di David B. Grigg
Rivoluzioni agricole
sommario: 1. Introduzione. 2. L'interpretazione di Ernle e le critiche degli studiosi successivi. 3. Il mutamento istituzionale. 4. Le nuove tecnologie. 5. L'incremento della produzione e del rendimento. 6. L'incremento della produttività del lavoro. 7. La meccanizzazione. 8. Rivoluzione agricola, rivoluzione industriale e crescita demografica: a) il ruolo della rivoluzione agricola nell'industrializzazione; b) l'impatto dell'industrializzazione sull'agricoltura; c) effetti demografici della rivoluzione agricola. 9. La rivoluzione agricola classica. 10. Le rivoluzioni agricole successive. 11. La rivoluzione verde in Asia. 12. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
L'espressione 'rivoluzione agricola' è stata impiegata per descrivere una varietà di fenomeni eterogenei, verificatisi in differenti aree geografiche e in diverse epoche storiche. In tempi recenti, ad esempio, la stessa locuzione è stata usata per indicare sia la prima domesticazione delle piante, sia i mutamenti che verranno apportati in futuro dai progressi della biotecnologia.Introdotto per la prima volta per designare le trasformazioni dell'agricoltura verificatesi in
E tuttavia quello di rivoluzione agricola, così come quello di rivoluzione industriale, è un concetto troppo ben consolidato e troppo utile perché se ne possa fare a meno, tanto che se non esistesse bisognerebbe inventarlo. Nella sua accezione più rigorosa, esso designa la fase di transizione dall'agricoltura tradizionale dell'Europa occidentale medievale e moderna a quella dell'Europa industrializzata. Spesso però, come abbiamo già osservato, si definisce rivoluzione agricola qualsiasi transizione dall'agricoltura tradizionale a quella moderna - ad esempio le trasformazioni avvenute in
2. L'interpretazione di Ernle e le critiche degli studiosi successivi
Sebbene
Nella prima metà del XX secolo il concetto di rivoluzione agricola era entrato stabilmente nell'uso tra gli storici dell'economia inglese, e cominciò a essere impiegato come modulo interpretativo anche per altri contesti geografici. Gli studiosi statunitensi ne ampliarono l'accezione includendovi ulteriori elementi quali la commercializzazione dell'agricoltura, l'applicazione della scienza, la meccanizzazione e il trasferimento della lavorazione dei prodotti alimentari dalle aziende agricole alle industrie. Ma gli storici americani avevano a che fare con un periodo più tardo rispetto a quello della rivoluzione agricola inglese, e con istituzioni molto diverse. Negli Stati Uniti la disponibilità di terra ebbe un ruolo di grande rilievo, mentre la recinzione delle proprietà comuni e l'abolizione della servitù della gleba furono del tutto irrilevanti, sebbene lo schiavismo sia esistito nel Sud sino al 1864.
Il concetto di rivoluzione agricola fu adottato dallo storico
La lettura della rivoluzione agricola inglese fornita da Ernle rimase dominante con poche modifiche sino agli anni sessanta, ma da allora in poi è stata oggetto di numerose critiche. Un vigoroso attacco fu condotto da Eric Kerridge (v., 1967) nell'opera The agricultural revolution, in cui sostenne che le trasformazioni più significative avvennero tra la fine del XVI e la metà del XVIII secolo; dopo di allora non vi sarebbero stati cambiamenti di rilievo. Le nuove colture della rapa e del trifoglio sarebbero state adottate assai prima di quanto riteneva Ernle, mentre nel XVII secolo furono introdotte altre, ben più importanti innovazioni, in particolare il sistema dell'avvicendamento colturale; infine, la recinzione delle terre non sarebbe avvenuta nel XVIII secolo per decisione del Parlamento, ma per via consensuale nel secolo precedente. Altri studiosi hanno dimostrato che prima del 1760 l'agricoltura subì mutamenti assai più importanti di quanto non pensasse Ernle, e alcuni econometristi hanno sostenuto che il ritmo di crescita della produzione agricola globale fu più rapido prima del 1740 che non nel periodo successivo. Inoltre è opinione concorde che i tre quarti dei terreni inglesi fossero già recintati nel 1760 - la metà lo era già nel Cinquecento. Secondo un'altra ipotesi, non condivisa peraltro da tutti gli studiosi, anche in Inghilterra così come in Francia non si ebbe alcun incremento significativo della produzione agricola sino al XIX secolo. Ernle stesso del resto, pur dando grande rilievo all'introduzione di nuove tecniche nel Settecento, aveva riconosciuto che l'incremento della produzione verificatosi in questo secolo non era paragonabile a quello di cui sarà testimone
3. Il mutamento istituzionale
Se per gli storici contemporanei l'elemento essenziale della rivoluzione agricola è un'accelerazione nel ritmo di incremento della produttività, un ruolo altrettanto importante venne attribuito dagli autori dell'Ottocento - di qualunque orientamento politico - al cambiamento istituzionale, considerato un prerequisito essenziale per l'introduzione di nuove tecnologie. Secondo Marx, ad esempio, la rivoluzione agricola ebbe inizio alla fine del XV secolo, e fu caratterizzata dalla concentrazione della proprietà terriera nelle mani di un numero relativamente ristretto di grandi latifondisti a seguito della eliminazione dei piccoli e medi proprietari, trasformati in manodopera salariata alle dipendenze dei fittavoli delle grandi tenute. Anche Ernle considerava il cambiamento istituzionale un prerequisito essenziale delle innovazioni; la recinzione delle terre avrebbe fatto da catalizzatore. I campi aperti, secondo Ernle, presentavano pochi vantaggi. I terreni comuni erano lasciati a pascolo e spesso il suolo risultava danneggiato dal bestiame, che non era sottoposto ad alcun sistema di allevamento controllato per migliorare la qualità delle specie. L'esistenza dei campi aperti costituiva un ostacolo a gran parte dei miglioramenti agricoli. L'area coltivabile intorno ai villaggi era divisa in un certo numero di campi - di solito da tre a cinque - i quali erano a loro volta suddivisi in appezzamenti lunghi oltre 180 metri e larghi circa 18. Né i singoli appezzamenti né i campi erano recintati da siepi, muri o steccati. Ogni anno uno dei campi lasciato a maggese per poter essere ripulito dalle erbacce veniva adibito a pascolo, come tutta la terra dopo il raccolto. Gli appezzamenti dei singoli contadini non formavano blocchi unici, ma erano divisi in strisce di terra sparse tra i vari campi, sicché le terre dell'uno intersecavano spesso quelle dell'altro. Questo sistema non solo ostacolava la realizzazione di miglioramenti, come ad esempio il drenaggio sotterraneo, ma obbligava anche i contadini a seminare e a raccogliere le stesse colture nello stesso tempo; finché i campi non vennero recintati, quindi, né le rape né il trifoglio poterono essere coltivati a rotazione.Il sistema dei campi aperti ovviamente non era una prerogativa dell'Inghilterra, ma era diffuso in tutta l'Europa settentrionale dalla
È stato sempre sostenuto, sia dagli autori del XVIII secolo che dagli economisti moderni e dalla maggior parte degli storici dell'economia, che i contadini tendono a essere refrattari alle innovazioni, che in genere comportano l'assunzione di rischi, a meno che non possano trarne un vantaggio diretto. Per beneficiare delle innovazioni i fittavoli devono poter contare su contratti di locazione a lunga scadenza, e non saranno disposti a effettuare investimenti che non arrecano profitti nel breve periodo, né ad adottare nuove tecnologie se i profitti che ne derivano andranno ai proprietari sotto forma di un aumento del canone d'affitto. Nell'epoca feudale quindi gli affittuari difficilmente erano innovatori; nel XVI secolo però nell'Europa occidentale gran parte dei vincoli feudali - compresa la servitù della gleba, che invece nell'Europa orientale venne introdotta proprio in questo periodo - era in declino o del tutto scomparsa, sicché l'ondata di leggi che abolivano la servitù e altri vincoli feudali, iniziata nel Regno di
Queste stesse tesi vennero riprese in gran parte negli anni cinquanta e sessanta dagli economisti che si trovavano ad affrontare il problema dello sviluppo agricolo nel
4. Le nuove tecnologie
Al pari di molti altri storici, Ernle attribuiva un ruolo di primo piano all'adozione di nuovi metodi; di fatto per la maggioranza degli studiosi le innovazioni tecnologiche costituiscono di per sé una rivoluzione agricola. Tuttavia si è dimostrato notevolmente difficile ricostruire la diffusione di nuovi attrezzi e nuove colture prima del XX secolo. Si tratta del resto di un problema che sussiste ancor oggi; esistono ad esempio poche stime attendibili sulla diffusione delle varietà di cereali altamente produttive in Asia. La comparsa di una nuova tecnologia viene in genere utilizzata dagli studiosi per segnalare una tappa ulteriore nel processo di trasformazione dell'agricoltura ma le innovazioni ebbero una diffusione assai lenta; a cavallo tra Settecento e Ottocento sir Coke, conte di
Già prima del Seicento, naturalmente, vi erano state delle innovazioni nell'agricoltura, ma quelle introdotte in questo secolo ebbero un'importanza cruciale. In primo luogo vi furono le nuove colture; la coltivazione delle leguminose come il trifoglio e l'erba medica si rivelò estremamente vantaggiosa in quanto queste piante, oltre a fornire erba da pascolo e fieno, rendevano il suolo più fertile arricchendolo di azoto. In Inghilterra la coltivazione della rapa, e in seguito di radici da foraggiamento come il navone o rapa svedese, ebbe un'importanza di primo piano; seminate a filari - procedimento reso possibile alla fine del XVIII secolo dalla versione perfezionata della seminatrice inventata da Jethro Tull - queste colture potevano essere sarchiate durante la crescita, pascolate dalle pecore o date come foraggio al bestiame nelle stalle, il cui letame veniva utilizzato per concimare il terreno aumentandone la fertilità. Sebbene la rapa fosse coltivata nei
In secondo luogo vi fu il perfezionamento degli attrezzi agricoli. Nell'Europa settentrionale si era usato per lungo tempo l'aratro a mano, ma la produzione di ferro a buon mercato nel XVIII secolo ne migliorò in
La rivoluzione agricola tradizionale ebbe luogo in gran parte dell'Europa occidentale prima della metà dell'Ottocento, e quindi né le macchine né le nuove fonti di energia vi ebbero un ruolo di rilievo. Nel XVII e nel XVIII secolo i buoi restavano i più importanti animali da tiro; in molte aziende di piccole dimensioni la terra era troppo scarsa per consentire di mantenere sia buoi che cavalli, sicché la vanga svolgeva
Le nuove tecnologie ebbero un ruolo determinante per l'incremento sia della produzione che della produttività, ma si è dimostrato particolarmente difficile ricostruire con esattezza il processo di diffusione di nuove colture e di nuovi metodi, perché sino alla metà dell'Ottocento mancano stime attendibili relative all'agricoltura in qualunque suo aspetto. Per ricostruire la diffusione di un'innovazione è necessario disporre di stime dettagliate relative ai singoli appezzamenti a intervalli regolari, ma informazioni di questo tipo sono abbastanza rare nell'epoca moderna, e mancano del tutto prima del Novecento. Di una certa utilità si dimostrano a questo riguardo gli inventari omologati dei beni mobili e immobili compilati alla morte del contadino. Le informazioni desunte da questi documenti sono state utilizzate per ricostruire la lenta diffusione nel Norfolk e nel
5. L'incremento della produzione e del rendimento
I primi studiosi prestarono scarsa attenzione agli effetti del mutamento tecnologico, anche se era implicito in quasi tutte le analisi sulla rivoluzione agricola - tanto in Inghilterra che in Francia o negli Stati Uniti - che essi contribuirono a incrementare la produzione agricola globale e il rendimento dei raccolti. Purtroppo disponiamo di poche stime attendibili che consentano di misurare la produzione agricola dei singoli paesi. I primi dati sulle aree coltivate, sul volume della produzione per ettaro e sul numero dei capi di bestiame relativi all'Europa occidentale e agli Stati Uniti risalgono alla fine del XIX secolo, cosicché solo a partire dagli anni ottanta dell'Ottocento è possibile misurare il tasso di crescita della produzione complessiva e di quella pro capite. Prima di questa data esistono poche statistiche ufficiali, e le stime dei contemporanei sono difettose. I calcoli relativi al tasso di crescita della produzione agricola prima del XIX secolo sono alquanto ingegnosi ma scarsamente attendibili, e le valutazioni cambiano ad intervalli regolari.
Per i primi studiosi della rivoluzione agricola la misura più ovvia del rendimento era la produzione per ettaro, ma la valutazione di questo parametro presenta notevoli problemi. Poiché le colture e gli animali allevati erano di diverso tipo, idealmente dovremmo disporre di dati relativi al rendimento di ciascuno di essi: il peso del raccolto di ogni singola coltura per ettaro, il volume di latte per mucca, il numero di uova per gallina e il peso delle carni macellate, ma naturalmente tali dati mancano prima dell'epoca moderna. Inoltre, per misurare le variazioni nella produzione globale è necessario conoscere il valore di ogni singola merce, ma stime di questo genere sono assai rare prima del XX secolo. Di conseguenza gli storici si son dovuti basare su dati frammentari relativi al raccolto di grano, la coltura più importante nell'Europa preindustriale. Anche in questo caso peraltro le stime si basano su dati - o piuttosto su congetture fondate - limitati a un'area circoscritta e a un arco temporale piuttosto breve. Non sorprende pertanto che la ricostruzione cronologica degli incrementi della produttività agricola prima del XX secolo resti oggetto di accese controversie, e che le comparazioni tra i diversi paesi siano poco attendibili. Occorre tener presente inoltre che il rendimento dei raccolti può essere misurato in vari modi; nell'epoca medievale e nella prima
Di conseguenza vi sono opinioni discordi in merito al momento in cui si verificò l'incremento della produttività agricola. Per quanto riguarda l'Inghilterra, ad esempio, si assume che all'inizio del XIX secolo la produzione di grano fosse superiore a quella del tardo Medioevo, ma quando esattamente si sia verificato l'incremento cruciale resta oggetto di controversia. Il problema risiede non solo nella scarsità e nella inattendibilità delle fonti - l'uso degli inventari omologati è criticato da molti - ma anche nel fatto che le stime riguardano aree relativamente limitate del paese. Inoltre per misurare l'incremento della produttività agricola occorre tener conto non solo delle colture ma anche dell'allevamento del bestiame; uno dei tratti distintivi del XVIII e del XIX secolo infatti fu indubbiamente la crescente proporzione del valore della produzione zootecnica.
Esistono dunque opinioni contrastanti in merito al periodo critico dell'incremento della produttività in Inghilterra, in Francia e in generale in tutti i paesi dell'Europa occidentale. Secondo alcuni autori in Inghilterra il primo, significativo incremento dopo un lungo periodo di stagnazione si ebbe nel XVII secolo, mentre per altri non si verificò prima dell'Ottocento. Ad ogni modo vi è consenso generale perlomeno sul fatto che nel XVII secolo l'agricoltura conobbe delle trasformazioni cruciali, e che di conseguenza il periodo successivo al 1760 non può più essere considerato l'inizio della rivoluzione agricola dopo secoli di immobilismo. A questo proposito si rivela opportuno considerare le stime relative alla produzione media in una prospettiva temporale più lunga. Nel XIII e nel XIV secolo la produzione di grano in Inghilterra era stata di circa 700 kg per ettaro; all'inizio del XIX secolo ammontava probabilmente a 1.350-1.500 kg per ettaro, e negli anni cinquanta dell'Ottocento arrivava già a 2.000-2.200 kg per ettaro; da allora sino agli anni trenta del Novecento la produzione aumentò molto lentamente, ma tra il 1930 e il 1980 la produzione media di grano risultò triplicata: in cinquant'anni si verificò un aumento pari a quello che si era avuto nei sette secoli precedenti. L'incremento della produzione non fu limitato alla sola Gran Bretagna. Secondo le stime di Paul Bairoch, in tutta Europa la produzione di grano aumentò del 45% nel XIX secolo, del 23% nella prima metà del Novecento, e del 193% tra il 1950 e il 1985 (v. tab. I). Se dunque in alcuni paesi europei la produzione e la produttività agricole erano andate aumentando a partire perlomeno dal XVII secolo, tale incremento è surclassato da quello verificatosi nel secondo dopoguerra.
6. L'incremento della produttività del lavoro
In gran parte delle prime analisi della rivoluzione agricola l'attenzione si focalizzava sull'incremento della produzione per ettaro; l'incremento della produttività del lavoro era ritenuto irrilevante, oppure non era considerato parte della rivoluzione agricola tradizionale in quanto frutto della meccanizzazione, che si ebbe solo nel tardo Ottocento. Ma nelle analisi dell'incremento della produttività agricola nel XX secolo, in assenza di dati attendibili sulla base dei quali misurare la produttività di tutti i fattori, la produzione pro capite costituisce la misura essenziale del tasso di crescita. In anni recenti gli storici hanno cercato di misurare la produttività del lavoro prima e durante la rivoluzione agricola.
Uno dei principali ostacoli allo studio della produttività del lavoro è costituito dalla difficoltà di quantificare la forza lavoro impiegata nell'agricoltura. In primo luogo, il lavoro nell'Europa preindustriale era meno specializzato: uno stesso individuo nel giro di pochi mesi poteva cambiare tipo di mansioni trasformandosi da contadino in trasportatore o in muratore. È stato calcolato che all'inizio del XIX secolo da un quarto alla metà della popolazione attiva in Francia 'fluttuava' tra il settore agricolo e quello non agricolo. In secondo luogo, il ruolo delle donne nell'agricoltura variava a seconda delle aree geografiche e dell'epoca storica, ed è particolarmente difficile da valutare. In terzo luogo, l'occupazione agricola ha un andamento stagionale, intensificandosi nell'epoca del raccolto e, in misura minore, in primavera. È difficile effettuare calcoli precisi in merito, in quanto i dati di cui disponiamo riguardano il numero dei lavoratori più che quello delle ore di lavoro. Di conseguenza gran parte delle affermazioni relative ai mutamenti della produttività del lavoro nel passato - e attualmente nella maggior parte del Terzo Mondo - debbono essere valutate con occhio critico.
A quanto risulta dagli studi più recenti, si ebbe un aumento della produttività del lavoro sia prima che durante la rivoluzione agricola, sebbene non fossero stati ancora adottati attrezzi e macchinari che comportassero un significativo risparmio di lavoro. In Inghilterra e nei Paesi Bassi la quota della popolazione totale impiegata nell'agricoltura subì un declino nel corso del XVII e del XVIII secolo, in concomitanza con una crescita dell'occupazione nei settori manifatturiero e dei servizi; tale tendenza si sarebbe arrestata se non fosse aumentata la produttività del lavoro nell'agricoltura. Recentemente è stato calcolato che in Inghilterra questa raddoppiò tra il 1300 e il 1800, un tasso di crescita analogo a quello della produzione di grano. Nel 1800 la produttività del lavoro agricolo in Inghilterra e nei Paesi Bassi era superiore a quella del resto d'Europa, sebbene la differenza nei raccolti fosse minore. Non è del tutto chiaro cosa abbia potuto determinare tale mutamento prima della meccanizzazione, che avvenne solo verso la metà dell'Ottocento. A questo proposito si possono formulare diverse ipotesi. In primo luogo, l'unificazione degli appezzamenti dei singoli contadini a seguito delle enclosures avrebbe ridotto notevolmente gli spostamenti da e per i campi, e da un appezzamento all'altro. Una migliore gestione della terra avrebbe avuto come effetto una allocazione più efficiente della manodopera. In secondo luogo, il perfezionamento degli attrezzi agricoli, in particolare l'adozione di aratri più leggeri con il vomere in ferro, avrebbe reso più veloci i tempi di coltivazione, e a ciò avrebbe contribuito anche la sostituzione del bue con il cavallo come animale da tiro. Nel XIX secolo, nella fase terminale della rivoluzione agricola classica, la falce cominciò a rimpiazzare il falcetto per la mietitura del grano nell'Europa occidentale. L'incremento della produzione aveva reso difficile reperire manodopera sufficiente a mietere il raccolto più pesante con il solo falcetto. La sostituzione del falcetto con la falce fu dunque una risposta alla scarsità di manodopera stagionale, ma si trattava di un adattamento a nuovi usi di un attrezzo preesistente, più che di una tecnologia del tutto nuova. Tuttavia secondo alcuni autori la principale differenza tra l'Inghilterra e il resto d'Europa nel 1800 era data dalla maggiore quantità di energia motrice animale disponibile pro capite. In Inghilterra infatti non solo vi erano in proporzione più cavalli che buoi rispetto al resto d'Europa, ma la forza motrice congiunta dei due animali disponibile pro capite era superiore. Questo fattore spiegherebbe la maggiore produttività del lavoro.
7. La meccanizzazione
La meccanizzazione non ebbe un ruolo determinante nella rivoluzione agricola classica, anche se questa vide un incremento della produttività del lavoro. Se si definisce la rivoluzione agricola come la transizione dall'agricoltura tradizionale ai primi stadi dell'industrializzazione, le principali trasformazioni che la caratterizzarono furono in primo luogo l'eliminazione delle istituzioni medievali che erano d'ostacolo al progresso, come la servitù della gleba, i campi aperti e la proprietà comune della terra, e in secondo luogo la diffusione dell'agricoltura mista, basata sull'avvicendamento colturale, sulla coltivazione di leguminose foraggere e di piante seminate a filari, su una migliore alimentazione del bestiame e su un maggiore uso di concime organico. Verso la metà dell'Ottocento questo sistema predominava nelle campagne inglesi e scozzesi, e si andava affermando in gran parte dell'Europa occidentale, anche se la sua diffusione non fu completa che negli anni trenta del nostro secolo, quando peraltro cominciò a essere rimpiazzato da un'agricoltura basata sui fertilizzanti chimici, sui pesticidi e sulle macchine. Sino alla metà del XIX secolo si prestò scarsa attenzione al risparmio di lavoro nell'agricoltura, poiché la popolazione rurale era numerosa e quindi non vi era scarsità di manodopera - anche se nei primi decenni del secolo si ebbero fenomeni di scarsità stagionale. Gli Stati Uniti però erano assai meno densamente popolati dell'Europa, sia a est che a ovest degli
Sebbene verso la fine dell'Ottocento venissero compiuti esperimenti in vari paesi, furono gli Stati Uniti a produrre i primi trattori pienamente riusciti; essi ebbero scarsa diffusione nell'Europa occidentale tra le due guerre. In effetti, a causa della loro inaffidabilità e delle difficoltà di impiego e manutenzione che comportavano, all'inizio non presentavano un rapporto costi-benefici vantaggioso, e solo dopo il 1945 il trattore rimpiazzò definitivamente il cavallo. L'altra, importante invenzione fu la mietitrebbiatrice, in grado di effettuare le due operazioni della mietitura e della trebbiatura. Macchine per mietere trainate dai cavalli erano in uso in California negli anni ottanta dell'Ottocento, ma solo quando le mietitrici vennero azionate con motori a benzina rimpiazzarono la mietilegatrice, ancora una volta perlopiù alla fine della
8. Rivoluzione agricola, rivoluzione industriale e crescita demografica
Secondo i primi studiosi la rivoluzione agricola si svolse parallelamente alla rivoluzione industriale, e le trasformazioni cruciali in entrambi i settori ebbero inizio nel 1760; in seguito altri autori rilevarono che l'incremento del tasso di crescita della popolazione si verificò in gran parte nello stesso periodo. Da allora queste tre decisive trasformazioni avvenute nella società sono state oggetto di nuove valutazioni, e tuttavia alle loro interrelazioni reciproche si è prestata sorprendentemente scarsa attenzione.
a) Il ruolo della rivoluzione agricola nell'industrializzazione
Il primo, serio studio sull'impatto della rivoluzione agricola sulla rivoluzione industriale si ebbe solo negli anni cinquanta del nostro secolo e si dovette agli economisti che affrontavano il problema dello sviluppo agricolo nel Terzo Mondo. Negli anni cinquanta oltre il 70% della popolazione delle aree sottosviluppate era impiegato nell'agricoltura, che produceva la metà del prodotto interno lordo. Sembrava evidente che in assenza di un massiccio aiuto estero lo sviluppo industriale avrebbe dovuto essere promosso con le risorse provenienti dal settore agricolo, e che per realizzare una rivoluzione industriale sarebbe stato necessario dare la priorità alla crescita della produttività agricola. Partendo da questi presupposti, gli economisti formularono una serie di generalizzazioni sul ruolo dell'agricoltura nella rivoluzione industriale.In primo luogo, si sostenne che un incremento della produttività agricola era essenziale per fornire cibo a basso costo per la popolazione urbana in costante aumento rispetto a quella rurale. In caso contrario, la domanda avrebbe superato l'offerta e i prezzi dei generi alimentari sarebbero saliti, ostacolando la crescita industriale. Questa tesi tuttavia non trova conferma nell'esperienza della rivoluzione agricola inglese. In Gran Bretagna infatti tra il 1760 e il 1815 il prezzo dei cereali subì un aumento, e il periodo delle guerre napoleoniche fu contrassegnato da gravi crisi alimentari. Tuttavia sino agli anni trenta dell'Ottocento l'agricoltura inglese riuscì a nutrire una popolazione che era raddoppiata tra il 1760 e il 1831 senza ricorrere alle importazioni, da cui invece negli anni successivi
In secondo luogo, si affermò che un incremento della produttività agricola sarebbe stato necessario per accrescere il benessere nelle aree rurali, in cui nell'epoca preindustriale erano impiegati i due terzi o più della popolazione e che costituivano pertanto il principale mercato per i prodotti industriali - tessuti per il vestiario, ferro per le attrezzature agricole, utensili da cucina, ecc. La situazione però era diversa nell'Inghilterra del XVIII secolo, dove i prodotti industriali non erano destinati principalmente al mercato interno, bensì all'esportazione.In terzo luogo, riprendendo una tesi sostenuta da alcuni storici, si assumeva che l'agricoltura avrebbe costituito la principale fonte di forza lavoro per le nuove industrie, e ciò grazie alla recinzione delle terre, che privava i piccoli proprietari dei loro fondi e i nullatenenti dei loro diritti alla proprietà comune. Ciò avrebbe determinato un imponente flusso di forza lavoro dalle campagne alle città, un flusso così abbondante da consentire non solo una rapida crescita urbana, ma anche di mantenere bassi i livelli salariali in conseguenza della competizione tra i lavoratori. Tuttavia è stato dimostrato che le enclosures non ebbero un effetto così dirompente sugli abitanti dei villaggi come ritenevano Ernle, Levy, gli Hammond e altri autori dell'Ottocento; inoltre, in gran parte delle regioni che tra la fine del Settecento e l'inizio del secolo successivo costituivano la fonte della manodopera immigrata per molte aree industriali della Gran Bretagna, le recinzioni erano state effettuate già da lungo tempo. Senza dubbio il ruolo dell'incremento naturale della popolazione fu sottovalutato nella spiegazione della crescita urbana. La migrazione rurale-urbana ebbe senz'altro un ruolo importante, ma nel Settecento e nell'Ottocento non fu determinata tanto da condizioni di vita svantaggiose delle campagne, quanto dalla prospettiva di salari più alti nelle città. Poiché le enclosures ebbero scarsa incidenza nel resto dell'Europa occidentale, non possono essere considerate la principale determinante della migrazione dalle campagne alle città. Tuttavia la progressiva riduzione delle dimensioni dei fondi in corrispondenza con l'aumento della popolazione rurale che si registrò sino alla fine del XIX secolo ebbe un ruolo importante nella migrazione urbana.
Un'ulteriore connessione tra la rivoluzione agricola e quella industriale si pensava risiedesse nell'investimento di capitali, ma vi sono scarse evidenze quantitative al riguardo. In Francia l'onere fiscale ricadeva soprattutto sulla popolazione agricola, e ciò costituiva un incentivo per migliorare le infrastrutture, di cui si avvantaggiava l'agricoltura, in particolare facilitando l'accesso ai mercati. Così come in Inghilterra, anche in Francia i proprietari terrieri investivano direttamente nelle industrie manifatturiere sulle loro proprietà e acquistavano azioni in borsa, ma il loro ruolo non sembra essere stato decisivo nell'aumentare gli investimenti per l'industrializzazione.
b) L'impatto dell'industrializzazione sull'agricoltura
L'industrializzazione ebbe un profondo impatto sull'agricoltura in ogni paese dell'Europa occidentale, in primo luogo riducendone l'importanza relativa nell'economia. Nelle società preindustriali l'agricoltura aveva un ruolo dominante: dal 70 al 90% della popolazione era impiegato in questo settore, che forniva dal 40 al 60% del prodotto interno lordo. Nel corso dell'industrializzazione la popolazione complessiva aumentò, e aumentò anche la quota impiegata nell'agricoltura, ma non con lo stesso ritmo della popolazione impiegata nei settori manifatturiero e dei servizi. Da allora in poi la percentuale della popolazione agricola è andata progressivamente diminuendo, in tempi diversi a seconda dei paesi e delle regioni. In Gran Bretagna la quota della popolazione impiegata nell'agricoltura scese al di sotto del 50% all'inizio del XVIII secolo, ma altrove lo stesso fenomeno si verificò molto più tardi: negli anni quaranta dell'Ottocento nei Paesi Bassi, negli anni sessanta dello stesso secolo in Francia e in Germania, negli anni ottanta in
La popolazione agricola dell'Europa occidentale nel suo complesso cominciò a declinare negli anni venti, ma questa tendenza subì una notevole accelerazione dopo gli anni cinquanta. Negli anni ottanta la forza lavoro impiegata nell'agricoltura era ridotta a un quarto rispetto a quella della fine dell'Ottocento. Nelle prime fasi di questo processo la maggioranza dei lavoratori che abbandonavano le campagne era costituita da braccianti; a partire dagli anni quaranta si aggiunsero i piccoli fittavoli, cui la campagna non era più in grado di assicurare un livello di vita paragonabile a quello raggiungibile nelle città. Il calo della quota impiegata nell'agricoltura è stato una funzione del tasso di incremento naturale della popolazione agricola e del tasso di migrazione dall'agricoltura ad altri settori occupazionali. Quest'ultimo fenomeno è da mettere in gran parte in relazione con le differenze di reddito tra il settore agricolo e quello non agricolo. La popolazione agricola è quindi residuale; nelle comunità rurali dell'Europa occidentale infatti le aziende agricole a gestione familiare assorbivano gli individui in eccedenza, impiegando anche i bambini. Di conseguenza il principale fattore cui ricondurre l'andamento della popolazione agricola è il tasso di industrializzazione e la capacità dell'industria di assorbire la manodopera proveniente dalle campagne.La meccanizzazione ha avuto un ruolo chiave nell'andamento dell'occupazione agricola. La Gran Bretagna fu il primo paese ad adottare macchine in grado di far risparmiare lavoro; la loro diffusione avvenne in ritardo negli altri paesi europei, dove il calo della forza lavoro si verificò in epoca successiva.
Se il processo di meccanizzazione procedette con lentezza tra la metà dell'Ottocento e gli anni quaranta del secolo successivo, la diffusione di macchine agricole di vario tipo ha conosciuto una straordinaria accelerazione nel secondo dopoguerra, in conseguenza della rapida crescita industriale che attirò nelle fabbriche numerosi braccianti e contadini, e impose la meccanizzazione a coloro che rimanevano nelle campagne. Ma questo non fu l'unico effetto dell'industrializzazione sull'agricoltura. Altrettanto importante fu la crescente specializzazione nella produzione alimentare verificatasi tra il XVIII e il XIX secolo. Tutta una serie di attività che prima erano svolte all'interno dell'azienda agricola vennero trasferite altrove. I produttori specializzati - a differenza dei contadini che svolgevano un'ampia gamma di attività lavorative - servivano numerose aziende agricole e quindi traevano vantaggio dalle
La produzione industriale di attrezzi e macchine agricole iniziò ai primi dell'Ottocento, ma ancora una volta la diffusione delle macchine, fatta eccezione per la mietitrice meccanica, procedette con lentezza sino al secondo dopoguerra. L'impiego di sementi selezionate è anch'esso relativamente recente. Sebbene il commercio delle sementi esistesse sin dal XVIII secolo, è solo nel Novecento che la maggioranza degli agricoltori le acquista dai commercianti. La riscoperta, agli inizi del secolo, delle ricerche di Mendel sulla genetica delle piante consentì di selezionare varietà dotate di qualità specifiche, come ad esempio l'immunità a una determinata malattia, o la capacità di crescere in climi più aridi. Alla selezione di nuove varietà si deve lo straordinario incremento della produttività agricola negli ultimi cinquant'anni.L'agricoltore moderno non dipende più dal lavoro degli animali e dell'uomo, ma compra sul mercato energia motrice sotto forma di carburante diesel e di elettricità. Gli Stati Uniti furono il primo paese in cui si verificò questo mutamento. Verso la metà dell'Ottocento gli animali e il lavoro umano fornivano il 94% dell'energia motrice nelle fattorie americane, nel 1943 solo il 6%.Gli agricoltori hanno sempre coltivato prodotti che devono essere sottoposti a lavorazione prima di essere consumati; il latte viene trasformato in formaggio e in burro, l'uva in vino, le barbabietole in zucchero, la farina in grano, e via dicendo. La lavorazione dei prodotti era effettuata per lo più all'interno dell'azienda per il consumo domestico, oppure veniva eseguita in mulini o stabilimenti su piccola scala situati nelle vicinanze. A partire dal XIX secolo questi processi di lavorazione uscirono dalle aziende per essere affidati a produttori specializzati. Oltre a trasformare le materie prime dell'agricoltura in generi alimentari di prima necessità, le industrie producono anche cibi già confezionati di pronto consumo. Così, ad esempio, mentre nell'Ottocento i mulini vendevano la farina ai singoli consumatori o ai fornai, ora questo prodotto andava direttamente alle industrie che producono dolciumi, merendine, cereali per la prima colazione, ecc.
A partire dagli anni cinquanta i cibi preconfezionati si sono diffusi in tutte le famiglie, sicché la cucina serve solo a riscaldare alimenti già pronti acquistati nei negozi.L'industrializzazione ha avuto quindi un impatto di immensa portata sull'agricoltura, e il ruolo dei contadini nella produzione alimentare si è notevolmente ridotto; i significativi incrementi della produttività che hanno caratterizzato l'ultimo secolo non si devono alle maggiori capacità degli agricoltori, ma all'applicazione dei ritrovati della scienza e alla produzione industriale di attrezzi, fertilizzanti e pesticidi. Alla luce di questi sviluppi è possibile vedere con maggior chiarezza la natura della rivoluzione agricola europea: essa fu essenzialmente il risultato dell'applicazione di tecniche e di colture note da lungo tempo in nuove combinazioni. Tali progressi furono in larga misura indipendenti dal settore industriale, fatta eccezione per l'uso di ferro a buon mercato per gli attrezzi agricoli a partire dalla metà del XVIII secolo. Probabilmente l'effetto più significativo dell'industrializzazione sull'agricoltura fu la creazione di un mercato urbano più ampio, e dopo gli anni trenta e quaranta dell'Ottocento anche più ricco, in cui alla domanda di pane e patate si aggiungeva quella di carne e di latte. L'autentica rivoluzione agricola precedette i pieni effetti dell'industrializzazione, in particolare quello della diminuzione della forza lavoro impiegata nell'agricoltura allorché la migrazione dalle campagne alla città ridusse le popolazioni rurali e agricole.
c) Effetti demografici della rivoluzione agricola
Prima del XIX secolo la popolazione dell'Europa occidentale era soggetta a frequenti crisi alimentari a livello locale e al verificarsi periodico di carestie in aree più ampie. Gran parte della popolazione era malnutrita data la carenza di nutrienti essenziali. Come conseguenza della dieta inadeguata la popolazione era di statura inferiore rispetto a quella attuale: i maschi adulti europei sono oggi in media 6-9 centimetri più alti di quanto non lo fossero negli anni settanta dell'Ottocento. In Norvegia l'altezza media degli individui adulti non subì cambiamenti di rilievo tra il 1750 e il 1830, ma aumentò di 3 mm per decennio nei successivi 45 anni, e di 6 mm ogni dieci anni dal 1875 al 1935. A
Nel XIX secolo la popolazione dell'Europa occidentale crebbe con un ritmo senza precedenti, eppure il consumo di cibo pro capite rimase invariato, anzi aumentò addirittura. Alla fine del secolo l'assunzione globale di calorie pro capite era superiore del 50% a quella che si aveva al principio dell'Ottocento. Si trattava di una situazione del tutto nuova. In passato infatti le fasi di crescita demografica si arrestavano in genere a seguito di pandemie o di un calo del consumo di cibo pro capite. Così l'incremento demografico iniziato nell'XI secolo in Gran Bretagna e in Francia subì un arresto negli anni venti del XIV secolo, quando la produzione di cibo pro capite a quanto pare diminuì, e terminò bruscamente negli anni quaranta, quando la peste bubbonica si propagò in tutto il continente. Una ripresa si verificò nel XV secolo, e il Cinquecento vide un rapido aumento della popolazione, che terminò alla metà del XVII secolo; sino alla metà del secolo successivo non si verificò più alcuna crescita demografica.
Le relazioni tra produzione alimentare e crescita demografica sono state investigate a fondo, ma i risultati restano insoddisfacenti. Per lungo tempo si pensò che l'aumento del tasso di crescita verificatosi alla metà del XVIII secolo fosse dovuto a un declino del tasso di mortalità, e che in seguito gli alti tassi di crescita della popolazione fossero il risultato di questo declino e degli alti tassi di natalità rimasti inalterati. Il declino del tasso di mortalità era attribuito ai progressi della medicina e dell'igiene, ma McKeown dimostrò che questi ultimi in Gran Bretagna non si verificarono prima della fine dell'Ottocento, mentre i primi non ebbero alcun effetto sino agli anni trenta del Novecento. Secondo McKeown, l'unica spiegazione alternativa è da ricercarsi in un miglioramento della dieta, che avrebbe contribuito non solo a ridurre la mortalità, ma anche ad accrescere la fertilità. Sebbene questa tesi sia oggetto di controversie, è nondimeno evidente che l'aumentata disponibilità di cibo fu una conseguenza della rivoluzione agricola.
9. La rivoluzione agricola classica
Possiamo ora riconsiderare le caratteristiche della rivoluzione agricola classica. Si trattò di una fase di incremento della produttività della terra e del lavoro che iniziò nell'Europa occidentale prima della rivoluzione industriale; sebbene questo incremento sia continuato sino a oggi, la rivoluzione agricola classica può considerarsi finita con i primi stadi dell'industrializzazione. Essa fu caratterizzata innanzitutto da un cambiamento a livello istituzionale. In gran parte dell'Europa occidentale la servitù della gleba venne finalmente abolita, e con essa l'istituzione delle terre comuni, anche se gli appezzamenti frammentati dei campi aperti sopravvissero in molte regioni sino alla metà del XX secolo.In secondo luogo vi fu la diffusione su larga scala di metodi e di attrezzi peraltro già noti. La coltivazione di piante da foraggiamento e di leguminose, ad esempio, era praticata nei Paesi Bassi sin dal XV e dal XVI secolo, ma fu l'introduzione di queste colture nell'agricoltura estensiva - a paragone con quella delle Fiandre - dell'Inghilterra orientale a segnare una svolta cruciale. L'allevamento controllato del bestiame e il perfezionamento dell'aratro costituirono progressi significativi, ma il fattore più importante fu l'integrazione a reciproco beneficio dell'allevamento e dell'agricoltura nella stessa azienda.Il terzo elemento da porre in rilievo è dato dal fatto che la rivoluzione agricola si basò in larga misura su risorse fornite dalla stessa azienda agricola; pochi inputs venivano acquistati all'esterno, sebbene la maggior parte della produzione non fosse per il consumo locale ma venisse venduta sul mercato. I fertilizzanti erano forniti dal concime organico e dalla coltivazione delle leguminose, e solo di rado le sementi venivano acquistate; i semplici attrezzi impiegati erano fabbricati localmente da artigiani, e non dalle industrie.
La lenta crescita della produttività cominciò in Inghilterra intorno al 1650, probabilmente più tardi nel resto dell'Europa occidentale. Ovunque, peraltro, la rivoluzione agricola ebbe conseguenze di grande portata. Prima di tutto divenne possibile, per la prima volta nella storia, disporre di cibo a sufficienza per una popolazione in costante crescita. Le carestie si fecero sempre più rare dalla fine del XVII secolo, e la produzione di cibo fu superiore al sensibile aumento della popolazione iniziato verso la metà del Settecento. In secondo luogo l'incremento della produttività fu sufficiente a sostenere non solo un incremento della popolazione complessiva, ma anche una crescita della popolazione urbana e industriale. In terzo luogo, l'aumento della produttività e del benessere nelle campagne creò un mercato per i primi prodotti industriali, determinò un flusso migratorio rurale-urbano, e fu probabilmente un'importante fonte di capitali per gli imprenditori industriali.
L'aumento della produttività agricola da allora non ha subito stasi, ma si possono individuare alcuni importanti mutamenti nelle modalità con cui tale crescita è stata raggiunta. Prima di tutto, la rivoluzione agricola classica determinò un aumento della produttività del lavoro, ma scarsi furono i tentativi di introdurre nuove tecnologie atte a risparmiare lavoro, data l'esistenza di una manodopera abbondante e a basso costo. La seminatrice, poco diffusa in Inghilterra e in altri paesi sino alla metà dell'Ottocento, era usata soprattutto per piantare le colture a filari piuttosto che per risparmiare il lavoro della semina a spaglio. La mietitrice inventata da Patrick Bell verso il 1820 fu ignorata dagli agricoltori; messa a punto negli Stati Uniti da Cyrus McCormick, fu adottata in Inghilterra solo quando cominciò il declino della manodopera nelle campagne. È quest'ultimo, di fatto, l'elemento chiave per stabilire una periodizzazione della crescita della produttività. Sino alla metà dell'Ottocento le popolazioni rurali e agricole in tutta l'Europa occidentale registrarono un aumento; da allora in poi, ma in tempi diversi nei singoli paesi, cominciò un calo costante della forza lavoro nelle campagne, che rese di importanza prioritaria l'adozione di macchine atte a risparmiare lavoro.
In secondo luogo, tra gli anni quaranta e cinquanta dell'Ottocento aumentò costantemente l'impiego di inputs ottenuti non dall'azienda agricola ma dal settore industriale; la produzione industriale di fertilizzanti iniziò negli anni quaranta, ma per gran parte del secolo ebbe un'importanza trascurabile. L'acquisto di sementi dai commercianti aumentò, ma prese definitivamente piede solo al principio del Novecento, con la creazione di centri specializzati di seletto-coltura. L'energia motrice continuò a essere fornita dalla forza muscolare animale e umana, ma negli anni quaranta cominciò a diffondersi l'uso della mietitrice a vapore, preannuncio dell'imminente meccanizzazione. In sintesi, la rivoluzione agricola classica terminò in Inghilterra verso la metà dell'Ottocento. Differenti processi di trasformazione dell'agricoltura emersero lentamente, iniziando in tempi diversi nei vari paesi europei, secondo una scansione cronologica determinata in larga misura dallo sviluppo dell'industrializzazione e dal conseguente declino della forza lavoro agricola.
10. Le rivoluzioni agricole successive
La rivoluzione agricola classica ebbe origine nei Paesi Bassi, in Inghilterra e successivamente nella Francia settentrionale, per poi diffondersi lentamente in altre aree dell'Europa occidentale nel corso del XIX secolo. Ma quando questa diffusione ebbe luogo le tecnologie agricole erano in via di trasformazione. All'inizio del Novecento esisteva già un'ampia gamma di tecnologie industriali: fertilizzanti chimici, attrezzi, sementi, trattori e macchine azionate a vapore. Se nel XVIII secolo e all'inizio del secolo successivo il principale flusso di merci, uomini e capitali andava dalle campagne alle città e alle industrie, alla fine dell'Ottocento la direzione di tale flusso si inverte. Non solo l'industria manifatturiera fornisce ora gran parte degli inputs, ma nuove tecnologie vengono scoperte e promosse in misura crescente da specialisti della zootecnia, agroingegneri, chimici e genetisti. Inoltre la scoperta e l'invenzione di nuove tecnologie agricole cominciò a essere promossa dallo Stato, a partire dalla
Per quanto sia perfettamente lecito che gli storici parlino di 'rivoluzioni agricole' per descrivere i cambiamenti intercorsi in epoche successive o in altre aree geografiche, tuttavia in questo caso l'espressione ha come referenti contesti e processi profondamente diversi da quelli tipici della rivoluzione agricola classica. Così, ad esempio, nelle aree di insediamento europeo del Nordamerica e dell'Australasia non esistevano vincoli feudali da superare, né campi aperti da recingere. La situazione demografica era completamente diversa: l'offerta di manodopera era scarsa e la terra relativamente abbondante. Di conseguenza la rivoluzione agricola attuatasi in queste aree geografiche tra la fine del Settecento e gli anni cinquanta del nostro secolo fu sostanzialmente differente da quella che interessò l'Europa occidentale. Qui l'alta densità della popolazione e la scarsità di terra facevano sì che quest'ultima fosse costosa e la manodopera, viceversa, a basso costo; la maggior parte delle migliorie apportate ai fondi era finalizzata a preservare la fertilità del suolo e ad aumentare la produzione. I contadini americani e australiani invece mostravano scarsa preoccupazione per la fertilità del suolo e miravano a massimizzare la produzione pro capite piuttosto che quella per ettaro. La scarsità e l'alto costo della terra nei paesi dell'Europa occidentale rendevano necessari sistemi ad alta intensità di lavoro - come ad esempio la viticoltura, l'orticoltura e l'industria casearia - mentre nel Nordamerica prevalevano sistemi di agricoltura estensiva, perlomeno a ovest degli Appalachi. Così, mentre la produttività del lavoro aumentava, i rendimenti restavano stagnanti. Negli anni trenta del Novecento la produzione media di grano nelle regioni d'oltreoceano era inferiore a quella di fine Ottocento, e i raccolti erano i due terzi o anche meno di quelli dell'Europa occidentale.
A partire dagli anni cinquanta tanto nel Nordamerica che nei paesi dell'Europa occidentale si è registrato un notevole incremento sia della produzione che della produttività. Diversamente da quanto era accaduto in passato, nell'area europea è aumentata non solo la produzione per ettaro, ma grazie alla meccanizzazione anche quella pro capite. Nel Nordamerica la tendenza alla meccanizzazione e all'aumento della produttività del lavoro è continuata, ma si è avuto anche un considerevole incremento nel rendimento dei raccolti. Vi è stato dunque un notevole incremento della produttività su entrambe le sponde dell'Atlantico, e ciò ha indotto molti studiosi a parlare di una rivoluzione agricola in riferimento a questo periodo.
11. La rivoluzione verde in Asia
L'espressione 'rivoluzione verde' si riferisce alle profonde trasformazioni agricole intercorse a partire dagli anni sessanta in alcune regioni dell'Asia. Prima di questa data gran parte del continente asiatico presentava caratteristiche strutturali assai simili a quelle dell'Europa preindustriale: la maggioranza della popolazione - oltre il 70% - dipendeva dall'agricoltura, l'industrializzazione aveva fatto scarsi progressi e il reddito pro capite era basso. La produttività agricola era anch'essa bassa, fatta eccezione per alcune enclaves. La meccanizzazione era pressoché sconosciuta e la produzione pro capite ridotta. La produzione di riso raramente superava le 1,8 tonnellate per ettaro, tranne che nelle aree densamente popolate quali la Cina, la Corea,
Essenzialmente la stessa configurazione di fattori divenne la base della rivoluzione verde. Nel 1965-1966 vennero introdotte in Asia una varietà di grano quasi nana selezionata in
Le nuove varietà ad alto rendimento vennero rapidamente adottate in molte regioni asiatiche; in Cina vennero selezionate varietà con proprietà simili a quelle del riso IR-8, e il grano quasi nano messicano venne ibridato con varietà indigene. I nuovi inputs - sementi, fertilizzanti e pesticidi - potevano essere acquistati in piccole quantità, e quindi, a differenza delle macchine come la mietifalciatrice, era possibile adottarli anche in aziende di piccole dimensioni. L'irrigazione costituiva una condizione essenziale per la coltura delle nuove varietà. Solo un terzo della superficie coltivabile asiatica è irrigata, e fu qui che esse si diffusero con maggiore rapidità. Nel 1975, dieci anni dopo la sua introduzione in Asia, la varietà di riso IR-8 era coltivata soprattutto nelle Filippine, nello
All'inizio degli anni ottanta in Asia il 48% della superficie a grano e il 56% di quella a riso erano coltivati con varietà ad alto rendimento. La produzione di grano è stata il doppio rispetto a quella degli anni sessanta e quella di riso superiore dei due terzi; negli stessi anni l'uso di fertilizzanti chimici per ettaro è aumentato in media di sei volte, le superfici irrigate sono raddoppiate e vi è stato un notevole incremento della superficie che produce raccolti doppi in Cina e in Malesia. Di conseguenza, a partire dagli anni ottanta, la produzione alimentare ha avuto un incremento di oltre il 3% annuo. In base a ogni standard si tratta di un tasso di incremento assai elevato, e forse merita di essere definito una rivoluzione agricola.
12. Conclusione
Con l'espressione rivoluzione agricola si tende oggi a designare un sensibile e prolungato incremento della produzione e della produttività dopo un lungo periodo di stagnazione; lo studio comparato delle rivoluzioni agricole nelle varie aree geografiche e nelle diverse epoche è un modo per comprendere pienamente le cause e i meccanismi della crescita della produttività. E tuttavia sarebbe forse preferibile continuare a usare il concetto di rivoluzione agricola nel suo significato originario, per indicare il periodo di transizione compreso tra la fine del XVII secolo e la fine dell'Ottocento nell'Europa occidentale. La rivoluzione agricola di questo specifico contesto storico-geografico ha caratteristiche uniche: strettamente interrelata all'incremento demografico e all'affermarsi dell'industrializzazione, essa comportò tra le altre cose il primo, prolungato incremento della produzione di cibo pro capite. (V. anche Agricoltura; Degrado ambientale; Demografia; Economia; Industrializzazione; Innovazioni tecnologiche e organizzative; Macchine; Neolitica, rivoluzione; Rendita).
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