Risparmio

Il Libro dell'Anno 2004

Giacomo Vaciago

Risparmio

La Repubblica incoraggia

e tutela il risparmio in tutte

le sue forme"

(art. 47 Costituzione)

La tutela del risparmio

di Giacomo Vaciago

27 gennaio

Riferendo alla Commissione bicamerale di indagine sui crac Cirio e Parmalat, il Governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio nega ogni responsabilità nelle due vicende dell'Istituto centrale di credito, che "non ha competenze sulla gestione e sui conti delle società industriali", e del sistema bancario in quanto "non vi era alcun elemento che consentisse di vietare l'offerta" di bond Cirio e Parmalat in termini di legge. Il 3 febbraio il Consiglio dei ministri approva un disegno di legge che prevede l'istituzione di un'autorità per la tutela del risparmio con un meccanismo di "codecisione e di forte equilibrio" tra Bankitalia e Antitrust.

Scandali e rimedi

Il terzo millennio non è iniziato bene per i risparmiatori italiani: un anno dopo l'altro, Argentina, Cirio e Parmalat hanno provocato ingenti perdite a tanti. Fino a giustificare la domanda: l'art. 47 della Costituzione, che recita "La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio", è ancora in vigore? Gli scandali e le diffuse perdite degli anni scorsi hanno dimostrato che i tradizionali modi con i quali la tutela del risparmio era esercitata non sono più adeguati. Il mondo in cui viviamo è enormemente cambiato e già prima che in Italia le novità si sono accompagnate a scandali in molti altri paesi, con analogie e differenze che merita sottolineare. È d'altra parte importante confrontare i rimedi che altrove sono stati adottati con quanto nel nostro caso è stato proposto. Come spesso capita, non abbiamo fatto tesoro dell'esperienza d'altri, né ci siamo prefissati di emulare le altrui best practices. Il che è comunque un limite grave del nostro procedere perché nel mondo globale in cui oggi viviamo la tutela del risparmio non è solo un dovere costituzionale nei confronti dei propri cittadini, ma è anche strumento utile ad attrarre capitali dal resto del mondo (e quindi trattenerne un po' dei propri).

In quanto segue esaminiamo le principali caratteristiche delle tre crisi: Argentina, Cirio e Parmalat. Consideriamo quindi cosa abbiamo imparato in termini di necessaria revisione della nostra normativa di tutela del risparmio e giudichiamo così la qualità della risposta data dal nostro legislatore, ricordando che negli anni scorsi numerosi e gravi scandali si sono verificati anche in paesi più di noi dotati di buona reputazione in campo finanziario: giudizio positivo che è risultato confermato anche in questi casi soprattutto grazie a una revisione, rapida e appropriata, della normativa. Resta da verificare se anche noi riusciremo a recuperare presto la fiducia dei risparmiatori e degli investitori internazionali.

Le caratteristiche delle crisi

Tutte e tre le crisi italiane - Argentina, Cirio e Parmalat - hanno soprattutto coinvolto le banche, per la semplice ragione che il nostro sistema finanziario è, da sempre e tuttora, dominato dalle banche. Nel resto del mondo si sono verificati sia scandali bancari, come lo furono, negli anni Novanta, il crack del Credit Lyonnais in Francia e della BCCI a Londra, e la scomparsa delle Savings and Loan americane, sia di altro tipo, come Worldcom ed Enron negli USA. Diversi sono stati quindi i rimedi, di norma rivolti a quelli che erano apparsi i problemi all'origine delle crisi stesse. In generale, possiamo dire che l'analisi e quindi i rimedi proposti si sono concentrati - seppure in misura diversa a seconda della necessità - su tre aspetti riguardanti: le regole di corporate governance e i controlli finalizzati al loro rispetto; la struttura del mercato; l'attività di vigilanza, nel quadro della regolamentazione del settore finanziario.

Il rimedio più radicale è stato realizzato dal Governo inglese nel 1997 quando, anche per innovare rispetto a una tradizione di vigilanza bancaria mediocre, questa funzione fu trasferita dalla Bank of England alla neonata FSA (Financial services authority), che assomma responsabilità di supervisione non solo sulle banche ma anche sulle assicurazioni e più in generale sui mercati finanziari. È stato così fissato un modello cui ispirarsi in tutti i casi in cui sia già molto progredita l'integrazione tra le diverse attività finanziarie, e comunque quando è utile separare e ritenere distintamente accountable la gestione della politica monetaria e di quella della vigilanza. In altri casi - come negli Stati Uniti, nel 2002, con la legge Sarbanes-Oxley dopo il crack della Enron - si è invece posto diretto rimedio ai problemi resi evidenti da un singolo scandalo, che in quel caso riguardava soprattutto l'attività delle società di revisione.

Nel nostro caso, tre aspetti meritano di essere sottolineati: 1) vistosi conflitti di interesse, all'interno delle aziende di credito, tra chi valuta il rischio, per es. di un titolo argentino o di Cirio, e chi colloca quei titoli nei portafogli dei clienti, a maggior ragione quando l'emissione stessa del titolo serve a rientrare da una precedente concessione di credito che si mostra troppo rischiosa; 2) totalmente carenti meccanismi di controlli aziendali tra i diversi organi responsabili, dal Consiglio di amministrazione al Collegio sindacale, al ruolo degli esterni investiti del compito di revisione e certificazione dei bilanci; 3) insufficiente attività di vigilanza sia nei confronti di quei casi di conflitto di interesse sia nel ricorso a complicate piramidi di controllo coinvolgenti centri offshore noti per la loro assenza di controlli.

È difficile individuare un ordine tra le responsabilità relative a questi diversi aspetti, con riferimento al ruolo dei diversi regolatori e policy-makers, anche perché è totalmente mancato l'utilizzo, a fini diagnostici e quindi di accertata necessità di intervento di vigilanza in qualche sua possibile forma, dei diversi indicatori allora disponibili. Pensiamo, per es., alla struttura societaria montata per gestire in modo efficiente e non troppo costoso (dal punto di vista fiscale, ovviamente) il gruppo Parmalat: la Parmalat SpA controlla direttamente il 64% e indirettamente il 36% della Parmalat Soparfi con sede nel Lussemburgo; quel 36% è controllato dalla Parmalat SpA tramite una controllata austriaca, una società domiciliata nelle Antille Olandesi e una dell'Isola di Man; a sua volta, la Parmalat del Lussemburgo controlla altre due Parmalat a Malta, una delle quali negli anni precedenti risulta nata alle Cayman, dove continua a operare una società che assomma di fatto tutta la tesoreria del gruppo. Una così complicata struttura societaria sembra fatta apposta per riuscire a nascondere ai terzi (creditori e/o fisco, ma forse anche azionisti, poco attrezzati per un'esauriente analisi finanziaria) un bel po' dei flussi finanziari del gruppo. Il fatto che tutte queste strutture piramidali, via paradisi fiscali, bancari, legali, fossero ampiamente note e ciò nonostante nessuno - tra azionisti, creditori, banche e Autorità di controllo - avesse mai protestato o chiesto rimedi, spiega la debole protezione che in Italia riceve il risparmiatore comune, nonostante la lungimiranza della nostra Costituzione (del 1948!).

Sistema finanziario e corporate governance

Le origini e le caratteristiche delle nostre crisi recenti sono meglio comprensibili se esaminate nella duplice prospettiva dell'evoluzione del sistema finanziario - come si è mossa l'Italia, nel contesto delle tendenze prevalenti a livello globale - e della sua normativa, che negli ultimi dieci anni si è organizzata attorno al Testo unico bancario (TUB, 1993) e al Testo unico della finanza (TUF, 1998), pur varie volte modificati e integrati per tener conto di successive direttive europee.

All'origine degli scandali sta il tentativo, con la banca universale, di rendere compatibile il nostro tradizionale modello 'bancocentrico' con quello tipico del modello anglosassone, che è invece basato sui mercati finanziari. La miscela è esplosiva quando si aggiunge al conflitto di interesse tipico della banca universale quello che deriva dalla nostra fragile corporate governance, la quale anche nei casi di società quotate in Borsa è quasi sempre modellata a uso del capitalismo familiare.

Il paradosso è che negli anni Novanta abbiamo per più aspetti imitato il modello che tradizionalmente caratterizzava la Germania, non solo nella priorità attribuita alla stabilità monetaria (Trattato di Maastricht e convergenza necessaria per l'adozione dell'euro), ma anche nella formula della banca universale, proprio quando per una serie di motivi la Germania cessava di essere l'economia più dinamica e veniva superata in termini di crescita del reddito dal capitalismo di tipo anglosassone. La differenza con il prevalente capitalismo del mondo anglosassone è infatti duplice: in Italia è capitalismo familiare assistito dalle banche, mentre nel mondo anglosassone è capitalismo di tipo manageriale assistito dalla finanza. Non a caso nei nostri scandali si trovano sempre commistioni dei due modelli, da un lato tra capitalisti e loro manager, dall'altro tra banca e finanza. È il contemporaneo presentarsi di questi due problemi che rende più gravi le crisi e quindi i successivi scandali. Ma è anche necessario tener conto di questa duplice circostanza se si vogliono individuare i rimedi appropriati.

Gli scandali americani - ancor prima dei nostri - hanno portato a individuare una serie di rimedi che paradossalmente servirebbero anche a noi, pur avendo avuto i nostri scandali caratteristiche e origini molto diverse. Basta considerare l'aggiornamento proposto dall'OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) dei suoi principi (che risalgono al 1999) di corporate governance. Alcuni di questi aspetti sono stati già sostenuti anche dalla SEC (US Securities and exchange commission) nelle sue proposte di riforma, che peraltro incontrano resistenza da parte dell'amministrazione Bush.

I nuovi principi dell'OCSE prevedono: 1) maggiori poteri agli azionisti per quanto riguarda la nomina e la revoca degli amministratori, e le loro decisioni in conflitto di interesse (come nel caso dell'assegnarsi stock options, prassi che è stata di moda negli Stati Uniti negli anni scorsi); 2) più chiara distinzione dei compiti nel caso delle società di audit e di revisione, evitando conflitti di interesse, incarichi per lavori di consulenza ecc.; 3) presenza di membri indipendenti nei consigli di amministrazione ed eventuale separazione del ruolo di presidente da quello di amministratore delegato, sempre con l'obiettivo di migliorare le capacità decisionali dei consigli di amministrazione anche per meglio controllare il management; 4) miglioramenti della corporate governance degli investitori istituzionali e maggior controllo sui vari tipi di fondi di investimento (dagli hedge funds ai mutual funds).

Accanto a queste riforme che devono ancora essere attuate, vi sono comunque i risultati ottenuti con il varo della legge Sarbanes-Oxley, che con rapidità e in modo perfettamente bipartisan - Paul S. Sarbanes (Senato, democratico) e Michael G. Oxley (Camera, repubblicano) - ha corretto gli errori commessi con riferimento all'attività di revisione.

Nel nostro caso, come abbiamo già detto, il problema che è al cuore della corporate governance non è tanto la difficoltà degli azionisti di controllare il management (con il pericolo che sia il management stesso il vero dominus della situazione), quanto la capacità dell'azionista principale di utilizzare a fini propri il controllo della società.

Regolamentazione e vigilanza

La teoria economica ha da tempo dimostrato le positive conseguenze sulla crescita economica di un sistema finanziario sviluppato, ma anche le condizioni che devono essere rispettate affinché siano conciliate le necessarie caratteristiche di stabilità e di efficienza del sistema finanziario. La tutela del risparmiatore rientra nell'insieme delle garanzie che devono essere fatte valere per conciliare utilità individuale e benessere collettivo. Tutte queste condizioni di successo possono però non verificarsi, quando si hanno market failures, quando cioè le necessarie regole di buon funzionamento di un mercato competitivo non sono rispettate. Si presentano in tal caso problemi di adverse selection e/o di moral hazard, e quindi i risultati conseguiti possono essere pessimi invece che ottimi: troppo rischio a parità di rendimento, costi più alti del necessario, utilità insoddisfatta e così via. Per evitare queste conseguenze negative, i fallimenti del mercato devono essere evitati o corretti con l'appropriata regolamentazione e con un'attenta vigilanza. E ciò si applica sia ai modelli di corporate governance sia alle strutture del mercato.

Ciò che importa sottolineare è che la qualità del mercato finanziario ha le caratteristiche del 'bene pubblico', cioè qualcosa che è 'non-rivale' e 'non-escludibile': chi ne gode non esclude altri dal goderne e, una volta che il bene c'è, nessuno può esserne escluso, neppure se lo volesse. Per queste sue caratteristiche è prodotto in quantità insufficiente se non vi provvede un'Autorità nell'interesse di tutti e di ciascuno. Esiste però sempre il rischio del free rider, cioè di chi sale sull'autobus senza pagarne il biglietto. In altre parole, c'è sempre chi trae beneficio da un uso improprio del bene pubblico, sempre che gli altri ne facciano invece l'uso appropriato. Uno può infatti ancora migliorare la sua utilità, se non rispetta proprio quelle regole che tutti gli altri rispettano. Questa è un'inefficienza pericolosa, perché se ciascuno - e quindi tutti - non rispetta le regole, il risultato è il peggiore possibile.

Questa riflessione serve a ricordarci che un buon mercato finanziario, che ha in sé la necessaria tutela del risparmiatore, cioè di colui che alimenta il mercato stesso dal lato della domanda, non esiste in natura. Ma è il prodotto di buone regole, sempre aggiornate quando il mondo cambia, e di una occhiuta vigilanza che continuamente accerta e quindi garantisce il rispetto delle regole stesse. La qualità del mercato finanziario e quindi la tutela del risparmio non sono d'altra parte fine a sé stesse, ma anche per questo ulteriore motivo un valore di pubblica utilità, perché abbiamo ricordato che tutto ciò serve a favorire la concorrenza e la crescita economica, cioè caratteristiche dell'economia che sono di interesse comune. Come la moneta, che è ricchezza per il suo possessore, ma è anche di interesse di tutti che sia di valore stabile nel tempo, così la qualità del mercato finanziario non interessa solo ai singoli che vi operano (intermediari, debitori, creditori), ma più in generale a tutta la comunità. Ciò spiega perché tante risorse e tanta intelligenza umana siano dedicate a produrre buoni risultati in questi campi, sia per quanto riguarda le regole sia per l'attività di vigilanza. E ciò vale per ogni esigenza che può essere soddisfatta dal mercato finanziario, sia quella di avere liquidità (esistendo un'attività a valore nominale certo, cioè senza rischi di perdite in conto capitale), sia quella di poter scegliere la combinazione rendimento-rischio preferita (fra le tante offerte, in condizioni di concorrenza e con garanzia di informazioni veritiere sulle loro caratteristiche).

La teoria economica non ha peraltro dimostrato che esiste sempre un'unica soluzione a tutti questi problemi. Anzi, la conclusione prevalente è che la soluzione ottimale è di volta in volta dipendente dalla storia e dalla struttura di ciascun paese.

Si spiega così - pur in un mondo caratterizzato da crescente globalizzazione e integrazione - il permanere di una pluralità di modelli di vigilanza anche molto diversi fra loro.

In Europa si distinguono quattro modelli di vigilanza sui mercati finanziari: 1) anzitutto, quello istituzionale, secondo il quale c'è un'Autorità per ciascuna categoria di operatori finanziari, o per ciascun corrispondente mercato (per es., banche, intermediari non bancari e società di assicurazione sono ciascuno vigilati da una corrispondente Autorità); 2) un secondo modello è quello per obiettivi che caratterizzano l'attività svolta dalle diverse Autorità (per es., la stabilità degli intermediari e del relativo mercato, la concorrenza del mercato e tra i diversi intermediari, la loro correttezza e trasparenza); 3) un terzo modello è basato sulle attività svolte dagli intermediari, ciascuna delle quali ha una sua Autorità di vigilanza indipendentemente dalle altre caratteristiche dell'intermediario che svolge quell'attività; 4) l'ultimo è il cosiddetto modello centralizzato, in cui un'unica Autorità concentra tutte le funzioni di controllo nei confronti di tutti gli intermediari indipendentemente dalle attività svolte e per tutti gli obiettivi della vigilanza stessa. Quest'ultimo è il modello iniziato dalla Norvegia e verso il quale si sono già mossi Danimarca, Svezia, Regno Unito, Austria, Germania, Irlanda; e si rivela appropriato soprattutto quando i diversi mercati si integrano e gli intermediari diventano 'multisettoriali'.

Il modello italiano, consacrato dal TUB (1993), è attualmente quello per obiettivi - seppure con eccezioni - che ha ripartito la vigilanza principalmente tra tre autorità: Banca d'Italia, CONSOB (Commissione nazionale per le società e la borsa), e ISVAP (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo). Detto schema rappresenta un'evoluzione rispetto al tradizionale modello italiano che era invece di tipo istituzionale, cioè per soggetti, e che era dominato dall'obiettivo della stabilità del sistema bancario, non a caso essendo il nostro legislatore memore dei gravi danni causati dalla crisi bancaria degli anni Trenta. Per lo stesso motivo - la stabilità essendo prioritaria rispetto all'efficienza - mancava la finalità di garantire la concorrenza.

Con le riforme degli anni Novanta, codificate nei due Testi Unici, ha prevalso il modello delle finalità, cioè degli obiettivi perseguiti dalla vigilanza svolta dalle diverse Autorità. Si è così accresciuta - con alcuni limiti di cui diremo - la sovrapposizione di controlli attuati da diverse Autorità nei confronti dello stesso intermediario.

Nella tabella della pagina a fianco sono riportate le principali caratteristiche del nostro modello di vigilanza. Nella prima colonna, sono definiti i cinque tipi di intermediari: Banche, SIM (Società di intermediazione mobiliare), Assicurazioni, OIC (Organismi di investimento collettivo), Fondi pensione. Se ne occupano cinque autorità indipendenti, oltre a Ministeri (Lavoro, Tesoro, Industria) e Comitati di Ministri (CICR, Comitato interministeriale per il credito e il risparmio; CIPE, Comitato interministeriale per la programmazione economica). Le cinque Autorità sono: Banca d'Italia, Antitrust, CONSOB, ISVAP e COVIP (Commissione di vigilanza sui fondi pensione). Le tre colonne in cui compaiono le diverse Autorità identificano le corrispondenti finalità perseguite, cioè rispettivamente: stabilità; trasparenza e correttezza; concorrenza. La più evidente eccezione al modello teorico della vigilanza per finalità si ritrova nella 'dominanza' del ruolo della Banca d'Italia nei confronti del sistema bancario: non solo a fini di stabilità - come ovvio - ma anche per l'obiettivo della trasparenza e della correttezza, per giungere poi anche a quello della concorrenza. Quest'ultimo aspetto, dal 1990, quando è stato deciso che l'Antitrust (o più precisamente Autorità garante della concorrenza e del mercato) si limita a un parere alla Banca d'Italia, essendo questa incaricata della tutela della concorrenza in campo bancario, è stato particolarmente controverso. Pur essendovi benefici evidenti in termini di risorse da impiegare per lo svolgimento di ciascuna attività, è infatti ovvio che tra stabilità e concorrenza può esservi contrapposizione. In tal caso, l'individuazione di due distinte Autorità, rendendo esplicito il contrasto, ne consente anche una più meditata e più consapevole composizione. Si evita che la prevalenza del rapporto esclusivo Banca d'Italia-banche renda più debole la posizione delle banche stesse nei confronti della banca centrale. E più in generale si evita che la sovrapposizione di compiti tra diverse autorità produca responsabilità ambigue, quindi meno efficaci ex ante e meno accountable ex post.

A sua volta, la vigilanza si avvale di numerosi strumenti, di cui i principali sono: 1) vigilanza strutturale: incide sulla struttura stessa del sistema finanziario (controlli all'entrata, assetto proprietario, fusioni ecc.); 2) vigilanza prudenziale: definisce regole di comportamento volte a limitare i rischi della gestione (patrimonio, partecipazioni ammesse, controlli interni ecc.); 3) vigilanza informativa: obbliga gli intermediari a dare continua informazione della propria situazione alle autorità (segnalazioni statistiche ecc.); 4) vigilanza ispettiva: dispone verifiche presso gli intermediari per accertare la regolarità della loro gestione; 5) vigilanza protettiva: attiva gli strumenti idonei a risolvere situazioni di crisi (assicurazione dei depositi ecc.); 6) vigilanza di trasparenza: definisce le informazioni che devono essere rese ai terzi (bilanci, prospetti informativi ecc.).

Testo unico bancario (TUB) e Testo unico della finanza (TUF) indicano come Banca d'Italia e CONSOB, per le materie di rispettiva competenza, svolgono attività di vigilanza (informativa, regolamentare e ispettiva) sulle banche e sui gruppi bancari da un lato, e sui soggetti abilitati all'intermediazione finanziaria dall'altro. È altresì previsto che operino in modo coordinato, scambiandosi informazioni sulle irregolarità rilevate e sui provvedimenti adottati, anche al fine di ridurre gli oneri sui soggetti vigilati.

Tabella

Questo modello, come riorganizzato e ringiovanito negli anni Novanta, è stato oggetto da anni - già prima degli ultimi scandali - di numerose critiche e proposte di revisione. Commissioni di studio, singoli ricercatori e membri del Parlamento hanno più volte proposto di riformare la regolamentazione, la struttura delle rispettive Autorità, le loro competenze e in proposito sono stati anche presentati disegni di legge. Nel 2004, dopo lo scandalo Parmalat, tutto ciò è stato ripreso e portato a maturazione

Le riforme in Italia

La Banca d'Italia ha dato molto alla politica italiana. Da Luigi Einaudi a Guido Carli, da Lamberto Dini a Carlo Azeglio Ciampi: i vertici della nostra banca centrale e i vertici del paese hanno più volte coinciso. In altre occasioni è stata invece la politica ad assediare la Banca d'Italia: l'abbiamo visto con Paolo Baffi e di nuovo (seppure con molte differenze) con Antonio Fazio. In quest'ultimo caso, si è ripetutamente cercato nella figura del Governatore il 'capro espiatorio' cui addossare tutte le responsabilità per la mancata tutela dei risparmiatori italiani. Basterà ricordare il tantissimo tempo che il Parlamento ha dedicato (pur con qualche resistenza da parte del Senato) alla riforma dei criteri di nomina e alla riduzione della durata del mandato del Governatore, proprio mentre (maggio 2004) il Presidente degli Stati Uniti confermava chairman del board della Federal Reserve il settantottenne Alan Greenspan, che al vertice della banca centrale americana ha già trascorso sedici anni!

Non stupisce che la finanza internazionale abbia continuato a osservare - con curiosità mista a preoccupazione - la lentezza e la tortuosità con cui Parlamento e Governo hanno reagito agli scandali Argentina-Cirio-Parmalat e proposto i necessari rimedi. In una ipotetica scala di responsabilità è difficile porre ai primi posti la nostra banca centrale, per ciò che in merito ha fatto, o non ha fatto ma avrebbe dovuto fare!

A parte l'aspetto relativo al mandato del Governatore, il dibattito, anche parlamentare, sul disegno di legge di riforma, si è concentrato su altri temi: innanzitutto quello - che è abbastanza di politica generale - del rilievo da attribuire, magari aumentato rispetto a quello piuttosto formale del passato, al CICR; in secondo luogo, la riproposizione del reato - con procedibilità d'ufficio - per il falso in bilancio; in terzo luogo, la modifica della corporate governance, con la scelta tra due ipotesi alternative per la nomina di membri del consiglio di amministrazione, quella di amministratori eletti dalle minoranze cui è stata preferita quella di membri del CdA in possesso dei requisiti di indipendenza. Su questi aspetti si concentrano la discussione e le polemiche, mentre su altri aspetti - come il potenziamento della CONSOB, o il trasferimento dalla Banca d'Italia all'Antitrust delle competenze in tema di concorrenza bancaria, o la riforma dell'Ufficio italiano cambi - il consenso politico è stato più ampio mentre le polemiche sono state scarse o assenti.

In sostanza, una volta abbandonata l'ipotesi - che era emersa come ballon d'essai, più che come proposta organica - di un'Autorità unica sul modello della FSA inglese, si è lavorato sulla proposta di riordino delle tre Autorità esistenti: Antitrust, Banca d'Italia e CONSOB, con un apparente ridimensionamento della Banca d'Italia, a favore delle altre due Autorità, ambedue potenziate o trasferendo loro competenze già della Banca d'Italia o aggiungendone di nuove.

Prima di precisare meglio alcuni aspetti della riforma avviata, vediamo di chiarire quale è stato da subito il nodo politico principale, a volte rimasto sottotraccia nel dibattito anche vivace che c'è stato sui giornali oltre che in Parlamento. Nel disegno di legge presentato dal Governo, c'è di tutto un po' e la 'lezione' dello scandalo Parmalat sembra essere stata appresa solo in parte. Insufficiente quindi - da molti è stato detto, soprattutto da parte degli studiosi più accreditati di tali questioni - il disegno complessivo di riforma. Mentre negli altri paesi la reazione agli scandali - pensiamo al caso Enron - si è concentrata sui problemi emersi, nel nostro caso è sembrato che il Governo approfittasse dello scandalo Parmalat per affrontare e sistemare tante altre questioni, magari anche importanti e/o in modo utile, ma non centrali al problema. Questo era invece sottovalutato nelle sue origini e nelle sue principali caratteristiche, venendo così a mancare l'obiettivo principale della riforma stessa.

Per spiegarci meglio, sottolineiamo che lo scandalo Parmalat è, come tutti sanno, anzitutto e soprattutto un problema di corporate governance. La complicità delle banche, o anche solo il loro passivo accomodare gli illeciti penali commessi da alcuni all'interno dell'azienda, non consente di considerare il problema alla stregua di una mancata 'sana e prudente gestione del credito', o di attribuirlo al fatto che per anni fosse rimasta alla Banca d'Italia la competenza primaria in tema di concorrenza bancaria.

Lo scandalo Parmalat - occorre ripeterlo? - è anzitutto un problema di cattiva gestione e di pessimo controllo: amministratori, dirigenti, sindaci e revisori sono ovviamente i primi responsabili delle illegalità commesse e dei danni subiti dai risparmiatori. Era pertanto necessario - se si voleva seguire l'esperienza americana della Sarbanes-Oxley - concentrare la riforma sugli articoli di legge necessari per migliorare il funzionamento della governance societaria, in particolare (ma non solo) per le società quotate. Si è invece preferito discutere molto di cose come il 'regolatore unico' (tipo la FSA inglese), ma anche di CICR e di Banca d'Italia, quasi che Parmalat potesse servire a realizzare altre riforme di cui pure da tempo ci si occupava, ma senza il necessario approfondimento (o la avvenuta verifica che i tempi fossero già maturi anche per l'Italia, come nel caso riguardante il 'regolatore unico').

Le evidenti controindicazioni di questa strategia sono state da un lato l'allungamento del periodo di reazione con nuova legislazione, dall'altro l'insopportabile livello di polemica che ha caratterizzato i lavori parlamentari. Si è finito col dare l'impressione - sia agli italiani sia agli osservatori del resto del mondo - che la priorità urgente fosse altra rispetto al ripristino della tutela del risparmio.

Detto ciò, torniamo a considerare altri aspetti della riforma del sistema di tutela del risparmio. Al di là delle pene previste per il reato di "nocumento al risparmio" (considerato 'grave', se la perdita supera l'1‰ del PIL o riguarda più dell'1‰ della popolazione risultante dall'ultimo censimento ISTAT) e per il reato di "mendacio bancario", gran parte della riforma (i primi 36 articoli del disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 3 febbraio 2004) riguarda il potenziamento e la trasformazione della CONSOB in Autorità per la tutela del risparmio.

Ma si coglie l'occasione anche per predisporre il recepimento della direttiva europea sui reati finanziari (market abuse), da compiersi comunque entro il 12 ottobre 2004. Le fattispecie considerate - dall'insider trading all'aggiotaggio - non sono ovviamente nuove nel nostro ordinamento (e nella realtà del nostro mercato), ma la direttiva dell'Unione Europea richiede un sostanziale adeguamento da parte della nostra autorità (la CONSOB, futura Autorità per la tutela del risparmio) che diventa direttamente responsabile della prevenzione e della repressione di quei reati finanziari.

Questa svolta radicale nel ruolo della Autorità per la tutela del risparmio richiederà tempo. Ma potrebbe essere più utile se vi si accompagnerà un'effettiva crescita di robusti investitori istituzionali (a cominciare dai fondi pensione). Perché è sempre questo il problema vero della nostra industria finanziaria e della sua ridotta attrattiva internazionale. Essendo diventato meno rilevante il settore pubblico - come Stato seppure non come 'sensibilità', se per es. teniamo conto dell'esperienza delle Fondazioni già bancarie - non vi è stato un aumentato ruolo del capitale privato. La fragilità riemersa con il caso Parmalat va oltre il problema di tutela del risparmio in senso stretto e riguarda più in generale le tante debolezze del capitalismo italiano, a cominciare dal fatto che tramite piramidi societarie (anche dette 'scatole cinesi') pochi capitalisti controllino - senza capitali sufficienti - tante imprese. Il problema di fondo resta dunque quello della compatibilità tra società quotate da un lato e modalità con le quali opera il loro socio di controllo. Quando servono capitali per la crescita, ma il socio di controllo pur essendone privo non accetta la perdita del controllo stesso, iniziano i guai. E la prima cosa che avviene è una falsa rappresentazione della realtà dei fatti. Per evitare ciò, occorre il giusto mix di prevenzione-repressione. Perché il vero problema di questo paese non è la carenza di norme (che forse sono già in eccesso), ma il loro scarso rispetto. Lo vediamo nella tutela del risparmio come in tanti altri settori.

Conclusioni

Come s'è visto anche in altri paesi, occorre che vi siano scandali per accorgersi che il quadro delle regole e della vigilanza non è più adeguato alle novità. Nel nostro caso è emblematico che si sia trattato di scandali 'globali', mentre è europeo il processo di integrazione finanziaria cui, in teoria, stiamo partecipando. Se ci confrontiamo con lo scandalo più famoso degli ultimi anni - quello della Enron negli Stati Uniti - sono illuminanti le differenze. In quel caso, il problema emerso è stato quello tipico della public company, in cui i manager si arricchiscono a spese degli azionisti, con la complicità dei loro controllori (società di revisione). Nel nostro caso, il 'problema d'agenzia' è radicalmente diverso: è l'azionista di controllo che, con molte più complicità (a cominciare dai manager, ma comprendendo anche molte altre figure), si arricchisce a spese di tutti gli altri. Il contesto in cui lo scandalo cresce e si alimenta è quello di una illegalità molto più diffusa, con l'omertà tipica del capitalismo familiare quando inquinato. In tutti i nostri scandali, si va dall'ufficio della porta accanto al più lontano centro offshore il cui scarso rispetto della legalità è considerato un vantaggio e non un preoccupante indizio di futuri problemi. Anche per questo, i rimedi che i nostri scandali richiedono sono più complessi, radicali, pervasivi. Aver passato tanti mesi a discutere d'altro - cioè della durata dell'incarico del Governatore della Banca d'Italia e del ruolo del CICR ai fini di tutela del risparmio - è sufficiente indizio della scarsa attenzione che la politica dedica non solo al risparmiatore, ma ancor più alla esigenza di attrarre capitali da tutto il mondo. Siamo stati fortunati perché finora, in presenza di politiche monetarie espansive e di abbondanza di credito, sono stati trascurabili gli effetti di contagio derivanti dagli illeciti societari emersi con lo scandalo Parmalat, un dissesto di dimensione superiore a quelle di Enron o Worldcom.

Modesto e temporaneo è stato l'aumento degli spread creditizi nei confronti delle banche italiane che erano fra i principali creditori di Parmalat.

Può aver contribuito a questo positivo risultato l'iniziale percezione da parte dei mercati di una concorde volontà politica a porre presto rimedio ai problemi emersi con quegli scandali, e a ripristinare così le condizioni di una gestione del credito "sana e prudente", come da anni recita la nostra legislazione.

repertorio

Risparmio individuale e risparmio collettivo

Nel linguaggio scientifico il termine risparmio è usato a volte con riferimento a tutta l'eccedenza del reddito netto sul consumo e a volte con riferimento soltanto a quella parte del reddito non consumata che viene destinata a essere, o è già, reinvestita direttamente o indirettamente nella produzione. Nel primo caso il risparmio comprende tesoreggiamento e investimento, nel secondo caso coincide invece con quest'ultimo.

Sul mercato del risparmio si incontrano naturalmente domanda e offerta, la richiesta cioè di prestiti e i risparmi disponibili ai vari saggi di interesse, ossia ai vari prezzi per l'uso del risparmio. Va notato come, a differenza della domanda degli imprenditori, che è in genere assai elastica così da cambiare sensibilmente a ogni piccola variazione degli interessi passivi, buona parte dell'offerta sia rigida. Mentre infatti in alcuni casi si verifica una relazione diretta tra quantità del risparmio offerta sul mercato e rimunerazione offerta dai richiedenti (alcuni ritengono perfino che più è forte l'interesse più si risparmi) e in altri casi si ha una relazione inversa (eventualità che può realizzarsi quando il risparmio sia particolarmente penoso), molti redditieri sono assolutamente indifferenti alle variazioni del saggio dell'interesse. Preoccupati dell'avvenire, abituati ormai a risparmiare o incapaci per qualsiasi ragione di espandere i loro consumi, risparmierebbero anche se l'interesse fosse nullo o addirittura negativo; percependo un interesse da coloro cui cedono l'uso del loro risparmio, questi risparmiatori godono di un particolare vantaggio di natura soggettiva che è detto rendita del risparmiatore.

L'osservazione statistica mostra con sicurezza l'esistenza di una relazione diretta tra le variazioni della quota di risparmio (rapporto tra risparmio e reddito) e le variazioni del reddito individuale e come il risparmio sia alimentato soprattutto dai redditi elevati. La concentrazione dei redditi favorisce perciò il risparmio, ma se essa giunge a essere troppo forte può accompagnarsi a un logorio di capitali umani per tutti coloro il cui reddito risulti insufficiente.

Funzione del risparmio è detta la relazione tra la parte risparmiata e una serie di livelli di reddito nazionale, da cui risulta come il risparmio cresca più che proporzionalmente con il crescere del reddito. Il rapporto tra un dato risparmio globale e il corrispondente reddito nazionale è detto inclinazione o propensione media al risparmio, mentre il rapporto tra un incremento del risparmio e un infinitesimale aumento di reddito è detto inclinazione o propensione marginale al risparmio.

In un'economia basata sulle libere decisioni individuali, il risparmio risulta da un confronto di utilità, è cioè il frutto di una scelta tra desiderio di consumare oggi e desiderio di provvedere a bisogni futuri propri o della propria famiglia, scelta determinata da elementi oggettivi (quali l'altezza, la forma della curva e il grado di sicurezza del reddito individuale) e da elementi soggettivi (quali lo spirito di previdenza, il controllo su sé stessi, la durata presunta della vita, la premura per i propri discendenti). L'imprevidenza è propria delle economie primitive e le prime forme di risparmio in natura consistevano soltanto in consumi differiti o in investimenti a breve scadenza. Il rafforzarsi dei vincoli familiari, dell'ordine e della sicurezza della vita civile e la conseguente volontà e capacità di pensare al futuro hanno con il tempo fatto sorgere o accentuato lo stimolo al risparmio, sempre che il reddito permettesse di coprire ragionevolmente i bisogni del momento, e al risparmio in natura si è per lo più sostituito il risparmio in denaro.

Con l'avvento dell'economia monetaria il fenomeno si è però complicato poiché il risparmio individuale non è sempre risparmio anche per la società. Se il risparmio in denaro viene cioè tesoreggiato provoca, quando sia praticato da molti, rarefazione della moneta sul mercato e quindi ribasso dei prezzi dei beni la cui quantità invece non diminuisce: i consumi aumentano e la società non risparmia benché i singoli risparmino. Anche nell'ipotesi in cui i risparmi individuali non siano gelosamente trattenuti dai risparmiatori presso di sé ma depositati in banca, è necessario che la banca a sua volta non trattenga le somme depositate ma le presti a produttori perché si possa parlare di risparmio sociale. Se il reddito risparmiato è direttamente o indirettamente (tramite banche, mercato azionario ecc.) reinvestito nella produzione e come risultato di questi investimenti la quantità dei capitali tecnici esistenti nel paese aumenta, si può dire che accanto ai risparmi individuali si è formato un risparmio collettivo. Il risparmio comunque tesoreggiato, sia da privati sia dalle banche, è quindi detto da alcuni 'falso risparmio', in quanto, pur risultando come il vero risparmio dalla rinuncia a un consumo possibile, non è destinato a costituire e conservare una riserva utilizzabile soprattutto a fini di investimento ma si traduce in liquidità inattive. Il risparmio ritenuto molla del progresso tecnico e dello sviluppo economico è soltanto quello che tramite l'investimento si traduce in aumento dei beni strumentali disponibili.

La necessità di soddisfare i bisogni pubblici ha sempre obbligato gli Stati a riscuotere imposte o a sollecitare prestiti interni, ossia a imporre ai cittadini la cessione di una parte del loro reddito, e il gettito complessivo ricavatone va considerato risparmio coattivo (dipenderà poi dall'uso produttivo che ne farà lo Stato la possibilità o meno di considerarlo risparmio sociale, ossia aumento dei capitali tecnici), mentre il surplus delle entrate tributarie sulle spese correnti è il risparmio pubblico. Accanto a questo tipo di risparmio, che è detto anche fiscale, si è sviluppata anche un'altra forma di risparmio forzato, quella che si attua attraverso la limitazione dei dividendi e l'accumulazione da parte delle società di riserve destinate ad allargamento degli impianti, aumento di scorte ecc. (risparmio di impresa o risparmio forzato societario, ossia quella parte della differenza tra ricavi e costi che rimane all'impresa dopo il pagamento delle imposte e dei dividendi). E inoltre, specie durante le ultime guerre, l'inflazione attraverso l'aumento dei prezzi ha costretto la popolazione civile a ridurre notevolmente i consumi consentendo alla struttura produttiva di indirizzarsi soprattutto a lavorazioni belliche (risparmio forzato monetario). Imposte, autofinanziamento e inflazione (anche inflazione creditizia) sono le principali forme di risparmio forzato perfettamente compatibili con l'economia non accentrata o non totalmente accentrata. Natura di risparmio forzato ha anche il cosiddetto risparmio contrattuale, ossia il meccanismo attraverso il quale si vorrebbe che i lavoratori rinunciassero alla disponibilità di parte degli incrementi di salario ottenuti nella contrattazione collettiva per affidarli a un fondo che ne curi il reinvestimento; cadrebbe così l'obiezione alla ridistribuzione di reddito a favore dei lavoratori basata sulla pregiudiziale che lo scarso o nullo risparmio dei lavoratori si tradurrebbe in un freno allo sviluppo. Va poi tenuto presente il fatto che una crescente percentuale dei risparmi individuali è attuata sotto forma contrattuale (assicurazioni, fondi pensione, cooperative, mutue ecc.), molte volte in base a obblighi di legge.

Tutte queste circostanze attenuano in conseguenza la sensibilità del risparmio alle variazioni dei redditi individuali, la possibilità di compensazione degli errori di investimento e l'importanza dell'interesse: problemi di particolare gravità, più facilmente affrontabili in base a decisioni concordate oppure a programmazioni a lunga scadenza che, non rimettendosi al libero gioco del mercato, possono presentarsi sia nei paesi sottosviluppati, caratterizzati da deficienza relativa di risparmio, sia nei paesi ad alto livello di sviluppo, in cui l'eccesso di risparmio può tradursi in eccesso di investimento e determinare alti e bassi nell'andamento della produzione. La mancata utilizzazione di tutto il risparmio esistente, individuale e sociale, mette infatti in moto un processo di recessione e depressione, che finirà per diminuire il risparmio stesso, mentre se il sistema economico funziona al limite della sua capacità e l'investimento eccede l'offerta corrente di risparmio, si metterà in moto un processo inflazionistico. È lo Stato, anche nei paesi a economia non centralizzata, che con il suo potere di prelievo e di spesa pubblica può assicurare quell'equilibrio tra risparmio e impiego dello stesso che il sistema da solo non riesce più a realizzare. Dato che il risparmio è il fattore produttivo a più alto grado di trasferibilità internazionale, è possibile tuttavia compensare eventuali squilibri tra il risparmio esistente in un paese e gli altri fattori di produzione disponibili ricorrendo al mercato internazionale per prestiti passivi o attivi.

Risparmio e finanza

Sulla liceità della tassazione del risparmio sollevò obiezioni Luigi Einaudi, il quale sostenne che l'ammontare del reddito risparmiato e il reddito che si ricaverà da questo risparmio sono in realtà due facce dello stesso fenomeno e che quindi, a evitare una doppia imposizione, le imposte dovrebbero applicarsi soltanto alla parte del reddito che viene consumata. Alla tesi della doppia tassazione del risparmio si rifanno anche coloro che, partendo dalla constatazione della temporaneità dei redditi di lavoro e della perpetuità di quelli di capitale, sostengono l'opportunità di non colpire soltanto la parte consumata del reddito di lavoro oppure di colpire tutto il reddito stesso più lievemente di quello di capitale, in modo da consentire ai lavoratori di risparmiare e accumulare capitali in grado di fornire loro una rendita quando verrà meno la capacità lavorativa.

In generale, si può affermare che lo Stato, in Italia, ha sempre tentato di incoraggiare il risparmio attraverso il fisco. Per es., nel caso delle assicurazioni sulla vita, è possibile dedurre fino a un certo limite l'ammontare dei premi versati dal reddito imponibile e un trattamento fiscale agevolato è previsto anche per le forme collettive di risparmio previdenziale che traggono origine da un rapporto di lavoro dipendente.

Ma, oltre le famiglie, anche le società di capitali realizzano risparmio (influenzato dalle disposizioni relative all'imposta sul reddito delle società) sotto forma di utili non distribuiti. Soggetto al fisco è anche il reddito da capitale, cioè il rendimento del risparmio investito in attività finanziarie (azioni, obbligazioni, depositi finanziari e postali ecc.) che produce reddito in tre forme: interessi, dividendi e guadagni di capitale; da tempo è stato espresso il timore che la tassazione di questo tipo di reddito abbia un effetto negativo sull'assunzione del rischio imprenditoriale (gli individui assumono rischi se compensati da un rendimento atteso soddisfacente e, tassando il rendimento, si tassa la remunerazione del rischio).

Si cerca dunque di proteggere il risparmio perché normalmente si ritiene che la sua diminuzione provochi un rallentamento dell'accumulazione del capitale e, nel lungo periodo, una diminuzione del reddito pro capite. Ciò può essere controbilanciato con diversi canali. Innanzitutto, non tutto il risparmio viene investito in capitale fisico: una parte è destinata all'acquisto di titoli pubblici e un'altra all'investimento nella terra. Ma, se tra la terra e il capitale intercorre un rapporto di complementarità, la riduzione dello stock di capitale provocherà una diminuzione della rendita fondiaria e, conseguentemente, del valore di mercato della terra (il decremento del risparmio assume quindi la forma di una diminuzione del valore terriero). Inoltre, è possibile che lo Stato, riducendo l'indebitamento pubblico, faccia diminuire la quota di risparmio totale destinata all'acquisto dei titoli pubblici, aumentando la quota di risparmio che finanzia gli investimenti reali del settore privato.

Infine, lo Stato può incentivare il risparmio, per es., con una riduzione delle prestazioni della previdenza pubblica che può indurre gli individui ad aumentare il risparmio per il pensionamento. È tuttavia da sottolineare che, in un'economia aperta, incentivare il risparmio non equivale necessariamente a incentivare l'investimento (l'effetto dell'incentivazione del risparmio è quello di ridurre l'indebitamento con l'estero, ma nel caso limite di un'offerta di fondi dal resto del mondo perfettamente elastica non si ha alcun effetto sull'investimento). La non uniformità del trattamento fiscale del risparmio dà luogo a inefficienze e iniquità: il risparmio e le risorse vengono attratti dai settori con trattamento fiscale favorevole, che possono anche essere i meno produttivi. In genere, traggono vantaggio dal trattamento fiscale favorevole coloro che possiedono i beni nel momento in cui viene concessa l'agevolazione.

repertorio

Sistema bancario e mercato mobiliare

La storia bancaria italiana, dal 19° secolo fino agli anni Trenta del 20°, fu quella di un'attività creditizia in uno Stato che politicamente andava formandosi, doveva industrializzarsi ed era nel complesso povero di capitali. L'esempio che più attirava era quello della banca mista, di credito commerciale e mobiliare insieme, ma il cammino fu disseminato di dissesti, fino a che si giunse alla prima legge bancaria del 1926 e a quella successiva del 1936. Nella legislazione del 1926 furono introdotte regole di proporzione fra capitali propri e capitali altrui (rapporto minimo fra capitali propri e depositi, fido massimo concedibile a un cliente pari a un quinto del patrimonio della banca, accelerata costituzione di riserve da utili). Tali linee guida furono abbandonate nella successiva legislazione del 1936, demandando alle autorità monetarie di poterle dettare di volta in volta. Il che non avvenne più, poiché la notevole pubblicizzazione del sistema, avvenuta in quegli anni, dette l'illusione che amministratori di nomina politica, scelti non certo principalmente per le loro capacità professionali, fossero per definizione saggi e prudenti, ma soprattutto poiché il nuovo soggetto giuridico, lo Stato, non avrebbe agevolmente ritrovato nel suo bilancio le risorse per conferire nuovi capitali propri alle banche, via via che crescevano i depositi. Ne è seguita una progressiva sottocapitalizzazione del sistema bancario italiano, esaltata pure dalla inflazione della Seconda guerra mondiale e dalla successiva perdurante inflazione postbellica.

Le modificazioni verificatesi nella realtà dell'intermediazione finanziaria con la comparsa di nuovi prodotti e di nuovi intermediari finanziari hanno fortemente sollecitato in Italia, a cominciare dalla seconda metà degli anni Ottanta, una revisione dell'ordinamento bancario. Si è perciò proceduto a un generale processo di rinnovamento che, come atto finale, ha portato ad approvare nel 1993 il Testo unico in materia bancaria e creditizia (TUB), con il quale sono stati introdotti diversi elementi di innovazione rispetto al passato. Il TUB realizza un organico coordinamento delle norme che nei primissimi anni Novanta erano state approvate con riferimento al settore bancario e adegua l'ordinamento interno delle autorità creditizie all'ordinamento comunitario. Esso introduce, rispetto alla legge bancaria del 1936, precedentemente in vigore, numerosi elementi innovativi. Viene sancito definitivamente il principio della despecializzazione istituzionale, operativa e temporale degli enti creditizi, che era già stato previsto dal d. legisl. 20 novembre 1990, nr. 356, attuativo della legge Amato-Carli (l. 30 luglio 1990, nr. 218), per il quale gli istituti di credito avrebbero potuto abbandonare la monosettorialità ed esercitare tutte le attività a medio e lungo termine previste dallo statuto, ed era stato poi reso esplicito con il d. legisl. 14 dicembre 1992, nr. 481, di recepimento della seconda direttiva comunitaria in materia bancaria. Per quest'ultimo gli enti creditizi avrebbero potuto esercitare, oltre all'attività bancaria, tutte le altre attività finanziarie e organizzarsi nella forma della banca universale, della banca specializzata e del gruppo polifunzionale. Il TUB abbandona il preesistente pluralismo istituzionale degli enti creditizi, introduce nell'ordinamento la figura unica della banca, riconosce in modo formale e definitivo il modello della banca a carattere universale, superando la bipartizione tra intermediari operanti a breve scadenza e intermediari operanti a lunga scadenza, detta una disciplina per le operazioni di credito in passato definite come speciali. Quindi la banca può esercitare attività di raccolta di risparmio tra il pubblico, di esercizio del credito e ogni altra attività finanziaria, nonché attività connesse e strumentali, può raccogliere risparmio senza limiti di durata utilizzando ogni tipo di strumento (comprese le obbligazioni), può erogare prestiti senza limiti di destinazione, di durata, di forma tecnica, può assumere partecipazioni anche industriali. Il TUB interviene, infatti, anche sul rapporto banca-industria ribadendo l'esclusione dal nostro ordinamento del modello di banca mista, ma prevedendo la possibilità di realizzare, disciplinando il rapporto, partecipazioni bidirezionali tra i due soggetti. Per quanto riguarda le partecipazioni di banche in imprese non finanziarie (che potrebbero consentire di ridurre le asimmetrie informative tra banca e impresa finanziata sull'andamento dell'attività di impresa), il TUB e i provvedimenti che ne hanno regolato l'attuazione le rimettono all'autorizzazione della Banca d'Italia. Inoltre, ricordato che le imprese bancarie debbono salvaguardare la sana e prudente gestione, essi definiscono alcuni limiti di carattere prudenziale alla partecipazione (in termini di patrimonio della banca, o con riferimento al capitale sociale dell'impresa partecipata). Ciò per impedire il coinvolgimento della banca nelle vicende delle imprese e nella loro gestione. Nell'art. 19 il TUB interviene anche a proposito delle partecipazioni al capitale delle banche da parte di imprese non finanziarie, sottoponendole in primo luogo all'autorizzazione preventiva della Banca d'Italia quando l'acquisizione di azioni o di quote di banche comporti una partecipazione superiore al 5% del capitale della banca o il controllo della banca stessa. L'assunzione di partecipazioni è sottoposta a un limite individuale pari al 15% del capitale della banca partecipata, come già previsto sia dalla legge antitrust (l. 10 ottobre 1990, nr. 287), sia dal d. legisl. 14 dicembre 1992, nr. 481, con il quale veniva recepita la seconda direttiva comunitaria in materia creditizia. Poiché l'obiettivo da perseguire consiste nella sana e prudente gestione della banca partecipata, si attribuisce alla Banca d'Italia il potere di negare o di revocare l'autorizzazione alla partecipazione al capitale delle banche, qualora essa ritenga che il perseguimento dell'obiettivo indicato possa essere compromesso oppure messo in pericolo da commistioni indesiderate tra banca e industria.

Nel 1998, a completamento dell'obiettivo di riordino dell'intero settore, è stato approvato il Testo unico delle disposizioni in materia di mercati finanziari (TUF), atto finale di una profonda trasformazione realizzata nel corso degli anni Novanta. Innanzitutto la l. 2 gennaio 1991, nr. 1, decretò l'istituzione della figura delle Società di intermediazione mobiliare (SIM), svolgenti la funzione di intermediari polifunzionali che, sostituendo progressivamente gli agenti di cambio, i loro procuratori e le società commissionarie, divennero dal gennaio 1993 gli unici mediatori autorizzati a operare in borsa. Un'altra novità introdotta dalla riforma riguardò l'obbligo di negoziare i valori mobiliari prima trattati nei mercati regolamentati - che includono sia la borsa sia i mercati ristretti, ovvero l'area riservata alla negoziazione di titoli non ammessi alla quotazione ufficiale - esclusivamente in borsa (tranne nei casi in cui vi sia uno specifico mandato per operare al di fuori di essa) con la conseguenza di incrementare il volume degli scambi borsistici.

Con il d. legisl. 23 luglio 1996, nr. 415 (cosiddetto Eurosim), attuativo delle direttive comunitarie 93/6/CEE e 93/22/CEE, e con il successivo d. legisl. 24 febbraio 1998, nr. 58, recante il Testo unico delle disposizioni circa la intermediazione finanziaria, la disciplina normativa delle contrattazioni effettuate presso la borsa valori è stata interamente riformata e riorganizzata. Il principio ispiratore dell'intera riforma può essere ricondotto alla privatizzazione dell'attività di organizzazione e di gestione dei mercati regolamentati di strumenti finanziari, che non è più considerata alla stregua di un servizio pubblico, bensì una vera e propria attività di impresa, svolta da società per azioni denominate società di gestione, che tuttavia possono anche non avere scopo di lucro. La regolamentazione dei mercati finanziari gestiti da tali società viene quindi effettuata attraverso deliberazioni dei suoi organi assembleari, come in qualsiasi altra società commerciale, e la CONSOB (Commissione nazionale per le società e la borsa), rispetto a tale autonomia regolamentare, ha un mero potere di verifica successiva, limitata al rispetto dei principi generali di trasparenza e tutela degli investitori stabiliti dal diritto comunitario e interno. Se la verifica è positiva, la CONSOB autorizza la società di gestione all'esercizio del mercato mediante l'iscrizione dello stesso in un apposito albo. Altri compiti di vigilanza e di intervento sono rimessi al ministro dell'Economia e delle Finanze e alla Banca d'Italia. Il TUF demanda a una serie di regolamenti attuativi l'individuazione dei requisiti minimi finanziari e tecnici richiesti per la costituzione di società di gestione, nonché dei requisiti di onorabilità e professionalità dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo in tali società. Un'altra importante parte del TUF è dedicata alla disciplina degli intermediari finanziari, cioè dei soggetti autorizzati a operare in forma professionale negoziazioni di titoli presso i mercati finanziari. Fra tali soggetti assumono particolare rilevanza, oltre alle SIM, le SICAV, Società di investimento a capitale variabile, aventi per oggetto esclusivo l'investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante l'offerta al pubblico di proprie azioni, e le società di gestione del risparmio, che hanno sostituito le società di gestione dei fondi comuni di investimento. Il TUF ha armonizzato e uniformato la disciplina di tali soggetti, definiti anche soggetti abilitati, sia per quanto concerne la vigilanza sul loro operato, rimessa alla Banca d'Italia e alla CONSOB, sia per quanto concerne i requisiti di professionalità e onorabilità degli esponenti aziendali, sia, infine, con riguardo alle modalità di espletamento dei servizi di investimento. Il TUF ha infine completato la riforma del sistema finanziario italiano affiancando alle nuove norme sulla regolamentazione dei mercati e degli intermediari una nuova disciplina normativa dei cosiddetti soggetti emittenti quotati, definiti dall'art. 1 come soggetti italiani o esteri che emettono strumenti finanziari quotati nei mercati regolamentati italiani. Una particolare attenzione è stata rivolta alle società con azioni quotate presso i mercati regolamentati, per le quali sono state fra l'altro previste una nuova disciplina dei patti parasociali, maggiormente orientata alla tutela dei piccoli azionisti, nonché nuove norme, in deroga al Codice civile, sulle modalità di convocazione dell'assemblea della società da parte delle minoranze, sull'azione di responsabilità contro gli amministratori, sull'acquisto di azioni proprie, sull'esercizio del diritto di opzione, anch'esse tutte orientate ad agevolare, attraverso più rapidi ed efficaci mezzi di tutela, i diritti dei piccoli azionisti.

Tipologie di mercato finanziario

Sebbene nella maggior parte delle economie le attività finanziarie siano scambiate in mercati organizzati, l'esistenza di un mercato finanziario non è una condizione necessaria per la creazione e lo scambio di strumenti finanziari. Le contrattazioni che avvengono al di fuori dei mercati regolamentati danno origine ai mercati over the counter (cioè 'fuori borsa'). I mercati finanziari e le istituzioni finanziarie, in particolare gli intermediari, costituiscono il sistema finanziario, che favorisce l'incontro tra la domanda e l'offerta di fondi, consentendo da un lato l'allocazione delle risorse dei singoli individui, che attraverso l'acquisto di titoli, eventualmente effettuato per il tramite di intermediari specializzati, hanno la possibilità di scegliere le modalità di mantenimento della propria ricchezza, dall'altro l'allocazione delle risorse delle imprese, che emettono titoli per raccogliere finanziamenti.

I mercati finanziari si distinguono in primari e secondari. Nel mercato primario vengono negoziati titoli di prima emissione, che non sono cioè ancora in circolazione e devono essere collocati sul mercato, al fine di procurare risorse finanziarie alle imprese. Il mercato secondario, nel quale vengono negoziati titoli che sono già in circolazione, ha invece la funzione di permettere cambiamenti nelle attività detenute nei portafogli e di rendere flessibile l'allocazione delle risorse effettuata dagli investitori. L'efficienza del mercato primario e la sua capacità di assorbimento sono subordinate all'efficienza e alla liquidità di quello secondario. Infatti, quanto più un mercato è liquido, tanto più facile risulterà la vendita di un titolo; quanto più un mercato è efficiente, tanto minore sarà l'effetto sul prezzo determinato dalla vendita di un singolo titolo.

I mercati finanziari costituiscono inoltre una fonte d'informazione. I prezzi delle attività sono determinati nei mercati finanziari in base all'interazione tra domanda e offerta, riflettendo le informazioni e le preferenze degli operatori nel mercato e, quindi, segnalando in che modo i fondi dovrebbero essere allocati tra le attività finanziarie. Attraverso i prezzi, il mercato finanziario fornisce informazioni che sono facilmente accessibili a tutti gli operatori (riducendo il costo legato all'acquisizione d'informazioni) e determinanti per intraprendere varie attività economiche. L'informazione contenuta nei prezzi raccoglie in sé i diversi livelli della stessa a disposizione dei singoli operatori, che in quanto tali sono più o meno informati. Un mercato si dice perfetto quando l'informazione è distribuita omogeneamente fra tutti gli operatori; quando invece la distribuzione dell'informazione è disomogenea, il mercato è imperfetto. In generale, quanto più i prezzi sono indicativi dell'informazione esistente, tanto più il mercato assolve al meglio il suo ruolo e consente di fare previsioni più accurate, migliorando così la qualità e l'efficacia delle iniziative e delle decisioni prese dagli operatori.

Esistono diversi parametri che vengono comunemente utilizzati per valutare le caratteristiche funzionali dei mercati: l'efficienza, la profondità (o spessore), l'ampiezza, l'elasticità e la frammentazione. Per quanto riguarda il primo parametro, è opportuno distinguere tra efficienza valutativa ed efficienza informativa. Un mercato è efficiente secondo il criterio valutativo quando i prezzi riflettono il valore intrinseco dei titoli; è invece efficiente sotto il profilo informativo quando i prezzi dei titoli riflettono le informazioni relative agli stessi. I due concetti di efficienza non necessariamente coesistono sul mercato. Nel caso delle 'bolle speculative', il mercato è influenzato dal comportamento imitativo degli operatori che, avendo la convinzione che un titolo continuerà a salire, provocano con i loro acquisti un effettivo rialzo del valore del titolo. In questo caso tale valore tende a creare autoalimentazioni e si discosta dal suo valore intrinseco o fondamentale, ovvero dal valore legato, per es., all'andamento dei redditi di impresa, al percepimento dei quali le azioni danno diritto pro-quota. Un mercato si definisce spesso quando ordini di acquisto e di vendita non determinano ampie variazioni dei prezzi, consentendo di riassorbire eventuali sbilanci temporanei tra domanda e offerta. La capacità stabilizzatrice del mercato sarà ancora più forte se il mercato è anche ampio, ovvero se il volume degli ordini eseguibili a prezzi vicini a quelli correnti è elevato. L'elasticità consiste nella capacità delle variazioni nei prezzi, determinate da squilibri negli ordini di acquisto e di vendita, di attirare nuovi ordini capaci di stabilizzare il mercato. La frammentazione è un'imperfezione del mercato che dipende dalle difficoltà di comunicazione degli operatori, dovute a loro volta a carenze nei collegamenti o alla diversità nella velocità di circolazione delle informazioni tra mercati. A causa della frammentazione del mercato, gli operatori potrebbero trovarsi a eseguire negoziazioni a prezzi peggiori di quelli potenzialmente ottenibili per la difficoltà di conoscere le posizioni di eventuali controparti. I moderni sistemi di negoziazione, basati su tecnologie informatiche che consentono la diffusione delle informazioni in tempo reale, contribuiscono in maniera determinante alla soluzione dei problemi relativi alla frammentazione dei mercati.

I mercati finanziari possono essere classificati in base alla struttura, al tipo di attività finanziarie trattate e al segmento di attività. La struttura dei mercati finanziari è l'insieme di sistemi e procedure che definiscono le negoziazioni. Le principali forme organizzative dei mercati finanziari sono: mercati a ricerca autonoma, in cui cioè gli operatori cercano le controparti per proprio conto; mercati di brokers, intermediari specializzati nella ricerca di controparti, che ricevono una commissione per la loro intermediazione; mercati di dealers, intermediari non indipendenti (underwriters, sottoscrittori, nel mercato primario), e di market makers, operatori indipendenti; mercato ad asta. Quest'ultima forma è quella che consente di raggiungere il maggior livello di perfezione, poiché permette di confrontare simultaneamente le proposte di tutte le controparti. Perché il meccanismo funzioni è tuttavia necessario che il mercato presenti una certa regolarità e numerosità degli ordini e che questi abbiano caratteristiche e tagli omogenei. Le tecniche di asta più utilizzate sono l'asta a chiamata e l'asta continua. Nell'asta a chiamata il prezzo viene fissato dopo aver raccolto tutti gli ordini in modo da massimizzare l'incontro tra domanda e offerta. Nell'asta continua i prezzi si formano sequenzialmente, ogni volta che per un ordine viene trovato un altro ordine di segno opposto, e quindi un prezzo di equilibrio. In questo modo i prezzi vengono continuamente aggiornati incorporando le informazioni che arrivano al mercato.

Per quanto riguarda il criterio del segmento d'attività, tradizionalmente i mercati finanziari erano suddivisi in mercato creditizio o monetario, mercato dei cambi, mercato assicurativo e mercato mobiliare. Questa ripartizione trovava fondamento nella diversità dei prodotti scambiati sui quattro segmenti di mercato e nella diversità del ruolo degli intermediari. Tuttavia, anche in questo caso le barriere tra i diversi segmenti di mercato stanno cadendo: basti pensare ai conti correnti bancari collegati a un fondo d'investimento, che eliminano la linea di confine tra mercato del credito e mercato obbligazionario. Altro esempio sono gli strumenti che, pur essendo tipici del mercato mobiliare, consentono di operare su tutte le scadenze, dal breve al lungo termine. Tra questi le quote di fondi monetari, o le azioni delle SICAV. Si pensi anche alle obbligazioni convertibili o con warrants, che danno il diritto a entrare in possesso di azioni e collegano il mercato obbligazionario con quello azionario. Anche i prodotti assicurativi hanno iniziato ad avvicinarsi alle forme di risparmio monetarie, dando la possibilità agli investitori di investire il proprio risparmio garantendosi allo stesso tempo la copertura rispetto a determinati rischi.

La domanda di attività finanziaria che proviene dagli investitori è in genere motivata da esigenze di copertura o da moventi speculativi ed è comunque determinata dall'incertezza sui possibili stati futuri del mondo. I modelli finanziari che spiegano le scelte d'investimento si basano appunto sull'incertezza e sulle preferenze dell'investitore-consumatore, descritte da una funzione di utilità che a sua volta dipende dal grado di avversione al rischio dell'investitore. La maggior parte di questi modelli fonda le decisioni d'investimento sulla relazione inversa fra rendimento e rischio delle attività finanziarie, misurando il rischio come la variabilità (volatilità) dei rendimenti del titolo. Esistono due tipi di rischio: il rischio diversificabile e il rischio sistemico, o non diversificabile. Il primo può essere ridotto o eliminato attraverso un'opportuna combinazione dei titoli che compongono il portafoglio, che può però ridurre contemporaneamente anche la probabilità d'avere rendimenti elevati. Esiste invece una componente del rischio che non può essere eliminata mediante diversificazione: il cosiddetto rischio sistemico, il quale è legato a eventi che colpiscono indistintamente tutti i titoli, come calamità naturali, guerre, crisi politiche o economiche.

Per quanto riguarda l'offerta di attività finanziarie, essa proviene dagli emittenti, che possono essere distinti in pubblici o privati. L'impresa privata che deve reperire i fondi per i propri investimenti si trova di fronte a due ordini di scelte: deve decidere innanzitutto se entrare nel mercato (dividendo quindi la proprietà dell'impresa con altri operatori) piuttosto che ricorrere al debito; deve poi decidere se realizzare una semplice offerta nei confronti del pubblico oppure entrare nel mercato regolamentato. Il secondo tipo di collocamento dei titoli è finalizzato alla loro quotazione, ma sottopone l'impresa a un insieme di controlli e di regole che potrebbero risultare eccessivamente onerosi.

In tempi recenti, diversi fattori hanno contribuito a quel processo di ampliamento dei mercati finanziari su scala mondiale noto come processo di globalizzazione finanziaria. I tre fattori più rilevanti, che si sono sviluppati indipendentemente, sono: le innovazioni tecnologiche; la deregolamentazione del mercato e delle istituzioni; l'aumento degli investitori istituzionali nei mercati finanziari. Le innovazioni tecnologiche hanno completamente rivoluzionato i tradizionali sistemi di negoziazione, di controllo dei mercati mondiali e di analisi dei dati finanziari. Grazie ai sistemi telematici, è infatti possibile accedere alle informazioni relative ai mercati mondiali in tempo reale, avvalersi delle tecniche di analisi dei dati per individuare le caratteristiche di rendimento e di rischio delle diverse attività finanziarie ed eventuali possibilità di arbitraggio, eseguire in pochi secondi ordini su questi mercati attraverso un terminale.

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