LEYDI, Roberto

Dizionario Biografico degli Italiani (2015)

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LEYDI, Roberto

Nico Staiti

Etnomusicologo, nacque a Ivrea il 21 febbraio del 1928, da Silvio, ufficiale di aviazione e amministratore, e Carla Bosio, milanese; dal matrimonio nacque una sorella, Renata (1933-1995).

Fondatore, con Diego Carpitella, della moderna etnomusicologia italiana, ebbe una formazione variegata e non accademica. Studiò brevemente giurisprudenza, senza  completare gli studi universitari. Da giovane, trasferitasi la famiglia a Milano alla fine degli anni Trenta, collaborò con il Museo di storia naturale e acquisì un’approfondita competenza malacologica. Dal 1957 al 1952 fu critico musicale dell’Avanti!, dal 1957 al 1972 scrisse per L’Europeo: molte inchieste svolte per il settimanale furono condotte assieme al fotografo Ferdinando Scianna, il cui sguardo e le cui prospettive furono orientate dalla frequentazione con Leydi e dalla loro collaborazione. Nel 1954 scrisse il testo di Ritratto di città, una rappresentazione radiofonica messa in musica da Luciano Berio e Bruno Maderna, che descrive auditivamente Milano, dalle prime luci dell’alba al calar della notte (cfr. De Benedictis - Rizzardi, 2000, pp. 33-57, 161, 169; Scaldaferri, 2001). Da questo primo lavoro scaturì il progetto dello Studio di fonologia musicale, ufficialmente costituito presso la sede RAI di Milano nel 1955, diretto fino al 1959 da Berio e chiuso definitivamente nel 1983. La collaborazione di Roberto Leydi fu determinante nel delineare l’inclinazione multidisciplinare dello Studio e la spiccata attenzione per le musiche di tradizione orale che ne colorò le attività e orientò la ricerca compositiva di Berio e l’uso peculiare della voce da parte della cantante Cathy Berberian (cfr. ibid.).

Nel 1953 Leydi sposò Sandra Mantovani, cantante ed esperta di spettacolo popolare, con la quale condivise molte esperienze artistiche e di ricerca; nel 1959 nacque l’unico figlio, Silvio (oggi storico moderno). Dal 1955 fu consulente della trasmissione televisiva Lascia o raddoppia?, assieme a Umberto Eco e Luigi Rognoni. Dagli anni Sessanta, dapprima saltuariamente, poi in forma continuativa, collaborò con la Radio della Svizzera italiana (RTSI), per la quale conduceva una trasmissione a cadenza settimanale sulla musica di tradizione orale. Si occupò anche di spettacolo popolare, soprattutto di teatro d’animazione e di circo. Nel 1973 promosse l’Ufficio per la cultura popolare della Regione Lombardia, per il quale ha curato in prima persona o affidato ad altri ricercatori la redazione di numerosi dischi e volumi di documentazione sulla cultura tradizionale nella serie Mondo popolare in Lombardia (Milano). Dal 1972 fu professore incaricato e dal 1980 ordinario di etnomusicologia nell’Università di Bologna. Pur esibendo il distacco tipico dell’intellettuale militante ‘prestato’ all’accademia, Leydi ebbe un ruolo di spicco nello sviluppo della musicologia universitaria in Italia: dal 1982 fu il primo direttore del Dipartimento di musica e spettacolo dell’Università di Bologna, dal 1983 il primo coordinatore di un dottorato di ricerca in musicologia, dal 1993 il primo presidente dell’Associazione fra docenti universitari italiani di musica. Dal 1977 al 1986 fu direttore della Civica scuola d’arte drammatica del Piccolo Teatro di Milano. Negli ultimi anni di vita, ormai in quiescenza, svolse attività seminariale e di ricerca per la Scuola superiore di studi umanistici dell’Università di Bologna, diretta da Umberto Eco.

Ricerche e collezioni

L’interesse di Leydi per la musica si rivolse dapprima soprattutto alla musica contemporanea, al jazz, alla musica popolare nordamericana; dagli anni Cinquanta iniziò a occuparsi in modo sistematico delle tradizioni musicali popolari europee e soprattutto italiane, sia sul versante della documentazione e dello studio di forme, repertori e strumenti musicali, sia su quello della riproposta e divulgazione attraverso l’organizzazione di concerti e manifestazioni pubbliche.

La monumentale collezione di strumenti musicali popolari, d’Italia e d’altri Paesi, di documenti sonori, registrati da lui e da altri, di libri, riviste, dischi e musicassette, e di stampe, dipinti, terracotte, manufatti di varia natura costituita da Leydi nella propria casa di Orta San Giulio ne testimonia l’interesse per le molte forme della cultura popolare, e in specie per le sue manifestazioni sonore. La parte dei materiali più direttamente riferibile alla musica (ossia gli strumenti musicali, i documenti sonori, i dischi e le musicassette, la biblioteca musicologica) è oggi custodita nel Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona, nella Svizzera italiana. Fu lo stesso Leydi, dopo aver inutilmente proposto a diverse istituzioni italiane di prendere in custodia i suoi materiali, a donare le proprie raccolte alla Repubblica e Canton Ticino, il 9 luglio del 2002, non senza l’intenzione peraltro di poter sovrintendere in proprio all’ordinamento dei materiali e continuare a prendersene cura: intenzione che non poté realizzare a causa della malattia che di lì a poco lo portò alla morte.

La collezione regalata alla Repubblica e Canton Ticino consta di 1458 bobine di nastro audio, 115 audiocassette, 55 videocassette VHS, 148 scansioni digitali di fotografie, una biblioteca di circa 5500 volumi (tra i quali 277 tesi di laurea) e una raccolta di periodici (408 titoli). A questi materiali si aggiunge la preziosa raccolta di strumenti musicali, che si compone di 652 oggetti (116 idiofoni, 58 membranofoni, 38 cordofoni e 440 aerofoni); di particolare interesse la sezione delle zampogne, costituita da 50 strumenti, per la maggior parte provenienti da regioni italiane.

Le ricerche di Leydi sulla musica popolare si svolsero prevalentemente in Italia, soprattutto, ma non esclusivamente, al Nord: sono invero importantissime, tra tante altre cose, le sue ricerche e pubblicazioni sulle zampogne nell’Italia centro-meridionale (cfr. soprattutto Le zampogne in Italia, I, 1985 [con F. Guizzi]), sugli strumenti musicali in Sicilia (cfr. Strumenti musicali popolari in Sicilia, 1983 [con F. Guizzi]), sui cantastorie siciliani (cfr. Cantastorie, 1959 e L'altra musica. Etnomusicologia, 1991, nuova ed. 2008). Ma Leydi condusse importanti campagne anche in Grecia (soprattutto a Creta), in Francia (Bretagna), in Spagna (soprattutto in Galizia), in Scozia, nell’ex Jugoslavia (Macedonia, Croazia), in Marocco.

Morì a Milano il 15 febbraio 2003.

Esperienze

Leydi fu tra i promotori e i protagonisti del folk revival in Italia, assieme alla moglie, a Bruno Pianta, Dario Fo, Giovanna Marini e altri ancora. Ma dal movimento di riproposta presto prese le distanze, avvertendone i limiti ideologici e ritenendo necessario considerare, accanto al patrimonio di canti di protesta o, più in generale, esplicitamente e intenzionalmente distanti da forme e modelli culturali egemoni, pure altri aspetti della cultura musicale di tradizione orale, fino ad allora affatto trascurati perché ritenuti minori, subalterni o semplicemente non importanti: i repertori paraliturgici, la musica strumentale, i repertori dei cantastorie e così via. Ed è da questa nuova e diversa attenzione che ha preso forma la moderna etnomusicologia italiana. La quale, come aveva capito Leydi, doveva forgiare i propri strumenti ermeneutici su una realtà particolarissima: quella di un Paese, qual è l’Italia, sostanzialmente estraneo alle vicende coloniali, che in altri Paesi hanno portato gli studiosi a occuparsi di popoli lontani. Un Paese peraltro straordinariamente ricco di tradizioni musicali, sia scritte sia orali, stratificate e sedimentate nel tempo; estremamente ricco, inoltre, di testimonianze storiche relative a queste tradizioni, anch’esse accumulatesi in un arco di tempo molto lungo, se paragonato alle fonti a disposizione degli studiosi in altri Paesi del mondo occidentale.

Ha scritto Roberto Leydi (L’altra musica. Etnomusicologia, 1991, p. 23, nuova ed. 2008, p. 51): «La storia d’ogni disciplina scientifica (come, del resto, ogni trattazione storiografica) è sempre inevitabilmente tendenziosa e conduce a rappresentare il proprio sviluppo di pensiero e le linee del proprio lavoro entro lo schema di un modello dominante. E il modello dominante in etnomusicologia (ma anche in musicologia) è stato, fino a giorni a noi assai vicini, sostanzialmente quello della scuola tedesca, poi trapiantata negli Stati Uniti. Nessuno, certo, può mettere in discussione l’importanza determinante della vergleichende Musikwissenschaft e della cosiddetta ‘scuola berlinese’ nello sviluppo e nella definizione della etnomusicologia né l’autorità dei suoi fondatori [...], ma è altrettanto certo che la programmatica scelta ‘fuori d’Europa’ di questa scuola abbia determinato una distorsione nella ricerca e negli studi, provocato una frattura non ancora del tutto sanata con i folkloristi musicali, emarginato pur valide e importanti esperienze di ricerca e di studio condotte lungo linee diverse e con diversi presupposti culturali».

Ma va ricordato che la specificità della prospettiva dei ‘folkloristi’ europei, che nella seconda metà del Novecento ha avuto in Italia – sia sul piano del metodo sia su quello dell’ampiezza delle ricerche svolte – il suo terreno d’elezione, non poggia soltanto su esperienze di studiosi europei e sulla scorta delle correnti principali della tradizione di studi tedesco-americana, ma ha trovato riferimenti importanti in figure che, per vicende personali e orientamento o per la loro specializzazione, si collocano a margine dell’etnomusicologia nordamericana. L’enorme lavoro di ricerca di Alan Lomax (1915-2002) ha costituito, per Diego Carpitella, per Leydi e per l’etnomusicologia italiana tutta, un riferimento esplicito, perseguito ed esplorato a fondo nelle lunghe e insistite frequentazioni che Lomax ha intrattenuto con entrambi (tali incontri hanno conosciuto uno speciale approfondimento nella collaborazione tra lo studioso texano e Carpitella per una campagna di ricerca svolta in Italia negli anni 1954 e 1955; cfr. Lomax, 2008). L’attenzione di Lomax per le musiche di tradizione orale, come quella degli etnomusicologi italiani, scaturiva anche dalla volontà d’intervenire, attraverso il proprio lavoro di ricerca, sulla situazione sociale e politica del proprio Paese, con il dar voce a gente che per collocazione sociale è esclusa dai circuiti di cultura, dalla possibilità di raccontare sé stessa e di trovare, attraverso questo racconto, una posizione organica e non subalterna nel sistema di relazioni. Per ciò peraltro, autonomamente ma coerentemente, Leydi e Lomax con Pete Seeger (1919-2014) furono tra i primi e principali protagonisti, ciascuno nel proprio Paese, del movimento del folk revival e della divulgazione di musiche popolari attraverso i concerti, la radio, le pubblicazioni discografiche: nell’intento anche di farsi tramiti, e portavoce, di culture marginali e dimenticate dalla storia (Leydi stesso riferisce dell’esperienza italiana e del proprio ruolo, non senza far riferimento a Lomax e al folk revival americano e britannico, in Il folk music revival, 1972; cfr. anche il saggio di Diego Carpitella, Etnomusicologica: considerazioni sul folk revival, in Carpitella, 1992, pp. 52-64). A tal proposito Leydi scrisse nel saggio Le molte Italie e altre questioni di ricerca e studio (2000): «Il movimento del ‘folk revival’ del secondo dopoguerra ha le sue radici dichiarate nell’esperienza americana e britannica e fa esplicito riferimento alla ricerca e all’attività etnomusicologica, alle quale si appoggia. [...] Il primo periodo di questo movimento è esclusivamente settentrionale (e soprattutto milanese) ed è segnato da una doppia connotazione: la ricerca di una ripetizione fedele dei modi della tradizione (acquisita attraverso la ricerca ‘sul campo’ e il rapporto anche diretto con i cantori popolari) e il convincimento del valore alternativo della cultura contadina, pastorale e operaia. Di qui l’orientamento apertamente politico del movimento» (p. 15).

Idee e metodi

Leydi per primo – seguito in questo da altri etnomusicologi italiani – ha elaborato metodi d’indagine che coniugano le prospettive storiche con l’attenzione per il presente, volgendo l’attenzione alle relazioni tra livelli culturali e sistemi di tradizione del sapere diversi. Per farlo, ha raccolto e moltiplicato gli stimoli che in questa direzione provenivano dalle discipline contigue, elaborando un metodo d’indagine che ha portato l’etnomusicologia italiana, tra l’altro, a indagare i materiali orali in una prospettiva storica, illuminando così soprattutto le dinamiche di trasformazione della cultura in una società complessa. Di converso, ha suggerito alla musicologia storica, o ha praticato in prima persona, indagini su forme e repertori della tradizione scritta in chiave etnomusicologica: vale a dire con un’attenzione specifica per i meccanismi di tradizione ed elaborazione dei materiali (esemplare in tal senso, tra gli altri, il saggio sulla diffusione e volgarizzazione del melodramma nella Storia dell’opera italiana, 1988).

Gli studi etnomusicologici tendevano ad accettare supinamente la teoria – elaborata in ambito linguistico da Ferdinand de Saussure (1922) e applicata più ampiamente alle dinamiche culturali da Pëtr Bogatyrëv e Roman Jakobson (1929) – dell’articolazione della parole su una langue condivisa dall’intera comunità. Con lo studio sulle forme di trasmissione ed elaborazione della musica e dei suoi strumenti Roberto Leydi ha mutato notevolmente gli approcci e i punti di vista. Analizzando le dinamiche di trasformazione, elaborando metodi d’indagine che di tali dinamiche tengono conto, ha ricostruito la propria disciplina in termini affatto originali. Gli studi sulle tradizioni contadine e pastorali da una parte, e sui repertori urbani, sui ceti artigiani, sui mediatori professionali dall’altra hanno consentito di osservare che le modificazioni dei repertori di tradizione sono il risultato dell’azione di forze concomitanti e contrapposte: tendenza alla conservazione, resistenza al cambiamento e, di converso, proposta di cambiamento; quest’ultima messa in gioco soprattutto da quei gruppi sociali, da quegli agenti culturali che hanno il ruolo di ‘attraversare i confini’ sociali, geografici, politici, culturali.

Abituato a far ricerca a casa propria, a entrare in relazione con differenze evidenti e spesso grandi tra sé e i propri interlocutori, ma non così grandi e comunque diverse da quelle che separavano gli etnomusicologi di altri Paesi dalle popolazioni di cui si occupavano, contiguo almeno in parte a un movimento culturale che, da Antonio Gramsci a Carlo Levi a Ernesto De Martino, ha scoperto il mondo popolare sulla scorta di un’istanza in primo luogo politica e sociale, erede al tempo stesso della grande tradizione demologica positivista – e in questo la sua formazione di naturalista lo avvicinava ai medici, botanici, zoologi di fine Ottocento che hanno rimodellato i propri strumenti d’indagine e classificazione elaborati in ambito scientifico in maniera da poterli utilizzare per l’analisi dei fenomeni culturali –, Leydi ha osservato le tradizioni musicali in un’ottica, nuova e diversa, tipicamente italiana, seppure non nettamente disgiunta da quel che altrove la disciplina andava elaborando.

L’approccio di Leydi è assai attuale.  Pienamente inserito nel solco delle esperienze dell’antropologia e dell’etnomusicologia italiane, che egli ha contribuito in maniera determinante a tracciare, ha anticipato tendenze solo di recente abbracciate dall’etnomusicologia anglosassone: come quella della historical ethnomusicology (l’approccio che va sotto questo nome è stato introdotto in uno studio a proposito dei Falasha dell’Etiopia da Kay Kaufman Shelemay, 1980) che nel ricostruire i dati etnomusicologici tiene conto di tutto il contesto storico-culturale, non disdegnando la collaborazione con altre discipline, a cominciare dalla musicologia storica; come, ancora, l’interesse a concentrarsi sempre di più sull’esperienza degli attori della cultura popolare, gli interpreti dei repertori di tradizione orale, presente sia negli ultimi studi antropologici sia nei lavori più recenti dell’etnomusicologia (soprattutto le ricerche di Timothy Rice, compendiate in Rice, 1994). Testimonia lo specifico interesse di Leydi per le vicende biografiche dei protagonisti, dei grandi interpreti della musica di tradizione orale, la scelta di inserire in un importante volume sulla musica popolare italiana da lui curato (La musica popolare in Italia, 1990) i profili biografici di cantori, suonatori, costruttori di strumenti. In più parti di un saggio che costituisce forse la sintesi più compiuta del suo lavoro, L’altra musica (1991), Leydi sostiene l’importanza di osservare i fenomeni della musica popolare entro il quadro di riferimento storico e culturale in senso lato. E in questo Leydi si poté rifare più in generale a quegli studi etnologici italiani che ben possono vantare una primazia nell’aver saputo intersecare indagine storica e indagine etnografica (le premesse metodologiche e le prime concrete applicazioni stanno in primis nei lavori di Ernesto De Martino, fin dagli anni Cinquanta: cfr. soprattutto De Martino, 1958 e 1961).

L’enorme collezione privata di strumenti musicali, fogli volanti, cartelloni da cantastorie, stampe popolari e altri oggetti, libri, registrazioni sonore, più grande di qualsiasi raccolta pubblica italiana, fu per Roberto Leydi uno strumento di lavoro affatto peculiare: attingendo alla varietà dei materiali da lui raccolti, catalogandoli, variamente maneggiandoli e riflettendo su di essi, egli costruiva interpretazioni del mondo, modulava approcci diversi, inventava e contemporaneamente scopriva percorsi inediti, in gran parte ricavati per centonizzazione dalle cose che aveva in casa. Questo modo di utilizzare le collezioni come prolungamento di sé, come parte fondante del proprio modo di essere e di pensare, è da una parte profondamente colto, e rientra in una tradizione intellettuale che affonda le radici nelle grandi biblioteche e raccolte private dell’Umanesimo italiano; d’altra parte, utilizzando libri, dischi, nastri, oggetti secondo procedure modulari – un po’come il suonatore di zampogna che utilizza le formule del proprio repertorio – Leydi poteva penetrare i meccanismi della tradizione orale in maniera profonda: per comprendere fenomeni che hanno a che fare con modalità di trasmissione culturale essenzialmente orali, ha adottato strutture di comunicazione affini a quelle osservate. Approccio coerente con un segmento importante, ma mai pienamente valorizzato (forse proprio per la sua alterità rispetto agli accademismi) della cultura italiana; è, questo della prospettiva ‘emica’ – per dirla nel gergo della linguistica e dell’antropologia – ossia dell’adozione del punto di vista, del linguaggio, del sistema di pensiero dell’osservato, un filo che unisce esperienze per altro verso assai diverse, da Giovanni Verga a Carlo Levi, Ignazio Buttitta, Pier Paolo Pasolini, da Giuseppe Pitrè a Ernesto De Martino e Annabella Rossi, da Renato Guttuso a Ferdinando Scianna, da Roberto De Simone a Ettore Guatelli. In questo modo di Roberto Leydi di pensare alle cose, di lavorare con i materiali delle sue collezioni, risiede un contributo metodologico – sottaciuto ma nondimeno rilevantissimo – offerto alle discipline etnologiche, e pure a quelle storiche.

Oltre gli scritti già citati, si ricordano: Le origini popolari, in Enciclopedia del jazz, a cura di G.C. Testoni - A. Polillo - G. Barazzetta, Milano 1953, pp. 45-96; Eroi e fuorilegge nella ballata popolare americana, Milano 1958; Cantastorie, in La Piazza. Spettacoli popolari italiani, Milano 1959, pp. 275-389; Sarah Vaughan, Milano 1961; Italia vol. 1. I balli, gli strumenti, i canti religiosi. Antologia documentaria e critica ordinata e commentata da Roberto Leydi, libretto allegato al disco LP Albatros VPA 8082, 1970; Italia vol. 2. La canzone narrativa, lo spettacolo popolare. Antologia documentaria e critica ordinata e commentata da Roberto Leydi, libretto allegato al disco LP Albatros VPA 8088, 1970; Italia vol. 3. Il canto lirico e satirico, la polivocalità. Antologia documentaria e critica ordinata e commentata da Roberto Leydi, libretto allegato al disco LP Albatros VPA 8126, 1971; Il folk music revival, a cura di R. Leydi, Palermo 1972; I canti popolari italiani. 120 testi e musiche, Milano 1973 (con S. Mantovani - C. Pederiva); La canzone popolare, in Storia d’Italia, V, I documenti, Torino 1973, pp. 1183-1249; Spettacolo in piazza oggi: i cantastorie, in Il contributo dei giullari alla drammaturgia italiana delle origini, Atti del II Convegno di studio, Viterbo... 1977, Roma 1978, pp. 295-338; La zampogna in Europa, Como 1979; Monteverdi, il Tasso e il contastorie, in Quaderni della Civica Scuola di musica di Milano, 1981, n. 4-5, pp. 13-18; Musica popolare a Creta, Milano 1983; Strumenti musicali popolari in Sicilia. Con un saggio sulle zampogne, Palermo 1983, passim (con F. Guizzi); Le zampogne in Italia, I, Milano 1985 (con F. Guizzi); Ricordare Diego, in Culture musicali, VIII (1989), 15-16, pp. 7 s.; La musica popolare in Italia, a cura di R. Leydi, Milano 1990; L’altra musica. Etnomusicologia. Come abbiamo incontrato e creduto di conoscere le musiche delle tradizioni popolari ed etniche, Milano-Firenze 1991 (nuova ed. Milano-Lucca 2008); Avec et sans papier per le strade del mondo, in Africa e Mediterraneo, 2000, n. 31-32, pp. 5-13; Guida alla musica popolare in Italia, 1, Forme e strutture, a cura di R. Leydi, Lucca 2000 (in partic. R. Leydi, Le molte Italie e altre questioni di ricerca e studio, pp. 1-40); L’influenza turco-ottomana e zingara nella musica dei Balcani, a cura di N. Staiti - N. Scaldaferri, Udine-Bellinzona-Bologna 2004, con 2 CD. Ha curato anche Canté bergera. La ballata piemontese dal repertorio di Teresa Viarengo, Vigevano 1995, e Canzoni popolari del Piemonte. La raccolta inedita di Leone Sinigaglia, Vigevano 1998.

Fonti e Bibliografia

F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Paris 1922, passim (trad. it. Corso di linguistica generale, Bari 1972); P. Bogatyrëv - R. Jakobson, Die Folklore als eine besondere Form des Schaffens, in Donum Natalicium Schrijnen, a cura di S.W.J. Teeuwen, Utrecht-Nijmegen 1929, pp. 900-913 (trad. it. Il folklore come strumento di creazione autonoma, in Strumenti critici, I (1967), pp. 223-240); E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino 1958, passim; E. De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Milano 1961, passim; K. Kaufman Shelemay, Historical ethnomusicology: reconstructing Falasha liturgical history, in Ethnomusicology, XXIV (1980), pp. 233-251; Diffusione e volgarizzazione, in Storia dell’opera italiana, VI, a cura di L. Bianconi - G. Pestelli, Torino 1988, pp. 303-392; D. Carpitella, Conversazioni sulla musica (1955-1990). Lezioni, conferenze, trasmissioni radiofoniche, Firenze 1992, passim; T. Rice, May it fill your soul: experiencing Bulgarian music, Chicago 1994, passim; A.I. De Benedictis - V. Rizzardi, Nuova musica alla Radio. Esperienze allo Studio di fonologia della RAI di Milano 1954-1959, Roma 2000, ad ind.; N. Scaldaferri, Folk songs de Luciano Berio: éléments de recherche sur la genèse de l’œuvre, in Analyse musicale, 2001, n. 40, pp. 42-54 ; N. Staiti, Ricordo di R. L., in Il Saggiatore musicale, XII (2005), pp. 435-440; A. Lomax, L’anno più felice della mia vita. Un viaggio in Italia (1954-1955), a cura di G. Plastino, Milano 2008, passim; N. Scaldaferri, Lo Studio di fonologia musicale della RAI nella Milano del dopoguerra, in Milano, laboratorio musicale del Novecento. Scritti per Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Milano 2009, pp. 267-275.

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