ARCOS, Rodrigo Ponce de León duca d'

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 4 (1962)

ARCOS, Rodrigo Ponce de León duca d'

Gaspare De Caro

Nato nel 1602, fu IV duca d'Arcos, marchese di Zahara, conte di Bialen e Casares, signore di Marqueña e Carzia. Nominato viceré del Regno di Valenza, esercitò la carica con tanto zelo e severità che, quando la corte, sul finire del 1645, decise di esonerare dall'incarico di vicerè di Napoli l'ammiraglio di Castiglia Giovanni Alfonso Enriquez, che si era dichiarato incapace di sostenere la pesante politica fiscale voluta nel Regno dal governo di Filippo IV, l'A. fu prescelto per la difficile successione. Egli l'11 febbr. 1646 prese possesso della carica, ma ebbe subito modo di rendersi conto che non a torto il suo predecessore si era opposto alle indiscriminate tassazioni pretese da Madrid: il Regno era esausto, gli aiuti a Milano avevano pressoché divorato il denaro circolante e il credito estero, mentre i beni demaniali erano esauriti, essendo stati alienati più di ventisei milioni di capitale. Di questa pesantissima situazione l'A. si affrettò con una lettera del 4 marzo 1646 a fare un dettagliato rapporto a Filippo IV, chiarendo come la nuova richiesta di Madrid di due milioni di ducati non corrispondesse alle possibilità del Regno, che non era ancora riuscito a portare a termine il pagamento di un milione di ducati di un donativo imposto nel 1645. L'A. faceva inoltre presente il pericolo di insistere in un fiscalismo eccessivo, mentre si sospettava la Francia di preparare un intervento militare nel Regno.

Sulla base di questa preoccupata diagnosi della situazione l'A. si propose di limitare le spese, rinunciando ad inviare ulteriori aiuti in denaro a Milano, e di non insistere con nuove tassazioni, accontentandosi dì sollecitare la riscossione dei pagamenti arretrati. Questo moderato programma fiscale avrebbe dovuto realizzarsi con accorti procedimenti tesi ad evitare gravami eccessivi alla popolazione. L'A. intraprese perciò a studiare tali provvedimenti in accordo col visitatore generale Juan Chacon e con le rappresentanze del Regno. La moderazione di questi propositi e di queste iniziative prova che ingiustamente si è voluto da parte dei contemporanei e degli storici ritenere l'A. quasi l'unico responsabile delle tragiche vicende del suo viceregno. In realtà, le difficoltà tradizionali del vicereame, le avverse circostanze e l'incomprensione del governo di Madrid pesarono in modo determinante sulla sua azione successiva.

I suoi iniziali propositi furono presto travolti dalla necessità di provvedere alla difesa dello Stato dei Presidi, che spettava al viceré di Napoli, quando esso fu attaccato, il 20maggio 1646, da una spedizione francese al comando di Tommaso di Savoia.

L'A. inviò immediatamente a Orbetello il capitano Carlo della Gatta, che vi sostenne l'assalto francese, e poi una doppia spedizione di rinforzi, per mare, con le galee di Napoli e di Sicilia al comando del marchese di Torrecuso, e per terra, attraverso lo Stato della Chiesa e la Toscana, con truppe comandate dal maestro di campo Luigi Poderico. Questi provvedìmenti indussero Tommaso dì Savoia ad abbandonare l'impresa, ma l'A. non ottenne di poter presidiare fortemente quelle piazze perché la flotta fu subito chiamata in Spagna e una parte delle truppe dovette essere inviata a Milano, limitando pertanto i provvedimenti di emergenza in favore dello Stato dei Presidi al solo rafforzamento della guarnigione di Portolongone. Questa misura si rivelò assolutamente insufficiente quando Mazarino decise di ritentare la conquista dei Presidi: la flotta francese si presentò di fronte all'isola d'Elba il 27 sett. 1646 e si impadronì due giorni dopo della fortezza di Portolongone. I timori dell'A. di un attacco francese al Regno di Napoli acquistarono così nuova consistenza e ritenendo il viceré che Portolongone sarebbe stata la base per tale attacco decise di tentare a tutti i costi di recuperarla. La mancanza di aiuti dalla Spagna mise l'A. nella necessità di provvedere alla fortificazione del litorale del Regno e al reclutamento di dodicimila soldati, necessari alla spedizione per la riconquista dell'isola d'Elba e per la difesa di Orbetello, che era nuovamente minacciata dai Francesi, soltanto con quelle risorse che potevano derivargli unicamente dalla sua giurisdizione.Fu necessario dunque venir meno al proposito di non istituire nuove imposte e ricorrere, alle Piazze perché deliberassero un nuovo donativo di un milione effettivo di ducati. Dopo lunghe discussioni le Piazze decisero di coprire la somma ristabilendo a Napoli la vecchia gabella sulle frutta, assolutamente impopolare e già abolita in seguito a tumulti nel 1620.

Sulla base di quella esperienza alcuni consiglieri del viceré, in particolare il genovese Cornelio Spinola, non mancarono di far notare all'A. la possibilità di funeste conseguenze per una gabella che avrebbe privato la plebe napoletana del suo alimento essenziale. Prevalse, tuttavia, il consiglio di quanti sostenevano essere quella l'unica possibilità di sovvenire effettivamente a tanto gravi e improcrastinabili necessità finanziarie, essendo tutte le altre fonti fiscali insufficienti o già esaurite. Su questa gabella l'A. si anticipò la somma stabilita ritirandola da depositi bancari privati, non senza dover vincere, dando prova notevole di energia, la resistenza dei titolari di essi, tutt'altro che sicuri di recuperare le somme forzosamente anticipate. Fu così possibile provvedere alla fortificazione di Gaeta e all'invio di truppe nello Stato dei Presidi.

Ma la pubblicazione del bando col quale si promulgava la nuova gabella provocò immediatamente una violenta reazione popolare e il 26 dic. 1646, recandosi l'A. alla chiesa del Carmine, fu circondato da una folla minacciosa, che a gran voce ne chiedeva l'abolizione. L'A. allora, temendo il diffondersi del risentimento popolare e le possibili conseguenze politiche di esso, si impegnò ad accogliere la richiesta. Convocate quindi le rappresentanze del Regno e della città di Napoli, propose di cercare altre soluzioni fiscali, ma incontrò la tenace resistenza di gruppi numerosi e influenti: nobili e cittadini che avevano anticipato sui loro depositi bancari il donativo, appaltatori e subappaltatori della gabella che da essa si ripromettevano ingenti guadagni. Il viceré resistette a lungo alle pressioni di costoro, ma poi finalmente cedette e la gabella fu ristabilita. Da questo provvedimento nacque la convulsione popolare più grave che il dominio spagnolo in Italia abbia mai dovuto affrontare.

L'A. si trovò assolutamente privo dei mezzi necessari a reprimere i moti al loro insorgere, essendo ridotta la guarnigione di Napoli a solo cinquecento soldati: sicché, quando, il 7 luglio 1647, la plebe insorse con inaudita violenza dando l'assalto alla reggia e costringendo il vicerè a rifugiarsi dapprima nell'adiacente convento di San Luigi, poi in Castel S. Elmo e infine, durante la notte, in Castelnuovo, egli non aveva altra prospettiva che cercare di guadagnar tempo, dando ogni possibile soddisfazione alla plebe, e intanto tentare di riprendere in qualche modo il controllo della città. Pertanto l'8 luglio il viceré dichiarò con un pubblico bando abolita la gabella sulle frutta e con essa, cedendo alle pretese popolari, tutte le altre gabelle imposte dopo Carlo V. La rivolta tuttavia non si acquietò, avendo trovato gli insorti un capo straordinariamente popolare in Tommaso Aniello detto Masaniello e una organizzazione e un fine politico in G. Genoino e nell'Eletto del Popolo F. A. Arpaia i quali, espriniendo le esigenze del "popolo civile" di Napoli, pretesero che il viceré concedesse alla Piazza popolare la parità dei voti con le Piazze dei nobili nella rappresentanza municipale. L'A., anche perché la nobiltà sgomentata dalle violenze popolari non gli offrì nei primi giorni alcun valido aiuto, dovette rassegnarsi ad accogliere ogni richiesta, a piegarsi ad ogni concessione e il 13 luglio giurò solennemente in duomo i "capitoli" con i quali aboliva le gabelle, stabiliva un indulto per tutte le violenze popolari di quei giorni e dava soddisfazione alle rivendicazioni antinobiliari del "popolo civile".

Col giuramento dei capitoli la speranza del viceré di ristabilire la pace e la sua intera autorità sembrò dovesse essere soddisfatta perché la "gente civile" che costituiva lo strato superiore degli insorti, mercanti e artigiani benestanti, riteneva appagate le proprie richieste. Ma un ostacolo notevole al ritorno della quiete era costituito da Masaniello, che continuava a tenere in subbuglio l'intera città.

L'A., vedendo, però, che Masaniello aveva perso, per la bizzarria della sua condotta e per le sue intemperanze, il favore popolare, decise di dare una prima soddisfazione al suo orgoglio di nobile spagnolo, avvilito per tanti giorni dalla plebaglia, e lo fece uccidere il 16 luglio. Essendo mancata ogni reazione dei suoi partigiani, l'A. ritenne definitivamente esaurita la furia popolare. Reso eccessivamente fiducioso da questa valutazione, egli decise di tentare una prova di forza e, considerata la difficile situazione granaria della città, stabilì di diminuire il peso dei pani che era stato aumentato nei giorni della rivolta. Tale misura infiammò nuovamente l'animo popolare, sicché l'A. fu costretto ad annullare precipitosamente il provvedimento; tuttavia questa mossa inopportuna aveva ormai prodotto la convinzione in una larghissima parte del popolo napoletano che non ci si poteva fidare degli impegni presi dal viceré, il quale li avrebbe rispettati soltanto sino a quando avesse temuto la violenza popolare. Si ritornò così all'atmosfera tumultuosa dei giorni precedenti la morte di Masaniello, al posto del quale venivano affermandosi altri capi popolari di non minore prestigio e capacità.

Vero è che una frattura si era ormai effettuata nel campo popolare: il "popolo civile" desiderava intensamente il ritorno alla normalità, ché i moti impedivano la ripresa di ogni attività produttiva e per di più le botteghe e i laboratori artigiani finivano quasi sempre per far le spese dei tumulti. L'A. cercò di sfruttare questa divisione, appoggiando, ma senza risultato, i tentativi di pacificazione dell'Eletto Arpaia e degli altri esponenti del "popolo civile".

Durante i mesi di agosto e di settembre la città rimase praticamente in mano ai rivoltosi: ogni tentativo dell'A. di far affluire dai territori circostanti le scarse milizie di cui poteva disporre fu sventato dai popolari. Ridotto alla più completa impotenza, senza quasi poter uscire da Castelnuovo, circondato da nobili, che nulla sapevano intraprendere per opporsi al prepotere popolare, solo preoccupati della propria incolumità e della salvezza dei beni rimasti esposti al saccheggio dei rivoltosi, l'A. veniva perdendo la serenità di giudizio e l'equilibrio politico, soltanto ansioso di vendicare alla prima occasione le offese ricevute. Nel campo popolare, d'altra parte, non si era ignari dei sentimenti che animavano il viceré e i nobili che gli erano intorno, e di conseguenza si prestava sempre più volentieri orecchio alla propaganda degli emissari francesi che suggerivano senza posa di porre la città sotto la tutela della Francia.

Finalmente giunsero dalla Spagna i tanto attesi soccorsi: una flotta agli ordini di don Giovanni d'Austria si presentò di fronte a Napoli il 3 ottobre e la situazione sembrò tornare completamente nelle mani degli Spagnoli. Se l'A. avesse aderito alle proposte di coloro che, come l'Eletto Arpaia e l'arcivescovo di Napoli, cardinale Filomarino, gli consigliavano di mantenere, pur nella nuova posizione di forza, un atteggiamento moderato, rispettando i "capitoli" e tenendo fede alle promesse di un indulto generale, sicuramente la pace sarebbe stata ristabilita in Napoli, ché la stanchezza e la scarsità dei viveri spingevano i popolari ad un accordo. Ma il rancore dell'A. era ormai tale che egli, ignorando ogni considerazione politica, riuscì con l'appoggio dei nobili non meno di lui smaniosi di vendetta a convincere don Giovanni d'Austria, giunto con propositi di moderazione, a organizzare nella città una massiccia repressione.

Il 5 ottobre i soldati spagnoli, fatti discendere dalle navi, cercarono di occupare Napoli, ma i popolari organizzarono una disperata resistenza che risultò tanto vigorosa da indurre don Giovanni a sospendere l'attacco alla città e a sollecitare l'apertura di negoziati. I popolari però rifiutarono ogni trattativa e, guidati dall'Annese, costrinsero gli Spagnoli a sgombrare Napoli e a limitarsi alla occupazione di alcuni castelli della costa. Così l'avventato atteggiamento dell'A. pregiudicava lo stesso dominio spagnolo su Napoli e sull'intero Regno: il 23 ottobre l'Annese proclamava la repubblica mettendola sotto la protezione francese, mentre la rivolta dilagava nelle province. Per mesi durò la resistenza dei repubblicani e soltanto la mancanza dei promessi aiuti francesi e i contrasti tra il duca di Guisa, che aveva assunto il comando dell'esercito popolare, e gli altri capi repubblicani permisero che si riaprissero trattative di pace. Ma come condizione irrinunciabile ad un accordo fu richiesto dai popolari l'allontanamento dell'A., e don Giovanni d'Austria, col consenso del Consiglio collaterale e della nobiltà, ma contro la consuetudine che voleva la revoca del vicerè di competenza reale, indusse l'A. ad abbandonare Napoli il 24 genn. 1648, assumendone ad interim la successione. Il governo di Madrid finì per ratificare la decisione ed inviò a Napoli come nuovo viceré I. Vélez de Guevara y Tassis conte de Oñate, cui spettò di ristabilire completamente la pace nel Regno.

L'A. non riuscì ad ottenere presso la corte alcuna comprensione del suo operato e, privato di lì innanzi d'ogni incarico, si rifugiò nel suo feudo di Marqueña dove morì nel 1672.

Bibl.: J. Amador de los Rios-J. de Dios de la Rada y Delgado, Historia de la Villa y Corte de Madrid, III ,Madrid 1863, pp. 386 s.; S. de R. [Salvatore de Renzi], Tre secoli di rivoluzioni napoletane, Napoli 1866, passim; G. De Blasiis, Ascanio Filomarino e le sue contese giurisdizionali, in Arch. stor. per le prov. napol., V(1880), pp. 726-736; VI (1881), pp. 744-751; B. Capasso, Masaniello, Napoli 1895, passim; E. Visco, La politica della Santa Sede nella rivoluzione di Masaniello, Napoli 1924, passim; M.Schipa, Masaniello, Bari 1925, passim; A.Capograssi, La rivoluzione di Masaniello vista dal residente veneto a Napoli, in Archivio stor. per le prov. napol., LXXII (1946), pp. 167-235; G. Coniglio, Il Viceregno di Napoli nel secolo XVII, Roma 1955, passim.

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