ROBERTO d'Angiò, re di Sicilia

Enciclopedia Italiana (1936)

ROBERTO d'Angiò, re di Sicilia

Romolo Caggese

Nacque nel 1278, terzogenito di Carlo II, allora principe ereditario della corona di Sicilia. Scoppiata la rivoluzione del Vespro nel 1282, fu mandato con i maggiori fratelli Carlo Martello e Ludovico in Provenza, e colà li raggiunse la notizia della disfatta della flotta napoletana nel golfo di Napoli (5 giugno 1284) e della prigionia del padre. Tre anni dopo, in seguito al trattato di Campofranco (27 ottobre 1288), il re di Aragona riceveva in ostaggio Ludovico e Roberto, e nel marzo successivo il quartogenito di Carlo II, Raimondo Berengario. La prigionia, per R., durò fino agli ultimi mesi del 1295, quando, auspice il papa, fu firmata la pace tra Giacomo d'Aragona e Carlo II. Subito dopo, essendo morto Carlo Martello fin dal 19 agosto 1295, ed avendo Ludovico rinunziato alla successione paterna per entrare nell'ordine dei frati minori francescani (29 dicembre 1296), R. - già nominato vicario dal padre nei primi del 1296 - fu da Bonifazio VIII, il 24 febbraio 1297, preconizzato successore di Carlo II e assunse il titolo di duca di Calabria; nel marzo di quell'anno sposò Iolanda (o Violante) d'Aragona, sorella di Giacomo II e di Federico, l'usurpatore della Sicilia, nozze che sembrarono destinate ad assicurare un lungo periodo di pace. Invece, nel 1299, appoggiato all'alleanza di Giacomo II, l'Angioino riprendeva la guerra, con un esercito ritenuto formidabile, sotto il comando di R. in persona. Il 4 luglio la flotta aragonese di Sicilia veniva dispersa a Capo Orlando. La stessa Catania cadde nelle mani dei vincitori; ed ivi, nella seconda metà del 1300, nasceva Ludovico, il secondogenito di Roberto (il primogenito, Carlo, era nato poco più di un anno prima), morto poi ancora fanciullo. Così, poco più che ventenne, R. era travolto nelle spire dell'impresa di Sicilia che non doveva essere mai più compiuta né durante il suo regno né dopo. Rimasto vedovo di Iolanda d'Aragona nel 1303, sposò nel giugno 1304 Sancia di Maiorca, mentre, secondo il piano politico di Carlo II, la sorella di R., Maria, sposava Sancio d'Aragona, figlio di Giacomo II, e un'altra sorella, Beatrice, andava sposa ad Azzo VIII di Ferrara. L'anno dopo, prese viva parte, insieme col padre, all'elezione di papa Clemente V, l'arcivescovo di Bordeaux Bertrando de Got, dopo un agitato conclave a Perugia, durato undici mesi; e in quegli stessi mesi, come capitano generale della "Taglia guelfa" di Toscana, contro i bianchi ed i ghibellini, al soldo della Repubblica fiorentina, R. assediava Pistoia, impresa interrotta dall'inatteso intervento di Clemente V in favore degli assediati o, più propriamente, dei banchieri bianchi. Il 5 maggio 1309 moriva Carlo II, e R. cingeva la corona di Sicilia mentre si addensava su tutta l'Italia il nembo che l'impresa di Arrigo VII doveva fatalmente suscitare. Uomo di modesto intelletto, sinceramente credente, accusato ingiustamente, in certi settori della pubblica opinione nel regno e fuori, di aver fatto avvelenare Carlo Martello e di avere indotto con subdole arti il fratello Ludovico a farsi frate per non avere più alcuno ostacolo alla successione paterna, R. si trovò presto in una penosa situazione, specialmente perché l'imperatore scendeva in Italia accompagnato dalla benedizione del papa e con un programma apparentemente seducente, pacificare i partiti e restaurare l'autorità imperiale. Egli si avvide subito che gli sarebbe stato d'immensa utilità un accordo con Arrigo VII, e sperò in un matrimonio tra il figlio Carlo ancor dodicenne e Beatrice figlia dell'imperatore, e in questo senso trattò a lungo alle spalle degli alleati fiorentini, fino alla fine del 1311; ma poi si venne a sapere che il re di Trinacria trattava con Arrigo di un parentado, anzi dello stesso parentado, e che l'imperatore non disdegnava le sollecitazioni dell'aragonese mentre i guelfi toscani e del resto d'Italia invocavano lui, R., richiamandolo al compimento del dovere di alleato, di signore di Firenze, di protettore naturale del guelfismo italiano. A mezzo il 1312 tutto è chiarito: R. sa che deve combattere l'imperatore, ma non s'impegna a fondo, lasciando ai Fiorentini il maggior peso della guerra; solo preoccupato di evitare una eventuale invasione di truppe imperiali nel regno. Morto Arrigo VII (24 agosto 1313), il re fu coinvolto, naturalmente, nel dramma guelfo-ghibellino di Toscana, mentre in Sicilia riardeva la guerra, e nella battaglia del 29 agosto 1315, a Montecatini, disastrosa per i guelfi, caddero sul campo Pietro conte di Eboli fratello del re, e il giovine nipote Carlo di Acaia. Ciò nonostante, R. non vendicò la morte del fratello e del nipote, sollevando un coro d'indignazione tra i guelfi e proteste vivacissime che trovarono eco nei poeti di parte guelfa. Folgore di San Gemignano, Antonio Pucci, Pietro Faitinelli. Lo dissero avaro sordidissimo, ma in realtà egli era soltanto il sovrano di uno stato povero e socialmente mal connesso, incapace quindi di dispendiose e pericolose imprese lontane. Dal 1315 in poi, R. si mescolò come poté agli avvenimenti della media e dell'alta Italia e a quelli dell'Oriente, sempre aiutato dal successore di Clemente V, Giovanni XXII (1316-1334), energico e combattivo vegliardo che conosceva a fondo il re e la corte napoletana, ottenendo la signoria di Genova (1318) e di altri cospicui centri qua e là, prendendo posizione contro i Visconti, combattendo contro di essi come nemici della Chiesa, e rifugiandosi per cinque anni (1319-24) all'ombra del papato in Avignone a tramare la tela di una politica italiana che gli eventi distrussero subito dopo. In realtà, R. perdette la signoria di Firenze, nel 1321, e non riuscì, durante il quinquennio della dimora avignonese, a mantenere il controllo di quanto avveniva nei comuni toscani ed emiliani, in Umbria e nelle Marche, in Lombardia e nel Veneto. Ai primi di giugno 1324 il re era a Napoli con la regina Sancia, bigotta e come spaurita delle cose del mondo; l'erede al trono sposava in seconde nozze (era vedovo di Caterina d'Austria) Maria di Valois, figlia di quel Carlo di Valois che Bonifazio VIII aveva mandato come paciere in Firenze nel 1301, dove aveva fatto eccellenti affari, e nuove possibilità si delineavano per le politica angioina in conseguenza degli atteggiamenti minacciosi di Ludovico il Bavaro. Firenze infatti nominava (3 dicembre 1324) Raimondo di Cardona "capitano generale della guerra", e i rapporti con Napoli si rifacevano intimi; ma la sanguinosa sconfitta fiorentina di Altopascio (23 settembre 1325), dovuta a Castruccio Castracane, legò ancora una volta il nome di un condottiero angioino al ricordo di un disastro militare fiorentino e guelfo. Tuttavia, la pressione nemica era tanta che Firenze, il 23 dicembre 1325, nominava il duca di Calabria signore della città per dieci anni, a condizioni veramerite eccezionali e generose. Il re, con l'abituale lentezza e dopo avere speculato alla meglio sul bisognti dei Fiorentini di ampliare e complicare la loro politica guelfa contro Castruccio e il partito ghibellino di tutta Toscana, lasciò partire il figlio soltanto cinque mesi dopo la sua nomina. La dimora fiorentina del duca di Calabria non servì a migliorare l'opinione che in Toscana si aveva delle truppe angioine e degl'intendimenti del re: ma ecco la minaccia del Bavaro direttamente puntata contro il regno ad affrettare il ritorno del duca, fra le proteste dei Fiorentini, i quali, oltre tutto, avevano consumato centinaia di migliaia di fiorini d'oro per concedersi il vano lusso di una signoria regale. Il Bavaro non entrò nel regno, il nembo deviò, ma il giovine principe morì quasi improvvisamente, di febbre palustre, il 9 novembre 1328, lasciando una figlia, Giovanna, la duchessa incinta di Maria, nata poco dopo, e il padre in uno stato di indicibile prostrazione. Tutto crollava intorno a lui. Dal 1328 al 1343 egli si lasciò andare a dolorose rinunzie, fermo soltanto nel programma dinastico di riconquistare la Sicilia e di assicurare la successione. Perduta la signoria di Firenze, perduto un appoggio formidabile con la morte di Giovanni XXII, perduta la signoria di Genova nel 1335, R. volle limitare gli orizzonti della sua politica e si avvide che non gli era possibile fermare il fatale andare delle cose, ma che gli era ancora possibile continuare l'impresa di Sicilia e garantire la successione, compatibilmente con la mancanza di eredi diretti. Sancia non gli diede alcun figlio. La guerra di Sicilia, sempre accesa, in sostanza, dal 1302, cioè dalla data della pace di Caltabellotta in poi, anche durante le più o meno brevi tregue apparenti, fu continuata fino alla presa di Milazzo, il 15 settembre 1342, e alla prima organizzazione della conquista, ossia fino alla vigilia della morte del re. Questa segnò però il definitivo tramonto di ogni possibilità di riconquista della Sicilia da parte degli Angioini. Quanto alla successione, R. volle il matrimonio della nipote Giovanna con Andrea di Ungheria (v. giovanna i), consumato, forse, o negli ultimissimi tempi della vita del re o subito dopo la morte, ma il trono corse il pericolo di essere travolto. Tutto il programma robertiano andava in pezzi.

Il re non fu, certo, un uomo di genio né, come parve al Petrarca, un sapiente, ma entro i limiti che gli furono consentiti protesse letterati, giuristi, poeti, bibliografi, raccolse una biblioteca per i suoi tempi preziosa e fu egli stesso curioso di molte curiosità, scrittore di scarsa genialità ma di buona volontà e d'intenzioni lodevoli, come apparve nel breve trattatello intorno alla povertà di Cristo e degli apostoli scritto durante la dimora avignonese; e, specialmente, pronunziò spesso e volentieri discorsi politici e di occasione onde andava orgoglioso e onde gli derivò l'appellativo dantesco di re da sermone se (il che non sembra) debbano intendersi riferite a R. le parole del canto VIII del Paradiso (v. 147), messe in bocca a Carlo Martello. Certo, i posteri se ne sono serviti liberamente per definire la sua natura opaca e fredda. Morì nella reggia di Castelnuovo a Napoli il 19 gennaio 1343, e fu sepolto in S. Chiara, la splendida chiesa eretta, con l'annesso chiostro, dalla pietà della regina Sancia e arricchita di opere insigni. Il Petrarca dettò la magniloquente epigrafe che meglio si addirebbe ad Augusto.

Bibl.: M. Camera, Annali delle Due Sicilie, Napoli 1842-60, voll. 2, II, p. 185 segg.; G. B. Siragusa, L'ingegno, il sapere e gli intendimenti di R. d'A., Palermo 1891; Baddeley, Robert the wise, Londra 1897; G. de Blasiis, Racconti di storia napoletana, Napoli 1908; A. De Boüard, Le régime politique et les institutions de Rome au moyen âge, 1252-1347, Parigi 1920; R. Caggese, R. d'A. e i suoi tempi, Firenze 1922-31, voll. 2; G. M. Monti, Da Carlo I a R. d'A., puntate I-IV, Napoli 1931-34.