di interna reazione al giudizio, fortemente critico, che, mentre la guerra era in corso, egli aveva dato della coscienza europea e del suo decadimento morale. Ma, se è così, in una luce ancora più cruda appare la rinunzia a realizzarlo in quella forma. A farlo via via recedere dal proposito dovette infatti essere la constatazione, non solo del persistere di quella condizione di cose, ma del suo progressivo aggravamento. Come si sa, Croce non era disposto alle profezie, e nemmeno ad accompagnare con giudizi catastrofici le catastrofi che pur si producevano nelle cose. Meno che mai era disposto a scrivere storie che, in concreto, lo fossero di irreparabili catastrofi. Ma, sebbene non apprezzasse gli scrittori apocalittici, non aveva potuto esimersi dal dire la sua opinione su Der Untergang des Abendlandes (1918-1922) di Oswald Spengler mostrando che il pensiero della crisi della civiltà gli stava dentro e, quanto più cercava di respingerlo, lo possedeva.

Già nel 1918, quando la guerra era ancora in atto, e il dramma di Caporetto era stato da poco superato, Croce aveva cercato di persuadere sé stesso che al pessimismo circa le condizioni politiche, morali, culturali del Paese non si dovesse cedere. Se, con l’«ignoranza» di cui i suoi rappresentanti davano continua dimostrazione, la classe politica mostrava la «superficialità dei concetti» che la informavano, «la lacunosità della cultura generale, l’avventatezza dei giudizi» (L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, 1950, p. 265), vero era anche che in alcuni dei suoi rappresentanti c’erano tratti di virtù intellettuale e morale. Ma la virtù di alcuni non bastava a respingere sui margini la mediocrità dei più. Si aggiunga che nell’estendere dalla politica alla cultura il rilievo relativo alla mediocrità della classe dirigente, egli anticipava il giudizio che, a proposito del liberalismo che quella professava senza sul serio viverlo e pensarlo, avrebbe formulato in un capitolo della Storia d’Italia, nel quale a essere chiamato in causa sarebbe stato lo stesso idealismo e il modo in cui si era svolto all’inizio del secolo, quando a oggetto precipuo del suo interesse aveva posto le questioni dell’estetica e della logica, che avevano così prevalso non tanto su quelle dell’economia e della politica, quanto, piuttosto, della storiografia. Ma il pessimismo non poteva prevalere, presso di lui, sulla razionalità che non poteva non riconoscere nella storia. Per ancora un altro verso, quindi, Croce ne trasse il pretesto per un paradossale esercizio di buona volontà pratica, per trasformarlo, attraverso la sua negazione, nell’energia necessaria a porre rimedio alle tante deficienze della vita italiana, alla inconsapevolezza e ignoranza della storia, della sua storia.

In Italia – scriveva – sono ancora rarissimi coloro che pensano con mente storica, e rarissimi i libri che

possano additarsi come tali che presentino conoscenze storiche adeguate ai tempi: manca persino, come tutti sanno, una Storia d’Italia, che non sia ripetizione di vecchie idee o compilazione senza idee (p. 267).

Era chiaro che, proprio nel sottolineare un limite, queste parole dichiaravano l’esigenza del suo rapido superamento.

La distinzione della storia d’Italia da quella dell’Europa riguardava, per altro, la necessità che quel che di torbido e di schiettamente irrazionale si era depositato nel fondo della società italiana tra la fine del 19° sec. e gli inizi del nuovo fosse circoscritto nei suoi stretti confini per essere considerato come non più che un pallido riflesso di quel che altrove stava dimostrando la sua distruttiva potenza. Se i tempi, da una parte, e la sua disposizione d’animo, da un’altra, lo distoglievano dal proposito di comporre una storia d’Europa, la ragione stava dunque anche nel prepotente bisogno di scriverne una che riguardasse l’Italia unita e, dall’unità conseguita con la presa di Roma, giungesse al 1915 per fermarsi sull’orlo del baratro che la guerra aveva aperto nel continente europeo. Il che, per altro, non basta a escludere che l’idea di una trattazione unitaria del 19° sec. in qualche modo ancora sopravvivesse e cercasse una sua forma di attuazione.

Quando, il 7 luglio 1927, si dispose a meditare sul materiale che aveva cominciato a mettere insieme a partire dal 18 giugno dell’anno precedente, a Croce forse sembrò opportuno che al primo capitolo, da lui nominato anche come “Introduzione” (Taccuini di lavoro, 2° vol., 1987, pp. 28-29), dovesse premettersene una che propriamente avesse questo carattere e tracciasse perciò, nelle grandi linee, i caratteri che il 19° sec. aveva assunti dopo il 1870. Lo si ricava dalla “Nota” che, fra il 17 e il 18 luglio 1927, egli dedicò ai Contrasti d’ideali politici dopo il 1870: una nota, come la definiva, che, dopo essere stata stampata nel 1928 nella «Critica» e negli Aspetti morali della vita politica, trovò la sua sede definitiva in Etica e politica (1931). Si trattava, in effetti, di un testo che, soprattutto se lo si percorre a partire dal quinto capoverso, con il quale probabilmente cominciava, dà l’impressione di essere stato originariamente concepito come un’introduzione, nella quale si fissavano i caratteri generali del periodo di cui si intendeva narrare la storia: un’introduzione europea a una storia italiana. Al capoverso che, cominciando con le parole «è comunemente ammesso che, dopo il 1870, la fede nella libertà fu scossa, etc.», poteva, infatti, ben costituire il prologo generale di un’opera dedicata alla storia di uno Stato particolare, Croce ne premise quattro di carattere teorico, volti a ribadire la sua sostanziale adesione ai valori che, a partire dal 1870, erano entrati in crisi. L’aggiunta di questi capoversi sarebbe suonata non necessaria e stilisticamente stonata se posta all’inizio di un’introduzione storica; ed egli l’avvertì invece come necessaria quando ebbe deciso che di un’introduzione di quella natura la storia che si accingeva a scrivere dell’Italia dal 1870 al 1915, non aveva bisogno: sarebbe infatti spettato alla narrazione di stabilire i nessi, le affinità ed eventualmente le differenze da quel che, nello stesso periodo, stava accadendo in Europa. È possibile, in altri termini, e forse anche probabile che, scritta fin dall’inizio nel segno del dubbio che potesse essere un’introduzione alla Storia d’Italia e non, invece, un autonomo saggio, quella nota fu poi intesa da Croce nel secondo di questi due sensi, per una serie di ragioni alle quali converrà accennare. E cioè a causa sia del carattere europeo, ossia tedesco, francese, inglese, russo, e poco o niente affatto italiano, della materia che vi era trattata, sia del tono fortemente pessimistico della valutazione storica, alla quale soltanto l’idea che, nella radice, la storia è storia della libertà si contrapponeva. Ciò premesso, non può nemmeno escludersi che, avendo cominciato a scrivere quelle pagine con l’idea di farne un’introduzione, gli accadesse di constatare che la preoccupazione teorica relativa alla libertà e alla natura della sua crisi gli stava prendendo la mano e che il pericolo era che la compattezza del discorso storico si alterasse. Può ben darsi, d’altra parte, che le cose andassero in tutt’altro modo e che la “Nota” non si inserisse, se non materialmente, ossia per essere stata scritta in quei giorni del luglio 1927, nel periodo dominato dall’ideazione della Storia d’Italia.

Nessuna di queste non concordanti ipotesi può infatti essere esclusa. Ma più forte di ogni altra è tuttavia l’impressione che fra il tono che caratterizzava la “Nota” e quello che Croce intendeva imprimere alla narrazione della storia italiana non vi fosse accordo. Pur dando rilievo ai germi di irrazionalismo, decadentismo, sensualismo che anche in Italia erano all’opera, grosso modo, in quegli stessi anni, la sua intenzione era che nella Storia d’Italia l’accento cadesse sulla migliore disposizione liberale, rispetto a quello tedesco, del giovane Stato italiano, che, pur fra incertezze e non trascurabili tendenze regressive, non aveva del tutto dimenticata la lezione liberale di Cavour e, sotto la guida di Giovanni Giolitti, aveva conosciuto una stagione di cauto progresso. Il divorzio del potere politico e economico dagli ideali di libertà, che, nei Paesi europei, aveva caratterizzato l’ultima parte del 19° sec., in Italia, a giudizio di Croce, non si era verificato. Le tendenze irrazionalistiche e decadentistiche che pur si erano manifestate nella vita culturale e di lì minacciavano di passare in quella politica, non vi erano caratterizzate da altrettanta virulenza, avevano del provinciale e del velleitario. E fu la grande tragedia della guerra a trarle fuori dalla cattiva letteratura che le aveva alimentate, e nella quale forse sarebbero rimaste e si sarebbero esaurite, se quell’evento funesto non si fosse determinato. Se la prudenza dei più non fosse stata travolta dall’irruenza dei pochi, e l’Italia non si fosse lasciata coinvolgere in un conflitto del quale le sue ancor fragili strutture non erano in grado di sopportare il peso, Corrado Brando, si potrebbe dire, non avrebbe trionfato di Giolitti, le parole «ebbre» non avrebbero prevalso su quelle sobrie. Fermo nell’idea che la severa storiografia non conosce ipotesi come queste, Croce non si sarebbe mai lasciato persuadere a trasformare il suo neutralismo in una tesi storiografica. Ma è anche vero che non poteva reprimere in sé il pensiero che, se la storia italiana degli ultimi decenni del 19° sec. fosse stata ricostruita alla luce del poi, il suo senso sarebbe stato stravolto. Per questo, anche per questo, fece che la sua narrazione si fermasse al 1915, impedendo che nella grande fournaise della guerra le prospettive si alterassero, il non accaduto si trasformasse nel già accaduto, come se il futuro già si fosse a pieno realizzato nel passato, e al volto di questo ne fosse stato sostituito uno che, nella realtà, non aveva ancora preso forma. Insomma, per Croce, malgrado tutto, negli ultimi tre decenni del 19° sec., la vita morale non era stata esposta, in Italia, al contagio irrazionalistico che, in Europa, non aveva risparmiato la Francia e, in primo luogo la Germania. Potrebbe esser stata questa, dunque, la ragione per la quale, se mai l’aveva pensata come un’introduzione, alla fine, di questa egli decise di fare un articolo che stesse a sé e fosse destinato a essere raccolto in un altro libro.

C’è poi, per quanto riguarda il momento in cui Croce cominciò a rendere concreto il progetto, una singolarità, ossia un accenno alquanto inconsueto nei Taccuini. Sotto la data del 19 giugno 1930, si trova infatti un’allusione all’ispirazione ideale del suo libro:

Ho quasi stabilito che il mio prossimo libro, per cui vado facendo letture, sarà una sorta di riscontro e contrasto con quello del Meinecke; e all’inverso di questo, potrà intitolarsi: “Stato nazionale e cosmopolitismo” (3° vol., 1987, p. 194).

A quel libro, che a suo tempo aveva letto senza però recensirlo, e che ora avvertiva la necessità, non solo di ripercorrere nella versione italiana che ne era stata appena pubblicata, ma, questa volta, anche di discuterlo in una recensione, attribuiva infatti la tesi opposta a quella che egli avrebbe sostenuta nel suo, e che già, per la verità, era comparsa nella Storia d’Italia, nella quale, come si è detto, a Bismarck e al Risorgimento tedesco sempre erano stati contrapposti Cavour e il Risorgimento italiano. Nella recensione che del libro di Meinecke aveva pubblicato sulla «Critica» del 1930, non solo era stato attento a rilevare quanto in esso vi fosse di inattuale rispetto a quel che in seguito l’autore avrebbe scritto (Kosmopolitismus und Nationalstaat vide la luce, in prima edizione, nel 1907), ma di questa inattualità indicò la ragione. Rilevò come, in seguito, allo storico tedesco fosse accaduto, non semplicemente di contrapporre come valore a disvalore la concreta individualità nazionale, con la dura realtà dei suoi interessi, all’astratto universalismo della cultura tedesca di ispirazione illuministica, ma di coglierne se mai la drammatica antinomicità, il contrasto, l’incomponibilità in una sintesi risolutrice. Per suo conto, dopo aver ribadito quel che già aveva notato nel 1924 recensendo la Staatsräson e cioè l’assenza, in Meinecke, della dialettica, osservava che il bismarckismo da lui allora tanto apprezzato non era se non una variante della «dottrina del Machiavelli». Una variante che, «nel campo pratico e morale, in quanto ideale e guida di azione, ebbe il vizio della sua virtù, il difetto o l’eccesso della unilateralità e rigidità: troppo politica, troppo realistica, e perciò non abbastanza politica e realistica», come «la storia posteriore» avrebbe fatto comprendere «anche ai fervidi credenti nel verbo bismarkiano» (Pagine sparse, 3° vol., 1960, p. 506), e come già in quel libro Meinecke avrebbe capito se fosse stato

meno severo e meno ironico verso tutti quei pensatori, poeti, sognatori, agitatori, uomini di Stato tedeschi, che nella prima metà del secolo si lasciarono dominare o turbare nella loro politica tedesca da idee, com’egli dice, “cosmopolitiche”. Rappresentavano essi le esigenze della moralità, della civiltà, della religione, dell’umanità o come altro si voglia chiamarle, e, vinti, politicamente nel presente, pur prepararono le dottrine dell’avvenire (p. 507).

Non che, considerate nella prospettiva della storia tedesca, queste parole risultino in ogni senso perspicue, non essendo evidente di per sé a quali personaggi, della cultura e della politica, Croce le riferisse. Ma chiarissime sono invece in riferimento all’impostazione che egli avrebbe data al suo nuovo libro, ossia alla Storia d’Europa; il cui tema centrale sarebbe infatti stato costituito dalla caduta, dopo il 1870, dei grandi ideali di libertà, che avevano segnato l’inizio del 19° sec. e ispirato i movimenti liberali, e dalla loro risoluzione in una prassi mediocre caratterizzata, nel campo politico come in quello economico, dal culto della potenza per la potenza, della forza per la forza, e dal conseguente vigoreggiare dei nazionalismi e degli imperialismi. Alla luce di questi concetti, e di questa, soprattutto, ispirazione morale, Croce si accingeva a «fare il disegno» e quindi a scrivere la Storia d’Europa; che fu perciò la storia di un progresso che alla metà circa del secolo si arrestò per passare nel suo contrario, nella decadenza di quel che all’inizio aveva trionfato. Non fu perciò, come pure è stato autorevolmente detto, la civitas dei della libertà. Fu tutt’altro. Se proprio si volesse indulgere all’immaginazione dei titoli a effetto, potrebbe allora dirsi che, in una sua parte, la Storia d’Europa è una Götterdammerung, dove gli dei che cadono sono i grandi pensatori dell’idealismo classico e, come Croce disse nel 1936, quelli che li sostituirono furono uomini nei quali «il pensiero discese [...] dalle altezze a cui si era innalzato» e «si fece timido mettendosi al seguito delle scienze naturali, timido in istoria che tornò a separare dalla filosofia con la quale nell’età classica si era saldata», nel momento stesso in cui la

cultura germanica, già universale e cosmopolitica, e simpatica verso quella degli altri popoli, si restrinse

nella propria cerchia nazionale e finì col non intendere più neppure i suoi grandi, che richiedevano di essere collocati sullo sfondo mondiale e non su quello regionale (La Germania che abbiamo amata, in Pagine sparse, 2° vol., 1960, pp. 518-19).

Quando scriveva queste parole e, per dir così, periodizzava il suo amore per la Germania, Croce pensava all’estrema degenerazione della cultura tedesca nel nazionalsocialismo che, da tre anni, vi era al potere. Ma il pensiero che vi esprimeva era quello stesso che, alla lettera, aveva ragionato e svolto in ogni pagina, si può dire, della Storia d’Europa.

Lo spirito della libertà come enèrgeia

In effetti, se dopo aver letto il primo capitolo dell’opera, con quel solenne inizio che è uno dei documenti dello stile alto di Croce e aver proseguito nella lettura fin oltre la metà del libro, si va al capitolo, l’ottavo, che tratta dell’unificazione germanica e del «cangiamento dello spirito europeo», si ha come l’impressione che, cadendo dall’alto, una lama avesse tagliato in due il filo del processo storico, e al positivo avesse fatto seguire il negativo, al momento dell’enèrgeia liberale non tanto gli erga degli assetti istituzionali e gli eventi della normale prassi politica, quanto piuttosto la stagnazione e l’involuzione, culturale e morale. Certo, se il lettore di questo libro facesse osservare che non tutto, nella prima fase, era stato, per Croce, progresso e gioiosa fruizione della libertà, non si potrebbe non dargli ragione. Basterebbe ricordare le pagine dedicate agli uomini che formavano la classe dirigente della monarchia di luglio e concepivano la libertà, non come «in perpetuo condenda», ma come una res condita, che dovesse essere conservata e non arricchita, perché quel che contava, per loro, era che si cogliesse il

mezzo tra gli estremi, un mezzo, a dir vero, non sintetico e dialettico, e mobile nel moto, ma analitico e statico e imponente termine al moto, che era quello che fu detto ‘juste milieu’, diventato oggetto di disistima e di satira (Storia d’Europa nel secolo decimonono, 1943, p. 156).

La predilezione che allora si ebbe per questo modo di concepire le cose della politica e delle libere istituzioni contrastava naturalmente con la lezione che se ne sarebbe dovuta trarre, e che se ne sarebbe tratta se a rendere quegli uomini prudenti fino alla timidezza non fosse stata

l’esperienza dei rivolgimenti che la Francia aveva sofferti da un mezzo secolo, trabalzata di rivoluzione in rivoluzione e di dittatura in dittatura, dalla rivoluzione dell’89 alla dittatura giacobina, da termidoro alla dittatura napoleonica, e poi al ristabilimento della monarchia con una carta di libertà e poi all’eversione di questa monarchia (pp. 156-57).

Di qui, dalla paura che il nuovo avesse per effetto la restituzione della navicella francese a un mare tempestoso, il ferreo conservatorismo degli uomini della monarchia di luglio.

I Périer, i Molé, i Thiers, i Guizot e gli altri che presiedettero i vari ministeri, per quanto riguardava l’immutabile conservazione dell’ordine esistente non differivano fra loro o assai poco. Il Thiers, per esempio, aveva diverso temperamento rispetto al Guizot, più individualista lui, più statalista l’altro, più disposto esso ad alleanze coi radicali e l’altro coi cattolici (p. 160).

Ma sia l’uno sia l’altro non riconoscevano «niente fuori del ‘paese legale’» e aborrivano il principio della «sovranità del popolo», bene interpretando, con queste loro idee, la mancanza di vitalità che di quella monarchia fu il tratto essenziale e la fece giudicare «borghese» o «piccolo borghese», non, secondo il parere di Croce, perché riflettesse l’interesse di una sola classe, ma a causa della sua mediocrità. Il che non gli impediva di riferire, e condividere, i giudizi che, su quel governo, erano stati formulati da personaggi di diverso sentire e diverso indirizzo mentale, da Charles-Alexis-Henri Clerel de Tocqueville, che vi aveva visto niente più che «una compagnia industriale, in cui le operazioni si fanno per conto del beneficio che i soci possono ritrarne», da Joseph Ernest Renan, che aveva parlato di avidità e di comportamento da fiera, da Karl Marx che lo aveva definito

una compagnia di azioni per lo sfruttamento della ricchezza nazionale francese, i cui dividendi si ripartivano tra ministri, camere, dugentoquarantamila elettori e il loro seguito, e Luigi Filippo ne era il direttore, vero Roberto Macaire sul trono (p. 160).

Basterebbe altresì ricordare le pagine sul secondo impero, nelle quali si avverte una passione politica che, dal colpo di Stato del 2 dicembre 1851, riconduceva a quello che, il 28 ottobre 1922, era andato a segno in Italia e aveva preparato il definitivo collasso delle istituzioni liberali. Le pagine in cui Croce descrisse lo stato delle cose francesi nel cosiddetto secondo impero sono, senza alcun dubbio, le più eloquenti e vibranti che sia dato incontrare nei suoi libri di storia; in esse si avverte una sorta di doppio percorso che dal passato conduceva a un analogo presente e da questo consentiva che si tornasse a quel passato, mutati nomi e cose, non lo spirito, che era il medesimo spirito di servità e di abiezione. Era lo stesso perché, ed era Croce a dirlo, «già Tacito, una volta per tutte», aveva «analizzato e descritto in classica prosa il ruere in servitium»: e cioè

acclamazioni, adulazioni, servitù volontarie, spergiuri, rapide conversioni di accesi democratici, che sarebbero state comiche se non fossero state umilianti, restrizioni mentali, accomodamenti, e timori e terrori e abbandoni di amici e viltà di denunzie, insensibilità per la violata giustizia e pei quotidiani soprusi, infingimenti di non vedere e sapere quel che ben si vedeva e sapeva per acchetare così i rimproveri della coscienza, ignoranza circa l’andamento dei pubblici affari con congiunte e incessante bisbigliare di scandali, supino plauso di ogni detto o asserzione che venisse dall’alto e insieme incredulità per ogni notizia di carattere ufficiale; e in mezzo a questo generale tremore, audacie degli audaci nel dare l’assalto alla fortuna, e prontezze a cogliere privati vantaggi o a soddisfare odi privati con sembianze di politico zelo, senza che alcuno osasse opporsi o protestare; tutte quelle cose, insomma, che, praticate talvolta anche da uomini ai quali la società non rifiuta la sua stima, fecero esclamare al romanziere che dipinse quei tempi: “che canaglia la gente onesta!” (pp. 197-98).

Se nelle disavventure in cui incorse anche nel suo momento espansivo, lo spirito della libertà rimaneva vigile ed era pronto a risorgere, sarebbe tuttavia in errore, e già lo si è notato, chi ritenesse che, nel raccontarne le vicende, Croce avesse proceduto in modo da non avere occhi se non per quello, per il momento espansivo. Se il primo capitolo del libro, intitolato a “La religione della libertà”, intrecciava la teoria della libertà e il racconto di vicende legate al tempo e ai suoi vari condizionamenti, e la teoria sembrava prevalere, e di fatto prevaleva, sul racconto, la questione relativa alla natura di questo intreccio, e alla diversa qualità dei fili che lo costituiscono, era filosofica, tanto che non si sarebbe potuto trattarla se non dove si fosse potuto farlo con il necessario agio. Ma è anche vero che lo spirito della libertà inteso come enèrgeia e res condenda, piuttosto che come ergon e res condita era, per Croce, un soggetto, non solo teorico, ma anche storico, o era teorico, per lui, e, nello stesso atto, storico o produttore di storia. Era tale, in altri termini, che, nelle cose concrete della storia, dava segno di sé, rendendole vive o spegnendole a misura che esso stesso permaneva nel suo momento creativo o declinava e si ritirava ai margini della scena. Si potrebbe chiedere quale fosse, per Croce, il rapporto, perché doveva esserci, per lui, un rapporto, fra l’enèrgeia e l’ergon; se questo fosse l’attuazione di quella e ne conservasse l’interno vigore, o fosse qualcosa (istituzione, azione realizzata e simili) che, entrato a far parte dell’esistente, anche di necessità avesse perduto la forza interna a ciò che l’aveva formato. Si potrebbe chiedere come fosse possibile, se, inteso come ordinamento, istituzione, Stato, ai sensi della logica crociana l’ἔργον non era se non una realtà pseudoconcettuale, e dunque un’astrazione, che intrattenesse un rapporto con l’ἐνέργεια e di lì derivasse, di lì traesse l’esistenza. Intesa nel suo significato filosofico, l’enèrgeia non era, e non poteva essere, se non la potenza categoriale che si realizza in modo conforme al suo essere. Non era, dunque, e non poteva essere se non sé stessa, soltanto sé stessa, non essendo concepibile, nei termini della logica costruita da Croce, che la categoria fosse causa di cose causate, e queste non fossero la categoria stessa nella pienezza del suo essere. Che nei pensieri a cui Croce accennava vi fosse un’incertezza che anche in seguito si sarebbe rivelata all’interno della sua teorizzazione della libertà, è indubbio. Ma qui deve tuttavia notarsi che nel fondo di questa rappresentazione dell’idea liberale come formatrice di storia operava qualcosa che, sebbene ne fosse provocato, dalla logica della teoria era difforme perché rimandava a qualcosa di naturalistico, esemplato sul ritmo delle stagioni che alternano le loro fasi e ora sono nel momento primaverile ed espansivo e ora in quello del declinante autunno. La cosa meritava di essere notata perché solleva un problema, il cui rilevamento è essenziale alla comprensione del tutto.

Il comunismo

Dopo di che, rientrando nell’ambito delle questioni specifiche e degli specifici giudizi, conviene rilevare che, nemmeno nella narrazione delle fasi in cui la libertà aveva conosciuto i suoi momenti espansivi, Croce si era astenuto dal mettersi in ascolto di ciò che proveniva da zone alle quali il suo spirito non era pervenuto e che a questo erano rimaste chiuse. Lo si comprende, se, in primo luogo, ci si disponga a seguire il racconto liberandosi del giudizio, che era piuttosto un pregiudizio, di quanti sostennero che nella Storia d’Europa le idee prevalgono sui fatti, tutto si risolve in positività, Dio vince e il diavolo perde, e, così dicendo e pensando, si dispone a non capire niente di quel che vi era scritto. Lo si comprende, e lo si constata, se, dopo essere giunti alla fine del libro, si torna sul secondo capitolo dedicato a “Le fedi religiose opposte”, e cioè alla forte e rabbiosa opposizione messa in atto dalla Chiesa cattolica nei confronti del nuovo spirito della libertà, e quindi al problema del comunismo: due oppositori che, nel libro, ricevettero l’attenzione che si doveva alle fedi che li ispiravano. Se, attirandosi per questo l’ostilità degli ambienti ecclesiastici e di non piccola parte dell’intellettualità cattolica, nei confronti della Chiesa Croce fu reciso e deciso nel considerarla nemica irriducibile del liberalismo e, riguardo a quest’ultimo, nell’escludere che potesse concederle qualcosa e venire a patti con lei, la questione del comunismo gli apparve in una diversa luce e nell’insieme, fatte le debite riserve, assai meno negativa. Se, considerandole dal punto di vista della teoria, quelle del comunismo e del liberalismo erano due filosofie o, se si preferisce, due fedi religiose «opposte», materialistica l’una, idealistica l’altra, questo non significava che la loro fosse necessariamente un’opposizione assoluta che, almeno sul piano ideale, non consentisse mediazioni e convergenze.

Nella veloce ricostruzione che egli dava della sua storia, quella del comunismo era un’idea vecchia come il genere umano, che dall’idealità che le stava dentro sempre era stato accompagnato; e se, in concreto, distaccandosi sia dalle forme che aveva assunte nel passato più lontano, sia dalle altre che lo avevano caratterizzato nelle ideologie settecentesche e persino in quella di François-Noël Babeuf e «della sua cospirazione degli Eguali» (p. 35), nella versione che a esso era stata data da Marx aveva preso l’anzidetta forma materialistica che lo poneva in contrasto con l’idea liberale, di qui Croce non deduceva che la sua nascita fosse stata, come dicevano i reazionari di ogni tipo, una sciagura per il genere umano. Diceva piuttosto che in esso si dovesse saper vedere l’idealità che lo muoveva e che non poteva essere repressa nell’animo degli uomini.

Fin quando non giunge alla pienezza del suo rifabbricare che è un demolire la vita umana, e non si fa dittatura continuata e tirannia, quando, invece, con le sue censure e con le sue richieste, e altresì con le sue minacce, combatte gli egoismi degli interessi economici privati, e conferisce al vantaggio comune, quando, coi suoi miti, pur anima di un qualsiasi ideale politico classi sociali estranee alla politica e le sveglia e le disciplina e ne inizia una sorta di educazione [il comunismo] dimostra anch’esso la sua virtù, e sarebbe stolto rigettarlo o volere che non fosse al mondo, come invece ben si rigetta e teoricamente si annulla il suo principio direttivo e la sua materialistica religione (p. 39).

Erano considerazioni, queste che Croce riservava all’idea comunista, che fecero discutere, provocarono dissensi, ma anche sollecitarono la riflessione di molti giovani che, in Italia o fuori d’Italia, avversavano il fascismo.

Del resto, la presenza del comunismo e del pensiero stesso di Marx è, nel libro crociano, assai più profonda di quanto non si sia ammesso o capito, e va al di là di quel che fin qui si è potuto notare. È profonda e anche, se così potesse dirsi, nel senso più rigoroso del termine, ambigua. È espressione, infatti, sia di un antico interessamento, che faceva sentire la sua presenza anche nella critica che Croce non era stato in grado di formulare a tutto campo quando lo aveva studiato da giovane e l’aspetto filosofico della teoria era stato da lui svalutato, sia della confutazione in cui egli ora si cimentava nelle pagine, in cui, ammettendo quel che allora aveva negato, e cioè che il marxismo fosse una filosofia della storia, proprio come tale ora lo presentava. Vi coglieva infatti il segno di una «filosofia della storia con disegno predeterminato» (p. 141), e, per questo aspetto, la criticava al pari della tesi generale del materialismo storico, che, poiché riconduceva all’economia l’arte, il pensiero, la religione, non gli riusciva persuasiva in questa come nelle altre sue parti che, più dettagliatamente, avevano ricevuta la sua attenzione quando, da giovane, aveva studiato il «sopralavoro» e il «sopravalore», e insomma, l’economia marxistica. Eppure, le critiche che sentiva di dover rivolgere alla sua filosofia non gli impedivano di osservare che Marx aveva prestato «singolare vigore a tutti questi concetti e a questi abbozzi di concetti, rielaborandoli e sintetizzandoli mercé la dialettica della scuola hegeliana». Sebbene non si astenesse dal metterne in luce gli svolgimenti che giudicava misti di «empirismo e immaginazione», l’impressione è che non riuscisse a non esserne anche affascinato: come quando osservava che «svolgendo le contraddizioni dell’età capitalistica o borghese, succeduta a quella feudale, e facendo nascere dal seno di essa, da lei generati ed educati, i suoi seppellitori e successori, i proletari», Marx ne aveva ricavata «la sintesi comunistica, che verrebbe attuata da cotesti esecutori della necessità storica; e su tale schema dialettico» aveva disteso e formulato, «sul finire del ’47, il Manifesto dei comunisti. In ciò», proseguiva concludendo su questo punto, era

la sua originalità, non di filosofo né di economista (che, per questa parte, appena qualche frammento del suo pensiero rimane adoperabile), ma di creatore di ideologie politiche e di miti, perché egli diè al movimento comunistico, se non un fondamento, certo un rivestimento di filosofia e di storia, e lo fornì di un libro, il Capitale, di molto prestigio sul pensiero poco critico, sulle immaginazioni e sulle passioni e sulle aspettazioni, di un prestigio che, pur nel disgregamento che è accaduto di tutti i concetti di cui quel libro s’intesse, perdura e opera ancora (p. 143).

Che nel giudizio che Croce formulava in questi termini vi fosse qualcosa di irrisolto, si vede anche da quel che seguiva. Nello scrittore che «la faceva finita col moralismo e col sentimentalismo», e che perciò, nel 1917, aveva giudicato assai superiore a Giuseppe Mazzini, Croce seguitava ad avvertire un interlocutore fondamentale e un testimone imprescindibile di quel che era accaduto, in Europa, nel 19° secolo.

Con la dialettica da lui introdotta, se pareva che si acquistasse la certezza razionale dell’avvenire, cangiava profondamente il metodo dell’attuazione; e cadeva non solo quello dei primi comunisti che egli definì ‘utopisti’, ma anche l’altro delle insurrezioni e dei colpi di mano, fanciulleschi l’uno e l’altro a petto del metodo filosofico e dialettico, che comandava di accompagnare con il pensiero e con l’azione l’oggettivo processo storico. Il fine era comunistico e materialistico, ma il metodo, per contrario, voleva essere storico e, secondo che fosse stato o no seriamente tale, si sarebbe, nella pratica, configurato o in una forma di attività politica concreta e graduale, e perciò sostanzialmente liberale, o in un fatalismo naturalistico, negazione della storicità e dell’attività (pp. 143-44).

C’erano, in questo giudizio, molte cose che richiederebbero di essere messe in rilievo, per sé stesse e anche per quel che produssero nella coscienze e nei pensieri di molti che di questo e di altri suoi libri si fecero lettori negli anni della dittatura. È pur vero, infatti, quel che più volte è stato detto, e ora sembra uscito dalla memoria dei più con il fatto a cui si riferisce, che con i suoi libri, e con questo, forse, in modo particolare, Croce fu presente nei pensieri di coloro che in Italia, fuori d’Italia, nonché nelle patrie galere e nei luoghi di confino, vivevano le passioni e i giorni della loro ribellione al fascismo. Ma, detto questo, conviene ricordare quel che Croce si trovò ad affermare nel cruciale capitolo, l’ottavo, dedicato all’unificazione germanica. Capitolo cruciale, come vedremo, perché fu nel tempo in cui quell’unificazione si produsse, e si completò, che lo spirito europeo conobbe il momento della sua involuzione, a misura che, con gli altri che gli si aggiunsero, ripresero vigore gli elementi che nel recente passato avevano contrastato senza riuscirci il moto espansivo della libertà. Li si può per ora, provvisoriamente, riassumere tutti nella parola «naturalismo», osservando che distruttivi, secondo il giudizio di Croce, furono sul serio perché, come scriveva,

la libertà richiede idee e ideali, e l’infinito cielo e lo sfondo dell’universo, non come estraneo all’uomo ma come lo spirito stesso che in lui pensa e opera e lietamente crea sempre nuove forme di vita. Il naturalismo e il determinismo e il materialismo pratico le è nemico quanto è amico degli assolutismi e dispotismi di ogni sorta (p. 253).

In quel capitolo, nel quale il gran fatto dell’unificazione germanica è descritto tenendo sullo sfondo, ma pur facendolo avvertire come incombente, il nuovo clima spirituale che si era affermato in Europa, la presenza di Marx tornava a imporsi con prepotenza. E anche in modo singolare:

quel che il Marx aveva detto del capitalismo moderno che non sarebbe stato in grado di dominare le forze produttrici che aveva scatenate, in certo senso e in certa misura avveniva di fatto, non nel mondo economico, ma nel mondo morale (pp. 253-54).

Era una singolare metabasis quella che, in tal modo, Croce delineava, convertendo in morale una legge economica. Ma sul serio significativa, perché, trasferita da un quadro a un altro, l’idea del disordine ingovernabile conteneva in sé il pronostico di una conclusione violenta e convulsa, di un baratro in cui l’Europa della libertà sarebbe presto sprofondata. Si potrà discutere se in Croce, che in questi termini delineava la geistige Situation dell’Europa di quegli anni, almeno in parte agisse la conoscenza del modo in cui la Repubblica di Weimar stava vivendo la sua inguaribile crisi, e si avviava alla fine, se dei torbidi pensieri che la attraversavano da una parte all’altra egli avesse sufficiente informazione. Ma certo è che pagine come quelle che egli dedicò all’unificazione germanica e allo stato, in quel periodo, dello spirito europeo, non lasciano dubbi sulla qualità del suo sentire e giudicare. Subito dopo aver operata la singolare metabasis di cui si è detto, scriveva che

un’altra previsione del Marx si avverava, sebbene anche questa in modo diverso da come egli la intendeva: cioè che tutta la società si sarebbe venuta dividendo sempre più nettamente tra nuclei capitalistici e masse operaie, tra plutocrazia e proletariato (p. 254),

tanto da rendere difficile il compito che Croce assegnava alla classe media.

Il Romanticismo

La tesi secondo cui non tutto, anche nei decenni che conobbero l’espansione dell’idea liberale, ne fu positivamente condizionato, e molte, nei pensieri come nelle azioni, furono le opposizioni che quel moto progressivo provocava e incontrava sul suo cammino, ha il suo fondamento nel capitolo terzo, dedicato al Romanticismo. Un capitolo che molto ha fatto discutere, a molte obiezioni ha dato luogo. A chi poneva a sé stesso problemi di definizione e prendeva i concetti designanti le età della storia umana come se si riferissero a cose ontologicamente configurate, può ben comprendersi che la distinzione che in quel capitolo Croce delineava fra il Romanticismo in senso teorico e il Romanticismo in senso pratico e morale riuscisse non persuasiva, e producesse proteste elevate nel nome santo dell’unità a tutti i costi. Ma qui deve dirsi che, giovi o no, all’intelligenza di quel che si chiama Romanticismo, la distinzione introdotta da Croce nel suo concetto deve essere riferita al senso complessivo che egli riconosceva nella storia dell’Europa nel 19° secolo. Iniziata nel segno della libertà e dei connessi moti di liberazione dei popoli europei, quella conobbe, dopo il suo apogeo quarantottesco, una netta tendenza all’involuzione sia nella politica, sia, e ancor più, nella cultura, che raggiunse il suo punto più alto intorno al 1870 quando, se la si fosse guardata dal di fuori, l’Europa sarebbe apparsa ricca, forte e fiorente come non mai, salvo che nel suo interno erano al lavoro idee e tendenze che andavano in senso inverso e, quanto più quella cresceva nel corpo, di altrettanto si indeboliva nell’anima. Per Romanticismo teoretico Croce intendeva, com’è noto, nella filosofia, quella dell’idealismo tedesco, culminata in Georg Wilhelm Friedrich Hegel, nella poesia e nella letteratura, la vasta opera di Goethe; e l’una e l’altra, la filosofia e la letteratura, assumeva nel senso che aveva dato a esse negli studi che all’una e all’altra aveva dedicati. Poiché, d’altra parte, nella riproposizione che ne faceva, la filosofia del Romanticismo non poteva non essere prospettata nel quadro culturale e letterario, piuttosto che filosofico, che a essa era proprio, è comprensibile che la sua attenzione essenzialmente si rivolgesse a quel che ne era stato prodotto in quel campo. Così si rivolse soprattutto alla rivendicazione che in quel tempo si era fatta della poesia

nella nuova scienza della fantasia chiamata Estetica; intese quanto importassero la spontaneità, la passione, l’individualità, e diè loro posto nell’Etica; conobbe e fece conoscere il diritto dell’esistente e dell’effettuale in tutte le sue varietà secondo luoghi e tempi, e fondò la storiografia moderna (p. 44).

L’influsso esercitato dalla cultura romantica fu fecondo di risultati e di stimoli anche quando dette luogo a esiti irrazionalistici, nei quali, realizzando uno dei canoni della filosofia idealistica, com’era da lui intesa, Croce indicava l’elemento positivo; che egli ritrovava nell’esigenza che allora si avvertì di combattere l’«astratto intellettualismo», o, passando in tutt’altro campo, persino nella costruzione delle filosofie della storia, nelle quali, sebbene sempre le avesse detestate, si dispose ad apprezzare quel che pure avevano di buono, ossia il bisogno di «una storia che» fosse «nell’atto stesso filosofia».

L’attenzione deve essere però qui rivolta alla periodizzazione di questi due Romanticismi, di quello teoretico e di quello pratico, l’uno apprezzato e condiviso, l’altro criticato e respinto. E dico «periodizzazione» a ragion veduta, perché, se, come Croce li prospettava e come, per questo aspetto, è inevitabile, i due Romanticismi sono rappresentati come l’uno contemporaneo all’altro, allora è evidente che altro fu il loro tempo, che per entrambi, quali che poi ne siano stati gli svolgimenti, fu, all’origine, il medesimo, altro fu quello a cui Croce assegnò la deviazione dello spirito europeo dalla strada virtuosa che, nella prima metà del secolo, aveva battuta: salvo che, per un altro verso, e se al tempo si fosse data una qualificazione, non cronologica, ma storica e critica, anche nell’unico tempo romantico si sarebbero dovuti distinguere due tempi, l’uno caratterizzato dal pensiero di Hegel e dalla varia opera di Goethe, l’altro segnato dal costume romantico che essi detestavano e aborrivano. Nella narrazione di Croce, il tempo si diversificava infatti a seconda che lo considerasse in relazione al movimento romantico e alla valutazione che di esso dava chi non se ne sentiva partecipe e, addirittura, lo avversava, o lo indicasse come una linea che, dopo aver puntato in alto nel segno della libertà e del progresso, di colpo cambiava verso, si indirizzava verso il basso fino a spezzare in due la sua continuità. Alla secca contrapposizione dei due momenti si sostituiva così un intreccio di linee variamente intersecantisi. I maggiori critici del Romanticismo erano stati infatti, secondo Croce, Hegel e Goethe, che a quel moto di idee e di atteggiamenti pratici erano insieme contemporanei e ostili. E la cosa merita di essere considerata con attenzione nella sua serietà, perché non è un gioco quello che si sta conducendo con il tempo, ma un tentativo, invece, di guardare meglio nelle distinzioni crociane. Le quali non perdevano di vista l’unità problematica dei due momenti, e piuttosto scaturivano dalla coscienza di uno che, nel narrare la storia di quel secolo, traduceva in pensiero l’avversione che i due grandi personaggi avevano mostrata nei confronti della «poesia da ospedale», come Goethe aveva definita quella dei romantici, o del rifiuto che questi ultimi opponevano alla serietà prosaica della vita, esaltata, contro di loro, da Hegel.

Tutto questo per dire che, ferma restando la cesura che Croce poneva, alla metà circa del secolo, nello spirito della libertà, che dal suo momento creativo ed espansivo era caduto in basso fino a toccare l’amarum litus del positivismo, del naturalismo, del materialismo, è pur vero che quella cesura era già, per certi versi, presente anche nel momento in cui lo spirito della libertà ebbe ragione delle esistenze reazionarie e sembrò avere partita vinta. Era presente nella «malattia romantica», come talvolta la si è definita, e nello spirito distruttivo che la alimentava e la rendeva pericolosa: anche se, per dare a ciascuno il suo, accadeva che anche Croce desse ai romantici quel che a essi era dovuto.

Se in qualche paese dove il sentimento e l’azione per la libertà non stavano in prima linea, i romantici (che politicamente non erano nulla, perché erano, semplicemente, malati dei nervi e dell’immaginazione) poterono, per le loro parole di consenso e di dissenso, per le manifestazioni del loro umore e del loro malumore, passare per conservatori e per reazionari, presso i popoli nei quali i cuori battevano con più rapido ritmo, nei quali l’idea e il fiore delle intelligenze era liberale, quel loro nome diventò quasi sinonimo di liberale, e preti e polizie sospettarono e tennero d’occhio la gioventù romantica (p. 55).

Lo spirito della libertà tra espansione e decadenza

La cesura, occorre ribadire, che Croce aveva posta alla metà circa del secolo fra il momento creativo ed espansivo della libertà e quello in cui essa decadde nelle forme che si sono già descritte, era dunque presente già all’inizio del secolo; e a riconoscerla assegnandole importanza era stato proprio il moto della libertà che, per la potenza rivoluzionaria e sovvertitrice che la animava, era fatta per spaventare e chiamare a raccolta, per un’estrema difesa dell’ordine costituito, tutti coloro che vi erano vissuti, ne erano stati protetti e non potevano pensare che quel che consideravano creato per durare in eterno potesse essere messo a soqquadro e sostituito da un altro di segno opposto. Ma, detto questo, anche su altro aspetto deve insistersi o, meglio, richiamare l’attenzione. E cioè su un’idea che alla mente di Croce si era affacciata quando, nel 1915, nell’ultima pagina del Contributo, aveva dichiarato che fra i suoi progetti c’era quello di una storia del 19° sec., nella quale la narrazione di ciò che era trascorso avrebbe «quasi dato mano alla prassi». Era una notazione singolare che, andando al di là dell’idea secondo cui ogni storia è storia contemporanea, teneva chiusa dentro di sé l’ansiosa domanda su quel che della libertà sarebbe stato nell’oscuro futuro.

Nella teorizzazione di Teoria e storia della storiografia, il nesso stringeva insieme, essenzialmente, il passato e il presente. La prassi, che del futuro contiene in sé, quanto meno, la congettura, non era evocata in modo né diretto né indiretto. Ma qui le cose andavano in modo diverso. Nelle pagine finali del capitolo sul Romanticismo, la questione del futuro irrompeva all’improvviso, non senza che, ad accompagnarla, fosse una nota di contenuta angoscia. Che cosa sarebbe stato della libertà nel tempo a venire? L’idealità che le si connetteva e che, a partire grosso modo dal 1870, aveva conosciuto un netto declino, era stata sostituita da altre idealità, era sul punto di esserlo, lo sarebbe stata? Per il modo in cui concepiva il rapporto del positivo con il negativo, Croce era convinto che, per definizione, questo non potesse non essere sempre vinto e superato da quello: sempre, perché quello era il ritmo dello spirito, quella era la logica del suo eterno muoversi e divenire. Sorgendo al limite estremo della teoria, la domanda relativa alle sorti della libertà, e il dubbio che potessero essere segnate da infelicità e decadenza, non erano di quelli che la teoria consentisse di nutrire. Se perciò si affacciavano, e prendevano forma in un’esplicita domanda, non può dubitarsi che un interno tormento travagliasse la coscienza del filosofo che, avendo riposto la sua fede nella storia, da quella correva il rischio di essere tradito.

La risposta era rinviata a quel che sarebbe emerso dal racconto che Croce si accingeva a fare delle cose accadute nel corso del 19° secolo. E potrebbe sembrare che non potesse essere se non così, se era nella storia che la risposta doveva essere cercata. Eppure, è innegabile, se ci si pensa, che qui il discorso conoscesse una sorta di sussulto, o, meglio, urtasse in uno scoglio che non riusciva né a superare né ad aggirare. Era proprio sicuro che la risposta circa la libertà dovesse essere ricercata nella storia se, per un altro verso, fosse rimasto fermo il principio che della libertà faceva l’unica formatrice della storia? Che qui, anche in lui che aveva teorizzata la distinzione interna alle categorie che, per un verso, sono costitutive della realtà e, per un altro, si pongono come predicati di giudizi, la teoria potesse aver conosciuto una sorta di eclissi, e in crisi fosse entrata la distinzione fra la libertà come principio e la libertà come sostanza dell’ordinamento giuridico disposto a garantirla e a proteggerla, è possibile; e direi più che possibile, se si pensa alla definizione famosa che in questo stesso libro egli dette della libertà, che non ha il tempo, perché ha l’eterno, e alla mente si richiama la distinzione, di tipo humboldtiano, fra l’enèrgeia e l’ergon, fra la res condenda e la res condita. Così è, infatti. Che Croce non avesse minimamente messo in questione il suo modo di intendere il rapporto del positivo e del negativo, e alla libertà, che è formatrice di storia, non avesse sottratto niente della sua potenza risolutrice, è altrettanto vero del dubbio che, senza passare per la via regia della teoria, gli era tuttavia entrato dentro, e lo induceva a chiedere se un’altra idea avesse sostituito o stesse per sostituire quella della libertà. In effetti, fra la verità della teoria e la realtà del dubbio il contrasto era tanto meno mediabile in quanto, a rigore, il secondo termine del rapporto non avrebbe dovuto sussistere, e invece sussisteva e aveva la forza dura di un fatto del quale non si può se non prendere atto.

Se è così, deve riconoscersi che il libro di cui si è spesso parlato come se vi fosse stata delineata una sorta di teologia positiva della libertà è in realtà tutt’altra cosa. Nella narrazione, i due termini opposti, la libertà che lavora per farsi concreta nelle istituzioni oltre che nelle menti e nei cuori, e le forze che resistono al suo potere e lo contrastano e talvolta lo vincono, disponevano sé stesse sulla stessa linea, dividevano lo stesso campo, del quale occupavano spazi che poi erano costrette a cedere all’avversario, al quale seguitavano tuttavia a contenderlo. Anche nel periodo del suo maggior successo, la libertà era di continuo minacciata, non solo dal suo avversario, ma anche dalla sua tendenza a contentarsi di sé, abituandosi a considerare acquisito per sempre quel che tale non poteva essere, e chiudendosi nelle istituzioni come in un’inattaccabile fortezza. Se questo schema concettuale sia per sembrare astratto al lettore avido sì di idee, ma anche, e non meno, di fatti, si deve subito convenire con la sua scontentezza, avvertendolo tuttavia che lo schema a cui si è fatto ricorso per entrare nel congegno del modo crociano di intendere, in philosophicis, la questione del positivo e del negativo nella storia, non appartiene, nel libro in questione, alla prosa di Croce, che mai, se pur la provò, cedette alla tentazione di sovrapporre al racconto considerazioni riguardanti la filosofia dello spirito. Di quello schema si è fatto uso per offrire al lettore un’idea del modo tenuto da Croce nel pensare quei pensieri. Ma ora occorre ritradurlo in prosa storiografica e, per renderlo intellegibile in questa, si deve, in effetti, far vivere le idee nei fatti, nelle situazioni concrete in cui dispiegarono la loro potenza, e che possono essere esse stesse idee, perché è in queste e nel modo in cui passarono nelle cose che Croce trovò il filo conduttore della storia dell’Europa nel 19° secolo. Inevitabile è prendere atto, non solo della forma che Croce dette al suo libro, che fu di fatti attraverso le idee, ma anche, e soprattutto, del modo in cui, nel periodo preso in esame, queste furono disposte le une verso, o contro, le altre, in che modo, perciò, lo avessero caratterizzato, e di quali conseguenze fossero state portatrici per il futuro. Nella cura con cui scandagliava il fondo della coscienza europea, la Storia d’Europa fu infatti, essenzialmente, un libro di battaglia; o un’analisi storica, se si preferisce il giro più lungo, e non perciò più rigoroso, che ora stava al di sopra dei fatti e ora era costretta a immergervisi, perché, a misura che procedeva verso il suo traguardo cronologico, le onde del presente superavano il limite di guardia e irrompevano all’interno della sua navicella, minacciandola di naufragio. Non è un modo di dire. Le potenze negative che, nel libro, erano oggetto di narrazione, appartenevano, non a un passato concluso, ma a uno che, in sé stesso, era già presente al presente di chi si era impegnato a descriverlo. Le potenze negative che, nella seconda metà del secolo avevano ingigantito quel che, all’inizio, non aveva avuto altrettanta forza, erano le stesse che allora avevano preso il sopravvento e avevano condotto l’Europa all’insensato massacro della Prima guerra mondiale.

Le potenze negative

Si torna con ciò alla questione che concerne quelle che, in senso burckhardtiano, potrebbero chiamarsi le ‘potenze’ ideali che guidano il corso della storia. Potenze negative, in questo caso, che, a partire dalla guerra franco-prussiana del 1870, determinarono il cambiamento del clima culturale europeo e, per vie traverse, condussero alla tragedia della guerra mondiale del 1914-1918 e alla fine del vecchio assetto, culturale e politico, dell’Europa. In forma di pensieri, ideologie, sogni, utopie, anche in seguito, esse dettero prova di sé e si diffusero soprattutto in Germania e in Francia, ossia nei due Paesi che si erano affrontati in quella guerra. Antica, nei suoi ordini, la prima, recente la seconda, da quelle furono entrambe, anche se diversamente, segnate. E a queste, in particolar modo e con particolare attenzione, Croce tenne fermo il suo sguardo, perché da esse, come si è detto, prese l’avvio e si formò, con i suoi nuovi e non positivi caratteri, il nuovo spirito europeo. A uscire dal centro dell’attenzione, nel quale non era mai, per altro, del tutto entrata, fu l’Italia che, avendo conseguito la sua unità politica proprio nell’anno in cui si combatteva quella guerra, non senza difficoltà e pericoli, tesseva il filo della sua vita unitaria, ma della vita europea non era certo, né nel bene né nel male, la protagonista. A entrarvi, concentrando su di sé l’attenzione dello storico, non fu l’Inghilterra che, con l’esempio che forniva della stabilità e del buon funzionamento del suo governo parlamentare, restava tuttavia sul margine occidentale, e badava essenzialmente a usufruire, all’esterno, dei vantaggi che a essa recava la sua varia politica di potenza imperiale, mentre, a sua volta, anche la Russia interveniva nella narrazione senza assumervi tuttavia particolare rilievo. Le pagine che Croce dedicò alle sue vicende degli anni successivi al 1860 insistevano soprattutto sulla delusione patita da Alessandro II, che dapprima, cedendo alla suggestione delle idee liberali, si era prodotto in molte riforme importanti, aveva abolito la servitù della gleba, estendendo parte di queste riforme anche alla Polonia; salvo che l’insurrezione che vi scoppiò nel 1863 gli fece rapidamente mutare atteggiamento.

Se ora dovessimo spiegare in che cosa consistessero le potenze negative di cui da tempo stiamo parlando, i nomi sarebbero molti: irrazionalismo, vitalismo, naturalismo, darwinismo sociale, vario pessimismo e catastrofismo, non escluso, da ultimo, il razzismo che, in particolare, colpiva gli ebrei e tendeva a perpetuare l’antico odio che da secoli le Chiese cristiane predicavano nei loro confronti e che si traduceva talvolta in varia persecuzione, come si vide in Francia ai tempi dell’affaire Dreyfus. Ma il concetto che, a spiegazione del decadimento che lo spirito europeo fece allora registrare, Croce mise in campo, era molto semplice, perché il fenomeno negativo che era, in Europa, sotto gli occhi di tutti non consisteva che in una sorta di capovolgimento che i concetti della filosofia classica tedesca avevano subito a opera dell’estensione che era stata fatta dei concetti propri delle scienze della natura a concetti interpretativi del mondo dello spirito. Il che, con la naturalizzazione che in tal modo si era eseguita di ogni attività umana, aveva condotto, per reazione, non a un ritorno alle originarie sorgenti del pensiero filosofico, ma a forme varie di misticismo, di decadentismo e di vario sensualismo, che penetrarono nel mondo dell’arte e la corruppero, secondo Croce, in profondità. I concetti che a questo riguardo egli metteva in campo non apparivano per la prima volta nei suoi scritti. Erano, in effetti, l’estremo potenziamento di quelli che, su scala ridotta ma con non minore intensità, aveva incominciato a elaborare molti anni prima quando, da una parte, aveva costruito la sua Etica e, da un’altra, ma non senza connessione con questa, aveva diagnosticato il sensualismo e il decadentismo dai quali era stata non positivamente segnata l’arte di Gabriele D’Annunzio, di Giovanni Pascoli, e persino del cattolico modernista e cultore di scienze naturali, Antonio Fogazzaro. In termini storiografici, la novità consisteva nell’individuazione del punto da cui, negandolo e capovolgendolo, quel moto decadente aveva preso l’avvio; e quello infatti era la filosofia classica tedesca che, proprio in Germania e con più veemenza che altrove, aveva subito l’onta di essere rovesciata in quelle forme improprie. La vittima più illustre che, senza rendergli l’onore delle armi, il giudizio di Croce avesse lasciato sul campo era Arthur Schopenhauer, un filosofo che non era stato letto da lui, nei suoi giovani anni, senza che qualcosa del suo pessimismo non gli fosse rimasto dentro; e qualcosa anche della sua idea della volontà che, dopo essere stata tante volte criticata nel corso degli anni, sarebbe forse riapparsa, con tratti mutati ma nel fondo riconoscibili, nella tarda sua meditazione sulla vitalità e la dialettica.

Può recare sorpresa, non però a chi di Croce abbia adeguata conoscenza, che gli esiti naturalistici e fin razzistici del pensiero che aveva soppiantato l’idealismo e la dialettica avessero allora il loro riscontro, non soltanto nella durezza e nella brutalità della politica imperialistica delle grandi potenze, non soltanto nella spietata logica del capitalismo in quella fase del suo sviluppo, ma anche, e in modo non meno significativo, nelle estenuate e ricercate dolcezze di molte delle opere letterarie che allora si produssero. Può recare sorpresa che in un capitolo in cui si parlava dell’unificazione germanica, e si constatava l’affermarsi del nuovo Stato come il vero egemone della vita europea lamentando che a formarlo, in luogo della libertà a cui si erano ispirati gli uomini del Risorgimento italiano, fosse stato il culto della forza e della virtù militare, Bismarck si incontrasse con Charles Baudelaire. Ma la cosa non deve sorprendere se, restando all’interno della logica e dei gusti estetici di Croce, si considera che, a suo giudizio, la bellezza che allora si idoleggiava si chiamava così, ma era tutt’altra cosa da quella che coincideva con la vera poesia, essendo

affatto diversa da quella in cui sorride la gioia della vita, perché l’immagine in cui si effigiava era, invece, di triste e spasimante lussuria, di disfacimento e di morte, e si colorava di satanismo e di sadismo (p. 256).

Ma quel che più a Croce appariva grave era che, della decadenza, che era entrata nelle anime e negli intelletti, si facesse, da parte di quelli che la subivano, un ideale positivo, come se quello fosse l’unico strumento a disposizione per conoscere il mondo e abitarlo. L’avversione che Croce nutriva per ogni forma di decadentismo lo induceva a mettere insieme il letterato e il profeta di sciagure, la letteratura e le filosofia della storia di ispirazione apocalittica; e in questi due, e per lui convergenti, atteggiamenti egli vedeva qualcosa di diabolico, una seria minaccia diretta contro il «nobile castello» (è un’espressione di Delio Cantimori) dello spirito liberale. Leggendo le pagine di questo suo libro, si ha, in effetti, quasi l’impressione che a volte egli avvertisse di essersi spinto così avanti nella diagnosi pessimistica della malattia europea da avvertire addirittura in sé la pericolosa presenza di quel male, e allora si riprendeva, dal «profondo sé stesso» richiamava i suoi più fidati pensieri dando voce alla convinzione, non che le malattie che affliggevano il corpo europeo fossero segni della sua crescita, ma che erano tuttavia il prezzo che la libertà doveva pagare per la sua affermazione. Era un pensiero, o, se si preferisce, una preoccupazione, un sentimento angoscioso, che non poteva non insorgere ogni volta che, trasferendo nella successione del tempo quel che, nel «tempo senza tempo» dello spirito, si realizzava nel segno dell’eterno, il peso del presente fosse avvertito come insostenibile. E Croce scriveva perciò che

nella caduta che si lamentava dell’entusiasmo morale e nella disaffezione incipiente per l’ideale della libertà [...] bisognava assegnare la sua parte al naturale ritmo degli sforzi e della stanchezza, alla “chiesa trionfante” che ha minor vigore della “chiesa perseguitata”, e che richiede perciò la vigile sollecitudine per risalire in perpetuo dall’ergon alla energeia, dal già fatto al fare (p. 258).

C’era molta forza persuasiva in queste parole che, dirette a quanti soffrivano all’interno della «chiesa perseguitata», erano rivolte in primo luogo a colui che le pronunciava. Ma la lotta che l’eterno qui sosteneva con il tempo era, impropriamente, ai sensi della filosofia dello spirito, trasferita nel tempo. Era proprio la parenesi che, invitando a far tramontare negli animi la disperazione e a sostituirla con la speranza, impropriamente, come si è detto, trasferiva nella dimensione del tempo quel che in sé stesso non avrebbe dovuto patire di quella affezione. Nella prospettiva di Croce la logica e la fenomenologia si dissociavano e mostravano di non potere stare insieme. Fra il positivo e il negativo che, nel ritmo dialettico e implicativo delle forme, non prevedeva, per la risoluzione del secondo nel primo, un tempo che sanasse la differenza, il tempo invece interveniva a stabilirne una che, nel tempo e perciò con esito incerto, richiedeva di essere risolta. Il che quanto più fosse stato da lui avvertito nel fondo della sua coscienza, di altrettanto era destinato ad aumentare la sua preoccupazione, dal momento che alla fede nella libertà che «ha per sé l’eterno» non corrispondeva la ragione, che di quella fede avrebbe pur dovuto costituire il fondamento.

La seria questione che la sua teoria della libertà gli accendeva dentro non era, se è così, quella, per la verità alquanto banalmente prospettata, che nasceva dalla considerazione secondo cui, preso dall’idea della libertà come eterna enèrgeia dello spirito, Croce non ebbe interesse a determinare il suo ergon disponendolo in un compiuto e coerente sistema di regole. La seria questione non è questa perché, come egli sapeva bene che la libera città deve avere le sue istituzioni e gli spazi che ne consentano l’articolazione, e cioè, fuor di metafora, un sistema di norme pensato con la coerenza che è propria del diritto, così con altrettanta forza era convinto che se l’enèrgeia non avesse di continuo reso dinamico e vivo il sistema degli erga, se da soltanto giuridico e formale quello non avesse di continuo saputo attingere il piano alto delle idealità, per la libertà come ergon non ci sarebbe stato futuro, malgrado la sapienza con cui il disegno dei suoi organi fosse stato eseguito. Per quel che riguarda la Storia d’Europa, la seria questione era costituita dallo sforzo in cui Croce si produsse per conferire a sé stesso le certezze che cercava di comunicare agli altri. Si trattò, a guardar bene, di uno sforzo drammatico, che nasceva sia dalla serietà del suo impegno etico e politico, sia dal vivo del sistema filosofico che egli aveva elaborato negli anni e che con quello non trovava l’accordo, posto che, com’era inevitabile, la sua realizzazione dovesse accadere nella dimensione del tempo e delle sue paludose pianure.

Lo si vede bene se, evitando di partecipare alla recita del pio rosario dei luoghi comuni, si legge con attenzione l’Epilogo del libro; che non è affatto un inno alla gioia elevato alla libertà che non può morire e vivrà. La differenza che Croce constatava fra l’Europa com’era prima che il conflitto mondiale la sconvolgesse e quella sconvolta che ora stava sotto gli occhi, era posta e poi, tuttavia, anche tolta. Era vero infatti che, in luogo della Germania degli Hohenzollern c’era ora la Repubblica tedesca; che quello che era stato l’Impero austroungarico appariva disgregato con l’Austria e l’Ungheria ristrette in angusti confini; che a oriente la terra che era stata degli zar russi era ora sotto l’imperio di un regime comunista dal volto di ferro, e che, a tacere di altro, della politica europea facevano parte ora anche gli Stati Uniti d’America che, dal 1917, avevano preso parte alla guerra e avevano contribuito alla sconfitta degli imperi centrali. Ma era pur vero che le differenze, anche profonde, non avevano sul serio interrotta la continuità «fra le due Europe, in apparenza diverse», e quel che era ieri anche ora era presente, perché, «tra le mutate condizioni politiche», persistevano «le medesime disposizioni e i medesimi contrasti spirituali» (p. 346).

Per la qualità delle negative potenze che avevano prodotto la guerra e che in questa si erano, non dissolte, ma, al contrario, esasperate, il quadro delle cose europee era in effetti lo stesso. L’attivismo si dispiegava irruente come prima, e anzi con maggiore veemenza, «gl’impeti nazionalistici e imperialistici» scuotevano «i popoli vincitori perché vincitori e i vinti perché vinti», e tutto in sostanza contribuiva a esasperare, invece che a rasserenare, un’umanità che, essendo stata così duramente provata dalle terribili esperienze vissute, avrebbe dovuto esserne indotta a migliore saggezza e invece era percorsa dai sentimenti dell’odio ribadito nei confronti del nemico vinto e della vendetta che questo nutriva nei confronti del vincitore. Invece di placare gli odi, la guerra li aveva esasperati in modo tale che dalla pace che ne era seguita quelli erano stati resi più forti e pericolosi. «La libertà, che prima della guerra era una fede statica o una pratica con iscarsa fede», era caduta dagli animi anche dove non era caduta dalle istituzioni. Nella lontana Russia, dove, a giudizio di Croce, il comunismo si era attuato nell’unico modo che in quelle condizioni di cose fosse possibile, la libertà, se mai avesse fatto sentire le sue esigenze, avrebbe trovato, per allora, un nemico implacabile, perché la forma che si era data era autoritaria e dispotica. La speranza che un’evoluzione si determinasse e, sia pure in forme diverse da quelle previste dai suoi teorici, le istanze di giustizia che erano nel comunismo trovassero una loro espressione, era rinviata al futuro. A differenza, deve dirsi, di quel che Croce pensava del cattolicesimo che, nel dopoguerra, aveva ripreso slancio e ricevuto nuovi consensi, non perché fosse salito all’altezza delle superiori esigenze dell’umanità, ma, al contrario, per il bisogno che questa talvolta ha di verità fisse, di regole imposte, e insomma di rassicurazioni. Degna dell’uomo, nel senso più alto e pieno dell’espressione, era non la religione dei preti, ma quella della libertà che, come suonava la famosa formula, non aveva un tempo, perché abitava la regione dell’eterno e non tramontava mai.

Non tramontava, e tuttavia doveva esser tenuta viva nei cuori e nelle coscienze perché, intanto, sul piano delle vicende umane, l’attivismo, che aveva avuto gran parte nella preparazione della guerra mondiale, era ancora e dovunque imperversante e imperante, avendo spenta negli uomini «la serenità dell’animo, la fiducia, la gioia del vivere». La tristezza, scriveva, «è impressa sulla fronte di quegli uomini, dei più degni tra loro, perché dove neppur quella si vede, c’è di peggio, c’è rozzezza e stupidità». E a tal punto le cose erano scese al di sotto del livello dell’umano da indurre a pensare che «forse gli eccessi medesimi ai quali l’attivismo si lascia andare, le passioni in cui si dibatte, gli scotimenti che minaccia, danno segno di una non lontana guarigione». Era, formulato in questi termini, un ottimismo che aveva nella disperazione il suo fondamento. Fatte le debite differenze, richiamava Niccolò Machiavelli là dove scriveva che, toccato il limite più basso, conviene che le cose umane salgano e si ristabiliscano al loro normale livello. Ma, nel caso di Croce, la speranza non nasceva da una forma di fiducia che dovesse aversi nella natura e nella sua interna disposizione. Avrebbe dovuto nascere dalla forza creatrice della libertà che, tale essendo, ossia creatrice di libertà, avrebbe, in punto di teoria, dovuto essere sempre, e invece le si concedevano lunghi tempi di riposo, e di abbandono delle cose umane al loro negativo destino. Nella discrasia che in tal modo si rinnovava fra quelle che qui su si sono chiamate la logica e la fenomenologia del procedere crociano, fra la logica che non avrebbe dovuto tollerare il tempo interno alla fenomenologia, e questa che invece lo imponeva alla logica temporalizzando i suoi rapporti – in questa discrasia l’Epilogo trovava il suo senso, il suo problematico senso. Ma ancor più notevole della lotta a cui la filosofia dello spirito lo costringeva per piegare al suo comando la ribelle materia della storia è la tendenza profetica che, inaspettatamente, ma non senza una sua interna ragione, irrompe in una pagina dell’Epilogo:

La guerra mondiale […] ha inasprito certi rapporti tra gli stati a causa dell’iniquo e stolto trattato di pace che l’ha chiusa, ha accomunato nell’intimo loro i popoli che si sono sentiti, e sempre meglio si riconosceranno, eguali nelle virtù e negli errori, nelle forze e nelle debolezze, sottoposti a un medesimo fato, sospirosi nei medesimi amori, travagliati dai medesimi dolori, orgogliosi del medesimo patrimonio ideale. [...] Per intanto, già in ogni parte d’Europa si assiste al germinare di una nuova coscienza, di una nuova nazionalità […]; e a quel modo che, or sono settant’anni un napoletano dell’antico Regno o un piemontese del regno subalpino si fecero italiani non rinnegando l’esser loro anteriore ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri si innalzeranno a europei e i loro pensieri indirizzeranno all’Europa e loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non dimenticate già, ma meglio amate (p. 354).

Parole stupefacenti, non perché preludessero al tentativo di unificazione che ora è in atto in un segno che, a guardar bene, non è quello, schiettamente federalistico, che Croce aveva in mente, ma proprio perché nel loro contesto stanno come ciò che non sembra esserne richiesto di necessità. In effetti, a parte queste linee, non c’è una sola pagina, nella Storia d’Europa, in cui siano contenuti elementi tali da giustificare quell’improvvisa esplosione di fede europeistica. Si aggiunga che Croce scriveva fra il 1930 e il 1931, in un’Europa in cui il nazionalismo aveva preso il potere in Italia, distruggendo le libertà parlamentari e costituzionali e, da molti segni, poteva congetturarsi che presto, come poi avvenne, lo avrebbe preso in Germania. Assai più realistica della profezia di un’Europa unita nel segno della libertà sarebbe stata allora quella di una prossima guerra mondiale, la quale, a otto anni di distanza dalla stesura di quelle parole profetiche, puntualmente scoppiò e per sei anni sconvolse l’Europa e un’ampia parte del mondo. Croce non amava fare congetture su quel che sarebbe accaduto nell’immediato avvenire. Se si dispose a farne una, che alludeva a un futuro assai migliore del tetro presente, non era perché in Europa quella prospettiva fosse matura, ma perché sarebbe stato auspicabile che lo fosse stata. Quella profezia era un atto di fede, era una sfida che superava di slancio anche il dissidio, che nel fondo del suo pensiero si era confermato, fra la logica e la fenomenologia, o, se si preferisce l’espressione di Giambattista Vico, fra la storia ideale eterna e quella che corre nel tempo storico delle nazioni.

Bibliografia

F. Chabod, Croce storico, in Id., Lezioni di metodo storico, a cura di L. Firpo, Bari 1969, pp. 179-253.

G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975, pp. 591-608.

G. Galasso, La memoria, la vita, i valori. Itinerari crociani, Bologna 2015, pp. 127-53.

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