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Bellarmino, Roberto

di Gennaro Maria Barbuto - Enciclopedia machiavelliana (2014)
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Bellarmino, Roberto

Gennaro Maria Barbuto

Gesuita, teologo, nato a Montepulciano nel 1542 e morto a Roma nel 1621, cardinale dal 1599, fu una delle figure più eminenti, dal punto di vista politico-culturale e dottrinale, della Chiesa della Controriforma. Teologo controversista e docente al Collegio romano, fu autore delle celebri e diffusissime Disputationes de controversiis Christianae fidei adversus hujus temporis haereticos (Ingolstadt, 1586-1593). Dal 1588 al 1590 partecipò alla legazione pontificia guidata dal cardinale Enrico Caetani in Francia. Prima come consultore poi come membro del Santo Uffizio, prese parte al processo di Giordano Bruno e nel 1616 alla condanna dell’eliocentrismo, della quale, su invito di Paolo V, informò Galilei.

Fu impegnato in primo piano nelle due maggiori controversie politiche sostenute dalla Chiesa di Roma nei primi anni del 17° sec., nella difesa delle tesi romane contro Paolo Sarpi, nella questione dell’interdetto di Venezia, e, quasi contemporaneamente, contro il re di Inghilterra Giacomo I. Questi, in seguito al fallimento della Congiura delle polveri (nov. 1605), aveva obbligato, nel 1606, i suoi sudditi a sottoscrivere l’oath of allegiance («giuramento di fedeltà»), nel quale si condannava la tesi della deposizione dei sovrani da parte del papa. B., insieme al teologo e gesuita Francisco Suárez, divenne il principale apologeta della parte pontificia, scrivendo opere sia contro il re sia contro i suoi teologi. In particolare, polemizzando con il teologo scozzese William Barclay, pubblicò a Roma nel 1610 il Tractatus de potestate summi pontificis in rebus temporalibus (condannato, per le sue argomentazioni contrarie al gallicanesimo, anche dal Parlamento di Parigi), nel quale ribadì e sviluppò la tesi della potestas indirecta da parte del papa negli affari secolari, già svolta nella Disputatio De summo pontifice.

Con questa tesi, a causa della quale B. rischiò che Sisto V mettesse all’Indice le sue Disputationes, il teologo gesuita si dichiarava in disaccordo con le argomentazioni di quanti asserivano che il pontefice avesse una autorità immediata sia in campo spirituale sia in quello temporale. In questo modo veniva negata qualsiasi autonomia al potere politico. B., invece, affermava la naturalità di tale potere, in quanto secondo il paradigma aristotelico-tomistico l’uomo era animale politico e sociale, e ne sosteneva l’indipendenza, tranne che per le decisioni di ambito spirituale. In questo caso, se il papa avesse ritenuto che tali deliberazioni del sovrano cristiano potessero inficiare l’autorità e la missione della Chiesa cattolica, egli allora avrebbe potuto scomunicare e deporre il monarca, emancipando i suoi sudditi dal prestargli obbedienza.

I sostenitori di tale dottrina, consapevoli della situazione politica europea, nella quale si consolidavano monarchie forti e gelose della loro autonomia, evitavano i toni e i contenuti estremistici dei teorici della potestas directa. Il papa non poteva certo pretendere di governare interi popoli, ormai assuefatti al dominio di monarchie plurisecolari. Poteva, però, assurgere non solo a guida spirituale dei principi, ma anche a loro insindacabile giudice fino al punto di espellerli dal trono. Così, evidentemente, erano profondamente minati i processi di costituzione di Stati pienamenti sovrani. Se si volesse assumere la famosa tesi schmittiana, che sovrano è chi decide sul caso di eccezione, risulterebbe palese come sovrano pieno e non sottoposto ad alcuna umana autorità fosse solo il papa.

Le tesi di B. furono quelle maggiormente accolte e divulgate dalla Chiesa cattolica della Controriforma, tanto da divenire il bersaglio principale dei teorici politici dell’autonomia e sovranità dei principi.

Esemplare è il caso di Thomas Hobbes, che dedicò metà del XLII capitolo (il più lungo dell’opera) del Leviathan alla confutazione dell’opera del gesuita, che egli definiva «the Champion of Papacy».

Sulla base di queste premesse, l’incontro fra B. e M. poteva declinarsi solo nel senso di un aspro conflitto, anche se non sono molte le dirette citazioni di M. nelle opere del controversista. Per esempio, durante la polemica sull’interdetto a Venezia, B., con un accostamento condiviso da altri scrittori gesuiti e dallo stesso Tommaso Campanella, denunciava la politica della Repubblica riguardo alla Chiesa, «come se tutti fossero Machiavellisti e concedessero o togliessero l’esenzione ai chierici, secondo che fosse utile o disutile alla ragion di stato» (Risposta ad una lettera senza nome di autore sopra il breve di censure della santità di Paolo V pubblicate contro i signori veneziani, in Opera omnia, t. 4, 2, 1859, p. 493).

Ma l’opera che può considerarsi un vero e proprio ‘anti-Principe’ è il De officio principis christiani (1619). Si articola in tre libri: il primo sui doveri del principe; il secondo sulle vite dei santi principi dell’Antico Testamento; il terzo sulle vite dei santi principi dell’era cristiana. L’opera è un vero e speculare rovesciamento del Principe, a iniziare dal titolo e, in particolare, dal primo libro. Mentre M., nel cap. xv del suo opuscolo aveva contrapposto al dover essere la «verità effettuale», ovvero l’essere, B., invece, invischiava il principe in un reticolo obbedienziale, per il quale egli era sottoposto a Dio, al papa, al proprio vescovo e al proprio confessore. Il principe e la politica, quindi, non fruivano più di quella autonomia che era stata assicurata da M. (il quale aveva valutato i fatti politici nella loro mera effettualità mondana), ma venivano inseriti dal cardinale gesuita in una prospettiva provvidenziale. D’altro canto, tale inscrizione provvidenzialistica, non significando affatto un rapporto immediato fra il sovrano e Dio, non implicava la legittimazione divina rivendicata dal principe assoluto, «superiorem non recognoscens». Secondo il teologo, l’inquadramento della politica del principe in un piano divino poteva avvenire solo attraverso la mediazione della Chiesa, massime del pontefice.

Altre divergenze fra il principe machiavelliano e quello bellarminiano scaturiscono da questa radicale differenza di visione. Infatti, il gesuita adornava il principe delle classiche virtù umanistiche, dalla temperanza alla giustizia alla fortezza alla clemenza e alla magnificenza, ma queste erano adempiute dalle virtù cristiane e controriformistiche della misericordia, della carità e dell’obbedienza. Si trattava dell’esatta antitesi del ritratto ‘centauresco’ del Principe, della necessità di una compresenza nel politico di bestia e uomo, forza e astuzia (cui B. contrapponeva la prudenza interpretata secondo il registro aristotelicotomistico), bene e male. Non sorprende, quindi, che mentre il principe machiavelliano ambiva alla gloria terrena e al successo mondano nel perseguimento del bene comune, B. indicasse al sovrano la meta radiosa della gloria divina, che ovviamente era anche gloria della Chiesa.

Infine, lo stesso schema ermeneutico nella lettura dei testi antichi distingueva nettamente il gesuita dal fiorentino. Infatti, M. aveva invitato a leggere «sensatamente» (cioè a ricavarne un ‘senso’ politico) con lo stesso metro Bibbia e storia antica e ne aveva dato un esempio con l’interpretazione di grandi figure veterotestamentarie, da Mosè a David. Con opposta esegesi, Bellarmino, nel secondo e nel terzo libro della sua opera, esibiva uno spicilegio di prìncipi prima e dopo l’avvento di Cristo, i quali, coerentemente a quanto era stato espresso nel primo libro del medesimo trattato, rifulgevano di eterna gloria grazie alla loro opera al servizio di Dio e della Chiesa.

Bibliografia: Bellarmino e la Controriforma, Atti del Simposio internazionale di studi, Sora 15-18 ottobre 1986, a cura di R. De Maio et al., Sora 1990; G.M. Barbuto, Il principe e l’Anticristo. Gesuiti e ideologie politiche, Napoli 1994; F. Motta, Roberto Bellarmino: una teologia politica della Controriforma, Brescia 2005; E. Fabbri, Roberto Bellarmino e Thomas Hobbes. Teologie politiche a confronto, Roma 2009.

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