Riti speciali [dir. proc. pen.]

Diritto on line (2012)

Giulio Garuti

Abstract

Con l’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, si è assistito a un passaggio fondamentale nella “storia” del nostro ordinamento processuale, essendo stato abbandonato lo schema fondato su un unico modello procedurale, in favore di un’opzione in grado di reggere la coesistenza di più modelli procedimentali alternativi, tutti idonei a definire la vicenda oggetto di giudizio mediante percorsi attuabili unicamente in presenza di determinati requisiti tassativamente indicati dalla legge.

1. La pluralità dei “modelli” processuali nel c.p.p. 1988

Nell’ambito del c.p.p. 1988, il legislatore ha riservato un intero libro – il VI – ai Procedimenti speciali, andandone a delineare la disciplina per differenza rispetto al procedimento ordinario, destinato a svilupparsi lungo tre segmenti procedimentali tipici, quali le indagini preliminari, l’udienza preliminare e il giudizio. Differenza che si concretizza, a seconda del modulo speciale considerato, vuoi nella necessaria presenza di determinati requisiti processuali oggettivi o soggettivi, vuoi nell’abolizione di uno – o talvolta anche due – dei segmenti procedimentali richiamati.

Tuttavia, se la “specialità” di un rito tende a manifestarsi mediante la presenza di determinati requisiti processuali nonché l’eliminazione di una, o più, fasi processuali tipiche, pare corretto ritenere che il libro VI esaurisca tutti i riti speciali così intesi, sebbene esistano altri procedimenti che, pur non rientrando esplicitamente in quest’ultimo insieme, con essi meritino di essere trattati per ragioni di affinità, sotto il profilo di una comune semplificazione strutturale.

Ciò premesso, va comunque osservato come l’opzione colta in sede di riforma codicistica, tradottasi di fatto nella rinuncia a una prospettiva unitaria del processo, da un punto di vista storico sia stata comunemente accettata – anche se mai formalmente riconosciuta – dalla tradizione giuridica occidentale, la quale, fin dalle sue origini, ha accolto il principio della ripartizione delle competenze fra i giudici, pur ammettendo la diversità dei riti. Tale impostazione affonda le proprie radici nel «principio di adeguatezza tra struttura e funzione», in forza del quale le forme del rito si modulano «[su]ll’importanza del risultato» – «e quindi [sul]la rilevanza della fattispecie costituente materia del processo, in funzione della gravità delle conseguenza che possono derivarne» –, nonché sulla «difficoltà del giudizio» (Foschini, G., Sistema del diritto processuale penale, II, Milano, 1968, 8).

In questa cornice – contraddistinta ormai dalla rinuncia all’elaborazione di un modello processuale unico (Piziali, G., Pluralità dei riti e giudice unico, in Riv. ital. dir. proc. pen., 2000, 966 ss.) –, uno dei problemi che sembra emergere con più insistenza riguarda la compatibilità di una opzione polimorfica del processo con il principio di uguaglianza sancito dagli Atti internazionali (art. 14 CEDU; artt. 2 e 26 del Patto internazionale dei diritti civili e politici) e dalla Costituzione (art. 3 Cost.).

Ove si accedesse alle argomentazioni secondo le quali ogni differenza di trattamento processuale diverrebbe per ciò stesso discriminante, si giungerebbe a disconoscere l’impostazione dell’intero sistema processuale. Accogliere questa soluzione significherebbe, da un punto di vista funzionale, ingessare il sistema mediante la creazione di vincoli – collegati a forme – talvolta inutili, nonché determinare ulteriori rallentamenti nella gestione della giustizia.

Tentando allora di giungere a una conclusione in grado di offrire maggiore equilibrio al sistema, occorre ricordare come la dottrina e la giurisprudenza della Corte europea siano sostanzialmente d’accordo nel ritenere che, a livello di Atti internazionali, «l’[u]guaglianza in ambito giudiziario non [possa essere] confusa con una pretesa uniformità di modelli processuali per tutti i tipi di reato e per tutti gli imputati». Essa va intesa invece come «‘canone di ragionevolezza nella disciplina di procedure differenziate per situazioni diverse’ [ed è destinata ad assicurare] comunque l’osservanza di un livello minimo di garanzie, al di sotto del quale non p[uò] più parlarsi di giusto processo» (cfr., in dottrina, Ubertis, G., Principi di procedura penale europea. Le regole del giusto processo, Milano, 2000, 15; nonché, nello stesso senso, in giurisprudenza, C. eur. dir. uomo, 29.2.1988, Bouamar c. Belgio, § 136; C. eur. dir. uomo, 28.10.1987, Inze c. Austria, § 126). L’uguaglianza verrebbe tuttavia meno – e si piomberebbe così nella discriminazione – laddove la distinzione tra varie situazioni non trovasse una giustificazione obiettiva e ragionevole, ovvero non perseguisse uno scopo legittimo o non sussistesse un plausibile rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (C. eur. dir. uomo, 18.2.1991, Fredin c. Svezia, § 192; C. eur. dir. uomo, 24.11.1986, Gillow c. Regno Unito, § 109).

A conclusioni sostanzialmente analoghe la dottrina e la giurisprudenza del giudice delle leggi sono pervenute anche in riferimento alle norme destinate a tutelare il principio di uguaglianza nell’ambito della Costituzione: se l’adozione di un modello processuale unico ed infungibile non è costituzionalmente imposta, la difformità del rito non può essere ritenuta lesiva di principi di rango costituzionale, salva, in concreto, la compatibilità tra detti principi e le singole regole processuali (così, in dottrina, Chiavario, M., Processo e garanzie della persona, II, Le garanzie fondamentali, Milano, 1984, 33-35; in giurisprudenza, per tutte, C. cost., sent. 12.12.1998, n. 399, in Giur. cost., 1998, 3454).

Inutile sottolineare come una certa rilevanza abbia avuto, nell’ambito dell’opzione codicistica effettuata, pure l’esigenza economica, destinata a rappresentare un minimo comune denominatore di ogni “rito speciale”, sotto il profilo del tempo, delle risorse economiche e delle attività processuali, pur bilanciata sempre con i principi costituzionali chiamati in gioco in tale contesto. Su questo sfondo, dunque, il legislatore ha previsto, all’interno del libro VI del codice, cinque tipi di procedimento speciale – il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti, il giudizio direttissimo, il giudizio immediato e il procedimento del decreto –, nonché, più in generale, nell’ambito del codice di rito, il procedimento per citazione diretta (artt. 550-559 c.p.p.) e, a cavaliere tra il codice penale e le norme di attuazione del c.p.p., il procedimento di oblazione (artt. 162, 162 bis c.p. e 141 disp. att. c.p.p.) (Orlandi, R., Procedimenti speciali, in Conso, G.-Grevi, V., Compendio di procedura penale, Padova, 2010, 650).

2. Le diverse ipotesi di classificazioni dei riti

In via di premessa, va osservato come nella sistematica del c.p.p., il libro VI, da un lato, sia stato dedicato ai “procedimenti speciali” e non ai “processi speciali” – in quanto alcuni di questi procedimenti possono essere introdotti durante le indagini preliminari, ovvero prima che sia stato instaurato un vero e proprio processo (cfr. Rel. prog. prelim. c.p.p. 1988, in G.U. 24.10.1988, suppl. ord. n. 103) –, nonché, dall’altro lato, collocato tra il libro riservato alle indagini preliminari (libro V) e quello avente ad oggetto il giudizio (libro VII), al fine di sottolineare come la volontà del legislatore sia stata «quella di regolamentare in modo diverso il rapporto tra le due fasi» (Spangher, G., I procedimenti speciali, in, Dominioni, O.-Corso, P.-Gaito, A.-Spangher, G.-Dean, G.-Garuti, G.-Mazza, O., Procedura Penale, Torino, 2010, 486).

Al di là dei profili di sistema, non possiamo tuttavia evitare di sottolineare come vari siano stati i tentativi di classificare i “procedimenti speciali” all’interno di categorie, ancorandoli, a seconda delle opzioni, a presupposti, funzioni, conseguenze, tipologia criminosa di reato. Ragionando in termini di presupposti, una prima classificazione vede i riti speciali fondati su presupposti di natura prettamente soggettiva – vale a dire la scelta volontaria di una o entrambe le parti – staccati dai riti speciali basati su presupposti di carattere oggettivo, quali, ad esempio, il limitato disvalore penale dell’illecito compiuto o l’evidenza probatoria dell’ipotesi delittuosa prospettata. Completa infine la suddetta classificazione un ulteriore gruppo di “procedimenti speciali” caratterizzati vuoi da una iniziale scelta impositiva da parte del magistrato penale, vuoi da una manifestazione di volontà proveniente dall’imputato o, comunque, dalle parti (Orlandi, R., Procedimenti speciali, cit., 652).

Se nel primo gruppo si inseriscono ragionevolmente il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti, il giudizio immediato voluto dall’imputato e, più in generale, il procedimento di oblazione, nel secondo gruppo rientrano il giudizio direttissimo e quello ordinario azionato dal pubblico ministero, mentre, nel terzo gruppo, trovano collocazione il procedimento per decreto e il giudizio direttissimo esperibile con il consenso delle parti (Orlandi, R., Procedimenti speciali, cit., 652-653).

Ove poi si tentasse una classificazione dei “procedimenti speciali” collegata alla funzione posta in essere dagli stessi, la distinzione si esaurisce tra quelli destinati ad accelerare i tempi di svolgimento del dibattimento e quelli che, invece, risultano deflativi di tale fase. Vengono ricondotti nel primo ambito il giudizio direttissimo e il giudizio immediato – nelle loro varie applicazioni –, ponendosi invece in una prospettiva di deflazione dibattimentale, il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti, il procedimento per decreto e, più in generale, il procedimento di oblazione (Spangher, G., I procedimenti speciali, cit., 488; Tonini, P., Manuale di procedura penale, XII ed., Milano, 2011, 716).

Volgendo ora l’attenzione a un ulteriore criterio di classificazione, vale a dire un criterio che tenga in considerazione le conseguenze derivanti dall’instaurazione del procedimento speciale, imprescindibile appare il ricorso al requisito della “premialità” in termini vuoi di sconto finale di pena, vuoi di altri benefici collegati alla sola scelta del rito. A prescindere dal fatto che «la giustificazione della premialità va[da] ricondotta all’economia processuale che i … riti determinano rispetto all’ordinario schema procedimentale» (Spangher, G., I procedimenti speciali, cit., 489), ciò che ai nostri fini preme sottolineare è la circostanza che pure nell’ambito dei riti premiali risulta possibile una ulteriore distinzione tra riti premiali negoziali e riti premiali consensuali. Se nei primi l’elemento distintivo è rappresentato dall’accordo tra le parti (es. applicazione della pena su richiesta delle parti), negli altri l’iniziativa viene assunta da una parte sul presupposto che il consenso dell’altra parte sia desumibile ex lege (es. procedimento per decreto). Pur con qualche forzatura, all’interno di questo secondo gruppo rientra anche il rito abbreviato, rispetto al quale il consenso del pubblico ministero – dopo le modifiche normative intervenute a seguito della l. 16.12.1999, n. 479 – si ritiene presunto in forza di legge.

Prescinde invece dalla richiamata distinzione il vantaggio riconducibile alla sentenza patteggiata e al decreto penale di condanna non opposto, consistente, di regola, nell’assenza di effetti pregiudizievoli in sede civile e amministrativa, nel mancato pagamento delle spese del procedimento, nonché nella mancata applicazione di sanzioni accesssorie.

Passando infine al criterio classificatorio riconducibile alla tipologia criminosa di reato per la quale i diversi riti sono previsti, se escludiamo il rito abbreviato e il giudizio immediato che risultano applicabili a qualsiasi fattispecie di reato (fatta eccezione per l’incompatibilità implicita tra giudizio immediato e “citazione diretta a giudizio”), la specifica natura delle ipotesi criminose può rappresentare, sotto diversi profili, una situazione destinata a condizionare l’opzione in favore di un rito differente da quello ordinario.

Se la natura del reato condiziona sicuramente l’accesso al “procedimento per decreto”, all’applicazione della pena su richiesta delle parti e, più in generale, alla “citazione diretta a giudizio”, la natura del reato combinata con una situazione fattuale che vede protagonisti il reo e altro soggetto processuale diverso (polizia giudiziaria o pubblico ministero) si pone quale presupposto per accedere al rito direttissimo.

3. Il ruolo del giudice e i rimedi

Su questo sfondo, il ruolo assunto dal giudice, in fase di giudizio, nell’ambito dei diversi procedimenti speciali prima dell’emissione della decisione finale, muta in ragione degli spazi processuali di intervento riconducibili alla struttura del rito.

Se nell’ambito del giudizio direttissimo e del giudizio immediato – basati di regola su presupposti oggettivi –, il ruolo del giudice e l’attività istruttoria da questi svolta rimangono inalterati rispetto al rito ordinario, non altrettanto possiamo dire con riferimento agli altri riti speciali, ove la volontà delle parti incide fortemente sui meccanismi decisori.

All’interno di questi ultimi riti, infatti, ampi poteri decisori sono previsti in sede di procedimento per decreto e di applicazione della pena su richiesta laddove il giudice, in fase di controllo della richiesta stessa, sussistendo i presupposti, è tenuto a pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p., mentre ampi poteri probatori d’ufficio possono essere esercitati, sempre da parte del giudice e soltanto se necessario, in sede di giudizio abbreviato vuoi semplice vuoi condizionato (Spangher, G., I procedimenti speciali, cit., 489).

Sotto altro profilo, preme sottolineare come la volontà delle parti – e in particolare il consenso dell’imputato –, nel compensare, in una prospettiva di compatibilità costituzionale, la rinuncia al “contraddittorio nella formazione della prova”, determini ricadute strutturali anche in sede di rimedi processuali, risultando comunque, i riti destinati a coinvolgere la volontà delle parti, strettamente collegati ad aspetti di economia processuale.

Da qui, dunque, l’eterogenea disciplina chiamata a regolare la materia delle impugnazioni in sede di riti speciali a forte caratterizzazione soggettiva. Accanto all’opposizione, da parte dell’imputato, avverso il decreto penale di condanna, il legislatore del 1988 ha previsto unicamente il ricorso per cassazione nei confronti della sentenza patteggiata, nonché un tipo di appello con limitazioni assai rigide (art. 443 c.p.p.) e il ricorso ordinario avverso la sentenza emessa con le forme del rito abbreviato.

4. Riti speciali e contraddittorio

Ulteriore profilo degno di considerazione in via preliminare riguarda il rapporto esistente tra i riti speciali e il principio del contraddittorio. Posto che il contraddittorio dettato dall’art. 111 Cost. si concretizza, da un lato, nel diritto delle parti a interloquire, in condizioni di parità, sui temi della decisione, nonché, dall’altro lato, alla stregua di un dovere, per il giudice, di emanare la relativa sentenza considerando e richiamando nel provvedimento conclusivo le prospettive esaminate e discusse dai protagonisti della vicenda processuale (Ferrua, P., Contraddittorio e verità nel processo penale, in Gianformaggio, L., a cura di, Le ragioni del garantismo, Torino, 1993, 240), pare ragionevole ritenere che, in prima approssimazione, il ricorso ai riti speciali su base consensuale rischi di presentarsi fortemente distonico rispetto al richiamato principio.

Al di là delle valutazioni inerenti i singoli istituti (Garuti, G., Dal dissenso immotivato alla giustizia riparatoria, in Studium iuris, 2002, 1333 ss.) – destinate a essere contemplate all’interno delle trattazioni specifiche –, ciò che, in generale, preme osservare, in un contesto in cui la legittimità di taluni riti speciali è stata fortemente criticata (Ferrua, P., Il ‘giusto processo’, III ed., Bologna, 2012, 167 ss.), riguarda la valenza specifica che, nell’ambito del giudizio penale, deve essere riconosciuta all’accertamento dell’accaduto.

E allora, qualora si riconosca a detto accertamento la funzione di non applicare a un soggetto una sanzione che non gli spetta, gli si riconosce pure, di conseguenza, il compito di porre in essere un accertamento funzionale a una tutela del soggetto imputato, ovvero, in altri termini, si riconosce all’imputato stesso la disponibilità dell’accertamento.

Disponibilità che, peraltro, risulta regolata dalla legge e basata già di per sé su un indice di verità: il convergere del consenso di diversi soggetti su un certo atto può significare una maggiore attendibilità dell’atto stesso, nonché portare a ritenere superfluo il contraddittorio. Così ragionando, pare dunque ammissibile e conforme ai dettami costituzionali il riconoscimento al soggetto interessato, da parte del legislatore, della «possibilità di rinuncia[re] a tale attività epistemologica ottenendo una riduzione di pena quale corrispettivo per il mancato accertamento della responsabilità» (Gaito, A.-Spangher, G.-Giunchedi, F.-Santoriello, C., Scopi della giustizia penale e politica processuale differenziata, in Giunchedi, F., coordinato da, La giustizia penale differenziata, I procedimenti speciali, t. I, Torino, 2010, XXXVII).

Fonti normative

Artt. 438-464 c.p.p.; artt. 549-559 c.p.p.; 162-162 bis c.p.; artt. 134-141 d.lgs. 28.7.1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale).

Bibliografia essenziale

Chiavario, M., Processo e garanzie della persona, II, Le garanzie fondamentali, Milano, 1984, 33-35; Ferrua, P., Contraddittorio e verità nel processo penale, in Gianformaggio, L., a cura di, Le ragioni del garantismo, Torino, 1993, 240; Ferrua, P., Il ‘giusto processo’, III ed., Bologna, 2012, 167 ss.; Foschini, G., Sistema del diritto processuale penale, II, Milano, 1968, 8; Gaito, A.-Spangher, G.-Giunchedi, F.-Santoriello, C., Scopi della giustizia penale e politica processuale differenziata, in Giunchedi, F., coordinato da, La giustizia penale differenziata, I procedimenti speciali, t. I, Torino, 2010, XXI ss., XXXVII; Garuti, G., Dal dissenso immotivato alla giustizia riparatoria, in Studium iuris, 2002, 1333 ss.; Orlandi, R., Procedimenti speciali, in Conso, G.-Grevi, V., Compendio di procedura penale, Padova, 2010, 650 ss.; Piziali, G., Pluralità dei riti e giudice unico, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 966 ss.; Spangher, G., I procedimenti speciali, in Dominioni, O.-Corso, P.-Gaito, A.-Spangher, G.-Dean, G.-Garuti, G.-Mazza, O., Procedura Penale, Torino, 2010, 485 ss.; Tonini, P., Manuale di procedura penale, XII ed., Milano, 2011, 716; Ubertis, G., Principi di procedura penale europea. Le regole del giusto processo, Milano, 2000, 15; Zappalà, E., I procedimenti speciali, in Siracusano, D.-Galati, A.-Tranchina, G.-Zappalà, E., Diritto processuale penale, II, Milano, 2011, 241 ss.

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