Roberto d'Angio

Enciclopedia Dantesca (1970)

Roberto d'Angiò

Enzo Petrucci

Re di Sicilia, la cui vita pubblica, prima come vicario (1296-1309) e poi come re (1309-1343), abbracciò tutta la seconda parte della vita del poeta. La figura di R. apparve a D. l'opposto di quell'ideale figura di sovrano che egli vagheggiò nel studiò composizione con fratello di lui, Carlo Martello.

Terzo dei numerosi figli di Carlo II d'Angiò e di Maria d'Ungheria, nacque nel 1278, quasi certamente a Napoli. Dato in ostaggio al re Alfonso III d'Aragona (31 ottobre 1288) in cambio della liberazione del padre, catturato nella battaglia di Napoli (1284; cfr. Pg XX 79), R. fu condotto prigioniero in Catalogna insieme ai fratelli Ludovico e Raimondo Berengario e vi rimase fino alla pace del 1295. Morto in quell'anno Carlo Martello, primogenito di Carlo II, e avendo il secondogenito Ludovico rinunciato per la sua vocazione sacerdotale a ogni diritto al trono, Carlo II nel 1296 invitò le universitates del regno a formulare una supplica al papa perché, quale alto signore del regno, dichiarasse R. erede del trono. Ciononostante qualche cronista addirittura accusò R. di aver avvelenato Carlo Martello (Cronica de' re della casa d'Angiò, in A.A. Pelliccia, Raccolta di varie croniche, ecc. appartenenti alla storia del Regno di Napoli, I, Napoli 1780,103; Cronicon Parmense, ediz. R. Bonazzi, in Rer. Ital. Script. IX IX 172); e le chiose Vernon (pp. 552-553) di aver spinto Ludovico ad abbracciare la vita religiosa, per spianarsi la via alla successione. Ma queste accuse, destituite di ogni fondamento, non ebbero in realtà molto seguito. Grande risonanza ebbe invece, fino a diventare un caso giuridico dibattuto nelle scuole, l'accusa che R. avesse cinto illegittimamente la corona di Sicilia. Questa sembrava dovesse spettare a Caroberto, figlio di Carlo Martello, allora settenne. Per il momento, tuttavia, la questione non suscitò l'interesse dell'opinione pubblica, tanto più che Caroberto nel 1300 fu inviato in Ungheria a prendere possesso di quel regno che era stato, almeno nominalmente, di suo padre. La questione fu sollevata invece più tardi, quando R. successe al padre (1309). I giuristi che trattarono allora la questione, come Bartolomeo da Capua, Riccardo Malombra e persino Cino da Pistoia, avversario dell'Angioino, riconobbero la legittimità della successione di R.; solo Nicola Mattarelli, a quanto pare, la considerò illegittima (Léonard, Histoire, pp. 116-121; con ampie citazioni di giuristi coevi e posteriori). Tuttavia l'opinione pubblica, riecheggiata da poeti e cronisti anche di parte angioina (Pellegrini, pp. 73-83), considerò R. un usurpatore dei diritti del nipote. D. sia per ragioni giuridiche sia per l'avversione alla politica antimperiale dell'Angioino, o per entrambi i motivi, ritenne la successione di R. come illegittima e fraudolenta: Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, / m'ebbe chiarito, mi narrò li 'nganni / che ricever dovea la sua semenza, Pd IX 1-3.

Quando salì al trono, avendo da oltre un decennio collaborato strettamente col padre, R. aveva una conoscenza esatta dei problemi del regno: innanzitutto la riconquista della Sicilia, sempre saldamente nelle mani di Federico II di Trinacria. Ma al momento della successione di R., l'elezione a re dei Romani di Enrico VII poneva sul tappeto il problema della calata imperiale: R. iniziò un'intricata politica di doppio giuoco: mentre a Firenze, il 30 settembre 1310, veniva accolto come il capo della resistenza guelfa all'imperatore, egli era in segrete trattative con Enrico VII: le quali però, dopo alcune alternative, nel giugno 1312 giunsero a definitiva rottura. R. però non s'impegnò ancora a fondo contro il Lussemburghese, giacché, preoccupato di un'invasione del regno, si mantenne sulla difensiva e accettò per proprio conto la tregua indetta dal papa, lasciando così il peso maggiore della guerra sulle spalle dei Fiorentini. Enrico VII intanto prese successivi provvedimenti contro R., finché il 26 aprile 1313 lo mise al bando dell'Impero come traditore e ribelle alla maestà imperiale, condannandolo a morte. Ma nonostante i pressanti appelli fiorentini, soltanto nei primi mesi del 1313 i rapporti di R. con gli alleati guelfi divennero più stretti. Nel febbraio, infatti, l'Angioino accettò di essere il capitano della lega guelfa, anche se restò sempre nel suo regno e si limitò a consigliare gli alleati a non scendere in battaglia aperta col nemico, ma a indebolirlo logorandolo. Il primo maggio, inoltre, Firenze gli si diede in signoria, seguita da altre città della media e alta Italia.

Morto Enrico VII (1313), Clemente V il 15 marzo 1314 nominò R. vicario dell'Impero in Italia. Ma, nonostante i progetti, che annunziò subito a Firenze, di debellare il ghibellinismo, la questione siciliana gl'impedì qualsiasi azione efficace, tanto che l'opinione pubblica contemporanea - che nei poeti guelfi Folgòre da San Gimignano (I sonetti, ediz. Neri, Torino 1917, 80), Antonio Pucci (Il Centiloquio, ediz. I. di s. Luigi, Firenze 1772-1775, III, 67 ss.), Pietro Faitinelli (Rime, in Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal sec. XIII aI XIV, ediz. Del Prete, dispensa 139, Bologna 1874), e nella ballata anonima per la battaglia di Montecatini (I Reali di Napoli alla battaglia di Montecatini, in Rime di Cino da Pistoia e di altri del sec. XIV, ediz. Carducci, 1862, pp. 602 ss.), trovò l'espressione della propria protesta e indignazione - accusò il re di avarizia e di viltà.

La disfatta angioina di Montecatini (1315), peraltro, non aveva turbato il faticoso equilibrio politico italiano; anzi, appena un anno dopo, la posizione internazionale di R. riuscì rafforzata dal concorso di vari avvenimenti: il matrimonio del figlio Carlo con Caterina d'Austria, vedova di Enrico VII e sorella del nuovo re dei Romani Federico il Bello; l'elezione al pontificato di Giovanni XXII, già cancelliere del regno, e la pace con Pisa dopo la cacciata di Uguccione.

Il 27 luglio 1318, ottenuta la signoria di Genova che aveva difesa con successo contro l'esercito visconteo-ghibellino, passò ad Avignone (1319), dove si fermò cinque anni, durante i quali spiegò intensa attività in vista del suo obbiettivo ambizioso: la sottomissione di tutta l'Italia. Ma l'annosa e sanguinosa questione siciliana, le condizioni interne del regno e la generale situazione politica italiana lo richiamavano perentoriamente nella penisola. Giunto a Napoli ai primi di giugno (1324), il re affrettò i preparativi per una grande spedizione in Sicilia: l'attacco della grande armata angioina ebbe inizio il 26 maggio successivo, ma si risolse, come al solito, con un nulla di fatto, mentre nell'Italia centrale i Fiorentini e gli alleati guelfi subivano una sanguinosa sconfitta ad Altopascio (23 settembre 1325) a opera di Castruccio Castracani. Nel 1328 R. fu colpito profondamente dalla morte del suo unico figlio, il duca Carlo di Calabria: un avvenimento che tra l'altro pose il difficile problema della successione. Negli ultimi anni della sua vita, R., costretto dalla realtà politica europea e italiana a rinunziare ai suoi ambiziosi sogni, concentrò i suoi sforzi sull'impresa siciliana; ma la Sicilia andò perduta. Rimasto senza eredi diretti, pensò di riunire i due rami della dinastia angioina, quello di Napoli e quello di Ungheria, con il matrimonio della nipote Giovanna, figlia del defunto Carlo di Calabria, con il principe Andrea, figlio di Caroberto d'Angiò, re di Ungheria. Questo fatto fu interpretato dall'opinione pubblica contemporanea, espressa in termini quasi identici negli scritti più svariati per natura e ispirazione (G. Villani X 224; M. Villani I 9; Codice Cassinese della D.C., Monte Cassino 1865, p. 429; D. di Gravina, Chronicon de rebus in Apulia gestis..., a c. di A. Sorbelli, in Rer. Ital. Script.² XII III, p. 4; Sagacio e Pietro di Gazata; Chronicon Regiense..., ibid., XVIII col. 65; M. Battagli da Rimini, Marcha, a c. di A.F. Massèra, ibid.², XVI III, p. 51; Baldo degli Ubaldi, In sextum librum Codicis, C. De Bonis maternis, si viva matre; Ballata in morte di Andrea d'Ungheria [composta nel 1342] ediz. A. Medin, in " Il Propugnatore " n. s., I [1888] 84-92, vv. 5-20), come il segno del pentimento e della riparazione da parte di R. per l'usurpazione della corona di Sicilia, perpetrata ai danni della discendenza di Carlo Martello. Ma a dimostrare che R. era assai poco " conscientia ductus ", come si esprimono quasi concordemente le fonti, basti riflettere che nel suo testamento, dettato sul letto di morte il 16 gennaio 1343, egli istituì sua erede universale Giovanna; sicché - contrariamente a quanto scrivono cronisti e poeti, i quali affermano che R. designò il principe Andrea come suo successore (cfr. Léonard, Historia, pp. 218-222; Pellegrini, pp. 82-83) - la posizione del giovane principe ungherese si configurava non diversamente da quella di un principe consorte.

Il lungo regno di R., che morì il 19 gennaio 1343, si chiudeva dunque sul piano politico con un completo fallimento, aggravato dal problema dinastico che una giovinetta inesperta e di mediocre intelletto, come Giovanna I, non avrebbe potuto - come non poté - risolvere. Sul piano amministrativo, invece, l'opera di R. fu nel complesso efficace e accorta, e Napoli e il regno conobbero momenti di floridezza e di splendore, specie dopo il disimpegno politico italiano. Se da fanciullo sembrò " tam torpentis ingenii... ut non absque maxima demonstrantis difficultate prima licterarum elementa perciperet ", come sentì dire il Boccaccio (Genealogia deorum XIV 9), si mostrò in seguito vago di varie curiosità letterarie e scientifiche. Amò circondarsi di uomini colti, quali i giuristi Andrea da Isernia e Bartolomeo da Capua, Paolino Minorita vescovo di Pozzuoli, Agostino Trionfo da Ancona e gli amici del Petrarca: Barbato da Sulmona, Giovanni Barrili e Paolo da Perugia, che Barlaam aiutò per la parte greca nella compilazione della sua opera sulla mitologia dei pagani (Collectanea) e nell'ordinamento dei manoscritti greci della biblioteca del palazzo reale di Castelnuovo. E proprio alla biblioteca R. dedicò particolari cure per tutta la sua vita, arricchendola continuamente di nuovi codici e dotandola di un vero e proprio centro scrittorio, in cui si copiavano e si miniavano codici e si traducevano opere dal greco, dall'arabo e dall'ebraico. Della produzione di lui restano gli Apophtegmata (o Dicta et opiniones philosophorum), il Tractatus... de Apostolorum ac eos precipue imitantium evangelica paupertate, scritto durante il lungo soggiorno in Avignone, e in cui si mostra in fondo favorevole ai sostenitori della povertà mantenendosi in una posizione intermedia fra la tesi estremista degli spirituali e la condanna di Giovanni XXII; e soprattutto un gran numero di discorsi. In realtà, per questo genere ebbe una vera mania, al punto che non solo avvenimenti politici, ma anche le feste religiose furono per lui occasione per pronunciare sermoni, che tenne persino alle monache di S. Chiara (Sermo Undecim Milium Virginum factus in monasterio dominarum de Romania de Neapoli per... dom. Robertum, Jerusalem et Siciliae regem: Codice Angioino B 6 3, f. 354). Difficile per noi moderni apprezzarli; ma i sermoni di R. suscitarono l'ammirazione dei letterati contemporanei. Dell'ammirazione per il re letterato è singolare testimonianza il fatto che il Petrarca accettò la laurea poetica a patto di essere preventivamente esaminato da R.; e a tale scopo si recò appositamente a Napoli.

Ma D., come i poeti guelfi Folgòre da San Gimignano e Pietro Faitinelli, seppur da opposte sponde, riguardarono R. esclusivamente come re e come uomo politico e come tale lo giudicarono. L'espressione re... da sermone (Pd VIII 147), che così bene caratterizza il re angioino, come quella del Faitinelli (Non speri 'l pigro re di Carlo erede 14 " Or sermonezi e dica prima e tersa ", sonetto scritto forse mentre Firenze, assediata da Enrico VII, aspettava invano soccorsi da Napoli) è un giudizio politico, non letterario, che indica una valutazione negativa delle qualità regali di R., considerato anzi più adatto a pronunciar sermoni che a cingere la spada. Tuttavia l'atteggiamento fondamentale di D. nei confronti di R. non è un atteggiamento d'ironia, ma un giudizio severo che lo coinvolge, in un collegamento ideale con l'invettiva di Ugo Capeto (Pg XX 40-123) e con quella di Folchetto di Marsiglia (Pd IX 127-142), nella condanna della casa di Francia e del sistema guelfo, imperniato appunto sull'alleanza della monarchia angioina, di Firenze e della curia avignonese, ritenuti principali responsabili del disordine politico-religioso dell'Italia e del mondo. D. fa pronunciare la valutazione negativa del re da un familiare, con un procedimento altre volte seguito. Chi parla è il fratello, Carlo Martello, ed è lui - assunto con evidente contrasto come la figura del sovrano ideale - ad ammettere il severo giudizio. Dopo aver accennato all'insurrezione siciliana del Vespro, provocata da mala segnoria, che sempre accora / li popoli suggetti (Pd VIII 73-74), Carlo Martello ammonisce: E se mio frate questo antivedesse, se cioè riflettesse sin da ora, prima di salire al trono, " alle conseguenze pericolose del malgoverno che inasprisce i sudditi e li spinge alla rivolta, già allontanerebbe da sé, perché non gli avesse poi a nuocere (non li offendesse) " (Sapegno), l'avara povertà di Catalogna (vv. 76-78). Due sono le interpretazioni principali cui ha dato luogo quest'ultima espressione. Per il Lana, seguito dal Vellutello e dal Daniello e da qualche moderno, come il Croce, il Torraca e il Caggese, si tratterebbe dell'avarizia di R., propria, per antonomasia, dei Catalani, o da lui appresa in Catalogna, durante la prigionia, come stranamente spiegano le chiose Vernon. Ma la maggior parte dei commentatori, sulla scia degli antichi (Ottimo, Benvenuto, Buti), riferiscono l'espressione dantesca all'insaziabile cupidigia dei Catalani.

Ma chi sono codesti Catalani? È da escludere, a nostro avviso, che D. volesse alludere, come pur vogliono gli antichi chiosatori (Ottimo, Benvenuto, Buti) seguiti dai moderni, a nobili catalani, con i quali R. avrebbe contratto amicizia nel tempo che trascorse in Catalogna come ostaggio, e che poi avrebbe condotto con sé a Napoli, innalzandoli a dignità e uffici. Durante la prigionia, R., che all'inizio di essa aveva dieci anni, e i suoi fratelli vivevano pressoché isolati, talvolta in pericolo di vita, confortati solo dalla famigliarità dei loro maestri francescani: in queste condizioni sarebbe stato difficile contrarre amicizia con parecchi nobili. D'altra parte, per quanto consta, non si hanno prove di funzionari catalani a Napoli e nel regno. Si hanno, invece, sufficienti notizie di arruolamenti di milizie catalane e di almogaveri, che, nell'opinione comune, dovevano essere la stessa cosa. Due capitani, Diego de la Rat e Gilberto de Santillis, erano al servizio della corte napoletani già al tempo di Carlo II. Il primo, la cui avarizia è ritratta anche dal Boccaccio (Dec. VI 3, 6-12), percorse una lunga e lucrosa carriera (v.). L'altro, Gilberto de Santillis, benché al soldo dell'Angioino, non solo fornirà sempre preziose informazioni a Giacomo II d'Aragona, ma un documento del giugno 1309 ce lo presenta dedito persino a un lucroso commercio di legname. Questo strano ma significativo aspetto della sua attività può essere spiegato dal documento d'ingaggio di 500 mercenari d'Aragona e di Maiorca, stipulato il 2 luglio 1311, nel quale si pattuisce che i soldati, in tempo di tregua, possono " ire per mare et per terram per totum Regnum praedictum ad negotiandum ad opus suum " (Caggese I, p. 132 n. 5). Più tardi, a parte il tentativo di far fortuna da parte di un tal Ludovico di Castiglia, fu ingaggiato, com'è noto, l'inetto e avaro Ramon de Cardona (cfr. Caggese, passim, e Rocca, p. 29 n. 20). Sembra pertanto lecito concludere che questi probabilmente costituiscono la milizia della quale Carlo Martello rimprovera R. di servirsi: il che significa, nel giudizio politico di D., che se il re non avesse seguito la dispendiosa politica di egemonia italiana, necessariamente antimperiale, non avrebbe avuto bisogno di assoldare milizie mercenarie, il cui scopo principale era appunto di mettere in arca, dissanguando, a danno dei sudditi, sempre più oppressi da gravami fiscali, le risorse dello stato. Non possiamo tuttavia tacere una terza ipotesi che identificherebbe l'avara povertà di Catalogna con Giacomo II d'Aragona, alleato costosissimo e infido degli Angioini proprio negli anni 1297-1301 e in seguito (cfr. Caggese, I, pp. 9-15, 44-50, 110, 125; Léonard, pp. 228-239).

Carlo Martello continua: ché veramente proveder bisogna / per lui, o per altrui, sì ch'a sua barca / carcata più d'incarco non si pogna. / La sua natura, che di larga parca / discese, avria mestier di tal milizia / che non curasse di mettere in arca (Pd VIII 79-84). Naturalmente, fuor di metafora, la barca è il regno di R.; ma, a tale proposito, c'è chi si è posto, come il Brezzi, un problema di date, osservando che nella primavera del 1300 - quando D. immagina di avere avuto la sua visione - R. non sedeva ancora sul trono. Non ci pare una questione insolubile. Quando infatti nella terzina (E se mio frate questo antivedesse, ecc.) Carlo Martello, rivolgendosi a D., adopera un verbo come ‛ antivedere ', è indubbio che egli proietti il suo discorso nel futuro; ma nelle terzine seguenti, anche per la partecipazione affettiva all'argomento della sua esposizione, l'avvenire gli diventa naturalmente presente, come del resto è, in realtà, per lo spirito beato, nella visione di Dio. Se è così, cioè se si tratta del regno di R., che inizierà però alla morte del padre, va da sé che il proveder... / per altrui (vv. 79-80) non si possa riferire, come riteneva il Caggese (p. 80), a Carlo II, ma genericamente a chi poteva influenzare le decisioni del re.

Per bene intendere il significato della natura parca di R., non si deve dimenticare che qui D., come si deduce da tutto il discorso di Carlo Martello, anche quello relativo alla dimostrazione e al corollario sulle disposizioni naturali, pone l'accento sulla mancanza nel re angioino di qualità politiche, più che sui suoi vizi morali. Si parli pure, se piace, di avarizia, ma nell'accezione di mancanza di liberalità regale: cioè D., a nostro avviso, ha voluto dire che R. sortì da natura un'indole meschina, angusta, priva di quella larghezza o liberalità che dovrebb'essere invece la dote precipua di un re, in quanto il re deve fare del bene a molti, come sono appunto i suoi sudditi. Si confronti quanto egli dice sulla pronta liberalitate (in Cv I VIII 3-4): ma dare a molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende simiglianza da li benefici di Dio, che è universalissimo benefattore... onde vedemo li ponitori de le leggi massimamente pur a li più comuni beni tenere confissi li occhi, quelle componendo. Tutta l'avarizia di R., per la quale è accusato anche presso i contemporanei guelfi, specie fiorentini (Faitinelli, son cit.; Ballata per la battaglia di Montecatini; Villani XII 10; A. Mussato De Gestis italicorum V 2), la cui politica però coincideva, in fondo, con quella del re, consisteva appunto nel continuo bisogno di mezzi finanziari per l'attuazione del sogno di egemonia italiana. Di qui anche l'insopportabile pressione fiscale del governo angioino onde nacque l'aneddoto riferito da Benvenuto: " ideo bene cancellarius suus cum Robertus diceret: ‛ spiritus ubi vult spirat ' iocose dixit: ‛ et Robertus ubi vult pilat ' ". In questa prospettiva l'affermazione del Caggese - ripresa dal Sapegno e dal Brezzi - secondo la quale R. " non fu avaro, ma povero, di una povertà irrimediabile e costante, sovrano povero di sudditi poveri e senza pace " non è molto significativa, senza contare che la povertà del regno angioino, come si è già visto, è stata molto esagerata. Tanto è vero che quando R. rinunziò alla dispendiosa politica italiana e rallentò gl'inutili sforzi per l'impresa siciliana, il suo regno conobbe un periodo di solidità finanziaria, al punto che egli in dieci anni (1330-1440) riuscì a saldare con la Santa Sede il debito del censo feudale, che risaliva tutto al padre Carlo II e al nonno Carlo I d'Angiò (cfr. Léonard, pp. 350-353). Quanto alla natura larga, la si è ritenuta generalmente, in funzione di contrasto e come espressione naturale di elogio nelle parole del figlio Carlo Martello, essere quella di Carlo II, del quale anche il Villani (VIII 108), per esempio, scrive che fu " uno dei larghi e graziosi signori che a suo tempo vivesse, e nel suo regno fu chiamato il secondo Alessandro per la cortesia ". E non si potrebbe secondo noi intendere diversamente, anche per il quesito preciso che D. pone a Carlo Martello (com'esser può, di dolce seme, amaro, Pd VIII 93), che dà luogo al discorso sulle disposizioni naturali. Lo spirito beato, svolgendo la dimostrazione della Provvidenza divina nel mondo, esclude nelle esemplificazioni, specie di Esaù e Giacobbe e di Quirino, ogni riferimento ad altri che non sia il genitore. È per questo che non ci convince l'esegesi del Pézard che spiega la sua natura come la natura degli Angioni. Il seme, dunque, del dubbio di D. non può essere, ci sembra, che Carlo II, la natura larga da cui discese quella parca di Roberto. Ma c'è chi obietta (per es. il Sapegno) che Carlo II, essendo già stato bollato nel XX del Purgatorio proprio per un gesto infamante di avarizia, non poteva essere qui qualificato come natura larga, e propone piuttosto Carlo I. Si può però replicare che anche Carlo I al luogo è severamente giudicato non per un solo atto, per dir così, di avarizia privata, bensì per la sua costante cupidigia politica; e lo stesso Carlo Martello indica il suo governo come mala segnoria. Per questi motivi la migliore interpretazione sembra ancora quella del Buti, che individuando, d'accordo con Pietro e forse con l'Ottimo, nella natura larga il padre di R., rispondeva a chi poteva cogliere il poeta in contraddizione " che Carlo II fu largo verso li suoi sudditi... ma lo re Roberto tralignava in questo dai suoi ".

Della successione fraudolenta (li 'nganni, Pd IX 2) di R. si è già detto; quanto all'oscuro vaticinio di un pianto / giusto (vv. 5-6) che ne seguirà, è impossibile precisare. Pietro crede che si accenni alla morte di Pietro conte di Eboli e di Carlo d'Acaia, il giovane figlio di Filippo di Taranto, caduti nella battaglia di Montecatini (1315), rispettivamente fratello e nipote di R., ma anche di Carlo Martello. Se, perciò, la chiosa di Pietro coglie nel segno, il vaticinio si riferirebbe a un castigo che colpirà la stirpe angioina e non R. in particolare.

Allusioni a R. sarebbero anche nella Monarchia, secondo i commentatori del trattato e vari studiosi del pensiero politico dantesco. In quest'opera veramente D. non solo non fa il nome di R., come non ne fa nessuno dei contemporanei, nemmeno quello di Enrico VII, ma non accenna a lui, come non accenna ad altri, neppure con espressioni indirette o perifrastiche. Tuttavia in alcuni passi il pensiero del poeta sembra correre al re angioino, ma non a lui solo. Certamente però il lettore moderno è facilmente portato a includere R. tra i reges terrae, et principes avversari dell'imperatore (Mn II I 1). Parimenti si è portati a vedere un richiamo anche a R. tra quei cotali quorum obstinata cupiditas lumen rationis extinxit - et dum ex patre dyabolo sunt, Ecclesiae se filios esse dicunt - e che non solo provocano litigi sulla questione se l'autorità dell'imperatore dipenda direttamente da Dio o indirettamente per il tramite del suo vicario, ma, in odio al nome stesso del santissimo principato, sarebbero pronti a negare persino la necessità della monarchia universale e il diritto del popolo Romano (III III 8). Costoro sunt impietatis filii qui, ut flagitia sua exequi possint, matrem prostituunt, fratres expellunt, et denique iudicem habere nolunt (§ 17). Qui però non vi è forse tanto un'allusione personale a R. come opina il Brezzi (p. 159) d'accordo con Chiappelli, Zingarelli, Solmi, ecc., quanto un riferimento a tutte le forze laiche antimperiali. E specialmente la frase fratres expellunt fa pensare, più che al re angioino (come ritiene il Brezzi [p. 159], che legge fratrem), all'espulsione dei guelfi bianchi e degli avversari dei guelfi in genere, o comunque alle lotte cittadine (cfr. Vinay, p. 209). In ogni caso i riferimenti a R. nella Monarchia sono possibili solo se si pone la datazione del trattato dopo la primavera-estate del 1312, e forse oltre, dopo la morte di Enrico VII. Evidentemente ogni allusione cadrebbe da sé se si accettasse la datazione del Nardi, che con argomenti interni allo sviluppo del pensiero e dell'arte di D. pone la composizione dell'opera tra il 1307 e il 1308 (Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960, passim). Ma a prescindere da riferimenti puntuali al re angioino, che potrebbero rivelarsi anche arbitrari, è interessante la polemica antimperiale di R., quale risulta da almeno tre documenti usciti dalla sua cancelleria. E ciò naturalmente anche senza affermare che essi furono lo stimolo alla speculazione politica di D. e tanto meno ipotizzare, come pure si è fatto (Chiappelli, Siragusa, Solmi, Zingarelli, ecc.), una precisa risposta nella Monarchia dantesca ai punti principali trattati nei documenti robertiani, giacché, come bene osserva il Vinay (p. 107 n. 3), il problema dell'Impero romano " era, nel primo Trecento, un tema di conversazione prima ancora che di discussione teorica ". Quanto ai documenti angioini, si tratta di un manifesto propagandistico che, data la sua larga diffusione, D. ha quasi certamente conosciuto, e di due istruzioni per gli ambasciatori di R. presso Clemente V, che però, proprio per il loro carattere riservato, difficilmente il poeta poté conoscere. Il manifesto è la reazione ufficiale di R. alla sua condanna pronunciata da Enrico VII: in esso R. prendeva in verità posizione non tanto contro l'Impero quanto contro l'imperatore, dichiarando il conte di Lussemburgo indegno del titolo imperiale. Per questo R. si apparecchiava a combatterlo e chiedeva l'aiuto di tutti i fedeli alla Chiesa, che con l'aiuto di Dio egli avrebbe condotto a trionfare contro il comune nemico (Mon. Germ. Hist., Const. IV 2 n. 947, pp. 991-993). Anche nella prima delle istruzioni, anteriore al documento precedente e scritta dopo il 6 agosto 1312, cioè dopo il rifiuto da parte di Enrico VII della tregua indetta dal papa e la pratica inosservanza di essa da parte di R. che l'aveva accettata, non si polemizza contro l'istituto imperiale ma contro l'imperatore. Insistendo sul fatto che Enrico VII aveva rifiutato, ritenendolo lesivo dell'autorità imperiale, il giuramento di non invadere il regno di Sicilia, che Clemente V aveva posto come condizione per la sua incoronazione, questo documento, con una serie di argomentazioni giuridiche, che muovono dalla premessa, evidente anche se sottaciuta, che l'imperatore dipende dal papa, vuol dimostrare che l'avvenuta incoronazione del re dei Romani deve considerarsi invalida. Di qui la raccomandazione agli ambasciatori di chiedere al pontefice " quod ipse dictam incoronacionem... declaret et denunciet nullam fuisse " e che non proceda a una nuova incoronazione del Lussemburghese, finché questi non abbia prestato il suddetto giuramento (Mon. Germ. Hist., cit., n. 1252, pp. 1362-1369). Ma molto più interessante è la seconda istruzione, scritta, come la precedente, probabilmente dal giurista Bartolomeo da Capua, dopo la morte di Enrico VII. Il tema fondamentale è la negazione della necessità e provvidenzialità dell'Impero, basata sull'argomento dell'origine violenta (diabolica) del suo potere e sulla constatazione che la creazione dell'imperatore provoca scandalo e dissidio per tutti i " fideles principes " del mondo i quali " sunt in plena et pacifica libertate dominii et potestatis eorum, nec in aliquo subsunt aut obediunt imperatori ". A ciò si aggiunga la considerazione che la calata imperiale provoca " interversionem tocius Ytaliae ". E qui s'introduce il tema nazionale della profonda incompatibilità tra la barbarie tedesca e la dolcezza italica. Meglio sarebbe, dunque, che non si procedesse più all'elezione del " rex Alamaniae ", in caso contrario il papa non lo confermi, e se questo non sarà possibile, eviti in ogni modo che l'eletto, e forse confermato, scenda in Italia per ricevere la consacrazione e l'incoronazione. Siamo esattamente all'opposto della concezione politica dantesca: e così si sono potuti vedere nella Monarchia richiami personali a R. e perfino avanzare l'ipotesi che l'operetta sia stata concepita come una risposta precisa alla negazione robertiana dell'autorità imperiale. Ma si deve osservare che, mentre molti dei motivi antimperiali esposti nel documento angioino erano largamente correnti nella pubblicistica del tempo, anche il tema nazionale italiano e quello della negazione della necessità e provvidenzialità dell'Impero erano stati vivacemente sostenuti e diffusi per esempio dalla propaganda fiorentina. E non è detto, anche se non ne abbiamo testimonianza scritta, che quel tema e quella negazione non fossero state oggetto di conversazione e di discussione tra i contemporanei di D. anche prima dell'elezione e della calata di Enrico VII, durante la lunga vacanza imperiale, che per D. risaliva, e non a torto, alla morte di Federico II. In questa prospettiva può certamente prendere consistenza l'ipotesi del Nardi sulla datazione della Monarchia, se non ci fosse l'ostacolo dell'inizio del libro II, in cui D. si duole di vedere reges et principes in hoc unico concordantes: ut adversentur Domino suo et Uncto suo, Romano principi (II I 3). L'interpretazione che di questo passo dà il Vinay (p. XXXVI), che lo riferisce al tempo della discesa in Italia di Enrico VII, è certo la più probabile, ma non esclude forse un'interpretazione più generica nel contesto della polemica guelfo-ghibellina, su cui lo stesso Vinay richiama opportunamente l'attenzione. In conclusione non solo i documenti della cancelleria angioina non si possono assumere come l'occasione e lo stimolo alla composizione della Monarchia, ma anche i riferimenti alla persona di R. che vi si potrebbero scorgere sono più generici e impliciti che puntuali.

Bibl. -Oltre la bibliografia alla voce Angiò, si veda R. Caggese, R. d'Angiò e i suoi tempi, 2 voll., Firenze 1922-1931, i cui risultati sono stati discussi e talora corretti da E.G. Léonard, Gli Angioini di Napoli, Varese 1967, 210, 231 ss. 248 ss., 261-370, 396-424; G.M. Monti, Da Carlo I a R. d'Angiò, Trani 1936. Per la questione della successione si veda in particolare C. Minieri Riccio, Genealogia di Carlo I d'Angiò, Napoli 1857 (con il testamento di Carlo II), doc. XLVII, 189-199; L. Óváry, Negoziati tra il re d'Ungheria e il re di Francia per la successione di Giovanna I d'Angiò, in " Arch. Stor. Prov. Napoletane " II (1877) 103-157; E.G. Léonard, Histoire de , Jeanne I.ère, I, Monaco-Parigi 1932, 109-124, 131-156, 174-177, 218-223; S. Pellegrini, Il " Pianto " anonimo provenzale per R. d'Angiò, Torino 1934; E. Jordan, Les prétendus droits des Angévins de Hongrie au thrône de Naples, Parigi 1934. Per quanto riguarda R. e la storia della cultura, oltre ai citati Caggese e Léonard e la bibliografia ivi citata, hanno trattato specificamente la questione G. Siragusa, L'ingegno, il sapere e gli intendimenti di R. d'Angiò, Palermo 1891; W. Goetz, König Robert von Neapel. Seine Personlichkeit und sein Verhältnis zum Humanismus, Tubinga 1910. Per l'atteggiamento di R. di fronte a Enrico VII e all'idea imperiale, V. Pohlmann, Der Romerzug Kaiser Heinrichs VII und die Politik der Kurie des Hauses Anjou und der Welfenliga, Norimberga 1875; W. Israel, König R. von Neapel und Kaiser Heirich VII. Die Ereignisse bis zur Krönung Heinrichs in Rom, Berlino 1903; I. Del Lungo, Da Bonifacio VIII ad Arrigo VII, Milano 1899; A. Cutolo, Arrigo VII e R. d'Angiò, in " Arch. Stor. Prov. Napoletane " LVII (1932) 5-30; N.M. Bowsky, Clement V and the emperor-elect. Ere that the Gascon tricked the lofty (Dante, Paradiso XVIII 82), in Medievalia e Humanistica, XII (1958) 52-69; ID., Henry VII in Italy. The conflict of Empire and City State 1310-1313, Lincoln 1960. L. Chiappelli, D. in rapporto alle fonti del diritto e alla letteratura giuridica del suo tempo, in " Arch. Stor. It. " s. 5, XLI (1908) 3 ss.; A. Solmi, Il pensiero politico di D., Firenze 1922; F. Ercole, Il pensiero politico di D., Milano 1927-28; G.M. Monti, La dottrina anti-imperiale degli Angioini di Napoli, i loro vicariati imperiali e Bartolomeo da Capua, in Studi in onore di A. Solmi, II, Milano 1940, 13-54; P.S. Leicht, Cino da Pistoia e la citazione di re Roberto da parte di Arrigo VII, in " Arch. Stor. It. " CXII (1954) 313-320; Zingarelli, Dante 635 ss., 789 ss. Circa la posizione assunta in Toscana dopo la morte di Enrico VII, E. Cristiani, Il trattato del 27 febbraio 1314 tra R. d'Angiò, Pisa e la lega guelfa toscana alla luce di nuovi documenti, in " Bull. Ist. Stor. Medio Evo " LXVIII (1956) 259 ss. Per R. e D. si veda P. Brezzi, D. e gli Angioini, in D. e l'Italia Meridionale, Firenze 1966, 149-162. Tra le ‛ lecturae ' del canto VIII vanno segnalate quelle di L. Rocca (Firenze 1903), A. Vallone (in " Humanitas " XIV [1959] 277-295; rist. in La critica dantesca nel Settecento ed altri saggi danteschi, Firenze 1961, 119-136) e A. Pézard (in Lett. Dant. 1489-1514); si veda infine D.A., Monarchia, a c. di G. Vinay, Firenze 1950.

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