Longhi, Roberto

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Storia e Politica (2013)

Roberto Longhi

Tomaso Montanari

Roberto Longhi è stato il più importante storico dell’arte e uno dei principali scrittori del Novecento italiano. Le sue ricerche, il suo insegnamento e il suo pensiero non sono solo di estremo rilievo in sé, ma lo sono altresì perché la sua scuola ha rappresentato, e ancora rappresenta, la migliore e più influente componente della storia dell’arte italiana. Longhi ha riunito in sé, in modo esemplare e al massimo livello qualitativo, tre aspetti fondamentali del lavoro dello storico dell’arte, dopo di lui quasi sempre scisse: la capacità di leggere la lingua formale del figurativo, e dunque di ordinare le opere attraverso lo strumento dell’attribuzione; la capacità di collegare la serie figurativa alle altre serie storiche (da quella relativa alla letteratura a quelle politica, economica, religiosa e latamente sociale), ritessendo la storia dell’arte come una parte della storia della cultura; la capacità di intervenire con forza, anticonformismo e lucidità nel dibattito pubblico sulla tutela del patrimonio artistico e, più in generale, sulla politica della cultura.

La vita

Roberto Longhi nacque ad Alba il 28 dicembre 1890, da due maestri elementari originari della provincia di Modena. Condotti gli studi scolastici tra Alba e Torino, si iscrisse all’università in quest’ultima città. Fu qui che incontrò la storia dell’arte, attraverso l’insegnamento di Pietro Toesca (1877-1962), allievo di Adolfo Venturi e tra i primissimi titolari di una cattedra universitaria della disciplina. La visita alla Biennale di Venezia del 1910 (dove spiccavano una personale di Pierre-Auguste Renoir e una retrospettiva di Gustave Courbet) indussero Longhi ad abbandonare l’idea di laurearsi sui castelli del Monferrato e a scegliere invece di indagare sul padre dell’arte moderna, l’allora assai oscuro Caravaggio.

Dal 1912 Longhi frequentò a Roma la Scuola di specializzazione in storia dell’arte diretta da Venturi, e poi cominciò a insegnare al liceo e a collaborare intensamente a diversi periodici. Finita la Prima guerra mondiale, Longhi intraprese – quasi un novello Giovanni Battista Cavalcaselle (1819-1897) – un lungo e fondamentale viaggio in Europa al seguito del collezionista Alessandro Contini Bonacossi. Dal 1922 esercitò la libera docenza all’Università di Roma, e nel 1924 sposò l’allieva Lucia Lopresti (1895-1985), poi nota con il nome letterario di Anna Banti.

Nel 1934 Longhi vinse il concorso per la cattedra bolognese di storia dell’arte, che occupò fino al suo trasferimento a Firenze, nel 1949. Tra i suoi allievi bolognesi si devono ricordare almeno Francesco Arcangeli, Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, e poi Mina Gregori e Carlo Volpe.

Insegnò quindi a Firenze fino alla pensione, nel 1966. Al 1950 risale la fondazione di «Paragone», per almeno due decenni la più importante rivista italiana di storia dell’arte. Del 1951 è la più popolare e influente delle mostre ideate e realizzate da Longhi, quella su Caravaggio e i caravaggeschi. Longhi morì a Firenze il 3 giugno del 1970.

Gli inizi fino agli anni Venti: il ‘primo’ e il ‘secondo’ Longhi

La tesi di laurea su Caravaggio (basata su un viaggio che condusse Longhi a vedere direttamente, fino in Sicilia, le principali opere allora note dell’artista) contiene già gli aspetti principali della personalità intellettuale del giovane Longhi: l’apertura verso l’idealismo crociano, un’analisi della forma che declinava le suggestioni di Bernard Berenson in senso futurista, ma anche (a dispetto del resto, e di certi atteggiamenti del giovane studioso) una salda impostazione storica di stampo venturiano-toeschiano.

Il Caravaggio del giovanissimo Longhi non è il realista raccontato dalle fonti secentesche, ma è un formalista moderno, padre delle avanguardie contemporanee, il «creatore di una nuova plasticità ottenuta con l’ausilio della luce», e, commenta Giovanni Previtali, «non c’era da attendersi di meno dall’avanguardista che, in quegli stessi mesi tra il 1913 e il 1914 stava dando alle stampe, per i tipi della Voce, i saggi su I pittori futuristi e La scultura futurista di Boccioni» (Introduzione a R. Longhi, Caravaggio, 1988, p. 11). Il risultato più evidente dell’entusiasmo per la teoria dell’arte come pura visibilità, che Longhi conosceva attraverso i testi di Konrad Fiedler e di Adolf von Hildebrand, fu il saggio del 1913, significativo fin dal titolo, su Mattia Preti (critica figurativa pura). È importante notare che, nonostante il suo irridente rifiuto dello storicismo positivista, quel saggio avanguardista è a tutt’oggi assai utile per comprendere storicamente lo stile di Mattia Preti.

Lo stesso indirizzo formalista e purovisibilista caratterizzò i corsi tenuti da Longhi nei licei romani Torquato Tasso ed Ennio Quirino Visconti, le cui lezioni formarono la Breve ma veridica storia della pittura italiana, edita, postuma, nel 1980. Contemporaneamente Longhi pubblicava, in una serie folgorante di saggi apparsi a cavallo della Prima guerra mondiale, i risultati delle sue verifiche filologiche sull’opera dei maestri che si confondevano con Caravaggio, e che iniziarono così a recuperare la loro fisionomia esatta: da Orazio Borgianni a Battistello Caracciolo, da Orazio e Artemisia Gentileschi a Carlo Saraceni.

In questi anni, la sua indole antisistematica lo condusse a confrontarsi da vicino con l’ortodossia (poi anche rifiutandola) di alcuni dei principali punti di riferimento intellettuale del suo tempo. Nel 1912 si presenta al mostro sacro Berenson come «un giovine studioso d’arte e d’estetica» desideroso di riunirne l’opera traducendolo in italiano. Già l’anno successivo, però, il traduttore si trasforma in un severo critico che scrive a Emilio Cecchi come il sistema teorico di Berenson «andrebbe rifatto». In capo a un lustro, il rapporto tra i due naufragherà irreparabilmente. Quanto a Benedetto Croce, perfetto correttivo del positivismo di Venturi, l’adesione all’Estetica viene temperata assai per tempo da distinguo e critiche. È questo, secondo una partizione critica messa a fuoco da Cecchi (il primo critico del Longhi scrittore), e svolta poi da Gianfranco Contini

il “primo” Longhi, quello vociano, fiancheggiatore del futurismo, bigamo tra libertà illimitata nella critica militante e necessità espositive, non dirò certo accademiche, nella contemporanea produzione scientifica collega i due versanti una propensione al formalismo intellettuale (G. Contini, Roberto Longhi, discorso commemorativo pronunciato nell’Accademia dei Lincei, 1973, pp. 16-17).

Il secondo Longhi, invece, è quello degli anni Venti, in cui il sostrato dannunziano riguadagna terreno rispetto alle abbreviature futuriste e vociane: «il “secondo” Longhi è quello di stremata eleganza più generalmente noto, culminante nel Piero della Francesca e in Officina ferrarese» (G. Contini, Roberto Longhi, cit.). E se la periodizzazione continiana si riferisce al Longhi scrittore, essa vale anche per segnare l’evoluzione intellettuale del nostro autore. Che, soprattutto in seguito al fondamentale, lungo viaggio in Europa del 1920-22, dedica un’attenzione ancora maggiore alla specificità del singolo fatto figurativo (liberandosi dai condizionamenti ideologici degli anni precedenti) e alla ricerca del suo perfetto equivalente verbale. Una prospettiva, questa, che lo porta a scontrarsi con gli autorevoli guardiani della retorica nazionale, da Ugo Ojetti a Giuseppe Fiocco. Questo inedito, e potentissimo, connubio tra esattezza filologica e supremo nitore letterario sfocia da una parte nelle ricognizioni delle Precisioni nelle gallerie italiane (1926-1928), dall’altra nel respiro del Piero della Francesca (1927), capolavoro critico e letterario che traspone nella nuova dimensione longhiana il Piero dei Franceschi del 1914 e che, soprattutto, traduce l’arte di Piero «nella lingua del Flaubert di Salammbo» (così André Chastel, Roberto Longhi, il genio dell’‘ekphrasis’, in L’arte di scrivere sull’arte, 1982, p. 60).

Di questi anni appare prodigiosa la vastità del campo che, pur autolimitandosi sostanzialmente alla pittura (con ciò segnando la sfortuna relativa della scultura nella storiografia italiana del Novecento), riesce a coprire fatti remotissimi per epoca e per cultura artistica. A titolo di esempio basti rammentare che in quel 1927 in cui esce il monumentale Piero della Francesca, Longhi riesce a pubblicare opere capitali su Velázquez, Gaspare Traversi e sul rarissimo e cruciale Rubens italiano, per non dire del saggio, memorabile per gli studi secenteschi, su Ter Brugghen e la parte nostra.

Gli anni Trenta e il ‘terzo’ Longhi

Gli anni Trenta vedono Longhi sempre più concentrato sulla storia dell’arte emiliana. È dalla reazione alla mostra del 1932 sulla pittura ferrarese rinascimentale che nasce l’Officina ferrarese (1934), altro purissimo capolavoro tanto letterario quanto storico-artistico. Un testo che consacra l’allergia di Longhi verso il Rinascimento fiorentino (forse troppo radicato nell’arte guida della scultura) e lo spinge verso il ‘Rinascimento umbratile’ delle periferie geografiche e storiche, alla ricerca di un’altra periodizzazione storica, con il gusto di rovesciare luoghi comuni storiografici attraverso l’aderenza alle singole opere e attraverso la restituzione del loro clima culturale.

Sull’onda dell’Officina, Longhi approda nel 1934 all’insegnamento universitario, e lo fa a Bologna. Questo snodo fondamentale getta le basi dell’enorme influsso che Longhi eserciterà sulla cultura italiana: ma non tanto per l’autorevolezza accademica (che ormai non poteva far crescere quella personale, già altissima), quanto perché il rapporto diretto con gli allievi trasformò lo studioso in un «instancabile seduttore intellettuale […] che ha lasciato alle sue spalle una scuola, innumerevoli discepoli» (così Cesare Garboli, prefazione a B. Berenson, R. Longhi, Lettere e scartafacci 1912-1957, 1993, p. 55).

La prolusione bolognese del 1934 (uscita nel 1935 con il titolo Momenti della pittura bolognese), oltre a sviluppare temi liminari già tipicamente suoi, spinse Longhi a non trascurare un nodo solare e ufficiale, e dunque a lui altrimenti poco congeniale, come la riforma di Annibale Carracci. E le parole e le idee con le quali Longhi sciolse storicamente quel nodo non potevano essere più penetranti, rifondando di fatto anche gli studi sull’altra metà del Seicento pittorico italiano, quello non caravaggesco:

Qui, insomma, io avverto che è il segreto dei Carracci: in questa epopea, in questo romanzo storico, immaginato sulla grande pittura precedente, la quale viene riassunta non già come obbligazione metodica, ma come costume insostituibile, quasi come soggetto di grado piú profondo per la propria pittura nuova e diversa, di affettuoso timbro lombardo. Ecco l’errore di voler sceverare e spuntare, ecletticamente, i frammenti di Tiziano, di Raffaello, di Correggio, di Michelangelo e dell’antico, nelle opere dei Carracci: mentre è l’antica, ormai olimpica, cultura italiana che fusa e impastata come costume civile, latino e italico, transita, rivive, si atteggia nella tenera illusiva moderna epidermide dei Carracci (Momenti della pittura bolognese, cit., p. 200).

La formula del ‘romanzo storico’ e lo stesso passo letterario di questo brano fanno già presentire il Longhi più maturo, quello che toccherà l’apice nelle Proposte per una critica d’arte di sedici anni dopo. Questa linea evolutiva conosce una svolta importante con i Fatti di Masolino e di Masaccio del 1940, la cui narrazione durante il corso bolognese folgora Pasolini, segnando il passaggio al «“terzo” Longhi, quel sublimatore affabile del quotidiano che ha press’a poco inizio coi Fatti di Masolino e di Masaccio e di cui si celebra, perlomeno dai molti che non hanno potuto leggere il raro Correggio, soprattutto il Viatico per cinque secoli di pittura veneziana e, per chi sia disposto a saltare al ‘romanzo storico’, il prosciugatissimo Caravaggio» (ancora Contini, Roberto Longhi, discorso commemorativo pronunciato nell’Accademia dei Lincei, cit., p. 17). E, ancora una volta, non si tratta di una periodizzazione solo stilistica: «nell’insieme il “terzo” Longhi è inscindibile dal celebratore della pittura della realtà (di cui curò una magistrale esposizione per la Lombardia), ottica della verità che ha i suoi punti di forza da Caravaggio (anzi dai suoi predecessori lombardi) all’impressionismo, e altri ne ha in Masaccio e in Piero – con che si nominano alcuni oggetti capitali della riflessione longhiana» (p. 17).

Gli anni Quaranta

Con il 1940 prende vigore anche il filone forse più sottovalutato della produzione longhiana, quello degli interventi civili: testi non sorprendenti, da parte di chi aveva seguito a Torino «clandestinamente, fra i corsi di diritto, le lezioni sfaccettate in una logica adamantina di Luigi Einaudi», e aveva diviso l’appartamento studentesco con Ferruccio Parri. A quell’anno risale un intervento purtroppo profetico, Arte figurativa, carne da cannone: dove la metafora del titolo sarà presto avverata dai disastri della guerra. Obiettivo del saggio era denunciare lo statuto ancillare della storia dell’arte negli ordinamenti scolastici e nell’editoria italiana di allora: folgorante, ancora per i lettori d’oggi, l’inizio:

Quando i pochi storici dell’arte consci del proprio scopo si rivoltano nel letto dello scontento per la minima presa che i loro studi sembrano avere persino sul pubblico di più che mezzana cultura, e si arrovellano sui possibili rimedi, il pensiero ricorre subito alla posizione subalterna che l’insegnamento della storia dell’arte ha fin dalle scuole medie e che poi si riproduce, inevitabilmente, anche negli studi superiori (Arte figurativa, carne da cannone, cit., p. 179).

Per Longhi sarà, da allora in poi, chiarissimo il nesso tra ricerca storico-artistica, insegnamento scolastico della storia dell’arte, tutela del patrimonio: un nodo ancora oggi del tutto irrisolto.

Nel dicembre del 1944, a guerra ormai compiuta Longhi scriveva al suo più caro allievo, Giuliano Briganti:

il primo bombardamento di Genova dovrebbe risolversi in un interminabile esame di coscienza per noi storici dell’arte. Anche noi, gli anziani soprattutto, siamo responsabili di tante ferite al torso dell’arte italiana, almeno per non aver lavorato più duramente, e per non aver detto e propalato in tempo quanti e quali valori si trattava di proteggere. Anche se il desiderio era di lavorare per molti, di esser popolari (e tu ricorderai che il mio proposito era quello di arrivare un giorno a scrivere per disteso il racconto dell’arte italiana a centomila copie per l’editore Salani) si è lavorato per pochi, e anche voi giovani siete sempre in pochi, direi anzi che andate diradandovi: proprio oggi che ci bisognereste a squadroni. Di qui, del resto, si risale ad altre vecchie carenze della nostra cultura: la storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva (se vuole avere coscienza intera della propria nazione): serva, invece, e cenerentola dalle classi medie all’università; dalle stesse persone colte considerata come un bell’ornamento, un sovrappiù, un finaletto, un colophon, un cul-de-lampe di una informazione elegante (in Opere complete, 13° vol., 1985, p. 129).

Pochi mesi dopo aver scritto questa lettera, Longhi riprese i corsi sulla sua cattedra bolognese. Come nota opportunamente Simone Facchinetti (2005), qui fu accolto dalla voce dell’allievo Francesco Arcangeli (1915-1974), che nel 1945 disse:

I giovani della mia generazione hanno avuto, indubbiamente, dei maestri. Ma quanti di questi hanno tradito, o si sono compromessi, o stancati! Gli uomini sulle cui parole avevamo giurato rivelarono poi incrinature fatali tra le qualità critiche o creative e quelle più largamente umane della coscienza. Alcuni si salvarono nel silenzio. Longhi fu tra i rarissimi che continuarono a parlare senza venir meno alla loro dignità (cit. in Facchinetti 2005, p. 674).

Gli anni della maturità

Il testo che segna il culmine della maturità di Longhi ormai professore a Firenze – e che rimane come un testamento scientifico, letterario e morale insuperato – è quello delle Proposte per una critica d’arte, che nel 1950 inaugura l’esperienza di «Paragone Arte».

Quella insuperata dichiarazione di intenti si apre con il rigetto della storia della critica così come era stata concepita da Lionello Venturi, dove «si è pensato di far consistere il compito principale nella dichiarazione e, talvolta, ammetto, nella confutazione di quella parte delle dottrine filosofiche che d’epoca in epoca avrebbe, per dir così, autorizzato il relativo giudizio critico sull’opera d’arte». «C’è però da domandarsi – continuava Longhi – se, per questa strada, la migliore critica abbia ad incontrarsi spesso» (p. 9). La via alternativa, quella additata e prima lungamente percorsa dal Longhi, è piuttosto la «storia delle evasioni, riuscite o no, dalle chiuse dottrinali». Per tracciare una simile storia, Longhi invita a rompere i confini della letteratura artistica consacrata come tale, indagando a tutto campo, dall’antichità al contemporaneo. Ne scaturisce una storia della comprensione e della restituzione verbale del figurativo sorprendente per le inclusioni entusiastiche e per le esclusioni clamorose. Tra queste ultime quella di Francesco Petrarca (figura di tanti, perfino storici dell’arte moderna, ciechi al figurativo) è indimenticabile:

Le ‘carte’ del ritratto di Laura dipinto da Simone non ridono né piangono (né danzano al rallentatore, come ci aspetteremmo); restano mute per il grande poeta, che non intendeva quella lingua e non gliene vogliamo far carico. Anche la citazione della Madonna di Giotto che aveva in casa, non mostra che deferenza per sentito dire, e si ammanta di retorica antica, inefficiente (p. 11).

Questa longhiana storia della critica non coincide per forza con la storia della letteratura artistica fino ad allora, e anche dopo, consacrata. E ai punti di accordo con la tradizione («nell’antologia avrà un bel posto il Vasari») si alternano posizioni eterodosse e addirittura dissacranti, come quelle enunciate nel passo (illuminante, per quanto oggi non certo in tutto condivisibile) relativo all’età barocca, pulsante di una coscienza politica nuova che dà un nuovo senso al realismo in arte:

Venuti al Seicento e a veder che strazio maggiore qui si faccia della verità, verrebbe voglia di rovesciare il tavolo e parlare addirittura dalla parte del cuore che sta a sinistra. Così! Il Bellori, il Félibien e i loro adepti, gli uomini che hanno oppresso e spregiato tutti i grandi rivoluzionari fondatori della pittura moderna, Caravaggio, Rembrandt, Velázquez e, poco manca, anche Rubens, Bernini, Cortona, Borromini, son questi su cui ha da fondarsi la storia della buona critica? Perché hanno principi? Gran principi i sacchi sfiatati della vecchia idea platonica ora alleatasi al razionalismo cartesiano, i pregi del decoro, dell’invenzione che porta alla pittura a programma letterario, della composizione in astratto e simili […] La critica di costoro […] è anzi già per esteso tutto il programma del neoclassicismo. E così, dove cercare? Fra i collezionisti e mercanti di Caravaggio, di Rembrandt e Velázquez? Anche lì, certamente. Nel gesto di Rubens che libera i frati della Scala dal grave incomodo della Morte della Vergine del Caravaggio c’è più di buona critica che in tutto il Bellori (pp. 13-14).

Alle scomuniche e alle esaltazioni s’intreccia una vera e propria antologia critica, che mostra come Longhi costruisse questa storia come il commento a una scelta di brani particolarmente capaci di restituire i valori autentici del figurativo. Ma Longhi non si accontenta di un florilegio pur illuminante di passi, né di articolare (come vorrebbe il titolo) proposte per una critica d’arte. In quelle righe del 1950, invece, sta tutta intera la fondazione di una nuova storia dell’arte che ancora oggi appare attualissima, quanto rara. Il fondamento di questa storiografia nuova è solo apparentemente contraddittorio: ed è la consapevolezza dell’irriducibilità del figurativo a valori a esso esterni, e contemporaneamente la consapevolezza della necessità di rapportarlo e connetterlo a una storia della cultura complessa e completa:

È dunque il senso dell’apertura di rapporto che dà necessità alla risposta critica. Risposta che non in-

volge solo il nesso tra opera e opere, ma tra opera e mondo, socialità, economia, religione, politica e quant’altro occorra […] Tutto perciò si può cercare in essa [sc. nell’opera] purché sia l’opera ad avvertirci che bisogna ancora trovarlo, perché ancora qualcosa manca al suo pieno intendimento (p. 18).

E – lezione cruciale per chi oggi preleva i singoli cosiddetti capolavori per impreziosire manifestazioni che nulla con essi hanno a che fare – Longhi distrugge alla radice il mito del capolavoro ‘assoluto’, cioè sciolto da ogni relazione:

L’opera d’arte, dal vaso dell’artigiano greco alla Volta Sistina è sempre un capolavoro squisitamente ‘relativo’. L’opera non sta mai sola, è sempre un rapporto. Per cominciare: almeno un rapporto con un’altra opera d’arte. Un’opera sola al mondo non sarebbe neppure intesa come produzione umana, ma guardata con riverenza o con orrore, come magia, come tabu, come opera di Dio o dello stregone, non dell’uomo. E s’è già troppo sofferto del mito degli artisti divini e divinissimi, invece che semplicemente umani (p. 17).

Infine, Longhi propone un modello storiografico-letterario:

Sta dunque il fatto che chi si cimenti nella restituzione del tempo di questa o quella opera d’arte, vicina o remota che sia, trova alla fine che il metodo per ricomporre la indicibile molteplicità degli accenni più portanti non è né potrebbe essere in essenza diverso da quello, anch’esso critico, del romanzo storico […] l’impegno assunto dal Manzoni nel 1822: “Io faccio quello che posso per penetrarmi nello spirito del tempo che debbo scrivere, per vivere in esso”, è buono anche per noi […] Questi i pregi di una critica d’arte che voglia de ipso iure convertirsi in istoria (p. 19).

Non si era poi molto lontani dai mezzi e dai fini dello storico ideale come l’aveva voluto poco prima Marc Bloch: lo storico che, «come l’orco della favola, fiuta la carne viva». Un’idea di storia totale che di fatto riprendeva la tradizione ottocentesca francese per cui «la storia è resurrezione» (Jules Michelet), e per cui «la storia è pressappoco vedere gli uomini di una volta» (Hyppolite Taine).

Solo una piccola minoranza degli innumerevoli allievi e seguaci di Longhi poté comprendere, e soprattutto seguire e sviluppare, questa evidente sintonia del maestro con i contenuti più importanti della storia delle «Annales», e forse nessuno è poi riuscito a tenere insieme questa densità e precisione di narrazione storica con l’acuminata, maniacale restituzione verbale dei valori figurativi in gioco.

Ma, a distanza di oltre quarant’anni dalla morte di Longhi, l’impervia via additata dalle Proposte per una critica d’arte appare ancora la più bruciantemente attuale per costruire una storia dell’arte in cui ognuna delle parole che ne compongono il nome sia pienamente onorata e la cui narrazione sia accessibile a una platea di cittadini che siano così messi in grado di intendere la lingua figurativa, e abbiano dunque qualche ragione di conservarne e proteggerne i testi.

Opere

La sterminata opera di Longhi è accessibile attraverso G. Contini, Cronologia e Nota bibliografica generale, in R. Longhi, Da Cimabue a Morandi. Saggi di storia della pittura italiana scelti e ordinati da Gianfranco Contini, Milano 1973, pp. LXXXIII-LXXXVIII, 1119-1133, e attraverso le oltre sessanta pagine della fitta Bibliografia curata da Antonio Boschetto e pubblicata a Firenze nel 1973.

I testi sono ora tutti ripubblicati nei quattordici volumi delle Opere complete pubblicati da Sansoni tra il 1956 e il 2000. Nel 1995 è uscito un ulteriore volume, Il Palazzo non finito, che riunisce scritti inediti della giovinezza (1910-1926).

La Fondazione Longhi, che ha sede nella casa di Longhi a Firenze, conserva (oltre alla collezione d’arte dello studioso) la fototeca, la biblioteca e numerosi manoscritti. Altri manoscritti longhiani sono nel Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori contemporanei dell’Università di Pavia.

Il carteggio è pubblicato solo in piccola parte (per es., quello con Giuseppe Prezzolini, o con Rodolfo Pallucchini o con Bernard Berenson). In particolare si vedano:

G. Prezzolini, …Questa libertà non è un capriccio (Lettere a Roberto Longhi), a cura di F. Grisi, L. Gemini, Roma 1982, pp. 18-23.

F. Bellini, Lettere di Roberto Longhi a Bernard Berenson, «Prospettiva», 1989-1990, 57-60, pp. 457-67.

B. Berenson, R. Longhi, Lettere e scartafacci 1912-1957, a cura di C. Garboli, C. Montagnani, Milano 1993.

M.C. Bandera, Il carteggio Longhi-Pallucchini. Le prime Biennali del dopoguerra 1948-1956, Milano 1999.

R. Longhi, G. Prezzolini, Lettere 1909-1927, a cura di M.C. Bandera, E. Fadda, Parma 2011.

Bibliografia

G. Previtali, Ritratti critici di contemporanei, R. L., «Belfagor», 1981, 2, pp. 159-86.

L’arte di scrivere sull’arte. Roberto Longhi nella cultura del nostro tempo, a cura di G. Previtali, Roma 1982.

G. Agosti, Una postilla su Roberto Longhi al concorso bolognese del 1934, in L’Accademia di Bologna. Figure del Novecento, a cura di A. Baccilieri, S. Evangelisti, catalogo della mostra, Bologna 1988, pp. 251-53.

G. Agosti, Primi cenni sul fondo di Roberto Longhi: l’inventario della sezione epistolare, «Autografo», 1992, 26, pp. 87-100.

M. Lipparini, L’insegnamento di Roberto Longhi a Bologna, in Aspetti della cultura emiliano-romagnola nel ventennio fascista, a cura di A. Battistini, Milano 1992, pp. 61-80.

Questione di ‘logica degli occhi’: 5 lettere di Lionello Venturi a Roberto Longhi (1913-1915), a cura di G. Agosti, «Autografo», 1992, 26, pp. 73-84.

Proporzioni. Scritti e lettere di Alberto Graziani, 2° vol., Le lettere (1934-1943), a cura di T. Graziani Longhi, Bologna 1993, passim.

G. Agosti, Altri materiali sulla giovinezza di Roberto Longhi: qualche esempio e alcune prospettive di lavoro, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Quaderni», s. IV, 1996, 1-2, pp. 475-84.

G. Agosti, La nascita della storia dell’arte in Italia. Adolfo Venturi: dal museo all’università, 1880-1940, Venezia 1996, passim.

G. Agosti, Una lettera di Longhi a Prezzolini nel gennaio 1914, in Ad Alessandro Conti (1946-1994), a cura di F. Caglioti, M. Fileti Mazza, U. Parrini, Pisa 1996, pp. 283-94.

S. Geiser Foglia, R. Marinoni, “Una luce di incomparabile intelligenza…”. Il carteggio Bianconi Longhi, «Archivio storico ticinese», 1997, 121, pp. 25-68.

F. Frangi, Diario di viaggio di Roberto Longhi, in Tesori ritrovati. Dai gioielli degli Assiri ai segreti di Paolina…, a cura di M. Carminati, Milano 2000, pp. 275-85.

T. Montanari, Ultimi incontri con Francis Haskell alla Scuola Normale di Pisa, «Saggi e memorie di storia dell’arte», 2001, 25, 345-49.

S. Facchinetti, Longhi Roberto, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 65° vol., Roma 2005, ad vocem.

M. Migliorini, Roberto Longhi editorialista: il caso di Paragone arte, in Percorsi di critica. Un archivio per le riviste d’arte in Italia dell’Ottocento e del Novecento, Atti del Convegno, Milano 2006, a cura di R. Cioffi, A. Rovetta, Milano 2007, pp. 473-88.

S. Facchinetti, Dati e date sul rapporto Adolfo Venturi-Roberto Longhi, in Adolfo Venturi e la storia dell’arte oggi, Atti del Convegno, Roma 2006, a cura di M. D’Onofrio, Modena 2008, pp. 101-106.

A. Uccelli, Due film, la filologia e un cane. Sui documentari di Roberto Longhi e Umberto Barbaro, «Prospettiva», 2008, 129, pp. 2-40.

A. Beyer, Aby Warburg e Roberto Longhi, in Aby Warburg e la cultura italiana, a cura di C. Cieri, M. Forti, Milano 2009, pp. 41-50.

L. Lorizzo, Roberto Longhi ‘romano’ (1912-14), «Storia dell’arte», 2010, 25-26, pp. 183-208.

Approfondimento
L’eredità di Longhi e l’altra scuola di Lionello Venturi
Tomaso Montanari

«È difficile ignorare che si configurò allora (dagli anni ’50 in poi), nel campo dei nostri studi, lo schieramento di due parti avverse che si estese, dal campo specifico della storia dell’arte, all’università e di conseguenza ai concorsi universitari, all’editoria, alle rubriche dei giornali e delle riviste, ai rapporti con l’arte contemporanea. Da una parte Lionello Venturi, dall’altra Roberto Longhi» («la Repubblica», 13 novembre 1992). In queste franche parole del più caro allievo di Longhi, Giuliano Briganti (1918-1992), è fotografata l’insanabile frattura che oppose Longhi al figlio del suo maestro Adolfo Venturi (1856-1941). Questa opposizione ha condizionato – e condiziona ancora oggi, attraverso i suoi esiti diretti – la geografia intellettuale e accademica della storia dell’arte italiana.

La scuola romana di storia dell’arte, guidata dalla linea che lega Lionello Venturi (1885-1961), Giulio Carlo Argan (1909-1992), Maurizio Calvesi (n. 1927), ha programmaticamente trascurato non solo l’analisi della forma e la filologia del figurativo, ma ha anche rinunciato al metodo storico propriamente detto, optando per un’ermeneutica del figurativo assai sbilanciata in senso filosofico, e coltivando un’iconologia dagli esiti spesso discutibili.

L’eredità di Longhi, d’altra parte, era forse troppo complessa per essere accettata nella sua articolazione. Così essa è stata spesso ridotta (per es., dalla tradizione accademica longhiana fiorentina) alla pratica dell’attribuzione (impropriamente elevata da insostituibile strumento storico, a fine autonomo in se stessa), perdendo così la profondità e l’aderenza alla storia che era invece enunciata come un programma dalle Proposte per una critica d’arte. Inversamente, proprio questa saldissima articolazione storica è stata profondamente intesa da allievi diretti di Longhi (come Enrico Castelnuovo, n. 1929) o indiretti (Paola Barocchi, n. 1927), i quali però non hanno né coltivato né trasmesso la pratica della filologia figurativa del maestro. Se non sono mancate figure di mediazione scalate a diverse distanze da questi due poli (da Briganti a Luciano Bellosi), è stato invece Giovanni Previtali (1934-1988) l’allievo più capace di tenere insieme e sviluppare questi due inseparabili facce della medaglia longhiana: e non per caso è stato proprio Previtali l’unico capace di coltivare anche la terza, fondamentale dimensione dell’impegno civile a favore del patrimonio e della sua dimensione ‘politica’, nel senso più lato.

Altri poli accademici per così dire autarchici – si pensi alla scuola pisana di Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987), a quella di Cesare Brandi (1906-1988) o alla tradizionalmente autonoma Venezia – si sono di volta in volta confrontati o scontrati con Longhi e con il suo magistero.

Se si eccettua la Francia (nella quale, però, l’influenza longhiana si spegne anno dopo anno), la risonanza della lezione di Longhi fuori dalla cultura italiana è stata straordinariamente modesta: la difficoltà della scrittura longhiana (inseparabile dal contenuto storico-critico che veicola) ha infatti rappresentato un ostacolo insormontabile per la ricezione fuori d’Italia, e soprattutto nella storia dell’arte anglosassone. E lo scarso rilievo internazionale del pensiero e dell’opera di Longhi è forse una concausa non secondaria della partecipazione della storia dell’arte internazionale di oggi alla deriva a-storica e para-antropologica di una parte consistente degli studi umanistici.


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