ROMA

Enciclopedia dell' Arte Antica (1965)

ROMA (Rüma; ῾Ρώμη)

Red.
F. Castagnoli,L. Cozza
G. Lugli
L. Franchi
R. A. Staccioli
N. Neuerburg
A. M. Sagripanti
J. B. Ward Perkins
A. M. Sagripanti
A. Terenzio
F. Magi
F. Magi
J. Ruysschaert
F. Magi
M. Torelli
F. Zevi
L. Crozzoli
A. Bisi
P. Testini
C. Bertelli
F. W. Deichmann
C. Pietrangeli
P. C. Sestieri
G. Scichilone
B. M. Felletti Maj
D. Faccenna
R. Calza

Sommario: Premessa. A) Storia degli studî. Fonti. - B) Topografia generale. - C) Complessi monumentali. D) Monumenti singoli (in ordine alfabetico). - E) Necropoli e sepolcridell'area urbana (in ordine cronologico). F) Necropoli Vaticane. - G) Principali monumenti del suburbio (lungo le vie consolari). - H) Personificazione di Roma antica. - I) Roma Cristiana: Fonti e Monumenti principali. - L) Musei e Gallerie di Antichità (comunali, statali, private. Per i Musei vaticani, v. vaticano).

Premessa. - Roma è senza dubbio, fra le città ancora viventi, quella più ricca di monumenti del passato. Nella sua eccezionale stratificazione storica che, senza contare i resti paleozoici e paleolitici nè quelli di civiltà appenninica (v.) rinvenuti nella sua area, va, come stanziamento urbano accertato, dalla prima Età del Ferro all'epoca presente e non ha mai subito interruzioni, è veramente straordinaria la quantità e l'importanza dei monumenti e dei documenti ancora superstiti. E tale eccezionalità risalta ancor più, se si confronta il loro numero con quelli ancora esistenti, per esempio, a Costantinopoli, che non ne possedeva di meno grandiosi, o ad Atene. Ma accanto ai monumenti visibili, molti altri sono quelli sicuramente accertati, o perché menzionati nelle fonti scritte sia antiche che medievali, o perché identificati dalla moderna ricerca di topografia archeologica, che fa capo ad istituti specialistici. La continuità della vita urbana è, generalmente, elemento piuttosto negativo, distruttore. Conviene perciò riconoscere che questa straordinaria conservazione monumentale è dovuta soprattutto all'autorità che il nome di Roma ha sempre avuto, autorità che ha talora assunto aspetto di venerazione, se non quasi di culto. D'altra parte, come sempre avviene, la venerazione impedisce o ritarda la visione storica e sospinge piuttosto alla creazione del mito. Questo, a sua volta, restringendo l'orizzonte critico, tende a cristallizzare una situazione in forme di mentalità provinciale, quale si attardò anche in talune cerimonie rievocative della festa delle Palilie (XXI aprile). Da questo rischio non è andato esente lo studio archeologico di Roma antica, anche se si tratta, come è evidente, data l'altezza dell'argomento, di una provincialità aulica. Il tono aulico, d'altra parte, fu anche conforme al carattere tutto particolare di una cultura locale che per la sua particolarissima situazione storica divenne incline, nei suoi ultimi due secoli nella maggioranza dei suoi rappresentanti, anche insigni, meglio alla esaltazione che alla indagine critica, più alla elegante accademia erudita e formale che alla concreta ricerca scientifica. Sembra quasi che i buoni studî spesso fossero stati coltivati più al fine di un prestigio personale, o di casta, che non a quello della ricerca e della soluzione di una effettiva e sostanziale problematica storica, anche se contributi sostanziali non sono mancati in nessun tempo (come viene esposto nel paragrafo che riguarda la storia degli studî, A 1). Perciò è accaduto questo fatto singolare: che mentre Roma e i suoi monumenti sono stati, si può dire, la culla delle ricerche di archeologia e i suoi ruderi sono celebri nel mondo per esser stati descritti infinite volte, essi possono dirsi, complessivamente, in gran parte inediti dal punto di vista archeologico-scientifico moderno.

Sono migliaia i disegni, le stampe, le pitture che riproducono i monumenti di Roma. Dai rilevamenti architettonici misurati dagli artisti italiani del Rinascimento, alle vedute animate da statue e da "anticaglie" dei pittori e dei viaggiatori nordici, da uno Heemskerk sino a Wolfango Goethe; dai paesaggi a taglio dolce del Liber Veritatis di Claudio il Lorenese, dove quasi si assiste alla nascita dei motivi paesaggistici che circoleranno nella pittura europea dall'età del Barocco a quella del Romanticismo; dalle descrizioni magniloquenti ed esaltatrici della "Romanità" nelle incisioni del Piranesi, ai rilievi quasi scientifici di Luigi Rossini, fino al rudere che da romano antico si fa anch'esso "romanesco", cioè vernacolo e sprezzantemente popolare, nelle scene agitate a freddo delle composizioni di Bartolomeo Pinelli: sempre le rovine di Roma hanno saputo suggerire, di volta in volta, l'espressione artistica e sentimentale confacente ai variati tempi, trascorsi e mutati lambendo quei laterizi e quelle pietre. Ma in tanta abbondanza e varietà di espressioni accade che lo studioso attuale, che vorrebbe potersi documentare su questi monumenti di Roma come è abituato a documentarsi su quelli di Olimpia o di Atene, di Pergamo o di Delfi, non trovi il sussidio di quei rilievi grafici e di quelle relazioni, che permettono di rendersi conto della genesi storica interna (e non solo delle vicende esteriori) di un monumento. Ci si accorge allora, con sorpresa, che lo studio dei monumenti di Roma risente tuttora della genesi del tutto particolare della erudizione locale, mossa dalla curiosità di sapere che cosa un tempo ci stava, e forse ci sta ancora qui, sotto i nostri piedi, sotto la nostra casa, e dal desiderio di dare al rudere che ci è familiare un nome, che sia un nome collegato con qualche vicenda storica, sicché molti studî si presentano come moderna continuazione delle guide che per secoli hanno esposto ai visitatori "Le cose notabili di Roma antica". Ci si accorge, allora, che soltanto pochissimi sono i complessi monumentali o i singoli monumenti di Roma dei quali esista una esauriente edizione storico-archeologica, che equivalga a ciò che per un testo letterario è la edizione critica. Una tale edizione manca per gli edifici del Palatino, manca, nel suo complesso, per il Foro Romano e per i Fori Imperiali, manca per la Domus Aurea, della quale non è nemmeno mai stato completato lo scavo e i cui documenti pittorici si vanno perdendo senza esser stati studiati: eppure è, oltre a tutto, l'unico complesso decorativo romano antico del quale si conosca un autore (v. fabullus).

Non ultima causa di questo sorprendente stato di cose è il fatto che, come conseguenza della stratificazione storica dei poteri pubblici avvenuta nella città di Roma, la conservazione e lo studio dei suoi monumenti antichi dipende da istanze diverse e, se non contrastanti, pur sempre poco propense a superare le singole posizioni di prestigio e di autorità per giungere a quella unificazione di responsabilità che già costituirebbe un decisivo passo in avanti rispetto alla situazione attuale. Oggi i monumenti antichi di Roma sono dipendenti da autorità diverse, comunali o statali, se si trovano dentro o fuori dell'area recinta dalle mura Aureliane ormai largamente oltrepassata dalla città moderna, e ancora diverse secondo il loro prevalente carattere architettonico o monumentale o archeologico, senza contare le zone di extraterritorialità diplomatica, conseguenti alla creazione dello Stato della Città del Vaticano. Tutte queste circostanze, che generalmente sfuggono alla percezione di chi non sia uno studioso specializzato, hanno influito in modo determinante anche sul modo con il quale si è potuta costituire la presentazione dello sviluppo urbanistico e dei monumenti di Roma nell'ambito di questa enciclopedia. Là dove sia insufficiente la ricerca analitica riesce infatti difficile una chiara sintesi; e perciò è stato fatto ricorso a una suddivisione dei resti monumentali in complessi, monumenti singoli, necropoli e monumenti suburbani, che non corrisponde a un criterio storico rigoroso, ma che ha il solo scopo di facilitare al lettore la consultazione e l'orientamento, ove egli ricerchi la informazione sul monumento singolo che lo interessa (sez. C-F dove i monumenti sono elencati talora in ordine alfabetico, talora in successione cronologica, e sez. G dove i monumenti sono descritti come si incontrano procedendo lungo le vie consolari). Anche la divisione in una sezione a parte (sez. I) dei monumenti della Roma cristiana contrasta con la auspicabile sintesi storica, ma è consigliata da considerazioni di competenza e di tradizione di studî.

La nascita di Roma e la sua prima fortuna furono strettamente collegate alla circostanza che qui, dove oggi è l'Isola Tiberina, il corso del Tevere, le cui inondazioni alimentavano i prossimi stagni, era più facilmente valicabile che altrove. Ogni trattato di geografia insegna che là ove esista il passo di un fiume concorrono a incontrarsi le sparse popolazioni rurali dei dintorni e là nasce un mercato e un campo per la fiera del bestiame. La sponda destra del Tevere, il trans-Tiberim, era etrusca e agli Etruschi occorreva libertà di passo sul fiume per raggiungere i loro possedimenti in Campania, al di là della stretta di Anxur (Terracina). Così, al passo sul fiume si formarono la fiera e il mercato, che sussistettero fino ai tempi imperiali col nome di Foro Boario e Foro Olitorio (il mercato del bestiame e quello delle verdure), anche quando da tempo la vita pubblica e commerciale aveva invaso le aree che saranno dette del Foro Romano e poi dei Fori Imperiali. E qui, nella prossima area di S. Omobono, dove recenti scavi hanno rinvenuto testimonianze di vita a partire dalla media Età del Bronzo (XIV-XIII sec. a. C.) in poi. Mentre il ponte assumeva una importanza centrale nelle vicende della città e un valore sacrale (un ponte di assi legate - sublicius - che poteva esser rapidamente tolto), sulle erte alture prospicienti, che poi saranno dette del Germalo, del Palatino e del Campidoglio, si fissavano gli stanziamenti delle tribù e i culti delle divinità, mentre la più antica ragione di traffico, quello del sale dalle coste alle montagne dell'interno, si apriva una strada tangente al mercato e alle colline, fissando nei secoli il nome di via Salaria. Nella sezione (B) dedicata alla topografia generale e nella prima parte della sezione dedicata alla Roma cristiana, il lettore troverà tracciata la storia dello sviluppo urbanistico di Roma, da questo primo nucleo alla città imperiale di un milione di abitanti, sede di un impero immenso sulle cui rovine riposa tuttora la nostra civiltà europea, e poi sede di un altissimo potere spirituale, la cui aspirazione non poteva non essere universale e il cui peso non poteva non divenire anche politicamente determinante nel corso della storia. Riteniamo che in tal modo il lettore (e col corredo di nuove fotografie espressamente eseguite), possa trovare sia un orientamento generale che una dettagliata informazione descrittiva sopra un soggetto così vasto e così complesso quale la tradizione urbanistica e monumentale di Roma: Roma caput mundi è già detto in Lucano (Farsaglia, v, 655); ma poi, regit orbis frena rotundi fu aggiunto sul finire del Medioevo, attribuendo il motto al tempo di Diocleziano.

(Red.)

A) STORIA DEGLI STUDI E FONTI PER LA TOPOGRAFIA - 1. Storia degli studî. - L'indagine critica intorno alla topografia di R. antica ha inizio già nel sec. XV, e anzi, accanto all'epigrafia e alla filologia, la topografia romana, sin dai primi inizî dell' Umanesimo, è parte essenziale degli studî classici. Per valutare la portata di opere come quelle di Flavio Biondo (Roma instaurata, terminata nel 1446) e di Poggio Bracciolini (De fortunae varietate urbis Romae et de ruinis eius descriptio, 1448), occorre tener presente lo stato delle conoscenze sulla topografia di R. antica: durante il Medioevo, soprattutto a partire dal sec. IX, la tradizione antica si era spezzata e, come appare particolarmente dalle descrizioni piene di errori e di fantasie dei Mirabilia (sec. XII), si era in gran parte cancellato persino il ricordo dei nomi degli edifici e dei luoghi; il testo dei Mirabilia, con le successive rielaborazioni era rimasto alla base delle conoscenze topografiche fino al sec. XV: sotto la sua influenza sono ancora, per esempio, la Descriptio urbis Romae di Nicola Signorili (forse intorno al 1430) e alcune descrizioni di pellegrini (John Capgrave, 405-351; Nicola Muffel, 1452). Gli iniziatori della ricerca topografica dovettero con uno sforzo critico ammirevole liberarsi dalle sovrastrutture di una tradizione errata e tentare di ricostruire la realtà della lettura delle fonti e dalla interpretazione diretta dei monumenti. Acutissime osservazioni tratte dallo studio del monumento troviamo negli scritti di Leon Battista Alberti (che raccolse anche gli elementi preparatorî per una pianta scientifica di Roma). Ma l'indirizzo prevalente di queste ricerche è filologico, strettamente connesso con lo studio delle fonti e l'epigrafia. Quanto ai numerosissimi rilievi analitici che ci rimangono, opera dei grandi architetti del Rinascimento, essi hanno un intento prevalentemente pratico, cioè la ricerca di valori normativi (talora anche in un sistematico progetto di ricostruzione delle regole dell'architettura antica in armonia col testo di Vitruvio): regio XIV si può osservare anche una evoluzione da un rilievo interpretativo (con largo posto ai completamenti arbitrarî) ad una documentazione più oggettiva e scientifica. Tra questi artisti i più impegnati sono Fra Giocondo, i Sangallo, B. e S. Peruzzi, G. A. Dosio, A. Palladio. Un intento non scientifico ma documentario o artistico hanno i vedutisti (che naturalmente offrono anch'essi materiale utilissimo per la conoscenza di monumenti poi scomparsi). Rare sono le osservazioni degli studiosi riguardo a scavi, che del resto (salvo eccezionalissimi casi di ricerche a scopo topografico), sono volti unicamente al recupero di opere d'arte o di materiale da costruzione, con conseguenze disastrose per i monumenti.

Dopo l'opera del Fulvio la sintesi topografica più pregevole è la Antiquae urbis Romae Topographia di Bartolomeo Marliani (1534), mentre di minor rilievo sono le opere di Lucio Fauno, Bernardo Gamucci, Lucio Mauro, Giorgio Fabricio. In completa rottura con questo filone di ricerche si pone l'attività di P. Ligorio, che in vivace polemica con gli altri studiosi cercò di imporre nuove teorie, appoggiandole su vasto materiale (architettonico ed epigrafico) in gran parte inventato; la sua opera, di ambiziosa impostazione enciclopedica, rimase manoscritta (furono pubblicati solo le carte archeologiche ricostruttive e un opuscolo sui circhi), ma ebbe ugualmente larga influenza, e in tal modo, accanto a giuste acquisizioni, anche molte teorie errate (per esempio quella sull'ubicazione del Foro Romano) furono accolte negli studî e furono corrette, in alcuni casi, solo nel secolo passato. Tra i contemporanei, largamente si servì di materiale ligoriano Onofrio Panvinio per quanto erudito di ben altra preparazione filologica.

In confronto alla solida impostazione del periodo umanistico la storia degli studî di topografia romana nei secoli XVII e XVIII appare assai meno significativa: si hanno, oltre a resoconti di scavi, del resto utilissimi, come quelli di Flaminio Vacca, Cassiano Dal Pozzo, Pietro Sante Bartoli, Giovanni Pietro Bellori (particolare interesse è dedicato alla documentazione delle pitture antiche), trattazioni generali di scarsa originalità (molte sono semplici guide): un'opera importante per la sua sistematicità, per alcuni nuovi contributi e per l'eliminazione delle interpolazioni rinascimentali nel testo dei cataloghi regionari, è quella di Famiano Nardini (1660); assai minori, nello stesso secolo, Alessandro Donato, Raffaele Fabretti, Francesco Bianchini e, nel ‛700, Francesco Ficoroni, Ridolfino Venuti, Alberto Cassio, Giuseppe e Mariano Vasi. Nella analisi e nella documentazione grafica dei monumenti eccellono le opere di Antonio Desgodetz (1682) e soprattutto di Giambattista Piranesi (1756 ss.). Anche la cartografia (che aveva segnato importanti tappe dalla metà del sec. XVI (Bufalini, 1551; Du Perac-Lafréry, 1577; Tempesta, 1593; Falda, 1670) raggiunge nella carta di G. B. Nolli (1748) uno straordinario livello di precisione e di ricchezza analitica.

Nei primi anni dell'8oo, quando inizia una impostazione veramente scientifica degli studî dell'antichità, la topografia romana abbandona gli schemi tradizionali; essa si giova da un lato della rinnovata scienza filologica e antiquaria, dall'altro dello scavo archeologico compiuto non più per recupero di opere d'arte ma per la conoscenza topografica (Foro Romano, Foro Traiano, Colosseo, ecc.): C. Fea è il primo dei topografi moderni; molte delle sue ricerche sono ammirevoli per finezza critica (tra l'altro egli stabilì l'esatta posizione del Foro Romano). Personalità variamente notevoli sono in questa stessa epoca G. A. Guattani, S. Piale e, soprattutto, A. Nibby. La topografia romana trova largo posto nelle attività dell'Istituto di Corrispondenza Archeologica (dal 1829) e sempre più si estende la partecipazione degli studiosi stranieri, soprattutto tedeschi, prima C. Bunsen, poi W. A. Becker, L. Preller, C. L. Urlichs. Intanto L. Canina riprendeva sistematicamente in opere di grande respiro il rilevamento architettonico di tutti i monumenti di R. e riproponeva una nuova indagine topografica generale (nella quale cercò di utilizzare in pieno la Forma Urbis severiana).

Dopo la metà dell'8oo gli studî di topografia romana superano ormai l'interesse erudito e circoscritto in cui si erano andati chiudendo nei due secoli precedenti, per divenire metodo interdipendente e parte integrante dello studio sulla civiltà antica, come appare in alcune ricerche di G. B. De Rossi, Th. Mommsen, e poi G. Wissowa, E. De Ruggiero, ecc., e nell'impostazione di manuali a base prevalentemente filologica, come quelli di O. Gilbert, e di H. Jordan e Ch. Hülsen. La documentazione archeologica è prevalente interesse di R. Lanciani, sia attraverso l'osservazione, acuta e precisa, dei molti rinvenimenti che si venivano compiendo nella trasformazione urbanistica della R. umbertina, sia attraverso un'indagine, di proporzioni vastissime, del materiale d'archivio atto a documentare la storia degli scavi nei secoli precedenti: una sintesi cartografica di tutti questi dati è la sua monumentale pianta. Notevoli imprese di scavo nella seconda metà dell'8oo furono condotte nel Foro Romano e sul Palatino; l'inizio però di un metodo veramente scientifico di scavo si ebbe solo a partire dagli ultimi anni dell'8oo nell'esplorazione sistematica del Foro Romano e di alcune zone del Palatino per opera di G. Boni, che fu un modello perfetto di tecnica di scavo e fornì materiale di grande importanza documentaria per le origini di Roma. Altri grandi scavi si sono compiuti negli ultimi anni, specie in rapporto a sistemazioni urbanistiche, e interessanti per la maggior parte l'età imperiale (Mausoleo di Augusto, Fori imperiali, Mercati di Traiano, Necropoli vaticane, ecc.) e in misura minore, ma con risultati assai importanti, l'età arcaica e repubblicana (Palatino, area di S. Omobono, Largo Argentina). Di questi scavi, che così largamente hanno ampliato le nostre conoscenze, solo in parte è stata fornita una relazione esauriente; in particolare, è ancora da impostare la pubblicazione sistematica dei grandi complessi archeologici. Si è invece iniziata l'edizione di singoli monumenti (Stadio, Arco degli Argentari, ecc.). Si sono avuti inoltre ottimi manuali generali (Platner-Ashby, Lugli). Quanto agli strumenti di indagine, si è avuto in primo luogo l'affinamento dell'analisi della tecnica costruttiva, ai fini soprattutto di determinazioni cronologiche (E. B. Van Deman, G. Lugli, M. E. Blake; per i bolli laterizî, H. Bloch); viva attenzione è stata data allo studio delle sculture architettoniche (E. Toebelmann, H. Kähler, D. E. Strong, ecc.); di eccezionale importanza è stato infine il riesame metodico dei frammenti della Forma Urbis severiana. Tra i temi che più vivamente hanno impegnato e impegnano l'attenzione degli studiosi possono essere indicati soprattutto i problemi di urbanistica (sia sotto il riguardo architettonico che sociologico), e quelli sulle origini e il primo divenire della città.

2. Fonti per la topografia. - Particolarmente dedicati alla topografia di R. antica furono il paragrafo De locis delle Antiquitates rerum divinarum di Varrone (perduto, ma utilizzato dallo stesso Varrone nel De lingua Latina e da Verrio Flacco), e un'opera, parimenti perduta, di Phlegon, liberto di Adriano, Περὶ τῶν ἐν ῾Ρώμῃ τόπων καὶ ὧν ἐπικέκληνται ὀνομάτων. Rimane, fondamentale per gli acquedotti, il De aquae ductu urbis Romae commentarius di Frontino. Utilissimi per la collocazione di molti monumenti, per la delimitazione delle regioni augustee, e per una conoscenza statistica degli elementi urbanistici e della struttura organizzativa nel IV sec. sono i Cataloghi regionari, pervenuti in due redazioni [Notitia] e Curiosum, compilati probabilmente nell'età di Diocleziano e parzialmente interpolati fino al 357.

Oltre a questi testi specificamente topografici, una documentazione letteraria di proporzioni vastissime si ricava da scritti di vario genere, da libri di poesia, di storia, filologia, ecc. (soprattutto importanti Varrone, Livio, Ovidio, Augusto, Cassio Dione), da testi epigrafici (in modo particolare le dediche adrianee dei vicomagistri, con elenco dei vici di alcune regioni). Oltre alle fonti antiche, sono spesso utili anche quelle medievali (in quanto possono conservare una tradizione autentica), tra cui l'Itinerario di Einsiedeln (descrizione di R. dell'età di Carlo Magno, quando ancora esistevano moltissimi edifici antichi), il Liber Pontificalis, ecc. Tutto questo vastissimo materiale, che costituisce l'impalcatura delle ricerche di topografia romana, è reso ora facilmente accessibile nella raccolta intrapresa da G. Lugli.

Accanto alle fonti scritte, preziose sono anche quelle figurate, cioè monete rappresentanti edifici (con diverso grado di fedeltà documentaria, ora ricca di preziosi dettagli, ora annullata in schemi convenzionali), rilievi soprattutto storici (plutei di Traiano nel Foro, pannelli di Marco Aurelio ai Conservatori, ecc.), ma anche di altri monumenti (sepolcro degli Haterii, sarcofagi, ecc.), e inoltre mosaici (frequenti le rappresentazioni del Circo Massimo), vetri, lucerne, ecc.

Esiste infine un documento iconografico di eccezionale importanza, una pianta dell'età di Settimio Severo, incisa su lastre di marmo (comunemente chiamata Forma Urbis). Essa era collocata sulla parete di un'aula del Foro della Pace (ancora oggi rimasta dietro l'abside della chiesa dei SS. Cosma e Damiano); la parete è di struttura laterizia severiana (sappiamo che Settimio Severo restaurò il Foro della Pace danneggiato dall'incendio del 191), e presenta i fori per le grappe che reggevano le lastre marmoree: da ciò possiamo dedurre la grandezza della pianta (m 13 × 18,10) e la disposizione delle singole lastre. I frammenti delle lastre furono trovati per la maggior parte ai piedi della parete nel 1562, nel 1867 e nel 1891 (i frammenti trovati nel 1562, portati al palazzo Farnese, furono disegnati nel codice di Fulvio Orsini, ora Vat. Lat. 3439; poiché una parte di questi frammenti è stata poi smarrita, i disegni costituiscono una documentazione preziosa), altri frammenti sono stati rinvenuti sporadicamente nel Foro Romano. Si tratta in tutto di oltre 1000 frammenti, che rappresentano circa un decimo della pianta.

La data della pianta è accertata dall'iscrizione (indicante un edificio): Severi et Antonini Augg. nn., cioè durante il regno di Settimio Severo e Caracalla, prima perciò del 209 (quando anche Geta fu Augusto), mentre la rappresentazione del Septizodium (che fu costruito nel 203) ci dà un termine a quo. La proiezione della pianta è verticale, con limitato uso di segni convenzionali (triangoli per le scale, linee ondulate per gli archi, ecc.). Di molti luoghi ed edifici è indicato il nome. La scala è (con lievi oscillazioni) 1 : 240 (1 piede = 2 actus), tale perciò da permettere un disegno molto dettagliato, che arriva alla rappresentazione dei singoli ambienti degli edifici pubblici e privati, e alla indicazione dei varî elementi architettonici (colonne dei templi e dei portici, pilastri, gradini ecc.). Dove si è potuto fare il riscontro con monumenti conservati si è constatata, salvo poche eccezioni, notevole precisione di rilevamento sia nei dettagli sia nella scala e nell'angolazione degli edifici (le oscillazioni sono di pochi gradi): sotto questo punto di vista la Forma Urbis è un documento tra i più importanti della cartografia antica. L'orientamento è col S-E in alto (l'orientamento a S doveva essere normale nella cartografia di R. e, probabilmente, in quella dell'Italia).

Lo stato frammentario della pianta ha richiesto difficili e rinnovati lavori di ricomposizione (per l'accertamento dei frammenti sono criteri utili, oltre il disegno topografico, la qualità del marmo, il suo spessore, il tipo di incisione ecc.) e di identificazione; a questo fine è stato di fondamentale importanza, oltre naturalmente il raffronto con la topografia archeologica, lo studio della direzione che le lastre dovevano avere sulla parete (qualora siano conservati i margini) e in particolare l'ideale ricollocamento di alcune lastre nel luogo che originariamente avevano sulla parete: ciò è stato reso possibile, in alcuni casi, dal confronto tra le misure delle lastre conservate e i filari delle lastre ricostruiti sulla parete, e addirittura dalla constatazione della precisa corrispondenza dei fori delle grappe.

Benché alcuni problemi rimangano ancora oggi insoluti, notevole è il numero dei frammenti identificati; è da essi che deriviamo la conoscenza di molti quartieri ed edifici di R., pressoché privi di documentazione archeologica (per esempio Portico di Livia, vaste zone del Trastevere, del Campo Marzio ecc.); comunque, anche i frammenti non identificati sono utili per lo studio dell'architettura e dell'urbanistica.

Discussa è la precisa funzione della carta: si ritiene in genere che essa avesse uno scopo catastale (in connessione con le sorpassate identificazioni di templum sacrae Urbis o di tempio dei Penati nell'edificio dei SS. Cosma e Damiano, oppure con un supposto collegamento con la sede del prefetto della città, che era presso S. Pietro in Vincoli), ma è più probabile spiegare la sua presenza nel Foro della Pace con una semplice funzione ornamentale (anche se naturalmente nella redazione della pianta ci si giovò di documenti catastali). L'editio princeps è quella del Bellori (1673), il primo studio scientifico fu fatto dallo Jordan (1874), una magistrale edizione critica è quella realizzata a cura del Comune di Roma nel 1960.

Bibl.: G. B. Bellori, Fragmenta vestigii veteris Romae..., Roma 1673, H. Jordan, Forma urbis Romae regionum XIV, Berlino 1874; G. Carettoni, A. M. Colini, L. Cozza, G. Gatti, La pianta marmorea di Roma antica, Forma Urbis Romae, Roma 1960; G. Gatti, in Capitolium, 1960, n. 7, p. i ss.

(F. Castagnoli)

B) TOPOGRAFIA GENERALE. - sviluppo urbanistico e topografico. - 1. Le origini. - R. antica sorse e si sviluppò su un terreno vario e frazionato in zone collinose, pianeggianti con un contrasto assai più rilevante di quanto possa apparire oggi, avendo l'erosione naturale diminuito l'asprezza dei rilievi e innalzato il livello delle parti basse. L'elevazione delle colline rispetto alla pianura era di circa 25-30 m; mentre alcune di esse (Campidoglio, Palatino, Aventino, Celio, Gianicolo) erano completamente isolate, altre (Quirinale, Viminale, Esquilino) si saldavano col suolo circostante. Le parti basse erano percorse da ruscelli e talora occupate da stagni. Tra i ruscelli sono ricordati l'amnis Petronia che nasceva sul Quirinale e passava per il Campo Marzio, il Nodinus e lo Spino (non identificati). Un grande stagno, il Velabrum, si estendeva tra Campidoglio e Palatino, e la palude riprendeva nella valle del Foro (lacus Curtius). Paludosa era anche la vallis Murcia, tra Palatino e Quirinale, ed uno stagno occupava la depressione del Colosseo. Nel Campo Marzio vaste paludi erano presso il Pantheon e nella zona di Sant'Andrea della Valle (palus Caprae). Oltre che dalle acque provenienti dai colli, le paludi erano alimentate dal Tevere, che inondava con facilità le zone basse. Il Tevere attraversava la città da N a S (lasciandola quasi tutta ad oriente), con un andamento sinuoso, caratteristico di tutto il suo corso inferiore; una piccola isola presso il Campidoglio rendeva forse più agevole il guado. L'alveo del fiume era più stretto di quello delimitato dalle attuali sponde artificiali; nonostante il regime irregolare, il fiume fu sempre navigabile ed accessibile anche a grandi navi da trasporto e da guerra. Molto frequenti erano le inondazioni, che minacciavano soprattutto il Campo Marzio, ma anche altre parti basse della città, ad esempio il Foro (Hor., Cam., i, 2, 13 s.).

Molte sorgenti naturali erano soprattutto alle pendici dei colli: il fons Cati sul Quirinale (che dava origine all'amnis Petronia), il fons Iuturnae nel Foro, la sorgente del Lupercale, quella del Tullianum, delle Camenae, ecc.

Il nome di R. fu in genere spiegato dagli antichi con quello del fondatore ed eponimo Romolo (o di altri leggendarî fondatori, o di persone connesse con la loro leggenda). In base ad un'altra spiegazione (che vediamo già in Licofrone, Alex., 1232 s.), che collegava R. col greco ῥωμη (= forza), si formò la leggenda di una primitiva città detta dagli indigeni Valentia: questo nome sarebbe stato tradotto dagli Arcadi, nella loro lingua, Roma. Inoltre la città avrebbe avuto un altro nome occulto, pronunciato solo in cerimonie arcane: esso era ignorato anche dai più dotti e il motivo del segreto era nel timore che i nemici lo evocassero. Il nome di R. rimane oscuro anche ai moderni, essendo semplici ipotesi l'etimologia da rumon (un nome del Tevere secondo gli antichi), o la derivazione da un gentilizio etrusco Ruma, per non parlare di altre spiegazioni ancora meno probabili.

Sui primordî della città esistono molte leggende, di varia origine, spesso indipendenti tra loro e talune insieme accordate nella narrazione tradizionale e più tardi nella sistemazione a suo modo scientifica di eruditi come Dionigi di Alicarnasso.

Da culti locali dovettero prendere spunto le leggende delle città fondate da Giano sul Gianicolo e da Saturno sul Campidoglio. Invece le leggende relative a Siculi, Liguri, Aborigeni, Pelasgi, Arcadi (che sul Palatino avrebbero fondato Pallantium), e Greci al seguito di Ercole (che avrebbero fondato una città sul Campidoglio), hanno tutte origine erudita: quella dei Siculi è derivata da storici siciliani (già Antioco nel V sec. a. C.) e veniva convalidata da assonanze toponomastiche; i Sacrani sono forse i Sabini; Aborigeni è una denominazione dei Latini creata per dichiararne l'autoctonia; i Pelasgi furono localizzati qui come in tanti altri luoghi, essendo un popolo non esistente nei tempi storici; gli Arcadi sono introdotti per la somiglianza onomastica del Palatino con Pallante e la città di Pallantio in Arcadia, dov'era venerato Evandro.

Più consistente è il filone che risolveva la nascita della città con la invenzione di un eponimo (Roma, Romus, Romulus, Remus), e collegava il fondatore, secondo le differenti versioni dovute soprattutto a storici greci, alle leggende di Enea o di Ulisse. Così nella più antica versione, quella di Ellanico (V sec.), il fondatore è Enea, che da una donna troiana di nome Roma avrebbe così chiamato la città; per Senagora è Romo, figlio di Ulisse e di Circe; per Alcimo è Romo, un primogenito di Enea; per Callia sono Romolo e Remo, figli di Latino e di una troiana. La leggenda di Romolo e Remo fu distaccata poi da quella di Enea per motivi di cronologia, e si inserì tra di esse la leggenda albana. Secondo la sua forma più diffusa, Romolo e Remo sono generati da Marte e da Rhea Silvia, figlia del re di Alba, Numitore, e la città nasce da una colonia di Albani. La fondazione fu fissata da Timeo (per analogia con Cartagine) all'814-13 a. C., da Fabio Pittore al 748-47, da Cincio Alimento al 729-28, al principio del IX sec. da Ennio, al 754-53 da Varrone e con lui dalla maggior parte degli scrittori: la data fu comunque ricostruita con un arbitrario calcolo della durata media del regno dei sette re a risalire dalla fine della monarchia nel 510 (la prima data fissa nella cronologia di R. arcaica), e non ha perciò alcun valore.

La fondazione della città spettò a Romolo in base agli auspici favorevoli che egli prese sul Palatino, mentre Remo aveva scelto l'Aventino (così, per esempio, Liv., i, 6, 4; diversamente Ennio, Ann., 77 ss.). Si può considerare unanime la tradizione che stabilisce sul Palatino la città fondata da Romolo (senza valore a questo riguardo la strana versione di Plutarco, Rom., ii, 2, per il quale il centro della città sarebbe il Comizio). La fondazione è posta al 21 aprile, nelle Palilia, la festa di Pales (probabilmente perché la festa era particolarmente celebrata sul Palatino). Le descrizioni del rito della fondazione sono evidentemente ispirate da quello che poi usò nella fondazione delle colonie: si scava una fossa profonda, si gettano delle messi a scopo propiziatorio, si ricopre la fossa e vi si pone un altare: questo luogo, davanti al tempio di Apollo Palatino, fu detto Roma quadrata (che non è da confondersi con la Roma quadrata città, e non è nemmeno da identificarsi col mundus, che era un luogo sotterraneo di culto ctonio, di ubicazione a noi ignota); quindi l'aratro tirato da un toro e da una vacca scava il solco, che diviene la fossa di difesa, mentre la terra tratta dal solco viene a formare le mura.

Alla città del Palatino fondata da Romolo gli antichi davano il nome di Roma quadrata (difficile è la spiegazione del nome: quella di Varrone, in Solin., 1, 17, di una città divisa con le regole gromatiche, è anacronistica). Nelle mura si aprivano tre, secondo altri quattro porte: di due conosciamo il nome, la Mugonia (presso l'Arco di Tito) e la Romana (verso il Velabro). (Sono incoerenti le narrazioni che danno esistente al tempo di Romolo la porta Ianualis, che era oltre il Foro). Intorno alle mura era una linea determinata con cippi, il pomerium, che significava il confine della città ai fini sacri e giuridici. Del pomerio del Palatino, Tacito (Ann., xii, 24) dà una ricostruzione tracciando una linea attraverso le valli che circondano il Palatino.

Se alcuni dati sono evidenti sovrapposizioni dovute agli eruditi della tarda Repubblica, non vi sono tuttavia motivi sufficienti per ritenere falsa la tenace tradizione che la prima città fosse sul Palatino (attribuendo, come si è fatto, ai potenti abitanti del colle degli ultimi tempi della Repubblica il desiderio di nobilitare il Palatino con la pretesa che esso fosse la R. di Romolo): non mancano infatti nella tradizione stessa indiretti elementi di conferma, come ad esempio la corsa dei Luperci intorno al colle, rito di purificazione di alta antichità come ne testimonia la rozza barbarie, o la presenza delle Curiae veteres sul Palatino; ed in particolare il nome Esquiliae (= sobborgo) è un valido argomento per considerare città il Palatino.

Ma oltre a questa narrazione - che fa del Palatino il primo nucleo della città, al quale si sarebbero aggiunti successivamente Quirinale, Campidoglio, Celio, ecc. in tempi diversamente stabiliti da tradizioni diverse - occorre tener conto di altri dati che, almeno in parte, sembrano contrastanti. Anzitutto il Septimontium. In alcuni testi (Varr., De ling. Lat., v, 41) il Septimontium ha valore topografico, è una entità topografica se non proprio una città; ma ciò sembra un'invenzione degli antiquari romani, poiché il significato più sicuro del Septimontium è quello di una festa celebrata l'11 dicembre su sette monti. Questi monti sono erroneamente identificati da Varrone con i sette monti che furono compresi nella città delle mura serviane (Campidoglio, Aventino, Celio, Esquilino, Viminale, Quirinale, Palatino), e più tardi con i monti della città imperiale. Giusta invece appare la tradizione conservata da Antistio Labeone (Fest., 458,4) che elenca così i monti: Palatium, Velia, Fagutal, Subura, Cermalus, Caelius, Oppius, Cispius. La difficoltà che i monti elencati sono otto viene superata con l'ipotesi di una interpolazione (della Subura, che non è propriamente un monte, o del Celio), o meglio con l'ipotesi che la festa, celebrata originariamente su sette monti, si sia estesa in un secondo tempo a un altro monte (per esempio il Celio) senza cambiare per questo il nome primitivo.

Anche limitando all'ambito religioso il significato di Septimontium, possiamo utilizzano per l'accertamento dell'estensione della città in un periodo antichissimo. Molto spesso si ritiene il Septimontium una fase intermedia tra la città del Palatino e la città delle Quattro Regioni; ma questa sembra una deduzione non sufficientemente fondata. E anzi, si è osservata la difficoltà del fatto che la città del Palatino appare non come una unità in questa confederazione, bensì divisa in due montes, Palatium e Cermalus, così che per alcuni il Septimontium riflette addirittura uno stadio anteriore alla città stessa del Palatino. Tenendo presente il valore di mons, ché non è tanto quello semplicemente geografico, ma piuttosto quello di una comunità che abita un monte (il termine è infatti contrapposto a pagus, e montani sono contrapposti a pagani come parti della cittadinanza), il Septimontium ripresenta in un modo non conosciuto dai racconti tradizionali degli antichi il problema delle origini, in rapporto cioè alla possibile esistenza di comunità separate sui colli. Questo fatto, secondo alcuni, comprometterebbe anzi la tradizione della città sul Palatino; ma questa conseguenza non sembra necessaria, poiché tra le antichissime comunità, federate o no, poté accadere che due (quelle del Palatium e del Cermalus) costituissero una forte e sviluppata organizzazione politica, acquistando così la fisionomia di una vera città e un ruolo di supremazia sugli altri villaggi.

Altre difficoltà presenta la narrazione relativa all'abitato sabino sul Quirinale e alla sua inclusione nella città dopo l'alleanza tra Romolo e Tito Tazio. Si è su questa base ricostruita una città latino-sabina comprendente Palatino, Quirinale, Campidoglio, Foro (cioè i luoghi dei due stanziamenti e la valle interposta), appoggiandosi anche a pretese conferme di alcuni elementi topografici, come la porta Ianualis (che è la stessa cosa dell'arco di Giano), considerata il punto di unione delle due città, e il Comizio e il Foro, ritenuti i luoghi di incontro dei due popoli. Questo schema dello sviluppo della città va escluso perché lascia fuori l'Esquilino e il Celio, e cioè quei villaggi che avevano senza dubbio maggiori punti di contatto col Palatino, come è testimoniato dal Septimontium. Rimane peraltro non improbabile la tradizione degli stanziamenti sabini sul Quirinale, che sembra confermata anche dal sabinismo di alcuni toponimi.

Quanto infine agli ulteriori sviluppi della città, le versioni tradizionali sono incerte: in modo particolare l'inclusione del Quirinale è attribuita a Numa Pompilio, quella del Celio a Tullo Ostilio, ad Anco Marzio ancora quella del Celio e anche dell'Aventino e del Gianicolo, a Servio Tullio quella del Quirinale, del Viminale e dell'Esquilino.

Queste considerazioni intorno alle origini di R., fondate sui dati della tradizione, non avrebbero naturalmente validità se non ci fosse possibile, almeno in parte, commisurarle con dati archeologici. Benché la documentazione archeologica sia estremamente sporadica, le indicazioni che se ne possono trarre sono molto notevoli. Appare anzitutto che il luogo di R. fu frequentato sino dal II millennio, come è documentato dai trovamenti, avvenuti nel secolo scorso sull'Esquilino e nella zona del Castro Pretorio, di oggetti riferibili all'Età del Rame e del Bronzo e, con maggiore evidenza, dalle recenti scoperte nell'area di S. Omobono di frammenti (in uno strato di riporto) di ceramica appenninica e subappenninica (si può pensare forse ad abitazioni sul Campidoglio). Ma una vera occupazione del suolo di R. è attestata solo per l'Età del Ferro; i principali trovamenti sono: i fondi di capanne sul Palatino (davanti al tempio della Mater Magna, e sotto la Domus Flavia) con abbondante materiale della prima e seconda fase laziale, la tomba sotto la Casa di Livia, il sepolcreto della Via Sacra con estensioni alla zona del tempio del Divo Giulio e probabilmente all'area centrale del Foro presso l'Equus Domitiani (in questo luogo e nella Via Sacra si hanno anche fondi di capanne di età successiva), tombe sulla Velia, sotto il Foro di Augusto, sull'Esquilino e sul Quirinale, depositi votivi sul Quirinale. Il materiale si inquadra nella civiltà laziale del Ferro: del tipo più antico sono le tombe presso il tempio del Divo Giulio; seguono le più antiche tombe della Via Sacra e quella del Palatino; leggermente più recenti i più antichi materiali dell'Esquilino e del Quirinale. La seconda fase laziale ha una documentazione assai povera (soprattutto se confrontata con il fiorire in zone limitrofe della civiltà orientalizzante): per quanto riguarda la Via Sacra si tratta di tombe di bambini che si seppellivano presso le capanne. All'inizio domina il rito incineratorio, alla fine della prima fase laziale comincia a prevalere il rito inumatorio. Oltre alle più strette affinità laziali si notano anche influenze del villanoviano dell'Etruria meridionale, quindi forse della civiltà meridionale delle tombe a fossa e, verso la fine della prima fase laziale (particolarmente nelle tombe dell'Esquilino), della zona sabina (non convincenti i rapporti con la civiltà micenea, proposti dal Müller-Karpe). Dopo la classificazione, che risale al Pinza, nelle due fasi laziali, si sono proposti più complessi schemi di suddivisione (Gjerstad, Müller-Karpe, Peroni). In cronologia assoluta, gli inizî vengono riportati all'VIII (Pinza ecc.) o (per le tombe del tempio del Divo Giulio) anche al IX sec. (Puglisi), o addirittura al X (Müller-Karpe).

Questo quadro dei trovamenti contraddirebbe secondo alcuni la tradizione della priorità del Palatino (così già il Pinza): sui varî colli sarebbero esistiti villaggi indipendenti che in un dato momento avrebbero proceduto ad un sinecismo; solo questa unione sarebbe da considerarsi la nascita di R., e potrebbe essere avvenuta anche in età relativamente recente (intorno al 575 secondo Gjerstad). Per taluni invece sono l'Esquilino (così il Nissen) o il Quirinale (così il Degering, il Kornemann, il von Gerkan) che vanno considerati la prima Roma. Queste vedute si innestano naturalmente con un dato tradizionale già visto sopra, il Septimontium, interpretato come una federazione di villaggi situati su diversi monti in un'età in cui le due alture del Palatino (Palatium e Cermalus) sono distinte, e ritenuto perciò o una fase preurbana anteriore alla città del Palatino, o (se si nega una città del Palatino) una fase pure preurbana che sarebbe durata molto a lungo, dando poi luogo alla costituzione, per sinecismo, di una città solo nel VI sec. (Gjerstad).

Senonché non sembra opportuno aspettare a dare il nome di città ad un sinecismo dei villaggi del Palatino, Esquilino, Quirinale, poiché una fase tanto estesa della città molto probabilmente non fu la prima, ma fu preceduta da altre; pare perciò sempre preferibile considerare il Palatino la città più antica; ciò si accorda con la tradizione, con la documentazione archeologica particolarmente ricca sul Palatino e ai suoi margini, con la considerazione delle felici condizioni geografiche di questo colle, che offriva sicurezza (al confronto di altri colli, come Celio, Esquilino o Quirinale) e insieme sufficiente estensione (a differenza del Campidoglio), e dava la possibilità di controllare luoghi di vitale interesse come la zona del Foro Boario e il guado in corrispondenza dell'Isola Tiberina. Impossibile è naturalmente determinare in quale periodo, certamente però molto antico, l'abitato del Palatino abbia raggiunto una struttura politico-amministrativa evoluta a un grado tale da meritare il nome di città (naturalmente non è da pensare ad una fondazione, secondo il racconto leggendario, bensì ad uno sviluppo graduale, come si può dedurre anche dalla presenza della tomba dell'VIII sec. sotto la Casa di Livia, nel cuore cioè del Palatino). Quanto al Septimontium (inteso sempre in senso non politico ma religioso), esso può essere riferito sia ad una fase in cui vi erano ancora villaggi autonomi sia ad una fase posteriore alla costituzione della città del Palatino. Da escludersi invece una città latino-sabina.

Per questo periodo antichissimo un'idea solo approssimativa possiamo farci dell'aspetto urbanistico: sui colli, tra i frequenti boschi di querce, di faggi, di elci (che hanno lasciato traccia nella toponomastica), erano densi gruppi di capanne, a pianta per lo più ellittica, costruite con travi di legno e pareti di canne intonacate di argilla; il culto si doveva svolgere nelle grotte (Lupercale sul Palatino, antro di Caco sull'Aventino, mundus), nei boschi (Giove Fagutale, Giunone Lucina sull'Esquilino), presso le sorgenti, e per il rituale doveva essere sufficiente un altare: celebri altari, forse ancora dell'età regia, erano quelli di Carmenta sotto l'angolo O del Campidoglio, di Vulcano sopra il Comizio, di Giuturna nel Foro, di Marte nel Campo Marzio (poi centro sacro della lustratio del censimento), di Ercole nel Foro Boario (ara maxima), di Conso tra Palatino e Aventino, di Dite e Proserpina nel Tarentum presso il Tevere (questi ultimi due sotterranei). I morti si seppellivano lontano dall'abitato, spesso in prossimità delle valli, dove frequentemente ristagnava l'acqua dei vari torrentelli e del Tevere stesso. Terrapieni di fortificazione si costruivano nei punti deboli. La conformazione geografica dettò il tracciato di sentieri, poi di vie, come quelle che risalivano le valli nel senso della loro lunghezza per sfruttarne la minima pendenza (Via Sacra, Argiletum, vicus Patricius), o quelle che seguivano gli itinerarî delle piste extraurbane che portavano nei paesi confinanti (talune anzi poterono essere preesistenti alla città): nessun chiaro disegno urbanistico dunque, ma una struttura obbligata dal terreno.

2. Roma nel VI secolo. - Dopo questo oscuro periodo delle origini un nuovo stadio ci appare con lineamenti più sicuri, quello della città delle quattro regioni. Secondo la tradizione, Servio Tullio stabilì una divisione della città in quattro parti (regioni Suburana, Esquilina, Collina e Palatina) che costituì la base della ripartizione del popolo in tribù, attribuita anch'essa all'opera riformatrice di Servio Tullio. La regione Suburana comprendeva il Celio; l'Esquilina, l'Oppio, il Cispio e il Fagutal; la Collina, i colli Viminale e Quirinale; la Palatina il Palatium, il Cermalus e la Velia. Rimanevano fuori l'Aventino e il Campidoglio: questi del resto non fecero parte della città altro che in età imperiale, il primo per motivi che ci sfuggono, il secondo per il suo carattere di acropoli. Conosciamo i limiti delle regioni da un antico documento riprodotto da Varrone (De ling. Lat., v, 45 ss.), che elenca i 27 sacrarî degli Argei (ai quali si prestava un culto di non chiaro significato il 16 e il 17 marzo) distribuiti per le quattro regioni.

La città delle quattro regioni veniva ad avere una superficie molto approssimativa di 285 ettari; essa appare già molto grande per il VI sec., ma occorre considerare che erano incluse molte zone non abitate, i numerosi boschi, le paludi, le pareti troppo scoscese dei colli. Allo stesso Servio Tullio è attribuita la costruzione di una cinta urbana; è in realtà assai verosimile che già in questa età si facessero opere di fortificazione nei tratti meno naturalmente difesi.

A Servio Tullio e ai Tarquini è attribuita anche una imponente serie di lavori urbanistici e di costruzioni: il prosciugamento della valle del Foro mediante la cloaca Maxima, la costruzione di numerosi santuarî, come quelli di Diana sull'Aventino, della Mater Matuta e della Fortuna nel Foro Boario, tutti per opera di Servio Tullio, e quello di Giove Capitolino per opera dei due Tarquini.

Queste tradizioni trovano garanzia in una serie di conferme archeologiche e ancor più nella sostanziale coerenza storica del quadro che da varî elementi si può comporre di quella che è stata definita la "grande Roma dei Tarquini". La sistemazione del Foro sembra avere una controprova nel fatto che nel sepolcreto della Via Sacra le tombe cessano nella prima metà del VI secolo. Varî argomenti convalidano l'attribuzione al VI sec. dei templi di Diana sull'Aventino, della Mater Matuta e della Fortuna nel Foro Boario (terrecotte architettoniche della fine del VI), di Giove Capitolino (tradizione dell'attività di uno scultore di Veio, Vulca, messa a raffronto con l'accertata scuola di coroplasti a Veio alla fine del VI sec.).

Molti elementi sono evidentemente incerti e confusi; lo sdoppiamento dei due Tarquini (che viene sostenuto da una parte della critica storica) è particolarmente evidente nel campo topografico: vediamo infatti attribuita a Tarquinio Prisco la preparazione di opere che vengono assegnate anche a Tarquinio il Superbo, come il Circo Massimo e il tempio di Giove Capitolino. Così la figura di Servio Tullio fu certo amplificata grandemente dalla leggenda. Queste alterazioni non impediscono però di riconoscere i tratti fondamentali di R. nell'ultima età regia. La città già da tempo era uscita dai limiti del Palatino; della comunità cittadina erano entrati a far parte i villaggi dei varî colli. Così il centro di gravità si spostò dal Palatino verso il Foro. Ai piedi del Campidoglio fu fissato il luogo delle assemblee, il Comizio, e lì accanto sorse un edificio per le adunanze del senato, la Curia Ostilia, probabilmente costruita da Tullo Ostilio. Tra il Palatino e la valle del Foro furono posti la dimora ufficiale del re, la Regia, e il santuario di Vesta. La valle tra il Palatino e il Campidoglio divenne luogo di mercato e di riumone. L'esistenza di molti templi è documentata dalle terrecotte architettoniche trovate sul Palatino presso il tempio della Mater Magna, nel Comizio, nel Foro, nel Foro Boario, in varî punti dell'Esquilino e del Quirinale. Tra tutti doveva emergere il grande santuario capitolino, dedicato alla triade Giove-Giunone-Minerva.

3. La prima età repubblicana. - I primi anni della Repubblica non rallentarono l'attività edilizia: nuovi templi dettero decoro al Foro Romano (Saturno negli anni 501-493, Castore e Polluce nel 484), mentre tra l'Aventino e il Circo Massimo sorse nel 493 (ma la data secondo alcuni è da spostarsi dopo la battaglia di Cuma) il tempio di Cerere, Libero e Libera, decorato da due artisti greci, Gorgasos e Damophilos (Plin., Nat. hist., xxxv, 154). Seguì poi un lungo periodo di stasi, nel quale si registra solo la costruzione dei templi di Semo Sancus sul Quirinale (466), e di Apollo (431?): questo culto straniero, introdotto per scongiurare una pestilenza, fu però lasciato fuori del pomerio. Questa stasi deve mettersi in relazione con le difficili condizioni politiche di R., impegnata in ardue lotte con i suoi vicini. Un fatto di ordine urbanistico molto importante è collegato con le lotte della plebe: nel 456, mediante la legge Icilia de Aventino publicando, il colle fu assegnato ai plebei, ed acquistò così un particolare carattere di quartiere plebeo: fu questa forse la ragione per cui l'Aventino non fu compreso entro il pomerio fino all'età di Claudio. Su questo colle fu innalzato nel 392 il tempio di Giunone Regina da Camillo, che lo aveva votato nel 396 poco prima della presa di Veio. Nel corso del V sec. si dovettero apprestare nel Campo Marzio installazioni per lo svolgimento dei comizî centuriati (Ovile, poi Saepta) e del censimento (Villa Publica, secondo le fonti del 435 a. C.). Riguardo all'edilizia privata, abbiamo una prescrizione delle XII Tavole (Varr., De ling. Lat., v, 22) che ogni singola casa, contro i pericoli di incendi, dovesse essere isolata da un ambitus di 2 piedi e mezzo.

L'incursione gallica dovette causare distruzioni gravissime (tutta la città fu occupata e incendiata, ad eccezione del Campidoglio): non pochi proposero di abbandonare la città e di portarsi a Veio, ma il progetto cadde davanti alla resistenza di Camillo. Per la ricostruzione fu dato ai privati libero accesso alle cave di materiali, mentre i laterizî furono apprestati dallo Stato. In un solo anno la città fu riedificata, ma la fretta della ricostruzione e la mancanza di un piano regolatore, per cui non si ebbe cura di tracciare i vici e si lasciò l'iniziativa ai privati, dettero alla nuova R. quella pianta irregolare che Livio (vi, 4, 6) riscontra ancora ai suoi tempi notandone la differenza con le colonie divise in reticolati rettangolari: Ea est causa, cur veteres cloacae primo per publicum ductae nunc privata passim subeant tecta, formaque urbis sit occupatae magis quam divisae similis. È tuttavia probabile che questa valutazione di Livio sia arbitraria, poiché la irregolarità della pianta di R. fu certamente dovuta in massima parte al suo graduale espandersi e alla accidentata conformazione del terreno.

Oltre a questa opera di ricostruzione, la dolorosa esperienza della catastrofe gallica consigliò nel 378 l'inizio di una poderosa cinta muraria saxo quadrato, che comprendeva il Campidoglio, il Quirinale, il Viminale, gran parte dell'Esquilino, il Celio, l'Aventino, il Palatino. Il perimetro, di circa 11 km, abbracciava la considerevole superficie di 426 ettari, che risultava superiore a quella di Atene (come rileva Dionigi di Alicarnasso, iv, 13); né è da credere che fossero incluse molte zone disabitate per aderire ad una linea naturale di difesa, poiché la capacità tecnica allora raggiunta (che è dimostrata da un'opera esclusivamente artificiale quale è l'aggere) avrebbe reso possibile far passare le mura su una linea più arretrata. R. era dunque la più grande città d'Italia (seguita da Capua, con appena 18o ettari). Altre notizie topografiche notevoli di questo periodo sono quelle relative alla costruzione dei templi di Marte sulla via Appia (388) e di Giunone Lucina sull'Esquilino (375), della Concordia nel Foro (votato nel 367), di Giunone Moneta sull'arce (244).

Dopo la metà del IV sec., quando la potenza romana vincitrice della Lega Latina domina tutto il Lazio ed entra quindi decisamente nella fase di conquista della penisola, si ha un nuovo impulso all'abbellimento della città. La tribuna del Comizio è decorata con i rostri delle navi anziati catturate nel 338 (onde il nome che essa prese di Rostra), le tabernae del Foro sono provviste di tribune (maeniana); probabilmente rimangono solo le tabernae dei banchieri e dei venditori di generi raffinati, e il Foro cessa la sua funzione di luogo di mercato che viene continuata dall'attiguo Forum piscarium, con una evoluzione quasi contemporanea a quella dell'agorà di Atene, che vide allora sorgere nelle adiacenze il mercato; intorno a quell'epoca Aristotele scriveva (Pol., vii, 11, 2): "La piazza pubblica... non sarà mai insozzata da mercanzie e l'ingresso sarà interdetto agli artigiani... Lontana e ben separata da essa sarà la piazza destinata al mercato". Non è sicuro tuttavia che in ciò si debba vedere una diretta imitazione della Grecia, e altrettanto incerta sembra una recente teoria sul Comizio (Sjöqvist), che in questo stesso periodo di tempo sarebbe stato creato ad imitazione della Pnice.

Si pongono le prime istallazioni fisse (carceres) del Circo Massimo (329); si introduce il primo acquedotto, l'Acqua Appia (312), per opera del censore Appio Claudio; le tabernae argentarie vengono ornate di scudi dorati (310); il centro sacro della città, l'area capitolina, è decorata da statue colossali di Ercole (305) e di Giove (293) (questa ultima si diceva che potesse essere vista dal tempio di Giove Laziale sul Monte Albano); a consacrare le origini di R. gli Ogulnii, edili nel 296, simulacra infantium conditorum urbis sub uberibus lupae posuerunt (Liv., x, 23, 12); si innalzano colonne onorarie (Duilio 260, Emilio Paolo 255); si costruisce il Circo Flaminio (221). Numerosi templi sorgono ovunque, spesso votati dai generali nei momenti culminanti delle battaglie: Salus sul Quirinale (303), Bellona nella zona del Circo Flaminio (poco dopo il 298), Giove Vincitore (295), Vittoria (294), Giove Statore (294), tutti e tre sul Palatino, Quirino sul Quirinale (293), Esculapio nell'isola (291), Conso sull'Aventino (272), Tellus nelle Carine (votato nel 268), Pales (267), Vortumno sull'Aventino (264), Giano nel Foro Olitorio (dopo il 260), Fede sul Campidoglio (254 o 250), Speranza nel Foro Olitorio (durante la prima guerra punica), Giuturna nel Campo Marzio (forse della stessa epoca), Penati sulla Velia (certo esistenti nel III sec.), Flora sull'Aventino (metà del III sec.), Iuppiter Libertas pure sull'Aventino (238), Honos presso la Porta Capena (234), Mente e Venere Ericina entrambi sul Campidoglio (215), Virtus presso quello di Honos (205).

Soltanto di pochi di questi templi si hanno resti, e sempre di fasi posteriori. Il più antico tempio di pietra che ci sia conservato è il tempio C del largo Argentina, databile al IV sec.; della seconda metà del III sec. è il tempio A dello stesso largo Argentina.

4. La tarda Repubblica. - Nel II sec. a. C. i rapporti con la civiltà ellenistica attraverso le guerre in Oriente e l'avvento di una classe innovatrice grecizzante aprirono anche nell'urbanistica le porte all'influenza greca, e si iniziò una trasformazione monumentale adeguata al ruolo di potenza egemonica che R. raggiunse dopo la seconda guerra punica. Nel 182 a. C. si poteva alla corte macedone deridere l'aspetto primitivo di R., speciem urbis nondum exornatae neque publicis neque privatis locis (Liv., xl, 5, 7). Nel corso del II sec. si realizzarono, soprattutto nel Foro e nei quartieri prossimi al Tevere, le prime sistemazioni urbanistiche a carattere monumentale. Artisti greci lavorano a R. (Hermodoros di Salamina), si adottano tipi architettonici greci, ma al tempo stesso si hanno nuove creazioni (archi trionfali e onorarî, basiliche), e si inizia una applicazione razionale dell'arco e dell'opera cementizia che permette grandi costruzioni coperte a vòlta (portico Emilio). Rinnovamenti edilizi furono richiesti dai gravi incendi che si abbatterono su vaste zone della città nel 241, nel 213, nel 210, nel 192 (nello stesso anno anche un terremoto), nel 178, nel iii. Un notevole aumento della popolazione dal principio del II sec. fu determinato dall'afflusso dei Latini, che trasferendosi a R. venivano a godere di speciali diritti. A somiglianza delle città greche si costruì una serie di portici monumentali: nel 193 un portico dalla porta Fontinale sul Campidoglio all'ara di Marte nel Campo Marzio, nel 179 nella zona del Foro Olitorio, nel 168 presso il Circo Flaminio (Porticus Octavia). Si fabbricarono grandi magazzini commerciali, come l'emporio e il vastissimo portico Emilio (193) presso il Tevere a S-O dell'Aventino, in parte ancora conservato. A E del Foro si edificò un mercato, Macellum (179). Sul Tevere, dove anteriormente era ricordato un solo ponte di legno, il Sublicius presso il Foro Boario, si costruì, poco più a valle, il ponte Emilio (179 i piloni, 142 i fornici). Nel 174 si procedette sistematicamente alla pavimentazione delle strade; nel 184 era stata ingrandita la rete delle cloache. Nuovi acquedotti (acque Marcia e Tepula) furono costruiti nella seconda metà del II secolo.

I più antichi archi onorarî conosciuti sono quelli di L. Stertinio (196), due nel Foro Boario, uno nel circo Massimo, sostenenti statue dorate; segue nel 190 l'arco di Scipione sul Campidoglio.

La più antica basilica è la Porcia, costruita da Catone nel 184 nel Comizio; seguirono, tutte nel Foro, nel 179 la basilica Fulvia e Emilia (più tardi detta solo Emilia), nel 170 la Sempronia, nel 121 l'Opimia: esse furono successivamente tutte distrutte, ad eccezione dell'Emilia, che conserva anche strutture probabilmente attribuibili alla fase originaria.

Si ha notizia della costruzione di molti nuovi templi: Veiove sul Campidoglio (conservato in rifacimenti posteriori), Fauno nell'isola, Giunone Sospite nel Foro Olitorio, Fortuna Primigenia sul Quirinale (tutti nel 194), Iuventus presso il Circo Massimo (193), Mater Magna (cioè Cibele) sul Palatino (191), Hercules Musarum (187) presso il Circo Flaminio, di pianta circolare (noto dalla Forma Urbis), Ercole Vincitore nel Foro Boario (forse della prima metà del II sec.) anch'esso circolare, Pietas nel Foro Olitorio (181), Venere Ericina sul Quirinale (181), Diana e Giunone Regina, ambedue in circo Flaminio (179) (il secondo è raffigurato prostilo nella Forma Urbis ed è in parte conservato nel rifacimento severiano), Lari Permarini (179) e Fortuna equestre (173) nel Campo Marzio, Giove Statore presso il tempio di Giunone Regina (149), periptero sine postico (così lo definisce Vitruvio, iii, 2, 5; nella Forma Urbis è rappresentato periptero su tre lati), il primo tempio costruito in marmo (Vell., i, ii, 3), Felicitas (dopo il 146) forse presso il Velabro, Ercole Vincitore forse sul Celio (142), Marte nella zona del circo Flaminio (138). Si aggiungano molti rifacimenti (dei Castori nel Foro nel 117, della Mater Magna nel 111, ecc.).

Una novità urbanistica notevole è rappresentata dai portici costruiti a protezione di uno o più templi, come il portic9 di Metello (149; poi rifatto da Ottavia) intorno ai templi di Giunone Regina e Giove Statore, e forse la porticus Minucia vetus (110) intorno al tempio dei Lari Permarini, nella zona del Circo Flaminio.

Alla fine del II sec. e al principio del secolo seguente vediamo svilupparsi una grande architettura caratterizzata dal perfezionamento della tecnica, dall'audacia e fertilità inventiva, dalla grandiosità di proporzioni e varietà della decorazione: un esempio importante di questa nuova edilizia è il Tabularium (78). Anche il Foro e il Comizio furono in buona parte rinnovati in età sillana. A Silla è dovuto inoltre l'ampliamento del pomerio (che era rimasto inalterato dal IV sec.): e in questo vediamo un segno dell'incremento dell'abitato urbano, del quale abbiamo scarse documentazioni letterarie o archeologiche, ma che dobbiamo dedurre dall'aumento della popolazione. Tale aumento si determinò in misura notevole nell'età tra i Gracchi e Cesare per l'attrattiva delle distribuzioni gratuite di grano e, durante le guerre sociali, per l'afflusso di Italici che non avevano partecipato all'insurrezione; nell'età di Silla si calcola una popolazione di 400.000 abitanti.

Le profonde differenziazioni sociali avevano dato luogo alla formazione di quartieri popolari e quartieri nobili. Continuò il carattere plebeo dell'Aventino: anche il Celio fu un quartiere popolare a costruzione intensiva (abbiamo ricordo, da Cicerone, di una casa di Ti. Claudio Centumalo, così alta che si dovette demolire). La classe dirigente amò abitare vicino al centro politico, e perciò il Palatino divenne sempre più un quartiere aristocratico: qui abitarono Gn. Ottavio console nel 165 a. C., Fulvio Flacco console nel 125 a. C., Q. Lutazio Catulo, M. Livio Druso, Ortensio, l'oratore L. Crasso, Cicerone, Milone, M. Antonio e molti altri; un illustre personaggio fu certamente il proprietario della Casa dei Grifi (degli inizî del I sec. a. C.); Crasso per il lusso della sua dimora fu chiamato "Venere Palatina"; la casa di Cicerone, nota per i contrasti tra Cicerone e Clodio e per l'orazione De domo, era in conspectu totius urbis; sul Palatino ebbe i natali l'imperatore Augusto. Un elegante quartiere fu anche quello delle Carine: vi abitarono M. Manilio console nel 149 a. C., Q. Cicerone, Pompeo.

Altre zone del centro, come il vicus Tuscus, la Subura ecc., erano quartieri di piccolo commercio e artigianato, ciò che portava di conseguenza un carattere edilizio popolare ed intensivo; al tempo stesso però non vi mancavano abitazioni signorili, come ci è testimoniato per la Subura (particolarmente nell'Impero).

Isolate ci appaiono le notizie di illustri dimore sul Quirinale (casa di Pomponio Attico), e sul Viminale (lo splendido palazzo del giurista G. Aquilio Gallo). Alla periferia intanto sorgono giardini (horti), sul Quirinale (horti di Sallustio ecc.), sul collis hortulorum poi detto Pincio (horti di Lucullo ecc.) e nel Campo Marzio (horti di Pompeo), e soprattutto sulla sponda destra del Tevere (horti di Clodio, Cesare ecc.).

Nella prima metà del I sec. si ricorda la costruzione del tempio della Fortuna huiusce diei (votato da Lutazio Catulo nel 101 a. C.), da identificarsi col tempio B del largo Argentina, del tempio di Honos e Virtus sul Campidoglio (per opera di Mario), di Hercules Sullanus sull'Esquilino, e la ricostruzione, dovuta a Silla e a Lutazio Catulo, del tempio di Giove Capitolino. A questo periodo appartiene la trasformazione del tempio A del largo Argentina che da prostilo diviene periptero (ma tendenze conservatrici si colgono talora nella decorazione, come nel frontone fittile trovato presso S. Gregorio al Celio). Un grande magazzino annonario, gli horrea Galbana, sorse a S-O dell'Aventino intorno al 100 a. C. Nel 62 fu costruito il ponte Fabricio tra la riva sinistra e l'isola, ancora oggi ottimamente conservato, e poco dopo il ponte Cestio tra la riva destra e l'isola (rifatto in gran parte nel IV sec.).

Con Silla e dopo Silla l'attività urbanistica, oltre che una conseguenza dello sviluppo materiale e culturale, fu anche programma politico dei capi dello Stato, ed assunse un sempre crescente carattere di monumentalità, e in molti casi si realizzò secondo piani organici (la programmazione era stata prima di allora resa più difficile dall'annualità delle magistrature). Espressione di questa nuova urbanistica è il magnifico complesso degli edifici di Pompeo: il teatro (col tempio di Venere Vincitrice), i portici, l'Hecatostylon, costruiti in una zona periferica, ma destinata ad avere un grande sviluppo, la pianura del Campo Marzio (registriamo nel teatro di Pompeo anche un'innovazione nella tecnica costruttiva, l'introduzione dell'opera reticolata).

Cesare rinnovò il centro con importanti opere nel Foro Romano (basilica Giulia) e soprattutto con la costruzione di un nuovo Foro, concepito come un allargamento di quello antico, al quale era collegato attraverso il Comizio e la Curia (spostata secondo l'orientamento del nuovo Foro). Quest'impresa ha la sua importanza anche come primo esempio di "risanamento" dei vecchi quartieri centrali, ed esso verrà largamente seguito nell'Impero, nonostante le alte pretese dei proprietari privati (per comprare l'area del Foro di Cesare occorsero 100 milioni di sesterzi). Molte altre opere furono iniziate e progettate da Cesare, e anzi si propose un piano regolatore per lo sviluppo della città con una lex de urbe augenda, che conosciamo attraverso le lettere di Cicerone del 45 a. C.; ne era autore probabilmente un architetto ateniese. Il piano prevedeva una deviazione del Tevere dal ponte Milvio alla base dei colli Vaticani, l'edificazione del Campo Marzio, la destinazione del Campo Vaticano alle funzioni proprie del Campo Marzio. Ma, come scrive Svetonio (Caes., 44, 4), talia agentem atque meditantem mors praevenit.

Nel 42 fu interamente rifatto il tempio di Saturno e nel 36 la Regia; tra il 42 e il 38 fu forse riedificato il tempio di Nettuno in circo Flaminio; a quest'epoca appartiene probabilmente il tempio rettangolare pseudoperiptero del Foro Boario.

5. Età di Augusto. - Veramente radicale fu il rinnovamento della città compiuto da Augusto. Prima di quest'epoca, secondo il giudizio di Svetonio (Aug., 28), l'Urbe non era pro maiestate imperii ornata, ed era soggetta alle inondazioni e agli incendi; con Augusto divenne più sicura contro questi pericoli e trasformò il suo volto. Augusto stesso morendo disse agli amici di aver ricevuto una città di mattoni e di lasciarla di marmo (Cass. Dio, lvi, 3, p. 3). L'abbellimento della città rientrava in un programma politico: nelle Res Gestae le opere urbanistiche sono rammentate con solennità in un lunghissimo elenco; tra l'altro è ricordato il restauro di 82 templi nel 29 a. C., nullo praetermisso quod eo tempore refici debebat. (Cfr. Liv., iv, 20, 7: templorum omnium conditor ac restitutor). Molte opere furono ordinate dall'imperatore stesso, altre dai suoi collaboratori (nell'età repubblicana la costruzione degli edifici era dovuta ai consoli, pretori, dittatori, censori, soprattutto per opere di pubblica utilità, ed edili; nel IV sec. diverrà funzione del praefectus urbi).

Ancora una volta si dovette provvedere al vecchio centro per ragioni sia monumentali che pratiche, essendo insufficiente lo spazio destinato agli affari, soprattutto giudiziarî. Fu rinnovato il Foro Romano (tempio del Divo Giulio, dei Castori, della Concordia, basilica Giulia, Rostri, Curia, ecc.), fu creato un altro Foro con un tempio di Marte Ultore, attiguo al Foro di Cesare e coordinato planimetricamente con esso, nuovo grande polmone alla vita congestionata del centro. Presso il Foro di Cesare fu rifatto l'Atrium Libertatis per opera di Asinio Pollione, che vi collocò la prima biblioteca pubblica. Una vasta zona fu risanata sull'Esquilino con la costruzione del portico di Livia, e degli horti di Mecenate (un avanzo è il cosiddetto auditorio di Mecenate, un'aula terminante con un emiciclo a gradini, forse un ninfeo, con pitture raffiguranti giardini ecc.), dopo l'abolizione del cimitero plebeo che esisteva ai confini della zona abitata dell'Esquilino. Sul Palatino sorse il grande tempio di Apollo Palatino col portico delle Danaidi, presso la stessa abitazione del principe, destinata a diventare il nucleo delle grandi reggie dei suoi successori. Sull'Aventino furono rifatti il tempio di Minerva, periptero ottastilo, noto dalla Forma Urbis, e il tempio di Diana che fu detta Cornificiana, diptero ottastilo, pure noto dalla Forma Urbis. Sul Campidoglio furono eretti il tempio esastilo di Giove Tonante, e quello circolare di Marte Ultore, e fu restaurato il tempio di Giove Capitolino. Ma la zona che, dietro gli esempî di Pompeo e di Cesare, fu scelta per lo sviluppo della nuova architettura monumentale fu il Campo Marzio e la pianura ad E della via Flaminia, dove (in parte per l'iniziativa di Agrippa) furono costruiti il Pantheon, il Poseidonion o basilica Neptuni (l'aula ancora esistente, nel rifacimento adrianeo, dietro al Pantheon), e, attigui, i Saepta (per lo svolgimento dei comizi) circondati dal portico di Meleagro e degli Argonauti e dal Diribitorium (per lo spoglio dei voti) (questo complesso è noto dalla Forma Urbis), le Terme di Agrippa e lo Stagno, e inoltre l'Ara Pacis, il Mausoleo, l'obelisco solare, l'anfiteatro di Statilio Tauro, il portico Vipsanio, il teatro di Balbo, il portico di Filippo intorno al tempio di Hercules Musarum; fu compiuto il teatro di Marcello già iniziato da Cesare; furono interamente ricostruiti i tre templi del Foro Olitorio, e il tempio di Apollo presso il teatro di Marcello (per opera di C. Sosio), il tempio di via delle Botteghe Oscure.

Una così vasta opera dovette dare incremento a scuole di artisti e artigiani, di modo che sarebbe errato volere individuare un unico stile augusteo nell'architettura degli edifici di Roma, tenuto conto anche del lungo periodo del regno di Augusto: entro la comune ispirazione classicistica si hanno diverse tendenze stilistiche, dal naturalismo esuberante del tempio di Apollo Sosiano al formalismo accademico del Foro di Augusto o al tradizionalismo (anche nel materiale: travertino e peperino) dei templi del Foro Olitorio.

Un rinnovamento si ebbe anche nell'edilizia privata, come si ricava da Strabone (v, 3, 7, p. 235), che critica le speculazioni di chi comprava gli immobili per abbatterli e ricostruirli: un forte aumento della popolazione era avvenuto nel corso del I sec. (se nel 5 a. C. si può, col Beloch, calcolare un numero di 500.000 abitanti), accentuando il problema dell'urbanesimo: da ciò ebbe origine il tipo intensivo di abitazione (cfr. Vitr., ii, 8, 17), cioè l'insula, col suo sviluppo verticale (6 piani aveva la casa sotto l'Aracoeli, del II sec. d. C.; una legge di Augusto limitava l'altezza sulla strada a 70 piedi, una di Traiano a 6o piedi), e i suoi molti appartamenti, gravitanti non più verso l'interno (come nella domus repubblicana) ma verso l'esterno.

Augusto risolse anche gravi problemi, come l'approvvigionamento idrico, con il restauro di molti acquedotti e con la costruzione di nuovi (Vergine, Giulia; anche in ciò ebbe la collaborazione di Agrippa; furono per l'amministrazione istituiti i curatores aquarum), e la regolamentazione del corso del Tevere, con la pulitura dell'alveo e la delimitazione delle sponde con cippi (un nuovo ponte fu costruito da Agrippa).

La nuova divisione della città sostituì quella antichissima in quattro regioni, ormai del tutto superata dall'incremento urbano: con questa riforma, che fu compiuta nel 7 a. C., la città fu divisa in 14 regioni (cui furono preposti edili o tribuni della plebe o pretori, annualmente eletti dagli abitanti delle singole regioni, e più tardi curatores e denuntiatores), ed ogni regione in vici (con particolare culto nei compita Larum, cui attendevano quattro vicomagistri; ma nell'età di Diocleziano troviamo complessivamente 48 vicomagistri in ogni regione). Questa divisione divenne la base dell'organizzazione dei servizi urbani (ispirata forse da Alessandria): per ogni due regioni era stabilita una coorte di vigili, adibiti al servizio contro gli incendi (in età repubblicana affidato ai triumviri incendiis arcendis) e alla sorveglianza notturna. Il quadro delle 14 regioni ci fornisce anche una misura dell'estensione della città in età augustea, bene al di là delle antiche mura: del tutto fuori di esse sono infatti cinque regioni. Le regioni designate inizialmente con un numero d'ordine, furono indicate più tardi con un nome. Esse sono: I) Porta Capena: zona intorno alla via Appia dalla Porta Capena delle mura Serviane fino al fiume Almone. II) Caelimontium: Celio. III) Isis et Serapis (così detta da un santuario delle due divinità egizie): valle del Colosseo e Oppio. IV) Templum Pacis: dalla via Sacra e dal Tempio della Pace si estendeva alla Subura e al Cispio. V) Esquiliae: la parte extramuranea dell'Esquilino. VI) Alta Semita (cosiddetta dalla via che percorreva la sommità del Quirinale): Viminale e Quirinale. VII) Via Lata: la pianura ad E della via Flaminia, detta all'inizio anche via Lata. VIII) Forum Romanum: Foro Romano, Fori imperiali, Campidoglio e zona a S di esso. IX) Circus Flaminius: pianura tra le mura, la via Flaminia e il Tevere. X) Palatium: Palatino. XI) Circus Maximus: Circo Massimo, Foro Boario e Velabro. XII) Piscina Publica: il cosiddetto piccolo Aventino. XIII) Aventinus: Aventino e pianura del Testaccio. XIV) Trans Tiberim: tutti i quartieri sulla destra del Tevere. In questa riforma si volle prescindere dal significato giuridico della Urbs: questa infatti si identificava colla superficie circoscritta dal pomerium, mentre la città delle XIV regioni era assai più vasta. Ci spieghiamo perciò la distinzione, frequente nei giuristi, tra i termini Urbs e Roma: quest'ultimo significava la concreta realtà urbanistica e si estendeva fino ai continentia tecta.

6. Da Tiberio a Nerone. - Il regno di Tiberio fu certamente modesto nell'attività edilizia, ma esagerati dall'ostilità che caratterizza la storiografia dell'imperatore sembrano il giudizio di Svetonio (Tib., 47, 1) neque opera ulla magnzfica fecit, e quelli simili di Tacito (Ann., vi, 45, 1) e di Cassio Dione (lvii, 10, 13), poiché, oltre a vari edifici restaurati (particolarmente la scena del teatro di Pompeo), sono a lui dovuti il tempio del divo Augusto, la domus Tiberiana sul Palatino, i Castra Praetoria (l'accampamento delle coorti pretorie e urbane, tuttora esistente, raro esempio in R. di semplice architettura militare), varî archi trionfali; inoltre è da ricordare l'istituzione dei curatores alvei et riparum Tiberis, e la generosità con cui furono aiutati, dopo il grande incendio del 27 d. C., i proprietarî di case sul Celio, che il senato riconoscente stabilì fosse chiamato mons Augustus (e da allora si avviò a divenire un quartiere aristocratico); lo stesso avvenne dopo l'incendio dell'Aventino del 36. L'età di Tiberio inoltre segna l'inizio di un nuovo sistema costruttivo, l'opus latericium, la costruzione in mattoni cotti, destinata a rinnovare l'architettura romana.

Ancora più modesta l'attività del breve regno di Caligola: una espressione del suo potere megalomane fu la sua dimora che dalla domus Tiberiana scendeva fino al Foro, mentre un ponte costruito sopra gli edifici tra il Palatino e il Campidoglio permetteva all'imperatore il passaggio diretto dalla sua abitazione al tempio di Giove Capitolino. A Caligola deve risalire la prima costruzione del Serapeo del Campo Marzio, poi rifatto da Domiziano (la singolare pianta, ispirata a modelli orientali, è nota dalla Forma Urbis). Nel Vaticano, verisimilmente negli horti di Agrippina, costruì un circo (poi detto anche di Nerone) e vi collocò l'obelisco ora esistente nella piazza S. Pietro.

Claudio portò a Roma l'acqua Claudia e l'Aniene Nuovo, opere poderose già iniziate da Caligola. Nel rifacimento del tratto dell'Acqua Vergine nelle regioni VII e IX l'arco che attraversava la via Flaminia divenne un arco commemorativo del trionfo britannico. Nel 43 fu dedicata l'Ara Pietatis. Claudio è anche l'autore di un ampliamento del pomerio, nel quale venne finalmente incluso l'Aventino. Dai cippi trovati in più luoghi è possibile ricostruire nelle linee generali il percorso del pomerio di Claudio (esso esclude gran parte del Campo Marzio e dell'Esquilino e il Trastevere). Un incremento notevole della città era avvenuto negli ultimi decenni sull'Esquilino e sul Viminale con la fondazione di estese ville.

Nella prima parte del regno di Nerone si ebbero alcune importanti opere, come il Macellum Magnum sul Celio, e le Terme Neroniane nel Campo Marzio, oltre ad una sontuosa reggia, la domus Transitoria, che con una serie di edifici si estendeva dall'Esquilino al Palatino (dove ne rimangono avanzi). Ma l'avvenimento memorabile per la storia edilizia di R. fu l'incendio del 64. Assai frequentemente si abbattevano sulla città gravi incendî: oltre ai più antichi già ricordati, ve ne erano stati più o meno gravi nel 50, nel 31, nel 23, nel 12 a. C., nel 6, nel 15, 27, 31, 36, 38, 53 (o 54) d. C. Ma all'infuori della catastrofe gallica, nessun altro incendio fu paragonabile a quello del 64. Estese narrazioni di esso abbiamo in Tacito (Ann., xv, 38-44), in Svetonio (Nero, 38), in Cassio Dione (lxii, 16-18); il ricordo ne era ancor vivo nell'età di Domiziano allorché si consacrarono in varie parti della città alcune aree in esecuzione di un voto fatto per scongiurare gli incendi quando urbs per novem dies arsit Neronianis temporibus (C.I.L., vi, 30837). Solo quattro regioni si salvarono, tre furono rase al suolo, gravemente colpite le altre sette (le regioni dove certamente arrivò l'incendio sono la III, VI, VIII, IX, X, XI, XIII).

Qualunque fosse la responsabilità dell'imperatore, certo è che egli, come dice Tacito, sfruttò la rovina della patria e costruì una domus la cui meraviglia non consisteva nelle gemme e nell'oro, cose già solite e rese comuni dal lusso, ma in campi e stagni, selve deserte, spazî aperti e panorami: architetti e ingegneri furono Severus e Celer.

Ma la più importante conseguenza urbanistica fu il piano regolatore predisposto per la ricostruzione. "La città - scrive Tacito, xv, 43 - non fu costruita in modo discontinuo e senza alcun ordine, ma fu misurata la struttura dei quartieri, si dette larghezza alle strade, si limitò l'altezza degli edifici, si aprirono piazze, si aggiunsero portici a protezione della facciata delle insulae. Nerone promise di costruire questi portici a sue spese e di consegnare le aree ripulite ai padroni. Aggiunse premi secondo le categorie dei cittadini e i patrimoni familiari, e fissò i termini entro i quali, costruite le domus e le insulae, si avrebbe avuto diritto al premio. Per scaricare le macerie destinava le paludi ostiensi, le navi che portavano il frumento per il Tevere dovevano ripartire cariche di macerie; gli edifici in determinate parti dovevano costruirsi senza legno, con pietra gabina o albana, che è refrattaria al fuoco; stabilì una vigilanza perché l'acqua, intercettata abusivamente dai privati, scorresse più abbondante e in più luoghi in pubblico; gli edifici non dovevano avere pareti comuni, ma ognuno i suoi muri. Questi provvedimenti, presi per motivi pratici, portarono anche bellezza alla nuova città. Vi era tuttavia chi credeva che l'antica struttura fosse più salubre, poiché l'angustia delle strade e l'altezza delle case davano difesa dai raggi del sole: ora invece l'ampiezza aperta e non difesa dall'ombra ribolliva di un insopportabile calore".

Anche Svetonio (Nero, 16) parla della forma aedificiorum urbis nova e della costruzione dei portici. L'incendio di Nerone segna senza dubbio una svolta nella urbanistica di Roma. La vetus urbs, risultante dallo sviluppo graduale senza un piano generale precostituito era - ad eccezione delle zone delle grandi costruzioni augustee - una città irregolare nella sua struttura, dalle vie tortuose e anguste, le case altissime, di un aspetto molto contrastante con molte altre città del mondo antico. Le distruzioni del 64 resero possibile l'impostazione di una nuova struttura urbanistica, basata sulla regolarità del tracciato stradale e sull'ampiezza delle aree scoperte. Questo rinnovamento, che Nerone ha il merito di aver iniziato, fu svolto però in gran parte nell'età flavia. Una documentazione interessantissima di questa nuova urbanistica si ha in molte parti della Forma Urbis di Settimio Severo, e indirettamente nell'edilizia di Ostia. Il luogo dove si può meglio valutare l'ampiezza di questo rinnovamento è la Via Sacra, che fu - dopo l'incendio o meglio in età flavia - rettificata, innalzata, allargata grandemente, e fiancheggiata da portici monumentali.

7. Dai Flavi alla fine del mondo antico. - La città, ancora sconvolta dai danni dell'incendio di Nerone (Suet., Vesp., 8), fu ancora devastata dal fuoco nel 69 durante le aspre lotte tra Vitelliani e Flaviani, combattute soprattutto sul Campidoglio. Una vasta opera ricostruttiva venne compiuta dalla saggia amministrazione di Vespasiano: egli restaurò il Capitolium; cancellò i segni della tirannia distruggendo la Domus Aurea e nel luogo dello Stagno di Nerone iniziò la costruzione dell'Anfiteatro Flavio; allargò il centro monumentale col nuovo Foro della Pace. Ampliò il pomerio, stabilì la proprietà di luoghi abusivamente occupati; per l'opera di riorganizzazione assunse nel 73, assieme al figlio Tito, la carica, di tradizione repubblicana, della censura. Del rilevamento operato in questa occasione abbiamo un ricordo in Plinio il Vecchio (Nat. hist., iii, 5, 66-67): "Nell'anno 826 dalla sua fondazione... le mura [o meglio la cinta daziaria] raggiunsero 13.200 passi, abbracciando sette monti. La città è divisa in 14 regioni, in 265 compita dei Lari [cioè 265 vici]. Lo spazio dal miliario posto in cima al Foro Romano alle singole porte, che sono oggi 37..., risulta di 20.765 passi. Fino alla periferia (extrema tectorum), compresi i Castra praetoria... raggiunge più di 70 mila passi. Se si aggiunge l'altezza degli edifici, si riterrà certo la città degna di considerazione e si dovrà ammettere che la grandezza di nessuna città al mondo le si può paragonare".

La triste serie degli incendî continuò nell'8o, funestando insieme con l'eruzione del Vesuvio il breve regno di Tito. Il fuoco infuriò per tre giornate distruggendo l'Iseo e il Serapeo del Campo Marzio, i Saepta, il Poseidonion, le terme di Agrippa, il Pantheon, il Diribitorio, il teatro di Balbo, la scena di quello di Pompeo, i portici di Ottavia, il tempio di Giove Capitolino. Tra le nuove costruzioni di questi anni vanno ricordate soprattutto le terme di Tito, oltre all'arco trionfale nel Circo Massimo.

Un grandissimo rinnovamento urbanistico si ebbe con Domiziano. La zona monumentale del Campo Marzio fu ricostruita in conseguenza dell'incendio dell'8o, e fu ingrandita con l'erezione del Divorum (un portico contenente due piccoli templi di Vespasiano e di Tito), del tempio della Fortuna Reduce, dello Stadio e dell'Odeon. Fu rifatto il tempio di Giove Capitolino. Sotto il Tabularium fu costruito il tempio di Vespasiano e Tito. Il Palatino fu totalmente ricostruito e divenne in buona parte dimora dell'imperatore; Rabirius ne fu l'architetto. La Via Sacra fu trasformata con l'impianto di magazzini di lusso; sulla sommità fu costruito l'arco di Tito; presso il Colosseo sorse una fontana monumentale, la Meta Sudans. Fu sistemata la zona tra i Fori di Augusto e della Pace con la costruzione del Foro Transitorio (dedicato da Nerva), mentre venne progettato un altro Foro (che venne poi realizzato da Traianò). Segno della sua ambizione, la colossale statua equestre nel Foro e i molti archi trionfali per ogni regione della città. Sulla destra del Tevere sono ricordati gli horti di Domizia, moglie dell'imperatore.

L'età dei Flavi e poi tutto il II sec. segnano nella storia dell'architettura romana una reazione al classicismo augusteo, nella ricerca di effetti spaziali (come si vede per esempio nel frequente motivo architettonico delle colonne che decorano la parete, del tutto da esse distaccate), e nella tendenza alla funzionalità con la diffusione di uno stile utilitario non solo nelle costruzioni private ma anche in quelle pubbliche (mercati di Traiano), e soprattutto con la creazione (attraverso una sapiente ricerca tecnica e grazie alle possibilità offerte dall'opera laterizia) di audaci archi di terrazzamenti e di ambienti chiusi di enormi dimensioni (Terme, Pantheon, ecc.). Accanto poi - o talora insieme fusa - a questo stile più tipicamente romano continua la tradizione classicheggiante.

Anche il regno di Traiano è un periodo di grande splendore per la città. A lui è dovuto l'ultimo e più grande dei Fori imperiali, che realizzò la saldatura tra il centro della città e il Campo Marzio, mediante il taglio della sella tra il Quirinale e Campidoglio che era stato un diaframma tra le due massime zone monumentali. Il piano comprese anche l'ardita e razionale sistemazione delle pendici dei colli tagliati con grandi esedre, dietro e sopra una delle quali si sviluppò il moderno impianto di un quartiere commerciale (Mercati traianei). Architetto del Foro, come di altre costruzioni di Traiano, fu Apollodoros di Damasco. Altra opera razionale e grandiosa furono le Terme sul monte Oppio. Tra le ricostruzioni va ricordata la casa delle Vestali. A Traiano è dovuto anche un nuovo acquedotto.

Il ritmo dell'attività edilizia continua sotto Adriano, al quale sono dovuti importanti ricostruzioni sul Palatino, e specialmente nel Campo Marzio centrale, destinate queste ad essere le ultime di una zona così soggetta a distruzioni e rifacimenti (il Pantheon attuale è quello di Adriano). Tra le nuove opere le più notevoli sono il tempio del divo Traiano presso il suo Foro, il tempio di Venere e Roma (progettato dall'imperatore stesso), il tempio di Matidia nel Campo Marzio (conosciuto attraverso le monete), il suo Mausoleo al di là del Tevere, di fronte al Campo Marzio, al quale era congiunto col nuovo ponte Elio. Un interessante architettura di quest'epoca è l'edificio conservato in piazza Sallustio, appartenente agli horti Sallustiani.

Con Antonino Pio la zona monumentale del Campo Marzio si arricchì ancora per l'ampliamento del grande tempio ottastilo in onore di Adriano (in parte esistente; l'interno era decorato con rilievi delle Province, ora al Museo dei Conservatori, delle Terme ecc.), mentre nel vecchio ed affollato centro, sulla Via Sacra, fu innalzato il tempio consacrato a Faustina e poi anche ad Antonino stesso. Sotto il suo regno un incendio distrusse 340 case.

Dell'età di Marco Aurelio sono la colonna di Antonino Pio presso gli Ustrini imperiali (zona di Montecitorio; la base è ora nel giardino della Pigna in Vaticano), un arco di Marco Aurelio sul Campidoglio (176) (al quale potrebbero appartenere i rilievi ora sull'Arco di Costantino e in Campidoglio), un arco del divo Vero forse sulla via Appia, il santuario di Giove Eliopolitano sul Gianicolo. Tra il 176 e il 193 fu costruita la colonna coclide di Marco Aurelio. A Commodo è dovuto il tempio di Marco Aurelio, forse presso la colonna. Sotto il suo regno, nel 191, un incendio distrusse il tempio della Pace, i vicini horrea Piperataria, il tempio di Vesta, il Palatino. Vastissima fu perciò l'opera di ricostruzione di Settimio Severo attestata, oltre che dalle fonti letterarie, dai resti monumentali. Egli ampliò il palazzo imperiale e costruì su un angolo del colle il prospetto scenografico del Settizodio. Le grandiose Terme di Caracalla e la antistante Via Nova trasformarono una vasta regione, che sino allora aveva probabilmente la fisionomia di quartiere di abitazione non intensivo (come appare dalla casa di età adrianea scoperta sotto le terme stesse).

Si ricordano infine l'arco di Settimio Severo nel Foro, quello degli Argentari nel Velabro, la domus Lateranorum e i Castra nova equitum singularium (rinvenuti sotto S. Giovanni in Laterano), l'Excubitorium della settima stazione dei vigili nel Trastevere, e (probabilmente di questa età) il grandioso tempio sul Quirinale, ancora ben conservato nel Rinascimento, attribuito da alcuni a Serapide, e il ponte Aurelio (ora ponte Sisto). Un'eco dello splendore della città del II sec. si ha nella Apologia di Roma di Aristide. Caratteristico dell'età dei Severi è l'appellativo di sacra dato alla città in senso quasi ufficiale, che troviamo in molte iscrizioni a partire da questa epoca.

L'attività edilizia declina nel III sec. a causa delle gravi condizioni politiche ed economiche da cui è travagliato lo Stato romano. Di Elagabalo è ricordato un tempio sul Palatino al dio Elagabalo. Di Severo Alessandro sono ricordati importanti restauri (particolarmente alle terme neroniane, allora chiamate Alessandrine), la costruzione di un acquedotto e molte statue colossali. Nel 237 nelle lotte tra Massimo e Balbino si scatenò un grave incendio. Qualche attività svolsero Decio (terme sull'Aventino) e Gallieno (arco, horti Liciniani sull'Esquilino), e soprattutto Aureliano: contro le minacce di invasioni egli costruì la grande cinta muraria, che riuscì a dare anche in modo tangibile e definitivo la misura dei vasti confini che la città aveva raggiunto, ma al tempo stesso pose termine al carattere della città libera, in continuo sviluppo, uguagliandola alle città munite dell'Impero; allargò anche il pomerio (portandolo verosimilmente alla linea delle mura); la parte centrale della regione settima in gran parte non edificata fu occupata dal tempio del Sole e dai Castra Urbana. Di Probo è ricordato un ponte presso l'Aventino.

Sotto il regno di Carino bruciarono varî edifici del Foro Romano e del Foro di Cesare, il teatro e il portico di Pompeo.

Al III sec. infine appartiene la maggior parte dei mitrei, numerosissimi in ogni regione di R., per lo più ricavati in edifici preesistenti.

Quando Diocleziano pose fine alle lotte politiche con l'imposizione di un governo forte si ebbe un nuovo periodo di grande attività urbanistica. Furono riparati i danni dell'incendio di Carino (l'attuale Curia appartiene a quest'epoca) e furono fabbricate le gigantesche terme all'estremità del Quirinale. Tra i monumenti onorari vanno ricordati un arco sulla Via Lata e le basi dei Vicennali presso i Rostri.

All'età di Diocleziano molto probabilmente risalgono le statistiche amministrative che ci sono conservate nelle due redazioni dei così detti Cataloghi Regionari. Essi ci danno, oltre ad elenchi di edifici, precisi dati statistici sul numero delle case (1.790 domus e 44.300 insulae), dei vici (304 o 306, oppure 424 secondo l'appendice ai Cataloghi; nel 74 d. C. i vici erano 265), delle fontane, dei forni ecc. In base al numero delle case è stato calcolato, per quest'epoca, un numero di 1.280.000 abitanti senza contare gli schiavi (Calza, Lugli), oppure di quasi 700.000 abitanti (von Gerkan).

Sotto il regno di Massenzio si ebbero importanti opere soprattutto nell'alta Via Sacra, dove fu rifatto il tempio di Venere e Roma, e un nuovo gigantesco edificio fu eretto tra questo e il Foro della Pace, la basilica terminata poi da Costantino.

Dell'età costantiniana si ricordano le terme sul Quirinale, meno grandiose di altre ma più eleganti, il portico nella regione settima, l'arco trionfale presso il Colosseo, l'arco quadrifronte detto di Giano nel Velabro e forse il cosiddetto tempio del divo Romolo sulla Via Sacra.

Dopo Costantino non si ha notizia di nuove costruzioni, ad eccezione di monumenti onorarî (come la statua equestre di Costanzo nel Foro (352-3), degli archi di Valentiniano presso il ponte Aurelio (365-6) e di Arcadio Onorio presso il ponte Neroniano (405), della basilica di Giunio Basso (405 circa), e (forse) delle porticus maximae nel Campo Marzio); e l'unica preoccupazione è ormai quella di conservare i monumenti esistenti, come risulta da varî editti imperiali. Importanti restauri, soprattutto alle mura, furono eseguiti da Onorio; ma sotto il suo regno, nel 410, si ebbe, da parte dei Goti, la prima invasione della città, che causò danni non gravi e subito riparati. Varî terremoti, l'invasione (assai più grave della precedente) dei Vandali nel 455, il saccheggio di Ricimero nel 472 portarono nuovi danni, e difficile cominciò a divenire l'opera di restauro: si dovette adottare il sistema di salvare alcuni edifici usando il materiale di altri il cui restauro diventava impossibile (Novellae Maiorani, iv, del 458). L'ultimo periodo di attività edilizia si ebbe con Teodorico, che provvide ai restauri con grande energia (notevole la carica di un architectus, peritus custos, incaricato non solo della conservazione dei vecchi edifici ma anche della vigilanza sulle nuove costruzioni). La guerra gotica, le difficili condizioni politiche ed economiche, lo spopolamento determinarono l'abbandono di molti edifici, che nei secoli successivi cedettero all'azione del tempo, ad eccezione di quelli trasformati in chiese, in diaconie, in palazzi.

Bibl.: Manuali: H. Jordan, Topographie der Stadt Rom im Alterthum, I, i e 2, Berlino 1878, 1885, 1871; I, 3, opera di Ch. Hülsen, 1907; O. Gilbert, Geschichte und Topographie der Stadt Rom im Altertum, I-III, Berlino 1883-90; R. Lanciani, The Ruins and Excavations of Ancient Rome, Londra 1897; S. B. Planter-Th. Asby, A Topographical Dictionary of Ancient Rome, Oxford-Londra 1929; G. Lugli, I monumenti antichi di Roma e suburbio, I-III, Supplemento, Roma 1931-40; id., Roma antica. Il centro monumentale, Roma 1946; L. Homo, Rome impériale et l'urbanisme dans l'antiquité, Parigi 1951; F. Castagnoli, Topografia di Roma antica, in Enciclopedia Classica, s. III, vol. X, tomo III, Torino 1957; F. Castagnoli, C. Cecchelli, G. Giovannoni, M. Zocca, Topografia e urbanistica di Roma, Bologna 1958; E. Nash, Bidlexicon zur Topographie des antiken Rom, I-II, Tubinga 1961-62.

Fonti: Ch. Hülsen, Nomenclator topographicus, annesso a H. Kiepert e Ch. Hülsen, Formae Urbis Romae antiquae2, Berlino 1912; I. Lugli, Fontes ad topographiam veteris urbis pertinentes, sinora pubblicati 5 voll., Roma 1952-62; C. L. Urlichs, Codex urbis Romae topographicus, Würzburg 1891; R. Valentini - G. Zucchetti, Codice topografico della città di Roma, I-IV, Roma 1940-53; D. F. Brown, Temples of Rome as Coin Types, New York 1940.

Piante: Tra le antiche piante archeologiche, le più notevoli sono quelle di F. Calvo (1517), B. Marliani (1644), P. Ligorio, (1561), G. B. Piranesi (1784), L. Canina (1830, 1850); R. Lanciani, Forma Urbis Romae, Milano 1893-1901 (a scala 1 : 1000); H. Kiepert-Ch. Hülsen, Formae urbis Romae antiquae2, Berlino 1912; G. Lugli - I. Gismondi, Forma urbis Romae imperatorum aetate, Novara 1949. Utilissime anche le piante non archeologiche: G. B. De Rossi, Piante iconografiche e prospettiche di Roma anteriori al sec. XVI, Roma 1879; E. Rocchi, Le piante iconografiche e prospettiche di Roma del secolo XVI, Torino-Roma 1902. Edizioni delle piante del Bufalini, Du Perac-Lafréry, Maggi-Maupin-Losi, Falda, Nolli furono curate da F. Ehrle (Roma 1911, 1908, 1915, 1931, 1932). Ampia raccolta in: Le piante di Roma, a cura di A. P. Frutaz, I-III, Roma 1962.

Riproduzioni di monumenti e storia degli scavi: H. Egger, Römische Veduten. Handzeichnungen aus dem XV bis XVIII Jahrhundert, I-II, Vienna-Lipsia (1911)-1931; 2a ed., I, Vienna 1932; A. Bartoli, I monumenti antichi di Roma nei disegni degli Uffizi di Firenze, 5 voll., Roma 1914-1922; H. Egger, Kritisches Verzeichnis der stadtrömischen Architektur-Zeichnungen der Albertina, I, Vienna 1903; Ch. Hülsen, Il libro di Giuliano da Sangallo. Codice Vaticano Barberino Latino 4424, Lipsia 1910; Ch. Hülsen-H. Egger, Die römischen Skizzenbücher von Marten van Heemskerck, I-II, Berlino 1913-16; Th. Ashby, Sixteenth Century Drawings of Roman Building Attributed to Andrea Coner, in Papers Brit. Sch. Rome, II, 1904 (cfr. anche VI, p. 184 ss.); A. Lafréry, Speculum Romanae magnificentiae..., Roma 1575; A. Palladio, I quattro libri dell'architettura, Venezia 1510; G. Zorzi, I disegni delle antichità di Andrea Palladio, Venezia 1959; Aeg. Sadeler, Vestigi delle antichità di Roma..., Praga 1606; G. Lauro, Antiquae urbis splendor..., Roma 1612; A. Giovannoli, Vedute degli antichi vestigi di Roma..., I-II, Roma 1616; G. Maggi, Aedificiorum et ruinarum Romae... liber primus. Illustrium urbis Romae aedificiorum et ruinarum monimenta... liber secundus, Roma 1618; P. S. - F. Bartoli, Picturae antiquae cryptarum Romanarum..., Roma 1791; R. Lanciani, Picturae antiquae cryptarum romanarum, in Bull. Com., XXIII, 1895, p. 165 ss.; A. Engelmann, Antike Bilder aus römischen Handschriften, Leida 1909; Th. Ashby, in Papers Brit. Sch. Rome, VII, 1914, p. i ss.; VIII, 1916, p. 35 ss.; G. B. Piranesi, Le antichità romane, Roma 1756; id., Della magnificenza d'architettura de' Romani, Roma 1761; J. H. Parker, The Archaeology of Rome, I-XII, Oxford-Londra 1874-1883; R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma..., I-IV, Roma 1902-12.

Sviluppo storico. Origini: G. Pinza, Monumenti primitivi di Roma e del Lazio antico, in Mon. Ant. Lincei, XV, 1905, c. 5 ss.; G. Lugli, La genesi del sistema stradale di Roma antica, in Atti III Congr. di Studi Romani, I, 1935, p. 256 ss.; F. Castagnoli, Roma Quadrata, in Studies Presented to D. M. Robinson, I, Saint Louis 1951, p. 389 ss.; S. M. Puglisi, P. Romanelli, A. Davico, G. De Angelis d'Ossat, Gli abitatori primitivi del Palatino attravreso le testimonianze archeologiche e le nuove indagini stratigrafiche sul Germalo, in Mon. Ant. Lincei, XLI, 1951, c. i ss.; S. M. Puglisi, in Bull. Pal. Ital., n. s., VIII, 1951-52, p. 45 ss.; XI, 1954-55, p. 299 ss.; L. R. Taylor, The Four Urban Tribes and the Four Regions of Ancient Rome, in Rend. Acc. Pont., s. III, XXVII, 1952-54, p. 225 ss.; E. Gjerstad, Early Rome I-III, in Acta Inst. Rom. Regni Sueciae, 4°, XVII, 1-3, 1953-1960 (cfr. anche, dello stesso, ibid., XXI, 1960, p. 69 ss.; XXIII, 1962, p. i ss.; Scripta minora regiae Societ. human. litt. Lundensis, 1960-61, 2; Acta Archaeol., XXXII, 1961, p. 193 ss.; 215 ss.); A. von Gerkan, in Rhein. Mus., C, 1957, p. 82 ss.; CIV, 1961, p. 132 ss.; R. Bloch, Les origines de Rome, Parigi 1959; H. Müller-Karpe, Vom Anfang Roms, Heidelberg 1959; id., Zur Stadtwerdung Roms, Heidelberg 1962; M. Pallottino, in Arch. Class., XII, 1960, p. i ss.; id., in Studi Et., XXXI, 1963, p. i ss.; H. Riemann, Gött. Gelehrte Anzeigen, 213, 1960, p. 166 ss.; 214, 1960, p. 16 ss.

Età repubblicana: E. Aust, De aedibus sacris populi Romani inde a primis liberae rei publicae temporibus usque ad Augusti imperatoris aetatem Romae conditis, Marburg 1889; R. Delbrück, Hellenistische Bauten in Latium, I-II, Strasburgo 1907-12; T. Frank, Roman Building of the Republic, Roma 1924.

Età imperiale: M. Voigt, Die römischen Baugesetze, in Berichte der Ges. d. Wiss. Leipz., Phil. Hist. Kl., LV, 1903, p. 175 ss.; P. Werner, De incendiis urbis Romae aetate imperatorum, Lipsia 1906; G. Calza, La statistica delle abitazoni e il calcolo della popolazione in Roma imperiale, in Rend. Linc., s. V, XXVI, 1917, p. 60 ss.; E. Töbelmann - H. Kähler, Römische Gebälke, I-II, i, Heidelberg 1923-53; A. Boëthius, The Neronian Nova Urbs, in Acta Inst. Rom. Regni Sueciae, II, 1932, p. 84 ss.; M. Labrousse, Le pomerium de la Rome impériale, in Mél. Ec. Franç., LIV, 1937, p. 165 ss.; S. M. Savage, The Cults of Ancient Trastevere, in Mem. Amer. Acad., XVIII, 1940, p. 26 ss.; S. Collon, Remarques sur les quartiers juifs de la Rome antique, in Mél. Ec. Franç., LVII, 1940, p. 72 ss.; A. von Gerkan, Die Einwohnerzahl Roms in der Kaiserzeit, in Röm. Mitt., LV, 1940, p. 149 ss.; LVIII, 1943, p. 213 ss.; G. Calza-G. Lugli, La popolazione di Roma antica, in Bull. Com., LXIX, 1941, p. 142 ss.; G. Lugli, Il valore tipografico e giuridico dell'insula in Roma antica, in Rend. Acc. Pont., XVIII, 1941-42, p. 191 ss.; H. Bloch, I bolli laterizi e la storia edilizia romana, Roma 1947; A. von Gerkan, Grenzen und Grössen der vierzehn Regionen Roms, in Bonn. Jahrb., CXLIX, 1949, p. 5 ss.; M. J. Vermaseren, De Mithrasdienst in Rome, Nijmegen 1951; D. E. Strong, Late Hadrianic Architectural Ornament in Rome, in Papers Brit. School Rome, XXI, 1953, p. 118 ss.; F. G. Maier, Römische Bevölkerungeschichte und Inschriftenstatistik, in Historia, II, 1953-54, p. 318 ss.; P. Hommel, Studien zu den römischen Figurengiebeln der Kaiserzeit, Berlino 1954; M. Wegner, Ornamente kaiserzeitlicher Bauten Roms, Soffitten, Colonia 1957.

Regioni e monumenti (oltre quelli considerati in speciali paragrafi): M. Besnier, L'île Tibérine dans l'antiquité, in Bibl. Ec. Franç., LXXXVII, 1901; A. Merlin, L'Aventin dans l'antiquité, ibid., XCVII, 1906; C. E. Body, Public Libraries in Ancient Rome, Chicago 1915; K. Lehmann-Hartleben e J. Lindros, Il palazzo degli Orti Sallustiani, in Acta Inst. Rom. Regni Sueciae, IV, 1935, p. 196 ss.; A. M. Colini, La scoperta del santuario di Giove Dolicheno, in Bull. Com., LXIII, 1935, p. 145 ss.; id., Meta sudans, in Rend. Pont. Acc., XIII, 1937, p. 3 ss.; H. Thylander, Le prétendu Auditorium Maecenatis, in Acta Arch., IX, 1938, p. 101 ss.; A. M. Colini, Pozzi e cisterne, in Bull. Com., LXIX, 1941, p. 71 ss.; P. Grimal, Les jardins romains, in Bibl. Ec. Franç., CLV, 1943; A. M. Colini, Storia e topografia del Celio nell'antichità, in Mem. Pont. Acc. Arch., s. III, VII, 1944; F. Castagnoli, Il Campo Marzio nell'antichità, in Mem. Acc. Lincei, s. VII, i, 1946, p. 93 ss.; J. Le gall, Le Tibre, fleuve de Rome, dans l'antiquité, Parigi 1953.

(F. Castagnoli)

C) COMPLESSI MONUMENTALI - I. - Mura. - 1. Serviane. - Gli antichi attribuiscono a Servio Tullio la costruzione di una cinta muraria e di un aggere tra l'Esquilino e il Quirinale (Liv., 1, 44; Dionys. Hai., iv, 13; ecc.). Ci è anche tramandato che nel 378 a. C. dopo la catastrofe gallica i censori provvidero a costruire un muro saxo quadrato (Liv., vi, 32, 1). È a questo momento, e non all'età di Servio Tullio, che si deve datare la grande cinta in tufo di Grottaoscua, comunemente denominata serviana. È tuttavia probabile, che alcuni avanzi della cinta sul Palatino e sul Campidoglio, in blocchi di cappellaccio, siano di età più antica; sembra anche che alcuni tratti, ora distrutti, dell'aggere del IV sec. inclusero nuclei di un aggere più antico, senza rivestimento in opera quadrata, alto circa m 5, che potrebbe risalire proprio all'età di Servio Tullio (infatti in un tratto sul Quirinale presentante più strati di rifacimento, si è rinvenuto, nel secondo strato, un frammento di ceramica attica databile tra il 520 e il 470 a. C.). È perciò probabile che le fortificazioni di R. del VI e V sec. siano consistite in terrapieni e fossati (a somiglianza di Ardea, Anzio, Satrico) nelle parti pianeggianti (oltre l'aggere tra l'Esquilino e il Quirinale si ha il ricordo di un terreus Carinarum: Varr., De hng. Lat., v, 48), mentre i colli, risultando abbastanza forti naturalmente, solo in alcuni punti dovevano essere rafforzati con muri.

Della cinta del IV sec. a. C. sono conosciuti numerosi avanzi, che permettono di ricostruire in gran parte il perimetro, lungo quasi 11 km. Dal Campidoglio (dove si aprivano le porte Pandana e Ratumena), attraverso una sella montuosa poi tagliata da Traiano (dove era la porta Fontinalis), le mura raggiungevano il Quirinale, seguendone quindi le pendici nord-occidentali (porte Sanqualis, Salutaris, Quirinalis, Collina). La zona pianeggiante ad oriente della città era difesa da una più potente fortificazione, l'aggere (in esso si aprivano le porte Viminalis, Collina ed Esquilina). Dall'Esquilino le mura passavano al Celio (porta Querquetulana), attraversavano la valle tra il Celio e l'Aventino minore (porta Capena), abbracciavano quindi ambedue le sommità dell'Aventino (porte Naevia, Raudusculana, Lavernalis, Trigemina). Discusso è il tracciato tra Aventino, Palatino e Campidoglio, che secondo alcuni includeva, secondo altri (meno probabilmente) lasciava fuori, il Foro Boario (nelle diverse ipotesi hanno collocazione diversa le porte Carmentalis e Flumentana, che sappiamo essere state in prossimità del Foro Boario).

Le mura sono costruite in solida opera quadrata di tufo di Grottaoscura (del territorio di Veio; è questo un motivo per datare la costruzione ad età posteriore alla conquista di tale città), alcune aggiunte in tufo di Fidene; i blocchi sono disposti alternativamente per testa e per taglio; caratteristica la frequente incisione su di essi di lettere, certamente marche di cava. Lo spessore delle mura era di circa m 4,50; l'altezza doveva variare secondo le necessità militari; nell'aggere raggiungevano l'altezza di oltre 10 metri. L'aggere aveva uno spessore di 30-40 m, ed era contenuto all'esterno da una cortina in opera quadrata; e all'interno da un piccolo muro di controscarpa; l'efficienza difensiva era aumentata da una profonda fossa scavata nella parte esterna di esso. Le porte delle mura (come mostra l'esempio di Piazza Magnanapoli) dovevano essere del tipo a pròpylon.

L'eccellenza della tecnica fortificatoria va messa in relazione con i grandi progressi dell'ingegneria militare nella Magna Grecia all'inizio del IV sec. (anche se non sembra necessario pensare, col Säflund, all'intervento di ingegneri e addirittura di maestranze da Siracusa). Alcuni tratti (sul Viminale, sull'Aventino, ecc.) presentano considerevoli restauri in opera cementizia come nucleo dell'opera quadrata (notevole anche la presenza di archi, sull'Aventino e sul Quirinale, per l'istallazione di catapulte). Questi restauri vengono variamente datati, alla fine del II sec., durante la II guerra punica, o all'87 a. C., nella difesa contro i mariani. Non accettabile l'ipotesi del Säflund, secondo il quale nell'87 le mura si sarebbero estese sulla riva destra del Tevere, sino ad includere la sommità del Gianicolo. Successivamente le mura vennero in parte cancellate dall'estendersi della città; si conservarono e restaurarono tuttavia le porte, come la porta Esquilina, rifatta in età augustea (riutilizzata poi da Gallieno come arco monumentale).

Bibl.: G. Säflund, Le mura di Roma repubblicana, in Acta Inst. Rom. Regni Sueciae, I, 1932; G. Lugli, Le mura di Servio Tullio e le così dette mura seviane, in Historia, VII, 1933, p. 3 ss.; P. Quoniam, À propos du mur dite de Servius Tullius, in Mél. Ec. Franç., LIX, 1947, p. 41 ss.; A. von Gerkan, Der Lauf der römischen Stadtmauer vom Kapitol zum Aventin, in Röm. Mitt., XLVI, 1931, p. 153 ss.; E. Gjerstad, The Fortification of Early Rome, in Acta Inst. Rom. Regni Sueciae, XVIII, 1954, p. 39 ss. (cfr. ibid., XVII, 3, 1960, p. 26 ss.); P. Grimal, l'enceinte servienne dans l'histoire urbaine de Rome, in Mél. Ec. Franç., LXXI, 1959, p. 43 ss.

(F. Castagnoli)

2. Mura Aureliane. - Il regno di Aureliano è preceduto da lunghi periodi di disordini nel territorio dell'Impero. Sotto Gallieno la frontiera dell'alto Danubio fu rotta e l'Italia dopo più di tre secoli di calma, provò nuovamente gli orrori delle invasioni dei Cimbri e dei Teutoni, quando gli Alamanni raggiunsero il lago di Garda e gli Appennini mentre Odenato con Zenobia mettevano in fermento il Vicino Oriente.

Aureliano doveva perciò risolvere due importanti problemi: proteggere le indifese città dell'Impero da una orda di barbari che avessero rotto le frontiere di difesa e assicurare che i provvedimenti adottati fossero sicuri mentre la maggioranza delle truppe imperiali combatteva in Oriente contro Zenobia.

La soluzione adottata per R. fu semplice: un muro di limitata altezza ma di spessore sufficiente per tenere fuori della città i barbari sprovvisti di macchine di assedio. Le nuove fortificazioni furono costruite in soli quattro anni tra il 271 e il 275 ed i resti archeologici confermano questa data. Infatti nessuno dei molti edifici inglobati supera il 271: il Sessorio (218-222) e ancor più un particolare muro del Palazzo del Laterano con mattoni bollati e datati al 250, sono i termini più vicini alla data tradizionale. Per la costruzione non fu usata mano d'opera militare dato che i soldati erano impegnati in Oriente contro Zenobia. Furono invece le corporazioni della città a lavorare e questo, secondo il Richmond, concorda bene con l'evidenza archeologica: l'architettura è molto semplice ed eseguita con grande cura ma denuncia una certa incompetenza di arte militare specie nei punti dove i costruttori si appoggiano a precedenti edifici e li inglobano senza alterare lo schema architettonico per cui il transito sopra le mura risulta interrotto (cfr. per esempio la Piramide di Cestio e la cosiddetta casa a S di Porta Tiburtina).

Il muro è alto circa 6 m e largo 3,50. I difensori potevano percorrere la sommità essendo protetti da un parapetto merlato. Ogni trenta metri sporge una torre di forma quadrata con quattro finestre per due pezzi di artiglieria. Le torri, più alte del camminamento, funzionano anche come punto di osservazione avendo al disopra della copertura un terrazzo contornato da parapetti merlati. Lo stile delle facciate a tegole segate varia da cortina a cortina e vi sono casi in cui è bellissimo e somiglia molto a quello di Diocleziano. Il riempimento tra le facciate è costituito di buona malta e tufo di cava.

Ogni strada che usciva dalla città fu scavalcata con una porta la cui architettura varia in rapporto all'importanza della strada. Le vie Ostiense, Portuense ed Appia ebbero porte a doppio fornice costruite tutte in travertino. Le Porte Pinciana, Salaria, Tiburtina, Labicana, Prenestina ebbero un solo fornice e cortina in travertino. Ma lungo tutto il circuito si aprivano numerosissime le porte minori (posterule) volutamente create a rispetto del traffico locale affinché la vita della cittadinanza continuasse a svolgersi senza avvertire, momentaneamente, il pericolo di una invasione.

Lo scopo principale che dettò il tracciato fu eminentemente strategico e prevalse su argomenti di carattere diverso e meno importanti. Le mura non abbracciano completamente la configurazione amministrativa delle 14 Regioni augustee: la prima, la quinta, la sesta, la settima e la quattordicesima risultano tagliate in due; non seguono l'andamento del più recente tracciato del Pomeno (Adriano), nè quello della barriera daziaria (le coincidenze che si riscontrano a N e a S sono casuali e dettate da ragioni precise, cioè: a N era opportuno sfruttare le poderose sostruzioni degli Acilii sul fianco del Pincio e di lì, rimanendo in cresta alle minime ondulazioni del terreno, allacciarsi al Castro Pretorio, altro elemento importante nella scelta del tracciato; a S non potevano esser lasciati fuori i grandi magazzini annonarî Porticus Aemilia ed Horrea Galbana). Il tracciato non è nemmeno obbligato dall'andamento del Tevere che risulta in parte utilizzato come elemento a sfavore del nemico, ma viene scavalcato per esigenze strategiche in due punti: 1) al Gianicolo per comprendere la quota più alta (Porta S. Pancrazio) e anche per interessi di pubblica utilità: mulini funzionanti con l'acquedotto di Bracciano e, in basso, il quartiere commerciale sviluppatosi lungo la via Portuense e il Tevere; 2) al Mausoleo di Adriano collegato con speciali fortificazioni (anche del ponte Elio) alle mura lungo la sponda destra del fiume.

Gli acquedotti (Marcia, Tepula, Iulia, Claudia, Anio Novus) che entravano a R. da E su alte e poderose arcate (Porta Maggiore) vengono incorporati nella linea delle mura stesse per togliere al nemico la possibilità di servirsene come fortificazioni, più che per proteggere da interruzioni le acque potabili della città.

Dal punto in cui gli acquedotti influenzano il tracciato, fino alla Porta Metronia, le mura, per comprendere buona parte del Sessorio e il palazzo dei Laterani, corrono ai piedi delle ultime propaggini del Celio lungo un fiumicello ("Marrana" oggi scomparso sotto un forte interro) che costituisce come una fossa naturale di difesa.

Ancora nel tratto che va dalla Porta Metronia alla Latina fino all'Appia, all'Ardeatina e all'Ostiense, i costruttori sfruttano le minime ondulazioni del terreno per cercare di lasciare, quando è possibile, un forte dislivello verso il nemico. Nel tratto seguente l'inclusione della Piramide Cestia e del Monte Testaccio risponde ancora una volta al criterio di non lasciare all'esterno manufatti che possano favorire l'arroccarsi del nemico e nel tempo stesso proteggere i grandi magazzini annonarî di vitale importanza per l'approvvigionamento della città.

Durante il regno di Massenzio le mura sono minacciate nel 307 da Severo e Galerio e dopo il 310 da Costantino.

La struttura di Aureliano dopo poco più di trenta anni fu restaurata da Massenzio (in effetti le fonti storiche gli attribuiscono soltanto la costruzione di un fossato non portato a termine) per fronteggiare attacchi da N. L'arrivo di Costantino trova incompleti i restauri e Massenzio preferisce uscire dalle mura e combattere sulla Flaminia. Gli studî archeologici non hanno ancora accertato l'esistenza del fossato, ma hanno potuto riconoscere, subito sopra la struttura di Aureliano, diversi tratti di muratura a sè stante in opera listata (file di blocchetti di tufo alternate a file di mattoni) che può attribuirsi al modesto e incompleto restauro massenziano.

Il raddoppio dell'altezza del muro e delle torri è opera di Onorio. Le parole di Claudiano (De VI cons. Hon., 533-34): Erexit subitas turres cinctosque coegit septem continuo colles iuvenescere muro trovano conferma nell'evidenza archeologica e nelle iscrizioni incise sulle porte Labicana, Tiburtina e Portuense.

La struttura è costituita di materiali di risulta. Le facciate sono a mattoni legati da alti letti di malta ed i nuclei interni vanno dal tufo scadente alle statue di marmo fatte a pezzi.

L'architettura delle torri (in special modo le camere superiori coperte a vòlta conoidica) e quella dei camminamenti di collegamento tra torre e torre (risolti con una galleria a grandi arcate) rientra pienamente nei criteri dell'architettura paleocristiana. Sulle porte principali sono incise in modo evidente croci di forma greca e latina e altri simboli sono graffiti o composti con mattoni in varî punti del restauro onoriano, proprio come si riscontra nelle chiese contemporanee.

L'opera di Onorio fu adeguata alle esigenze dei tempi e le mura resistettero agli assedî del 442, 536, 549 (tradimento degli Isauri nella guerra greco-gotica a Porta Asinana) e, se vogliamo, a tutti gli attacchi successivi fino al 1870.

Bibl.: A. Nibby-W. Gell, Le Mura di Roma, Roma 1820; I. A. Richmond, The City Wall of Imperial Rome, Oxford 1930; A. M. Colini, in Mem. Pont. Acc. Rom. Arch., VII, 1944, pp. 109-132; 330-333; 343.

(L. Cozza)

II. - campidoglio (Capitolĭum). - Uno dei sette colli di R., suddiviso in due sommità, rappresentate oggi dalla chiesa dell'Aracoeli e dal Braccio Nuovo del Museo dei Conservatori. Sulla prima fu stabilita l'acropoli della città, detta arx sull'altra (detta, in senso stretto, Capitolium) sorgeva il tempio di Giove Ottimo Massimo adorato in unione con Giunone e Minerva. La valletta intermedia, l'odierna piazza del Campidoglio, era chiamata Asylum, nome che veniva spiegato con la leggenda che Romolo avesse in questo luogo accolto coloro che erano stati banditi dai paesi vicini. Il Campidoglio raggiunge l'altezza di 39 m s. m.: tutto il colle ha natura rocciosa, di composizione tufacea abbastanza consistente, tanto che sui fianchi furono aperte lunghe cave in galleria per l'estrazione di materiale da costruzione. Nell'età primitiva scendeva a picco su tre lati, verso il Foro, verso il Velabro e verso il Campo Marzio, mentre dal lato N-E il pendio era più dolce e facilmente accessibile; da questa parte infatti il Campidoglio era unito, per mezzo di una breve sella, al Quirinale. Traiano li separò, tagliando nettamente le pendici di ambedue per costruire il suo ampio Foro (per la questione, controversa, dell'entità di tali lavori, v. colonna di traiano). È probabile che fin dal sec. VI a. C. il Campidoglio avesse una fortificazione propria: gli avanzi, però, che si vedono in via dell'Arco di Settimio Severo e nella salita delle Tre Pile appartengono per la maggior parte alla cinta del sec. IV; molta parte della fortificazione era fatta con la stessa roccia naturale del monte. La parte di questo che scendeva a picco sul lato O aveva il nome di Rupe Tarpea, perché là, secondo un'antica leggenda, Tarpea, figlia del custode del colle, sarebbe stata uccisa e sepolta dai Sabini, dopo aver loro consegnato il colle. Dalla rupe venivano gettati i criminali condannati a morte. Al colle si saliva in antico per quattro vie: una, carrozzabile, dalla parte del Foro, il clivus Capitolinus, che girava a zig-zag sulle pendici orientali, giungendo fino dinnanzi al tempio di Giove: sulle pendici occidentali era addossata una scala di centum gradus che raccorciava il percorso con la stessa mèta. Altre due scalinate, dette gradus Monetae, e scalae Gemoniae raggiungevano il tempio di Giunone dal Foro. Una quarta scala fu ricavata dal costruttore del Tabularium entro il monumento stesso per mettere in comunicazione il Foro con l'Asylum; essa fu ostruita durante l'Impero dal tempio di Vespasiano.

La complessa sistemazione urbanistica moderna eseguita intorno al Campidoglio ha condotto alla scoperta del tracciato quasi intero del divo Capitolino, dal Foro Romano fino nei pressi del tempio di Giove. Purtroppo gli edifici ai lati del colle erano stati completamente distrutti; presso la moderna via della Consolazione sono apparsi muri sostruttivi in opera quadrata e in opera incerta con contrafforti arcuati; nell'angolo del colle che guarda il teatro di Marcello numerosi portici fasciavano le pendici del Campidoglio dinnanzi al Foro Olitorio. Il maggiore monumento del Campidoglio era il tempio di Giove: fondato dai re Tarquinî verso la fine del VI sec., fu inaugurato nel 509 a. C. dai primi consoli. Per la sua decorazione con statue e fregi in terracotta policroma furono chiamati artisti dall'Etruria, tra cui principalmente lo scultore Vulca di Veio, che eseguì la statua di Giove. Sul vertice del frontone fu posta una quadriga fittile, che fu poi rifatta in bronzo nel 196 a. C. per opera dei fratelli Ogulnî; nel 193 gli edili curuli M. Emilio Lepido e L. Emilio Paolo collocarono scudi dorati sul frontone. Nell'83 a. C. un incendio distrusse quasi totalmente il tempio, che fu ricostruito da Silla in tutta pietra; ulteriori restauri vi eseguì Augusto nel 26 a. C. Nelle lotte intestine fra i partigiani di Vitellio e quelli di Vespasiano (69 d. C.), il colle, aspramente conteso, fu incendiato e i monumenti interamente distrutti, di modo che Vespasiano, assunto il potere, dové ricostruire il tempio di Giove, che fu di nuovo inaugurato nel 75 d. C. Non passarono cinque anni che il Campidoglio fu di nuovo distrutto da un incendio. Domiziano provvide ad una nuova ricostruzione del tempio e degli altri edifici.

Il tempio era a 3 celle, la centrale, più grande, destinata al culto di Giove, e le due laterali, più piccole, per Giunone e Minerva. Era esastilo, periptero su tre lati, di ordine corinzio, con ricco fastigio su ambedue i lati corti. Del grande monumento restano oggi solo una parte del podio, che è ancora quello originario, e qualche frammento sparso della decorazione marmorea dell'età domizianea. Il tempio di questa età è effigiato in tre bassorilievi e in alcune monete. Il rilievo più importante è quello proveniente da un arco di M. Aurelio, già esistente, forse, nei pressi di S. Martina, e conservato ora sullo scalone del Palazzo dei Conservatori; rappresenta M. Aurelio che sacrifica dinnanzi al tempio, il quale, per una semplificazione comune nell'arte romana, è rappresentato con 4 colonne solamente, sulla fronte, anziché con 6; sono ben distinte le tre celle con le porte; nell'interno del frontone è scolpita la triade capitolina: Giove, seduto, al centro, Minerva e Giunone, in piedi, ai lati; agli estremi si osservano le due quadrighe del Sole e della Luna e altre figure accessorie. Sul vertice del frontone troneggia la quadriga di Giove, mentre le bighe delle altre due divinità fanno da acroteri laterali, con le statue di Marte e Minerva. Un altro rilievo, di età traianea, è al Museo del Louvre, completabile attraverso alcuni disegni del sec. XVI.

Per la costruzione del tempio fu prima eseguito un grande spianamento della sommità del colle, rivestendo la platea con uno spesso strato di blocchi di tufo. La platea rettangolare, aveva una superficie di circa 15.000 m2; nella demolizione del palazzo Caffarelli e nella sistemazione dell'area circostante venne in luce quasi per intero: larghi tratti, fra cui 3 angoli, sono stati lasciati scoperti; essa era orientata verso S-E come il tempio sovrapposto, e poiché vi poggiava sopra proprio il podio del tempio primitivo, è da ritenersi che essa sia contemporanea alla fondazione dell'edificio.

Oltre il tempio di Giove esistevano sull'area capitolina altri santuarî minori: tre dedicati allo stesso Giove sotto gli attributi di Feretrio, Tonante e Custode; uno a Marte Ultore; uno a Venere Ericina e altri alle personificazioni della Fides, della Mens, e dell'Ops; il podio di uno di essi è stato rinvenuto, crollato, nella via della Consolazione; due templi dell'area e i Centum gradus sono rappresentati nella Forma Urbis. Numerosi erano poi gli altari, gli archi, le basi dedicatorie, le statue, tra cui un bronzo raffigurante la lupa. Sul fianco orientale fu scoperta una stipe arcaica di una divinità sconosciuta, contenente focacce, vasetti, idoli, e altri oggetti di terracotta.

Le pendici verso il Velabro e il Campo Marzio erano occupate da case private, erette dopo la vendita delle aree demaniali nell'88 a. C.; di queste case sono venuti in luce, nei lavori di liberazione del colle, numerosi avanzi (particolarmente importanti quelli ancora ben conservati a ridosso del monumento a Vittorio Emanuele, lungo la via del Mare), i quali dimostrano una notevole successione di epoche e, nel corso dell'Impero, un innalzamento di varî metri del piano circostante.

Sull'arce, data l'esiguità dello spazio, sorgevano soltanto tre templi: quello di Giunone Moneta, votato nel 344 a. C. dal dittatore L. Furio Camillo durante la guerra contro gli Aurunci; l'epiteto della dea, da moneo, indica forse il suo aspetto oracolare. Da questo epiteto ebbe quindi nome la zecca, che fu forse stabilita presso il tempio nel 269 a. C., quando iniziò la prima monetazione romana d'argento.

Nello spazio intermedio fra le due sommità M. Emilio Lepido e Q. Lutazio Catulo nel 78 a. C. innalzarono quel maestoso edificio che ancora oggi si conserva in gran parte al di sotto del palazzo senatono, detto il Tabularium perché vi si custodiva l'archivio dello stato, con le deliberazioni del Senato, i plebisciti, i trattati di pace, gli elenchi dei magistrati, ecc. Il Tabulario, che chiudeva con scenografico effetto la visione del Foro Romano verso il Campidoglio, è il primo edificio che presenti una facciata traforata, con un ritmico motivo di archi gettati su pilastri e fiancheggiati da semicolonne; questo motivo passerà poi ai teatri, agli anfiteatri e ai circhi, cioè a tutti quegli edifici che avevano bisogno di grandi sostruzioni vuote. È probabile che ai di sopra dell'ordine di archi rimasto ne esistesse un secondo. A N del Tabulario è stato rimesso allo scoperto il tempio di Veiove, nella ricostruzione avvenuta nell'età di Silla, con la fronte tetrastila nel lato lungo di S-O; nell'interno della cella è stata trovata l'immagine marmorea del dio fanciullo, simile ad Apollo, a grandezza maggiore del vero.

Bibl.: A. M. Colini, I frontoni del tempio di Giove Capitolino, in Bull. Com., LIII, 1925, p. 161 ss.; A. Muñoz - A. M. Colini, Campidoglio, Roma 1931; A. M. Colini, Aedes Veiovis inter arcem et Capitolium, in Bull. Com., LXX, 1942, p. 5 ss.; G. Becatti, in Bull. Com., LXXI, 1943-45, p. 31 ss. (per il tempio di Giunone Moneta); E. Gjerstad, Early Rome, III, Lund 1960, p. 168 ss.; A. Boethius, in Acta Inst. Rom. Norv., I, 1962, p. 27 ss.; E. Gjerstad, ibid. p. 35 ss. (per il tempio di Giove Capitolino).

(G. Lugli)

III. - Palatino (Palatium). - È questo il "colle sacro", di R., sul quale Romolo, secondo la tradizione, tracciò il solco primigenio e sul quale fondò la nuova città, recingendola con muro e fossato, a guisa delle più antiche città italiche, e ne delimitò l'area con una linea di carattere sacro, detta pomerio (v.). Tra i sette colli della città, il Palatino è quello che ancora oggi presenta una configurazione meglio difesa dalla natura e più isolata, col Tevere a poca distanza, e le depressioni del Velabro e del Foro che lo dividono dal Campidoglio e dall'Esquilino mentre la valle Murcia lo separa dall'Aventino. Al Tevere il Palatino dovette la sua importanza, perché i primi abitatori, i Prisci Latini, discesi dai colli di Albalonga, si stabilirono lassù per difendere e controllare il passaggio del più importante corso d'acqua del Lazio, passaggio che avveniva all'Isola Tiberina, naturale testa di ponte fra gli Etruschi, che occupavano la riva destra, e i Latini e i Sabini che occupavano la riva sinistra.

L'etimologia del nome è incerta: i più lo riconnettono con altre parole simili di significato pastorale, come Pales, Palatua, Palilia. In ogni caso Palanum non deriva da Pallantium e non ha nulla a che fare con Pallante, come supponevano gli antichi, volendo ricollegare il nome alla mitica venuta di Evandro e di Pallante nel Lazio.

Il primitivo centro abitato ebbe forma quadrata, o per meglio dire trapezoidale; le porte furono disposte nei luoghi dove il pendio lo permetteva: esse furono tre: la porta Mugonia, presso il punto dove sorse poi l'Arco di Tito, la porta Romanula verso il Tevere, e le scalae Caci verso la valle Murcia. Alla prima porta conduceva un raccordo con la summa Sacra via; alla seconda la via Nova che saliva dal Velabro, girava prima le pendici occidentali col nome incerto di clivus Victoriae, e quindi quelle settentrionali a mezza costa del colle; alla terza una breve strada a cordonata, che aveva inizio dalla curva del circo Massimo, dove la tradizione collocava l'antro del gigante Caco che rubò le mandrie ad Ercole e fu da lui ucciso.

Nell'età più antica tutto il colle si divideva in tre alture, più piccole e separate da vallette abbastanza profonde: il Palatium propriamente detto, dove è oggi la domus Augustana, il Cermalus, dov'è la casa detta di Livia, e la Velia, tagliata dalla via dei Fori Imperiali. Le due prime alture riunite formavano la città, che fu detta, per la sua configurazione, Roma Quadrata. La fondazione della città sarebbe stata consacrata col sacrificio delle primizie in una fossa sacra. L'identificazione di questa fossa con un pozzo coperto a thàtos rinvenuto da G. Boni sotto il peristilio del palazzo dei Flavi è da escludersi; è più probabile che essa fosse un silos per grano, come se ne riscontrano anche sull'acropoli di Ardea e in altre località dell'Etruria e del Lazio.

Allo scopo di far luce intorno alle memorie più antiche del colle e della città, fu eseguita nel 1948 e negli anni seguenti a cura di P. Romanelli una vasta esplorazione della parte del Germalo a S del tempio della Mater Magna, presso le scalae Caci, dove la tradizione, ancora viva nel IV sec. d. C., localizzava la Casa Romuli.

Scavi erano già stati fatti da questa parte nel 1907 da D. Vaglieri che credette di aver scoperto alcune tombe antichissime, ma la vivace polemica, allora accesasi tra il Vaglieri e il Pigorini, che riteneva al contrario trattarsi di abitazioni, pose fine all'esplorazione prima che su di essa si fosse potuta dire una parola sicura. Riscoperta, quindi, nuovamente una parte dell'area esplorata dal Vaglieri, si riconobbero in essa tracce di fondi di capanne scavate nel piano roccioso, in modo irregolare e contornate da canaletti per lo scolo delle acque; il materiale ceramico raccolto negli strati aderenti al piano, ancora intatti, li fa datare in maniera sicura tra la fine del IX e i primi del VII sec. a. C. Le capanne hanno la forma fra la rettangolare e l'ellittica, in tutto simile a quella delle urne a capanna delle necropoli laziali e della bassa Etruria della prima Età del Ferro. Le dimensioni sono di circa m 4,80 × 3,65. Grossi fori lungo il margine e uno al centro sostenevano il tetto, mentre altri quattro fori più piccoli, al di qua e al di là del vano della porta, dovevano reggere una particolare leggera copertura avanti e dietro di questa. Accanto al foro centrale chiarissime erano le tracce del focolare.

Delle mura, limitate ai tratti meno scoscesi, rimangono avanzi notevoli nell'angolo che guarda il Velabro; vi si osservano due periodi costruttivi uno più antico, del sec. VI a. C., a piccoli blocchi di tufo granulare, e uno più recente in tufo di Fidene, databile alla metà del sec. IV, insieme con la cinta generale della città, che passa sotto il nome di Serviana.

Pochi sono sul colle i resti di quell'età primitiva: una tomba arcaica ad incinerazione nell'area della casa di Livia; la famosa cisterna a thòlos presso la casa detta di Livia, col vicino pozzo per l'estrazione dell'acqua; un'altra cisterna a cielo aperto lì presso, racchiusa in un basamento più tardo; un'ara scolpita in caratteri ancora arcaici, e dedicata a una divinità ignota, nel luogo ove era il Lupercale: l'ara fu posta da G. Sestio Calvino forse il figlio del console del 129 a. C. in luogo di altra più antica, distrutta o deperita. Il Lupercale era un antro, alle falde del Palatino verso il Tevere, dentro il quale scaturiva una sorgente di acqua, e che traeva il nome dal Fauno Luperco, il cui culto aveva qui il suo centro. Secondo la tradizione ivi fu depositata la cesta che conteneva i due gemelli Romolo e Remo. Il monumento, in cui si custodiva il gruppo celebre della lupa che allatta i due fanciulli, fu notevolmente restaurato da Augusto, ma ora è completamente perduto.

Tre templi principali sorgevano sul Palatino prima di Augusto: il più antico fu dedicato a Giove Vincitore, o Propugnatore, nel 295 a. C. dal console Q. Fabio Massimo Rulliano, dopo la vittoria di Sentino sui Sanniti; quasi contemporaneamente sorse il tempio della Vittoria, nel 292 a. C., presso un altare più antico; in seguito ai restauri di Caligola, prese il nome di Victoria Germaniciana; era forse nel lato che guarda il Foro, a fianco del palazzo di quell'imperatore e presso il clivus Victoriae, che dal Velabro saliva al Palatium. Il terzo tempio dedicato alla Mater Magna, Cibele, fu eretto subito dopo il 204 a. C. e restaurato una prima volta da Metello verso il 110 a. C. e una seconda volta da Augusto nel 3 d. C., come egli ricorda nel suo testamento. Quest'ultimo tempio, situato sul Germalo, si può identificare con tutta sicurezza, perché nello scavo compiuto sulla fine del sec. XIX vi fu trovata vicino l'immagine marmorea della divinità, seduta e fiancheggiata da due leoni, insieme con un cippo dedicato alla dea; in saggi eseguiti nel 1951 sono stati scoperti inoltre alcuni ex voto relativi al culto di Cibele ed Attis. È quel basamento che resta a S-O dei Giardini Farnesiani, oggi sormontato da un pittoresco boschetto di elci.

Augusto, stabilita la sua abituale dimora sul colle, fondò presso di essa due nuovi templi, uno dedicato ad Apollo, il più grande e il più ricco di tutti, e un altro a Vesta, piccolo santuario che va considerato come uno sdoppiamento di quello del Foro, sdoppiamento determinato dalla necessità della sua funzione di pontefice massimo di alloggiare vicino alla dea tutelare della città. Il tempio di Apollo si deve riconoscere in quel grande basamento che si trova ad occidente del palazzo dei Flavi, attribuito comunemente a Giove Vincitore: esso infatti è fondato sopra avanzi di case romane della fine della Repubblica - che sappiamo essere state demolite da Augusto a questo scopo. È costruito in marmo di Carrara, è esastilo, corinzio, del tutto simile agli altri templi di età augustea. La difficoltà della mancanza intorno al tempio delle tracce del grande portico che lo contornava con le statue delle cinquanta figlie di Danao, si risolve pensando ai gravi danni subiti dal colle durante l'incendio neroniano, e quindi alla nuova sistemazione delle fabbriche imperiali, dettata prima da Nerone e poi da Domiziano. La stessa sorte subì il piccolo tempio di Vesta che era prossimo a quello di Apollo, mentre sono conservate le due biblioteche, rifatte in seguito da Domiziano sul luogo stesso.

Del tempio di Apollo e degli edifici annessi si legge una vivace descrizione in Properzio nella XXXI elegia del libro secondo. Le immagini delle tre divinità adorate nel tempio sono ricordate da Plinio (Nat. hist., XXXVI, 25, 24 e 32) come opera di tre eminenti scultori greci: l'Apollo di Skopas, la Latona di Kephisodotos il giovane, e la Diana di Timotheos, e si possono vedere riprodotte nella base augustea, conservata nel museo di Sorrento.

Per la sua posizione centrale e salubre, e nello stesso tempo appartata dai rumori della città, il Palatino fu prescelto fin dai primi tempi della Repubblica per abitazione dai ricchi patrizi e, poi, dagli imperatori.

Tra le più famose dimore di età repubblicana vanno ricordate: la casa di Cicerone che subì numerose vicende da lui stesso ricordate nelle sue lettere e nell'orazione De domo; l'altra di suo fratello Quinto; la malfamata domus del tribuno Publio Clodio, e le case: di Q. Lutazio Catulo, prossima ad un portico adorno con i trofei tolti ai Cimbri nel 101 a. C. (porticus Catuli); del dittatore Silla; di Emilio Scauro, una delle prime ornate con colonne marmoree; dell'oratore Licinio Crasso, che aveva un atrio fatto con sei colonne di marmo imettio; di M. Antonio il triumviro, passata poi ad Agrippa; e della famiglia degli Ottavi dove nacque Augusto.

Gli scavi eseguiti da G. Boni all'inizio del sec. XX hanno condotto alla scoperta di notevoli avanzi di costruzioni dell'età repubblicana e dei primi tempi dell'Impero; si trovano nella valle fra il Germalus e il Palatium, valle che fu riempita da Nerone con lo scarico delle rovine dell'incendio e appunto per questo i loro resti si conservarono sotto i nuovi palazzi imperiali.

L'edificio più importante per la sua decorazione pittoricà è la cosiddetta Casa dei Grifi sotto il larario del palazzo dei Flavi. Se ne vedono al presente quattro stanze, decorate con pitture a finta architettura marmorea: dietro un primo piano di colonne si svolge una parete chiusa con vivace policromia di marmi: una lunetta nella stanza più interna conserva un pannello con due grandi grifi abbinati, in stucco bianco su fondo rosso, i quali hanno dato il nome alla casa. Raffronti con pitture simili di Pompei, e specialmente con la Villa dei Misteri, permettono di datarla al 100-90 a. C. Un altro avanzo, consistente in una sala absidata, resta sotto la basilica: alcuni motivi della decorazione pittorica ci richiamano al culto di Iside.

Sotto la basilica stessa e sotto il triclinio del palazzo dei Flavi si sono scoperti inoltre avanzi della domus Transitoria di Nerone, che si estendeva dal Celio al Palatino, e che fu distrutta anch'essa nell'incendio del 64 d. C. Particolarmente notevole è una stanza con pitture di soggetto omerico, già situata a fianco di un piccolo cortile, ornato con un ninfeo.

La prima abitazione imperiale sul Palatino fu quella di Augusto; egli nacque nella vecchia casa paterna che sorgeva sul colle stesso ad capita bubula, località che si pone presso l'Arco di Tito. Eletto imperatore, egli acquistò una nuova casa dall'oratore Ortensio, e la trasformò a sua regolare dimora mediante l'aggiunta di un portico, detto technyphion o Syracusae. I moderni topografi non sono d'accordo sull'identificazione della dimora palatina del fondatore dell'Impero.

I più ritengono che la domus Augustana o Augustiana, costruita da Domiziano verso l'81-85 d. C., occupi il sito stesso della vecchia casa d'Augusto, rifatta dall'imperatore Flavio conservando il nome originale; ma ciò è poco probabile, perché un passo di Svetonio (Aug., 72 s.) lascia intravvedere che la primitiva abitazione imperiale era visibile e venerata ancora al tempo dello scrittore (prima metà del sec. II d. C.). In tal caso essa si deve ricercare fra una di quelle che ancora esistono, e l'unica che convenga, per la tecnica della costruzione e per la sua posizione centrale, è quella detta di Livia o di Germanico, fra il palazzo dei Flavi e il tempio di Cibele. È una piccola casa, adorna di pitture eleganti; si compone di un atrio con un triclinio a destra e un tablino nel fondo, diviso in tre sale: in quella centrale è dipinto il noto quadro di Io, custodita da Argo e rapita da Mercurio per volere di Giove; in quella di destra si svolge un interessante fregio con un animato paesaggio africano. Tutte le pitture seguono il secondo stile pompeiano, sebbene con particolari proprî dell'arte di R.; nella parte posteriore si svolgono le stanze di abitazione; verso ponente e in loco edito atque singulari, come dice Svetonio nel passo citato, era un piccolo peristilio con altre stanze intorno, e probabilmente un secondo ingresso laterale. Da rilievi, dalle monete e dai testi sappiamo che la fronte principale del palazzo di Augusto si apriva sull'area Palatina e aveva sul davanti un piccolo portico fiancheggiato da due lauri: sulla porta era infissa la corona civica, con sopra inciso l'elogio: ob cives servatos. Interessanti scavi sono stati eseguiti nel 1960 alle pendici del fabbricato che guardano il Circo Massimo ed hanno rimesso in luce alcune stanze ornate con eleganti pitture di II stile.

Per la identificazione della casa si tenga anche presente il fatto che essa è vicina al tempio riconosciuto per quello d'Apollo, come asseriscono gli scrittori augustei.

Intorno a questo primo nucleo, che per venerazione verso il fondatore dell'Impero fu in buona parte conservato anche attraverso le grandi trasformazioni subite dal colle nelle età posteriori, sorsero a mano a mano gli altri palazzi imperiali: primo quello di Tiberio, che si suole riconoscere nel grande fabbricato sottoposto ai Giardini Farnesiani, il primo palazzo veramente degno del signore del mondo, costruito su una grande terrazza rettangolare che occupava quasi tutta la lunghezza del lato N-O del colle, fra il clivus Victoriae e il Velabro; purtroppo assai poco conosciamo di questo edificio, di cui due interi piani giacciono sepolti sotto i giardini suddetti e per la cui escavazione sarebbe necessario abbattere i numerosi alberi d'alto fusto che ammantano pittorescamente la vetta del colle.

Nella domus Tiberiana si conservava una pregevole biblioteca, ricordata più volte dalle fonti, mentre nel centro esisteva un grande peristilio, noto per gli scavi eseguiti alla metà del sec. XVIII. A N del palazzo suddetto, fra il clivus Victoriae e il Foro, era il palazzo di Caligola, che scendeva fino a toccare il tempio dei Dioscuri, trasformato da quell'imperatore in vestibolo della sua casa. Di Claudio non abbiamo notizia. Nerone cominciò alcuni fabbricati per la decorazione della sua domus Transitoria, ma essi non erano ancora finiti allorché sopravvenne l'incendio, tristemente famoso, del luglio del 64.

Sprigionatosi alle pendici fra il Palatino e il Celio e spinto dal vento di ponente, il fuoco avviluppò a tenaglia il primo dei due colli e distrusse quanto si trovava sui fianchi, lasciando illesi soltanto i pochi monumenti della parte più interna. Nerone ne approfittò per colmare le asperità del colle e soprattutto la valle fra il Palatium e il Cermalus, gettando quivi le fondamenta di nuovi edifici colossali, che rimasero però sospesi per la sua morte. Se ne vedono avanzi sotto il triclinio del palazzo dei Flavi.

Toccò a Domiziano l'onore di dare un nuovo piano regolatore a tutto il Palatino. Egli, o per meglio dire il suo architetto Rabirius, progettò la costruzione di un nuovo grandioso palazzo che, salvo alcune aggiunte verso il Circo Massimo, non fu più toccato nei secoli seguenti. Esso si compose di quattro edifici distinti e nello stesso tempo collegati fra di loro: il grande palazzo ufficiale, detto anche convenzionalmente, domus Flavia, perché cominciato da Vespasiano, che conteneva le sale di ricevimento, la sala del trono, la basilica per le sedute del consistorium imperiale, il vasto triclinio e il tablinum; la domus Augustana, in senso stretto (v. pianta), d'abitazione della famiglia imperiale; lo stadio, o ippodromo, per le gare ginniche e per i passeggi della corte; e infine le terme nell'angolo che guarda il Celio, per le quali furono necessarie opere di rinforzo e di ampliamento del colle a mezzo di potenti arcate sostruttive. Lo scavo della domus Augustana, cioè del palazzo di abitazione dell'imperatore, adiacente verso N-E alla domus Flavia, iniziato già nel 1926 da A. Bartoli, è stato condotto a termine nel biennio 1936-38, demolendo completamente la Villa Mills, e riducendo in Antiquario una parte dell'ex-Convento della Visitazione.

Oltre al peristilio con impluvio già innanzi scoperto, è stato messo in luce un secondo peristilio a S-O del primo, ma a livello alquanto più basso: si è infatti riconosciuto che il palazzo si estendeva in parte sull'alto del colle e, in parte, sul declivio di esso, appositamente alterato con un taglio verticale della roccia: nella prima parte era a un solo piano, nella seconda a due. Il peristilio inferiore aveva pure esso un vasto impluvio, incavato nella roccia stessa e disegnato con grande varietà di linee: verso la valle del Circo il palazzo faceva fronte con una parete curvilinea porticata. Le sale presentano un ricco movimento di linee rette e curve, che dimostrano nell'architetto genialità e audacia di fantasia. Un terzo peristilio, o comunque una area scoperta, terminata da un'abside, sembra si stendesse a N-E del primo, verso la via di S. Bonaventura. Le terme furono riprese oltre un secolo dopo da Settimio Severo, aumentando ancora il piano artificiale dei colle verso il Circo Massimo e costruendo sulla fronte un ampio palco per godere dall'alto gli spettacoli del circo.

A Settimio Severo si deve anche la costruzione del famoso Septizodium (v. oltre).

Come un annesso del palazzo imperiale si può considerare il fabbricato a mezza costa del colle verso il Circo Massimo, denominato comunemente Paedagogium; è opinione prevalente che servisse di abitazione e di scuola ai servi imperiali. Vi furono rinvenuti molti graffiti, fra cui famoso quello interpretato dai più come caricatura del Crocefisso, oggi nel Museo delle Terme (v. vol. iii, p. 997, fig. 1278). L'edificio è dell'età di Domiziano, ma subì più tardi dei restauri. Uno scavo eseguito da A. Bartoli nella vigna che fu già dei Barberini, presso la chiesetta di S. Sebastiano, ha rimesso in luce un edificio quadrangolare, ornato con un portico, nel quale si vuole riconoscere l'aedes Caesarum, ampliata da Elagabalo nel III sec. d. C.

Poche sono le memorie che abbiamo del Palatino nel Basso Impero e nel Medioevo. Un'iscrizione degl'imperatori Valente, Valentiniano e Graziano, copiata dall'anonimo di Einsiedeln (v. Itinerari, xx, p. 4) in foro Palatini (area Palatina), parla di restauri eseguiti da quei principi alle fabbriche imperiali.

Sappiamo che i re barbari che occuparono R. nei secoli V e VI, e specialmente Odoacre e Teodorico, fissarono la loro dimora nella sede degli antichi imperatori, e così pure Narsete; Eraclio nel 629 vi fu ricevuto solennemente dal Senato, ivi radunato nella sala del trono.

La più antica memoria cristiana che conosciamo sul Palatino è la chiesa di S. Cesario, sostituita intenzionalmente al larario dei palazzi imperiali, con carattere di cappella palatina; essa fu fondata fra il 375 e il 379 d. C. In certo modo si può dire che essa fu più tardi sostituita dalla Chiesa della anastasis, divenuta poi S. Anastasia, antichissima chiesa che ripeteva quelle di ugual nome di Gerusalemme e di Costantinopoli.

Uno speciale funzionario, col titolo di curopalata, doveva provvedere alla custodia e alla conservazione degli edifici imperiali; di tal titolo fu insignito Platone, padre del papa Giovanni VII.

Nel sec. IX fu costruito presso S. Cesario un monastero greco, che assurse a grande importanza, specialmente nel sec. XII, allorquando vi fu eletto papa Eugenio III, nel 1145. Troviamo quindi ambedue questi edifici racchiusi nelle fortificazioni dei Frangipane, che occuparono tutta la Velia e gran parte del Palatium, stabilendo una torre di difesa presso l'Arco di Tito, detta turris chartularia, perché prossima al chartularium, archivio militare degl'imperatori bizantini, passato poi in mano dei pontefici, che vi posero l'archivio ecclesiastico.

Da quell'epoca vi è una lacuna nella storia del Palatino fino al sec. XVI, in cui il colle viene di nuovo ricordato nei testi del Rinascimento col nome di Palazzo Maggiore; nel 1550 circa, il cardinale Alessandro Farnese, nipote di Paolo III, comprava tutto il Germalo e vi fondava sopra i magnifici giardini, che ancora oggi formano la delizia del luogo, costruendovi il casino occupato attualmente dalla direzione degli scavi. Contemporaneamente il centro del colle passava in potere dei Paolostati e la parte meridionale (stadio) in quella dei Ronconi, mentre dappertutto si accentuava la spietata spoliazione di materiali per i nuovi edifici della città.

Per tutto il sec. XVI, e più ancora nel XVII, il Palatino fu oggetto di scavi irregolari, specialmente per opera dei Farnese, che devastarono le vecchie fabbriche e ne affrettarono la rovina. Soltanto nel secolo seguente furono iniziati i primi scavi sistematici sotto la direzione del Bianchini, proseguiti poi dall'abate francese Rancoureuil e, sui primi dell'Ottocento, dal napoleonico prefetto de Tournon. Nel 186o Napoleone III comprò dal re di Napoli i Giardini Farnesiani e ne affidò lo scavo al valente architetto Pietro Rosa, il quale vi compì notevoli lavori, gettando la terra di rifiuto sul fianco compreso fra S. Teodoro e S. Anastasia, che rimase perciò considerevolmente alterato; questo fianco fu poi riscavato verso il 1950, per la ricerca del Lupercale, da A. Bartoli che rimise in luce numerosi avanzi di case private di età imperiale. Tale scavo, sospeso per la difficoltà di scendere ad un livello troppo profondo, è tuttora inedito. Nel 1870 i giardini passarono al governo italiano, costituendo così il primo nucleo della proprietà demaniale del Palatino, al quale furono aggiunti poco dopo i terreni dei conventi di S. Bonaventura e della Visitazione (Villa Mills). Quindi a mano a mano vennero espropriate la vigna Nusiner, presso il clivo della Vittoria, la vigna Butirroni, la vigna del Collegio Inglese, la vigna dei Fatebenefratelli, e infine la vigna Barberini, completando così la demanialità di tutto il vetusto colle (v. tavv. clxi-clxiv).

Bibl.: C. L. Visconti-R. Lanciani, Guida del Palatino, Roma 1873; E. G. Haugwitz, Der Palatin, seine Geschichte und seine Ruinen, Roma 1901; H. Marucchi, Le Forum Romain et le Palatin, d'après les dernières découvertes2, Roma-Parigi 1925; Ch. Hülsen, Forum und Palatin, Monaco-Vienna-Berlino 1905, con app. 1910; G. Pinza, Studi di architettura e di topografia romana. L'angolo sud-ovest del Palatino, in Annali della Società degli Ingegneri, XXII, 1907, p. 27 ss.; id., Il tempio di Apollo Palatino, in Bull. Com., XXXVIII, 1910; O. L. Richmond, The Temples of divus Augustus and Apollo Palatinus upon Roman Coins, Cambridge 1913; id., The August. Palatinum, in Journ. Rom. Stud., 1914, p. 193 ss.; V. Groh, La storia primitiva del Germalus, in Athenaeum, VII, 1929, fasc. 3°; A. Bartoli, Scavi del Palatino (Domus Augustana), in Not. Sc., 1929, p. 3 ss.; G. E. Rizzo, Monumenti della Pittura Antica, I, Roma 1936; La Casa dei Grifi; II, 1937, l'aula Isiaca di Caligola; III, 1937, La Casa di Livia; V. Ziegler, in Pauly-Wissowa, XVIII, 1949, c. 5 ss., s. v. Palatium; S. M. Puglisi, Gli abitatori primitivi del Palatino, in Mon. Ant. Linc., XLI, 1951, p. 5 ss.; G. Lugli, Il tempio di Apollo Aziaco e il gruppo augusteo sul Palatino, in Atti Accad. Naz. S. Luca, N. S., I, 1951-52, p. 26 ss.; M. Petrignani, La Domus Flavia, in Boll. Centro studi St. Architettura, 16, 1960 (dall'estratto); G. Carettoni, Due nuovi ambienti dipinti sul Palatino, in Boll. d'Arte, n. III, 1961, p. 189 ss.; P. Romanelli, Il Tempio della Magna Mater sul Palatino, in Mon. Ant. Lincei, XLV, 1963, p. 295 ss.; G. Carettoni, Il Palatino nel Medioevo, in Studi Romani, 1963, p. 406 ss.

Il Settizodio. - Il biografo di Settimio Severo (Vita Severi, 24) ci narra che questo imperatore (v. settimio severo) costruì ai piedi del Palatino un edificio detto Septizonium o Settizodium, destinato a fare da fronte monumentale al suo palazzo e a dare ai viaggiatori che venivano dall'Africa la sensazione della magnificenza dell'Urbe e della potenza del sovrano. Un frammento della Forma Urbis Severiana, riconosciuto nella nuova recente edizione dell'importante documento, ne fissa il nome, almeno nella tradizione popolare, in Septizodium. Che il Settizodio fosse una costruzione di gran lusso è testimoniato dalle numerose illustrazioni che ce ne hanno lasciato gli artisti del Rinascimento, le quali ci mostrano un fabbricato a tre piani con avancorpi sporgenti ornati con portici di colonne policrome: un'idea molto vicina di come l'edificio si doveva presentare nell'età romana ci può essere data dalla ricostruzione della scena del teatro di Sabratha in Tripolitania. Una certa somiglianza si può trovare anche con i ninfei monumentali, alcuni dei quali, in iscrizioni africane, sono chiamati col nome stesso.

Il piano inferiore, composto di un alto podio, anche esso rivestito di marmi, fu scavato nel sec. XVI e formava un quarto piano, mentre non è escluso che al disopra esistessero in antico gli altri tre piani che dovevano - secondo l'interpretazione più comune del nome - formare le sette zone di tutta la fronte; alcuni studiosi, invece, sono inclini a credere che le sette zone si dovessero contare in senso verticale.

Altri hanno pensato a etimologie differenti, fondandosi su alcune versioni medievali del nome: Septifolium, Sedem Solis e Septemsoliis, riconnettendole con le sette divinità planetarie, o con i sette simboli solari, o anche con i sette giorni della settimana. Raffigurato in molte stampe del Cinquecento, ridotto alla sola ala terminale destra, fu interamente distrutto da Sisto V per opera dell'architetto Fontana e il suo materiale servì per molte fabbriche allora in corso, tra cui le fondazioni dell'obelisco vaticano, il sepolcro di Sisto V in S. Maria Maggiore, quello di Pio V e la Cappella Sistina in Vaticano.

Bibl.: A. Bartoli, in Boll. d'Arte, 1909, p. 253; E. Petersen, Septizonium, in Röm. Mitt., 1910, p. 56 ss.; R. Lanciani, Storia degli Scavi di Roma, IV, Roma 1912, p. 137 ss.; Th. Dombart, Das palatinische Septizonium zu Rom, Monaco 1922; G. Rodenwaldt, Eine Ansicht des Septizoniums, in Arch. Anz., 1923-24, p. 39 ss.; La Pianta marmorea di Roma Antica (Forma Urbis Romae), Roma 1955, tav. XVII, p. 66 s.; G.-Ch. Picard, Le Septizonium de Circar et le problème des Septizonia, in Mon. et Mem. de l'Acad. des Inscrip. et Belles Lettres, LII, 1960, fasc. 2, p. 77 ss.

(G. Lugli)

IV. - F o r i. - Per il concetto di Foro, le sue specie, e i suoi usi vedi foro (vol. iii, p. 723 ss.).

1. Foro Boario e Olitorio. - a) Foro Boario: uno dei più antichi e ampi mercati di R. dove, ancor prima della fondazione della città, si svolgeva vita commerciale tra le due sponde, che usufruivano del passaggio attraverso l'Isola Tiberina. Occupava un'area molto estesa tra il Campidoglio, il Palatino e l'Aventino e il Tevere, area della quale non si conoscono i limiti precisi: a S toccava le falde dell'Aventino e a S-E confinava con i carceres del Circo Massimo; a O correva lungo le rive del fiume fino al ponte Emilio; a N confinava col Vicus Iugarius. La scoperta dei due templi dell'area di S. Omobono e la loro probabile identificazione col tempio della Fortuna e della Mater Matuta, testimoniati nel Foro Boario, fa pensare che, verso N, il Foro Boario arrivasse a contatto col Foro Olitorio. Non si sa se era compreso nella cinta serviana, data l'incertezza dell'andamento delle mura in questo punto. Faceva parte, col Velabro, della XI Regione augustea. Derivò il suo nome dalla sua destinazione speciale a mercato dei buoi, piuttosto che dall'essere stato pascolo dei leggendari buoi di Ercole. Nel Foro, sin dagli antichi tempi, era eretto un bue di bronzo, che si diceva trasportato da Egina. Sembra che, forse in casi speciali, sia stato anche luogo di giurisdizione, almeno durante la Repubblica; il primo spettacolo gladiatorio sarebbe stato dato qui.

Era attraversato dalla Cloaca Massima (v. sez. ix, 1) e parecchie vie lo mettevano in collegamento con le altre parti della città; era ornato di diversi portici, di cui il principale era quello eretto nel 179, post Navalia (Liv., xl, 51, 6).

Fu sede di antichissimi culti e aveva nel mezzo un locus saxo consaeptus dove erano compiuti anche sacrifici umani.

Nel Foro Boario restano numerosi monumenti, alcuni dei quali ben conservati.

Nella parte settentrionale, nella zona recentemente scavata di S. Omobono, si trovano resti di due templi, riconosciuti dal Colini per quelli della Mater Matuta e della Fortuna, attribuiti dalla tradizione a Servio Tullio. L'area finora messa in luce comprende una piattaforma quadrata rivestita esteriormente di blocchi di peperino, che presentava altezze diverse secondo il livello delle strade che la circondavano da tutti i lati: essa costituiva il podio dei due templi le cui celle ne occupavano la metà posteriore, mentre la metà anteriore, un po' meno elevata, conteneva are, basi di donari ecc. La parete posteriore dei due templi era forse unica mentre tra di essi si trovava, ad un livello inferiore, un lungo ambiente coperto a vòlta che può interpretarsi come favissa. I templi sono orientati esattamente a S.

Il complesso è di età medio-repubblicana; subì una ricostruzione alla fine della Repubblica-inizî dell'Impero. Due altari di peperino antistanti i templi sono da datarsi intorno al III sec. a. C. In strati inferiori sono stati trovati gli avanzi di un tempio (con orientamento un pò diverso) che presenta due successive fasi. Ad esso appartengono numerose terrecotte architettoniche della fine del VI sec. a. C. In questi strati si è trovato materiale ceramico anche più antico e uno scarico (sovrapposto a strati più recenti) di ceramica appenninica.

Sempre nel Foro Boario un tempio circolare, cosiddetto di Vesta, è in realtà di ignota attribuzione. Probabilmente di età augustea è costruito alla maniera greca tutto di blocchi squadrati.

Un tempio rettangolare, cosiddetto della Fortuna Virile, ionico, pseudoperiptero, tetrastilo, di tufo e travertino rivestiti di stucco, viene identificato generalmente con quello di Portunus. Subito a N di esso si estende infatti l'antico porto, del quale rimangono alcuni muraglioni; il bacino, in età imperiale, fu poi interrato e sul luogo furono costruiti magazzini. Il tempio, nella sua fase attuale, è databile tra il 42 e il 38 a. C., ma fu costruito su di un più antico tempio del III o II sec. a. C., di cui è stato trovato l'alto basamento di tufo, un po' più ampio dell'attuale.

I resti del tempio di Cerere, Libero e Libera sono stati identificati in un podio in tufo e travertino esistente sotto la chiesa di S. Maria in Cosmedin. Votato dal dittatore L. Postumio, nel 496, il tempio fu dedicato alle divinità corrispondenti a Demetra, Dioniso e Kore. Era sede degli edili della plebe che in esso custodivano il tesoro e l'archivio. Presso il tempio si trovava la Statio Annonae, sede del prefetto dell'annona, identificata, mediante una iscrizione, col portico corinzio, rettangolare, messo in luce sotto la chiesa di S. Maria in Cosmedin, orientato in senso trasversale rispetto alla chiesa. Per l'Arco degli Argentari, incluso nella chiesa di S. Giorgio in Velabro, v. Sez. vi, 3. L'arco "di Giano" quadrifronte è forse da identificare con l'arcus Costantini ricordato dai Regionari del IV sec. nella Regione XI. Sorge su un canale della Cloaca Massima e presenta una serie di nicchie sovrapposte che si spingono oltre l'imposta dell'arcata e, secondo una restituzione del Rossini, coprivano anche l'attico, ora mancante. Le nicchie erano inquadrate da serie continue e sovrapposte di colonnine, ora scomparse. Col nome Doliola veniva indicata una zona sacra sotto la Cloaca Massima dove, nei primi tempi della Repubblica, furono trovati piccoli doli che si diceva fossero stati nascosti dalle Vestali durante l'invasione gallica.

Nel Foro Boario numerosi erano i santuarî di Ercole: Ara maxima Herculis invicti, presso i carceres del Circo; un tempio ad Hercules Invictus presso la porta trigemina; un tempio a Hercules Pompeianus, presso il Circo Massimo. In particolare il tempio ad Ercole Vincitore, di pianta circolare ed ordine dorico, della prima metà del II sec. a. C., noto anche per le pitture di Pacuvius, si trovava tra Piazza Bocca della Verità e via dell'Ara Massima: fu distrutto durante il pontificato di Sisto IV (1471-1484); di esso abbiamo un disegno ricostruttivo di B. Peruzzi. Sono ancora ricordati dalle fonti due archi del II sec. a. C., che Livio (xxxiii, 27, 4), dice essere stati innalzati da L. Stertinio proprio davanti ai due templi della Fortuna e della Mater Matuta nel Foro Boario e i Busta Gallica, luogo dove erano state bruciate e sepolte le ossa dei Galli uccisi nelle loro scorrerie su Roma.

b) Foro Olitorio: anche il Foro Olitorio appartiene a quelli con funzione prettamente commerciale (come il Foro piscatorium, ecc); si trovava al di fuori delle mura serviane, tra le pendici O del Campidoglio e il Tevere. Fece poi parte della Regione IX augustea. Il suo limite E era segnato da portici di cui vi sono resti a N del vicus Iugarius. Verso la fine della Repubblica aveva però già mutato la sua primitiva funzione in quella di piazza monumentale; in quell'epoca la piazza era regolarizzata a trapezio e pavimentata. Negli ultimi decennî del I sec. a. C. fu eretto un portico di peperino con una doppia fila di arcate, inquadrato, verso l'esterno, da un ordine di semicolonne tuscaniche e, verso l'interno, da paraste che sorreggevano la copertura a tetto.

Abbiamo notizia di un tempio a Giano (votato dopo il 260 a. C.); uno alla Speranza (votato durante la seconda guerra punica), un tempio a Giunone. Sospite (nel 194) e uno alla Pietà (nel 181). Il tempio a Giano del Foro Olitorio potrebbe identificarsi con alcuni resti ad E del tempio di Apollo Sosiano. I tre templi di età repubblicana (rinnovati tutti in età augustea), sotto S. Nicola in Carcere, potrebbero identificarsi uno col tempio di Giunone, il secondo col tempio della Speranza; la dedica del terzo resta sconosciuta. Dei tre templi, due sono ionici: il più settentrionale presenta ancora la forma periptera di tipo italico; quello di mezzo è periptero completo, di fondazione alquanto più tarda; entrambi furono restaurati nel 90 a. C. Si affianca ad essi un periptero dorico di minori dimensioni con colonne di travertino su di un podio a semplice fascia terminale, datato variamente alla prima metà del III sec. a. C. (Lugli) o alla seconda metà del I sec. a. C. (Frank). In tutti è notevole l'ampio pronao che si protende in avanti.

Bibl.: Generalità: R. Delbrück, Hellenistische Bauten in Latium, Strasburgo 1907; T. Franck, Roman Buildings of the Republic, Roma 1924; G. Lugli, Roma Antica; il centro monumentale, Roma 1946; M. E. Blake, Ancient Roman Construction in Italy from the Prehistoric Period to Augustus, Washington 1947; H. Lyngby, Beiträge zur Topographie des Forum Boarium, Lund 1954; id., Topographische Fragen des Forum Boarium-Gebiets in Rom, in Eranos, LVII, 1959, pp. 132-149; C. Bémont, Les enterrés vivants du Forum Boarium, in Mélanges d'archéol. et d'hist., LXXV, 1960, pp. 134-146. Zona di S. Omobono: A. M. Colini, in Bull. Com., LXVI, 1938, pp. 278-282; H. Lyngby, Fortunas och Mater Matutas Kulter pà Forum Boarium i Rom, in Eranos, 1938, p. 42 ss.; A. M. Colini, Introduzione allo studio dell'area sacra di S. Omobono, in Bull. Com., LXXVII, 1959-60 (1962), p. 3 ss.; E. Gjerstad, Scavo stratigrafico a S. Omobono, ibid., pp. 33-108; R. Peroni, S. Omobono, materiali della età del bronzo e degli inizî dell'età del ferro, ibid., p. 7 ss.; G. Colonna, Area sacra di S. Omobono: la ceramica etrusca dipinta, ibid., p. 125 ss.; F. Castagnoli, Sulla tipologia degli altari di Lavinio, ibid., p. 147 ss. Tempio Rotondo: G. Caraffa, Il tempio detto di Vesta nel Foro Boario, Roma 1948; D. E. Strong-J. B. Ward Perkins, The Round Temple in the Forum Boarium, in Papers Brit. School at Rome, N. S., XV, 1960, pp. 1-32. Tempio ionico: A. Muñoz, Il restauro del Tempio della Fortuna Virile, Roma 1925; G. Marchetti Longhi, Il tempio ionico di Ponte rotto: tempio della fortuna o di Portunus?, in Röm. Mitt., XL, 1925, pp. 220-250. Statio Annonae e Tempio di Cerere: G. B. Giovenale, La basilica di S. Maria in Cosmedin, Roma 1927; C. Pietrangeli, Il Mitreo del palazzo dei Musei di Roma, in Bull. Com., LXVIII, 1940, pp. 143-173. Arco quadrifronte: F. Tobelmann, Der bogen von Malborghetto, Heidelberg 1915; H. P. L'Orange-A. von Gerkan, Der Spätantike Bildschmuck des Kostantinsbogens, Berlino 1939. Portici del Foro Olitorio: G. Marchetti Longhi, I Portici del Foro Olitorio, Roma 1933: id., in Rend. Pont. Acc. Archeol., XVI, 1940, p. 225 ss.; F. Castagnoli, Il Campo marzio nell'antichità, in Mem. Acc. Lincei, Serie VIII, vol. I, 1948, p. 19 ss.; M. Petrignani, Il portico d'Ottavia, in Boll. Centro studi St. Architettura, 16, 1960 (dall'estratto). Templi del Foro Olitorio: R. Delbrück, Die drei Tempel am Forum Holitorium, Roma 1903; V. Fasolo, I Tre Templi di S. Nicola in Carcere, Roma 1925 (con pianta); A. Bartoli, I templi del Foro Olitorio e le diaconie di S. Nicola in Carcere, in Atti Pont. Acc. Archeol., serie III, rendic. vol. V, 1926-27, p. 213 ss.; G. Carettoni, A. M. Colini, L. Cozza, G. Gatti, La pianta marmorea di Roma antica, Roma 1955, p. 91 ss., t. XXIX.

(Red.)

2. Il Foro Romano. - La tradizione attribuisce la fondazione del Foro Romano ai Tarquinî, i quali prosciugarono una valle situata fra i colli Palatino, Campidoglio ed Esquilino e la adibirono a luogo di ritrovo e di commercio della popolazione. Sta di fatto che il Foro nacque come luogo di mercato fra i pagi che occupavano i tre colli suddetti e solo in un secondo tempo acquistò anche un carattere religioso e politico; ciò avvenne nei primi secoli della Repubblica con la costruzione dei templi di Saturno e dei Castori e con la sistemazione del Comizio. Fanno eccezione i templi di Vesta e di Giano, che risalgono probabilmente all'età regia ed hanno un carattere del tutto particolare. Il Foro Romano non appartiene quindi alla primitiva fase della città, cioè alla città palatina, ma ad una fase più avanzata, come asserisce infatti la tradizione annalistica. Per sistemare l'ampia valle paludosa fra i tre colli fu necessario eseguire opere di bonifica e ricoprire un sepolcreto antichissimo che esisteva sui margini di N-E e che si mantenne in efficienza dal IX fino a tutto il VII sec. a. C. Del sepolcreto si rinvennero una quarantina di tombe, di due tipi: alcune erano in forma di pozzo, con i cadaveri cremati e le ceneri racchiuse entro un'urna avente non di rado la forma di capanna; altre erano invece a inumazione col cadavere deposto o semplicemente nel terreno, oppure in una cassa di legno o di tufo. Sostanzialmente non vi era differenza di età fra i due riti e la suppellettile in ambedue era molto povera.

L'esplorazione condotta da A. Bartoli nel 1932 di un pozzo nell'area adiacente al tempio di Vesta ha dato materiale riferibile alla vita primitiva della città. Insieme con avanzi ceramici del sec. VIII (frammenti di impasto nerastro levigato e lucidato a stecca) e VII a. C. (buccheri italogeometrici, un frammento di vaso protocorinzio) sono state rinvenute ossa di animali, un frammento di macina in selce, una discreta quantità di grano e pezzi di tufo che, risultando anneriti dal fuoco, dovevano far parte di un focolare. Tutto ha evidente riferimento alla vita domestica che si svolgeva nelle adiacenze e, gettato intenzionalmente nel pozzo, è prova sicura che tra l'VIII e il VII sec. a. C. la valle del Foro, almeno da questa parte, dovette essere già abitata. Se il materiale recuperato debba porsi in relazione con il culto di Vesta e con lo stabilimento nel sito della casa delle Vestali è questione che non si può decidere con sicurezza.

Dello stato paludoso della valle del Foro abbiamo ricordo in uno stagno o fonte, che rimaneva ancora in epoca tarda nel punto più profondo, detto Lacus Curtius, perché, secondo la tradizione più diffusa, un nobile sabino, Mezio Curzio, si gettò a cavallo nella voragine per salvare col sacrificio della vita la patria in pericolo. I saggi fatti da G. Boni presso il Comizio hanno dimostrato una stratificazione abbondante sotto il pavimento imperiale; fra tutti questi strati vanno notati: quello del Foro primitivo, cioè dell'alta Repubblica; quello dell'età sillana, quello dell'età cesareo-augustea e quello del tardo Impero.

La classificazione più antica di questi strati fatta dal Boni è stata recentemente ripresa dall'archeologo svedese E. Gjerstad, il quale ha ampliato le ricerche fino all'area centrale, raccogliendo e pubblicando un interessante materiale, la cui valutazione storica è però discussa.

Nei tempi più antichi, nel Foro si tenevano soltanto mercati, adunanze politiche, discussioni giudiziarie e processioni religiose. Alle adunanze era particolarmente adibito il Comizio, piazza in origine distinta dal Foro, ma ad esso immediatamente adiacente verso N, tanto che nell'Impero, venuto meno il suo uso primitivo, finì per unirsi con esso. Di fronte al Comizio verso N era la sede del Senato, la Curia (v.); e dalla parte opposta il monumento più insigne e vetusto del Foro, il Lapis Niger. È questo una piccola area lastricata di marmo nero, donde il suo nome, che par certo sia stato un monumento commemorativo; la leggenda vi localizzava la tomba di Romolo, o quella di Ostilio, avo del re dello stesso nome. Al tempo di Varrone la presunta tomba, che era ornata con due leoni accovacciati, era ancora visibile; il lastricato in marmo nero deve attribuirsi all'epoca di Cesare. Gli scavi hanno rimesso in luce avanzi, che possono essere quelli di un sepolcro, un tronco di colonna in pietra e una stele piramidale, tronca, con iscrizione bustrofedica che è la più antica iscrizione latina conosciuta; l'interpretazione è incerta, ma pare si tratti di una legge sacra del sec. VI a. C. circa. Un nuovo esame stratigrafico del materiale che riempì la fossa prima della copertura - eseguito recentemente - ha confermato in pieno questa datazione.

Le processioni religiose, provenendo di solito dalla Velia, attraversavano tutta la valle lungo una via, che si chiamò perciò Sacra, e quindi risalivano sul Campidoglio fino al tempio di Giove. In età più recente si tennero nel Foro anche spettacoli gladiatorî, preghiere e sacrifici pubblici, grandi funerali e assemblee politiche. Quivi si radunava il popolo durante le elezioni, per udire i discorsi dei candidati e prendere conoscenza degli editti dei magistrati. Qui i tribuni della plebe chiamavano a raccolta il popolo; i censori leggevano l'albo dei senatori; i generali celebravano il trionfo; qui si tenevano innanzi al pubblico i processi per alto tradimento e per le frodi contro l'amministrazione dello stato. Ogni anno, il 15 luglio, scendevano nella piazza, contornati da grande turba, i nuovi cavalieri con l'abito di parata (trabea), provenendo dal tempio di Marte sulla via Appia e diretti al tempio dei Castori, loro protettori, dove offrivano un solenne sacrificio. Tra le più celebri laudationes funebres vanno ricordate quella in onore di Silla, di Marco Antonio in onore di Cesare, quelle di Augusto per i proprî parenti e quella di Tiberio in onore di Augusto. L'oratore parlava dai rostri, cioè da un podio ornato coi rostri tolti alle navi di Anzio nel 338 a. C.; essi erano prima nel Comizio, poi da Cesare furono trasferiti sul lato N-O del Foro a causa del nuovo orientamento dato alla piazza, e adorni con colonne e statue onorarie.

Adiacente al Foro, ma distaccato da esso, era il Carcere, o Tullianum. Il nome pare derivi da tullus "polla d'acqua"; era costituito da due stanze, una superiore, trapezoidale, costruita con blocchi di tufo, e una inferiore, quasi circolare, che doveva essere in origine una cisterna a thòlos. La prima era riservata al corpo di guardia, nella seconda avevano luogo le esecuzioni capitali: tra le più famose si ricordano quelle di Giugurta, di Vercingetorige e di alcuni dei congiurati di Catilina. In età cristiana fu chiamato carcere Mamertino e vi si localizzò la tradizione della prigionia di S. Pietro.

I più antichi templi, come si è detto, furono quelli di Vesta, di Giano, di Saturno e dei Castori. Del tempio di Vesta diremo in seguito.

Secondo la nota tradizione, il tempio di Giano si chiudeva in tempo di pace e rimaneva aperto in tempo di guerra; esso sorgeva fra la basilica Emilia e la via dell'Argileto, ma al presente non ne rimangono più tracce. Il tempio di Saturno fu eretto secondo la tradizione nei primi anni delle Repubblica (501-493 a. C.) per custodirvi il pubblico erario. L'edificio fu restaurato nel 42 a. C. da L. Munazio Planco, ma nel III sec. dell'Impero rovinò in seguito a un incendio, tanto che il Senato e il popolo lo rifecero a spese dello Stato, usufruendo in gran parte del materiale precedente. Questo spiega perché le colossali colonne di granito siano di più pezzi, non bene combacianti tra loro.

Quasi contemporaneo al tempio di Saturno è il tempio dei Dioscuri, Castore e Polluce, detto comunemente dei Castori. La fondazione si ricollega con la leggenda dei due giovani eroi che apparvero rifulgenti come dèi, in aiuto dei Romani, mentre questi combattevano contro i Tarquini al Lago Regillo, e che poco dopo furono visti comparire nel Foro ad abbeverare i loro cavalli, alla fonte di Giuturna, raccontando ai Romani la vittoria riportata da Aulo Postumio. Per questo miracolo il dittatore medesimo dedicò ai Dioscuri presso la fonte un grande tempio che, iniziato nel 499, fu ultimato 15 anni dopo. Anche questo tempio fu in seguito ricostruito, nel 117 a. C. da Cecilio Metello, e nel 6 d. C. da Tiberio ancora principe. A quest'ultimo restauro spettano le tre svelte colonne corinzie, che appartengono al lato orientale del periptero, tutte le altre essendo cadute. Nell'interno del basamento si possono tuttavia riconoscere i resti delle due fasi precedenti.

Circa un secolo dopo, per opera di Furio Camillo (367 a. C.), fu innalzato il tempio della Concordia ai piedi del Campidoglio, per commemorare la fine delle lunghe lotte fra patrizi e plebei. Questo tempio divenne nell'Impero uno dei più ricchi di tutta la città, ospitando nel suo interno capolavori della scultura e pittura greca, tra cui un gruppo di Latona con Apollo e Diana, opera di Euphranor, un Ares e un Hermes di Teisikrates, e il celebre quadro di Zeusi che raffigurava il satiro Marsia. Un santuario in forma di ara, ricollegato forse col sepolcreto arcaico, è quello di Vulcano presso il Comizio. Salvo alcuni santuarî minori (Giuturna, Dei Consenti, Cloacina, Vortumno) non si hanno nel Foro altri templi per tutta l'età repubblicana. Nell'Impero, agli dèi dell'Olimpo, si sostituiscono alcuni imperatori divinizzati, e cioè Giulio Cesare, Vespasiano e infine Antonino Pio con la moglie Faustina.

Resta ora da parlare di un tempio che fu il più celebre di tutta l'antichità per l'importanza del suo culto, saldamente connesso con la vita di R., attraverso i secoli, cioè del tempio di Vesta.

Non sappiamo per qual motivo esso si trovasse alla periferia del Foro primitivo, sulle ultime pendici del Palatino. Fu scoperto nel 1874, ed esplorato da H. Jordan nel 1884 e dal Boni nel 1898, il quale ultimo rinvenne vari pezzi della trabeazione esterna di marmo appartenenti all'ultimo restauro eseguito a cura di Giulia Domna; oggi ne è stato rialzato circa un quarto in modo da dare un'idea dell'antica costruzione. Già prima di Giulia Domna il tempio era stato più volte distrutto e rifatto; la tradizione ne attribuiva l'origine al re Numa e Ovidio ci rappresenta il primitivo tempio come una capanna rotonda coperta di vimini e paglia. Fu distrutto una prima volta nell'incendio gallico (390 a. C.), quindi nel 241 e nell'età di Silla, quando fu rifatto tutto di pietra. Augusto vi apportò miglioramenti e Vespasiano dovette ricostruirlo ancora dopo l'incendio del 64. È certo che una nuova catastrofe dovette avvenire nell'incendio del 191, sotto Commodo, perché, come si è detto, gli avanzi che tuttora si vedono appartengono all'età di Settimio Severo. Nella cella si conservano alcune reliquie, tra cui il Palladio, trasferito da Troia a R., simbolo della eternità dell'Impero.

Le sei vergini vestali, che a turno prestavano servizio nel tempio, avevano la loro abitazione vicino ad esso. La bella casa, ampia e spaziosa, in seguito ai varî restauri e miglioramenti apportati da Nerone, da Domiziano, da Antonino Pio e da Settimio Severo si componeva di un grande atrio centrale, contornato da un portico a due ordini. Nell'atrio sono disposte alcune statue e basi onorarie di vestali massime, che meritarono la riconoscenza dello Stato. Verso S si svolgono su due piani, di cui il secondo si affaccia sulla Via Nova, le stanze private di abitazione, il triclinio, il larario, il forno, le cucine, ecc. In fondo all'atrio si trovano sei stanze uguali che dovevano servire come sacrestia per le sacerdotesse.

Attigua al tempio di Vesta e alla Casa delle Vestali era la casa del pontefice massimo, fondata nel luogo dove si dice che Numa avesse la Regia.

È un piccolo edificio di uso rappresentativo, che dagli avanzi si dimostra molto antico; ha la forma di un trapezio diviso in due ambienti, con pozzi rituali. L'ambiente più a S ha la forma di un mègaron coperto; l'altro sembra essere stato un recinto scoperto, con un colonnato lungo la Via Sacra nel quale si deve forse riconoscere la porticus Iulia. L'ultima ricostruzione, alla quale appartengono i frammenti architettonici raccolti lì presso, è del 36 a. C., per opera di Domizio Calvino.

Dalla parte opposta della Regia la Casa delle Vestali confinava con il gruppo della ninfa Giuturna (la fonte perenne) consistente in un lacus, o fontana all'aperto, in un'edicola con l'immagine della dea e in un pozzo rotondo dedicato da M. Barbazio Pollione. Scendendo nel mezzo del Foro si osserva che i limiti della piazza sacra erano fissati per mezzo di una serie di pozzi, che si notano anche dinanzi ai Rostri del Comizio e lungo la Via Sacra.

Nella piazza esistevano varî monumenti: il lacus Curtius; il recinto che racchiudeva i tre alberi sacri, il fico, la vite e l'olivo, insieme con la statua di Marsia; le statue equestri di Domiziano e di Costantino; alcune basi onorarie e, fra tutte troneggiante, la colonna corinzia eretta nel 6o8 d. C. dal papa Bonifacio IV all'imperatore Foca per il dono da lui ricevuto del Pantheon. Lungo la Via Sacra, di fronte alla basilica Giulia, sette grandi basi di colonne stanno a ricordare alcuni monumenti onorarî, eretti a personaggi illustri dell'età di Diocleziano.

Quattro archi delimitavano ai quattro angoli l'area del Foro sui varî bracci della Via Sacra. Ad O era l'arco di Tiberio, di cui si vedono ancora i cavi della fondazione; a N, l'arco di Settimio Severo (v. Sez. viii). Ad E fra la Regia e il tempio di Antonino e Faustina era il Fornix Fabianus, costruito dal console Q. Fabio Massimo Allobrogico, nel 121 a. C. A S era un altro arco a tre fornici decretato dal senato e dal popolo romano nel 29 a. C. ad Augusto, in memoria della vittoria di Azio. Di quest'arco rimangono soltanto le fondazioni fra il tempio di Cesare e quello dei Castori, mentre il Fornix Fabianus, che era stato abbellito nel 57 a. C. da Q. Fabio Massimo Minore, è andato interamente distrutto.

I lati lunghi del Foro erano fiancheggiati dalle due basiliche, la Giulia e la Emilia.

Nell' età più antica esistevano tre basiliche, che scomparvero col tempo senza lasciare traccia: la Porcia, la Sempronia e la Opimia. La Porcia, eretta nel 184 a. C. dai censori L. Valerio Flacco e M. Porcio Catone, sorgeva probabilmente fra il Campidoglio e la Curia Ostilia, e andò interamente distrutta quando la Curia bruciò nei tumulti clodiani del 55. La Sempronia, fondata nel 170 a. C. dal censore Tiberio Sempronio Gracco presso il Vicus Tuscus, dovette scomparire quando fu eretta la nuova basilica da Giulio Cesare. La terza, la Opimia, di piccole proporzioni, fu ideata da Lucio Opimio, capo del movimento aristocratico contro i Gracchi, e situata, a quanto sembra, fra il tempio della Concordia e il carcere Mamertino. Scomparve quando Tiberio ricostruì il tempio suddetto e ne prolungò i due lati N e S.

Delle due basiliche superstiti, la più antica è la Emilia, che i censori del 179 a. C., M. Emilio Lepido e M. Fulvio Nobiliore, innalzarono dove fino ad allora erano le tabernae argentariae novae.

Da principio portò il nome di Fulvia et Aemilia, ma in seguito si chiamò Aemilia soltanto, perché questa famiglia ne fece quasi un suo monumento particolare, e la restaurò più volte nel corso dei secoli. Alla basilica primitiva apportò miglioramenti M. Emilio Lepido, che fu console nel 78 a. C.; ma nel 55 suo figlio L. Emilio Paolo, triumviro, sentì il bisogno di ricostruirla in base ai nuovi criteri edilizi introdotti in R. nell'età cesariana. L'opera fu finita dal figlio di costui nel 34 a. C. Restauri vi furono apportati ancora sotto Augusto e alla fine dell'Impero, e specialmente nel 410 dopo il saccheggio di Alarico, quando il portico frontale fu tutto ricostruito. La facciata esterna era a due piani, rivestiti di marmi e bronzo dorato. L'aula era contornata da un portico di colonne di marmo africano, mentre il pavimento era a riquadri di marmi colorati. Un fregio marmoreo in rilievo attribuito al rifacimento della fine della Repubblica correva sul portico interno decorato con scene relative alle origini di Roma. Vi si riconoscono specialmente: la fondazione di Lavinio, il ratto delle Sabine, la punizione di Tarpea, la leggenda di Faustolo, ecc.

Scavi recenti eseguiti sotto il pavimento hanno messo in luce: tre grandi basi in tufo e un piccolo resto di pavimento in travertino sotto il lato corto di N-O della basilica d'età imperiale; filari di fondazioni in tufo, con sopra avanzi di pavimento a lastre pure di tufo più verso l'interno della basilica. Le basi sono forse da attribuire alla primitiva basilica del 179, mentre le fondazioni sembrano appartenere ad un altro edificio, più antico. Alcune modeste strutture in cappellaccio, fra cui è un'ampia cisterna a thòlos, a livello più basso degli avanzi supposti della prima basilica, e tagliate e sepolte da questi, dovrebbero riportarsi a costruzioni, forse private, anteriori al III sec. a. C.

La basilica Giulia prese il nome da Giulio Cesare, che la iniziò nel 54 a. C.; fu inaugurata otto anni dopo, non ancora finita.

Danneggiata da un incendio, fu restaurata da Augusto e rifatta forse in marmo; aveva la fronte prospiciente un ramo secondario della Via Sacra e il lato di S-E sul vicus Tuscus; era anch'essa decorata con grande sfarzo, ma purtroppo l'ingiuria del tempo non ce ne ha conservato che la pianta e qualche scarso frammento architettonico.

Sul principio del sec. IV, a E del Foro, lungo la Via Sacra, fu costruita un'altra grande basilica, che, cominciata da Massenzio nel 308, prese poi il nome da Costantino, che la finì circa dieci anni dopo. I tre suggestivi grandi archi di mattoni, che ancora si ammirano fanno parte della navata di destra, l'unica rimasta, mentre la navata opposta, e la grande vòlta che poggiava su ambedue, sono interamente cadute. L'ultima colonna che rimaneva ancora in piedi fu fatta trasportare ed erigere da Paolo V nel 1614 avanti alla basilica di S. Maria Maggiore.

I templi imperiali si sostituirono ad alcuni edifici repubblicani non più necessaria. Il tempio di Cesare occupò probabilmente la sede di un tribunale, che fu spostato più avanti per far posto al santuario del nuovo dio, nel sito dove il suo cadavere era stato cremato. Il tempio era esastilo, periptero di ordine corinzio ed aveva dinanzi al pronao una tribuna per gli oratori (Rostra ad divi Iulii). Il tempio di Vespasiano ostruì lo sbocco di una scala che dalla piazza dell'asilo, attraversando in traforo obliquo il Tabulario; scendeva nel Foro a fianco del portico degli Dèi Consenti. Dopo la morte di Tito fu dedicato anche a lui; era anche esso esastilo corinzio di grandi proporzioni e di fine intaglio; un'iscrizione sull'epistilio lo dice restaurato alla fine del III sec. d. C. A Faustina Augusta, morta nel 141, eresse un tempio l'imperatore Antonino Pio nel luogo dell'antico Macellum. È il tempio meglio conservato del Foro, con sei monolitiche colonne frontali di cipollino, elevate su di un alto podio e buona parte delle celle in opera quadrata di peperino. Morto Antonino Pio, il Senato lo venerò nello stesso tempio della moglie.

Verso S-E esistono ancora i seguenti monumenti: la grande aula quadrangolare (forse la biblioteca del templum Pacis) trasformata poi in chiesa dei SS. Cosma e Damiano, col pronao circolare, fronteggiante la Via Sacra, la porticus margaritaria tra la Via Sacra e la via Nova, di fronte alla basilica di Costantino, e l'Arco di Tito (v.).

Presso la Summa Sacra Via, dove Nerone aveva collocato il vestibolo della sua Domus aurea con il Colosso di bronzo dorato, Adriano innalzò il magnifico tempio dedicato a Venere e Roma, e quindi composto di due celle, con le absidi addossate l'una all'altra. Un grande porticato di colonne di granito lo fiancheggiava nei lati lunghi. Il tempio fu restaurato da Massenzio in seguito ad un incendio.

Tra il Foro e il Palatino, risalendo la Via Sacra, troviamo prima un bagno privato del tardo Impero, poi il tempio di Giove Statore ridotto al solo basamento, conservato al disotto di una torre medievale. Quindi tutte le costruzioni che fanno parte del palazzo imperiale sul Palatino e che giungono fino alla via Nova e, infine, quel grande edificio quadrangolare, che faceva forse da vestibolo alle fabbriche palatine, e che passa comunemente sotto il nome di tempio di Augusto. Nella parte retrostante, che era forse adibita a sede del corpo di guardia del palazzo (atrium Minervae?, poi chiesa di S. Maria Antiqua), si ammirano ancora oggi interessanti pitture dei secoli VII e VIII d. C. Una doppia rampa addossata al colle permetteva l'accesso dal Foro al Palatino.

Nella storia del Foro Romano vanno ricordati alcuni incendi, che apportarono notevoli danni agli edifici dell'area centrale. A prescindere dall'incendio gallico del 390, e senza tener conto dei numerosi incendi parziali che ebbero luogo durante la Repubblica, nel 64 d. C. avvenne il tremendo incendio neroniano che, attraversando il Foro dal vicus Tuscus all'Argiletum, distrusse o danneggiò gravemente tutti gli edifici che trovò sul suo passaggio, tra cui il tempio e la Casa delle Vestali. Nel 191 va registrato l'incendio di Commodo e nel 284 quello di Carino.

Nel 608 d. C., quando fu eretta la colonna di Foca, il Foro era ancora in efficienza. La sua decadenza cominciò forse nell'851, in seguito al forte terremoto avvenuto sotto il pontificato di Leone IV: le rovine a poco a poco si accumularono, e in molti punti la viabilità fu interrotta; gli scoli delle acque depositarono nella valle i detriti dei colli circostanti, onde il livello aumentò rapidamente, mentre i cadenti edifici venivano a mano a mano spogliati dei marmi per farne calce e pietra da costruzione. Divenuto pascolo di buoi e deposito di carri, il Foro di R. prese infine il nome di Campo Vaccino.

Le prime ricerche a scopo archeologico cominciarono verso gli inizî del secolo passato per opera di C. Fea (1801), e si svolsero fra l'Arco di Settimio Severo e il tempio dei Castori. Nel 1827 ne assunse la direzione A. Nibby; dopo il 1870 il governo italiano ne ordinò l'esplorazione completa, che fu eseguita particolarmente da G. Boni (v.) verso i primi anni del nostro secolo. Ulteriori lavori sono stati diretti dai suoi successori A. Bartoli, P. Romanelli e G. Carettoni.

3. Fori imperiali. - Dall'età di Silla a quella di Cesare, R. si era andata molto ingrandendo e il primitivo centro politico e ammimstrativo della città, cioè il Foro Romano, non bastava più per le adunanze del popolo e per la trattazione degli affari; per di più si sentiva il bisogno di dare al centro della città una forma più nobile e più corrispondente alla importanza assunta di capitale dell'Impero.

a) Foro di Cesare: Cesare, mentre apportò notevoli restauri al Foro Romano, credette opportuno costruire una nuova grande piazza a non molta distanza, dove era possibile avere un'area libera di una certa estensione. Questo luogo fu dietro la Curia del Senato, Verso le pendici del Quirinale, che allora si spingevano molto più vicino alla valle del Foro. Il concetto di Cesare, creando la nuova piazza, fu non soltanto quello di dare alla città un più ampio spazio per lo svolgimento della vita politica, ma soprattutto quello di erigere un monumento, la cui architettura corrispondesse meglio alle esigenze dei tempi nuovi. La piazza ebbe la forma di un rettangolo con botteghe nei lati N-E e S-O e un porticato tutt'intorno. Nel mezzo di uno dei lati corti eresse un tempio dedicato alla protettrice della gente Giulia, Venere Genitrice, la cui immagine, opera dello scultore Arkesilaos, si ammirava nell'interno della cella. Il Foro fu iniziato nel 54 a. C. e il costo complessivo dell'opera fu di oltre cento milioni di sesterzi, pari a 22 milioni di lire oro. Il tempio di Venere fu dedicato nel 46 a. C.: aveva una fronte di sei colonne, ed era periptero e picnostilo. Nel mezzo del piazzale troneggiava la statua di Giulio Cesare a cavallo.

Lo scavo eseguito negli anni 1930-1932 ha rimesso in luce una considerevole parte della piazza e tutto il basamento del tempio con parte di tre colonne del lato sinistro. Si è potuto così constatare che il portico che circondava la piazza era stato rifatto nel tardo Impero con una duplice fila di colonne a giorno, sorreggenti un tetto distaccato dalla parete perimetrale nella quale si aprivano le tabernae. Queste erano state restaurate nell'età di Traiano e, al di sopra, con prospetto sul divo Argentario, era stata costruita una grande forica (latrina). Tutta l'architettura marmorea del tempio è apparsa rifatta nel periodo fra Domiziano e Traiano con grande lusso di ornati, specialmente all'interno della cella. Infine, presso l'angolo di S-O, fu eretta una nuova basilica che prese il nome di Argentaria.

b) Foro di Augusto: l'esempio di Cesare fu seguito da Augusto, il quale, appena divenuto imperatore, iniziò la costruzione di un nuovo Foro a N-E del precedente, dove esisteva un quartiere assai popolare. Per isolare questo quartiere e proteggere anche il Foro Romano dai continui incendi che da esso si sviluppavano, Augusto circondò il nuovo Foro con un alto muro di blocchi di peperino e pietra gabina, articolandolo lateralmente con due grandi absidi e addossandovi nel fondo il nuovo tempio dedicato a Marte Ultore, che fu uno dei più grandi e lussuosi di tutta la romanità. Questo tempio era stato da lui votato nel 42 a. C. durante la battaglia di Filippi.

Si componeva, alla moda italica, di una cella circondata da un portico soltanto per tre lati, con otto colonne sul fronte, di ordine corinzio. I marmi furono espressamente tagliati nei monti di Luni e scolpiti sul posto con greca eleganza e perfezione e, ad ornare la cella del dio e i portici laterali, Augusto destinò le più cospicue opere d'arte che esistevano in R., o che egli aveva fatto trasportare appositamente dalla Grecia. Si ammiravano fra i numerosi capolavori, come ricorda Plinio, due grandi quadri di Apelle, che raffiguravano i trionfi di Alessandro Magno, due statue di bronzo appartenute al celebre conquistatore, una statua eburnea di Apollo, molti vasi di metalli preziosi donati ad Augusto dalle province, e un cimelio sacro per i Romani, la spada che Cesare aveva portato nelle sue gloriose imprese.

Gli scavi eseguiti dopo il 1925, oltre ad aver rimesso in luce tutto il pavimento della piazza, composto di marmi policromi, hanno portato al rinvenimento, da una parte e dall'altra del tempio, di due basamenti di archi trionfali, eretti nel 19 d. C. da Tiberio in onore di Druso e di Germanico. Lo scavo ha inoltre dimostrato che i due ampi emicicli, che ornavano le pareti del Foro, avevano sul fronte un portico a giorno, che lanciava, col gioco delle sue masse colorate, armoniosi sprazzi di luce e di ombra sul muraglione di peperino e tufo, dove, nelle apposite nicchie, troneggiavano le statue degli eroi di R., dei grandi condottieri e legislatori, a cominciare da Enea, Ascanio, i re di Alba, Romolo e gli altri re, i principali consoli e generali, Publicola, Camillo, gli Scipioni, i Catoni, Duilio, ecc., fino a Cesare.

Una statua colossale, dedicata molto probabilmente ad Augusto, fu poi eretta in un'aula ricavata fra il tempio e il lato N del recinto, rivestita con lastre di giallo antico e africano, fra eleganti lesene di cipollino. Nel fondo è la base, sulla quale si vedono ancora le impronte dei piedi marmorei, mentre un frammento di mano colossale giace lì presso. Tanto questa sala quanto i due emicicli erano separati dal resto del Foro per mezzo di una linea di colonne, anch'esse di cipollino, alte m 9,50 e sostenenti un secondo piano a giorno, che aveva, in luogo delle colonne, svelte figure di cariatidi. Il podio del tempio è tutto in opera quadrata di tufo, rivestito di marmo bianco, sul quale si vedono i fori che dovevano sorreggere un ulteriore rivestimento in lastre di bronzo. Si suppone che vi fosse inciso sopra il trattato di amicizia stipulato fra i Romani e i Giudei, che doveva essere ancora in posto nel sec. XII. La parete di fondo del tempio terminava con una grande abside, entro la quale, su di un basamento di cinque gradini, sorgevano le statue colossali di Marte e di Venere.

Non sappiamo quando la rovina di così grandiosa opera abbia avuto inizio; nel sec. IX si stabilirono sul podio del tempio, già ridotto presso a poco nelle condizioni odierne, i monaci basiliani fuggiti dalla Sicilia sotto l'incalzare delle orde dei Saraceni; sul pronao essi fondarono la loro chiesa e il campanile di tipo romanico; nel massiccio del basamento la cripta sepolcrale, cui si accedeva per mezzo della scala mortuorum, ricordata in un atto del 995; e nell'abside della cella ricavarono un'altra cripta semicircolare, che tagliò tutto il basamento delle statue di Marte e di Venere. Verso gli inizî del 1200 vi presero stanza i Cavalieri di Rodi, e nel 1465 il cardinale Mauro Barbo vi costruì la sede del priorato dell'ordine; a lui si deve la bella loggia che si ammira ancora oggi al di sopra di un'aula che fu addossata da Domiziano al lato settentrionale del Foro. Ad aumentare la rovina di questo si aggiunse verso il 1570 il convento delle monache domenicane dell'Annunziata, che si sovrappose ai fabbricati dei Basiliani e dei Cavalieri, intramezzò le scale del priorato, ricoprendo le pitture quattrocentesche, ed eresse una nuova chiesa, priva di opere d'arte notevoli; essa fu demolita nel 1931 per ridare al Foro, per quanto possibile, il suo aspetto primitivo.

c) Foro della Pace, o di Vespasiano, e Foro di Nerva: Vespasiano, dopo il trionfo sui Giudei, per custodire i famosi ameli portati via dal distrutto tempio di Gerusalemme, progettò di costruire una piazza monumentale con un tempio nel mezzo dedicato alla Pace (74 d. C.); questa piazza che all'inizio ebbe semplicemente il nome di templum Pacis, costituì una specie di grande museo, in cui vennero raccolte opere egregie dell'arte greca, trasportate da Vespasiano e da Tito dall'Oriente. Nessuna rovina resta oggi in piedi dell'edificio, ad eccezione delle strutture utilizzate dalla chiesa dei SS. Cosma e Damiano.

Il Foro della Pace fu costruito in una dorsale, artificialmente spianata, fra la valle del Foro e quella del Colosseo, lasciando tra esso e il Foro di Augusto un distacco per il quale passava una strada che dall' Esquilino scendeva al Foro Romano. Questo spazio fu sistemato da Domiziano con un tempio nell'estremità orientale, dedicato a Minerva; fu completato da Nerva nel 97 d C. e per questo prese il nome di lui. Data la sua funzione, di lasciare il passaggio libero lungo la via suddetta, il Foro si chiamò anche Transitorio. L'avanzo che si vede ancora, presso l'angolo di via Alessandrina con via della Croce Bianca, chiamato volgarmente "le Colonnacce", attesta della sua ricca decorazione e ci fornisce uno dei primi esempî della colonna staccata dalla parete con funzione architettonico-decorativa; assai interessante è il fregio istoriato che sormonta le colonne, nel quale si vogliono riconoscere scene di misteri relativi al culto di Minerva. La facciata del tempio era ancora in piedi al principio del sec. XVII, quando fu demolita da Paolo V per fornire il materiale al fontanone dell'Acqua Paola sul Gianicolo.

d) Il Foro di Traiano: ultimo in ordine di tempo, ma il più bello fra tutti i Fori di R., fu il Foro di Traiano, una delle sette cose mirabili della città, come ci dicono gli stessi antichi. L'ingresso principale guardava verso S-E ed era sistemato come un arco di trionfo a un solo fornice, dedicato dal senato e dal popolo a Traiano nel 117 d. C., l'anno stesso della sua morte. La grande statua equestre dorata dell'imperatore sorgeva nel mezzo della piazza, dinanzi alla basilica Ulpia.

La basilica era formata da un'aula centrale, contornata da un doppio porticato, e terminata alle estremità con due absidi. Le pareti erano rivestite di marmo lunense, le trabeazioni erano di marmo pentelico e le colonne di granito grigio, di giallo antico e di pavonazzetto. Il tetto era di lamina di bronzo dorato che, unito al brillante colore dei marmi, dava al Foro un aspetto veramente imponente. Così la basilica, come tutto il portico del Foro, erano adorni con statue di marmo e di bronzo dorato, con trofei di guerra, con figure di barbari, tra cui quella dello stesso re dei Daci vinti, Decebalo.

Una gradinata, lunga quanto la basilica, ne rialzava di poco il piano sopra quello del Foro, portandolo al livello delle due biblioteche, attigue all'edificio stesso verso N-O, una per i testi greci e l'altra per i latini; in esse erano inoltre custoditi preziosi libri di lino e di avorio. Entro una specie di cortile, formato dalle due biblioteche, dalla basilica Ulpia e dal pronao del tempio di Traiano, era racchiusa la colonna istoriata (v. colonna di traiano) che oggi vediamo falsamente dominare lo spazio, anziché inclusa in un cortile. In essa sono scolpite, con fedeltà storica e mirabile perfezione d'arte, le vicende vittoriose delle guerre condotte da Traiano contro i Daci.

Sappiamo che l'architetto di un'opera così colossale fu Apollodoros di Damasco (v.), al quale si debbono forse anche le due statue (perdute) di Traiano, quella sulla colonna e l'altra in mezzo al Foro, e i disegni dei bassorilievi della colonna stessa (v. romana, arte).

Diocleziano, quando costruì le sue terme, portò via dalla biblioteca le opere più celebri, ma nulla toccò della decorazione del monumento, che perdurò nell'antico splendore fino al tardo Impero. Anzi, quando l'imperatore Costanzo venne a R. (356 d. C.), il Foro di Traiano fu il monumento che gli fece maggiore impressione.

Fino agli scavi eseguiti sotto la direzione di C. Ricci negli anni 1923-29 si credeva che il Foro terminasse a N-E, cioè lungo il fianco addossato al Quirinale, con l'emiciclo, noto col nome di Balnea Pauli, o Bagni di Paolo Emilio, che doveva fare da quinta e da recinto alla piazza traianea. Gli scavi hanno invece dimostrato che questo emiciclo, costituito da due piani: uno terreno con larghe botteghe in facciata ed uno superiore con botteghe interne, fronteggiate da un portico semicircolare finestrato, non apparteneva al Foro, bensì ad un grande complesso edilizio, ad un intero quartiere monumentale, esteso fin sulla sommità del Quirinale. Gli scavi hanno inoltre messo in evidenza che tanto il grande emiciclo quanto i due minori che lo fiancheggiano, non erano visibili dalla piazza centrale; non solo, ma che essi non formavano neppure parte del vero Foro, il quale terminava realmente con due esedre sui fianchi della basilica Ulpia, ma queste erano più piccole, e iscritte, almeno quella orientale, nella corrispondente più grande, tutte chiuse da un alto muro a blocchi di tufo rivestito con lesene e scomparti di marmo. Nello spazio intermedio correva una strada selciata, la quale, oltre a servire per il rifornimento delle botteghe, permetteva anche un transito normale ai veicoli, senza che questi disturbassero il carattere raccolto della monumentale piazza; al disopra corre un secondo piano sul quale in seguito alla demolizione delle case moderne che si erano sovrapposte alle antiche mura, è venuto fuori un nuovo corpo di fabbricato della stessa età dell'emiciclo, intramezzato da una strada che passava a mezza costa del Quirinale, nota nel Medioevo col nome di via Biberatica. Anche qui, in basso, si trovano botteghe per la vendita al pubblico, mentre nei piani superiori sono uffici per la direzione dei mercati, e fra tutti notevole è una grande aula di forma basilicale (basilica Traiani) coperta con una magnifica vòlta a sei crociere, impostata su mensoloni sporgenti di travertino: i fianchi sono divisi in due piani, a guisa dei matronei delle chiese cristiane, e sono anch'essi forniti di botteghe. Numerose scale collegano fra loro i varî piani, permettendo un facile accesso ad ogni parte del vasto edificio.

Si sono fatte varie ipotesi per spiegare questo complesso monumentale; la più probabile è che si tratti di un grande mercato ufficiale, per la rivendita a prezzi di favore dei generi di prima necessità per il popolo, e cioè soprattutto di grano, vino e olio. La merce, conservata in appositi magazzini (horrea) in varie parti della città, veniva qui portata in piccole quantità, cioè in un luogo centrale, dove i prodotti potessero essere distribuiti contemporaneamente e rapidamente; è probabile che avvenissero qui anche i congiaria, cioè le distribuzioni di viveri e denaro che gli imperatori solevano fare al popolo in particolari festività. La grande aula sopra descritta doveva essere una specie di borsa per la trattazione delle forniture all'ingrosso con i produttori delle province, ed era situata perciò un po' discosta dal resto del mercato, con l'accesso diretto su di una via che dal Quirinale scendeva verso la via Flaminia. La denominazione, dunque, di "Mercati di Traiano" data da C. Ricci a questo edificio corrisponde nel suo complesso al vero, e distingue la parte monumentale delle costruzioni traianee dalla commerciale.

Notevoli avanzi della decorazione marmorea del Foro propriamente detto, della basilica e delle biblioteche, sono venuti in luce nello sterro, tra cui capitelli colossali di ordine corinzio e composito, rocchi di colonne di marmi rarî, frammenti di cornicioni con fregi in rilievo, ecc. Si sono anche ritrovati due torsi di statue virili, di cui uno con corazza, alcune teste di fine lavoro e varî frammenti di fregi, che vanno ad aumentare il prezioso materiale già, rinvenuto negli scavi eseguiti nel 1816 sotto il governo francese e che si conserva ora in parte sul posto e in parte nel Museo Lateranense.

Bibl.: A. Nibby, Del F. Romano della via Sacra, dell'anfiteatro Flavio e de' luoghi adiacenti, Roma 1819; S. Piale, Del F. Romano, sua posizione e grandezza non bene intese dal Nardini, Roma 1832; L. Canina, esposizione storica e topografica del F. Romano e le sue adiacenze, Roma 1845; F. M. Nichols, The Roman Forum. A Topographical Study, Londra - Roma 1877; H. Jordan, Capitol, Forum und Sacra Via in Rom, Berlino 1881; R. Lanciani, Relazione sugli scavi del F. Romano, in Not. Scavi, 1882, pp. 216; id., Le escavazioni del F., in Bull. Com., XXVII-XXVIII, 1899-1901; H. Thédenat, Le Forum Romain et les forums impériaux3, Parigi 1904; O. Marucchi, Le Forum Romain et le Palatin d'après les dernières decouvertes, Roma 1902; G. Boni, F. romano, in Atti del III Congresso storico, Roma 1903, pp. 493-584; Ch. Hülsen, Das Forum Romanorum, seine Geschichte und seine Denkmäler, Roma 1905; A. Piganiol, Les origines du Forum, in Mélanges École Française, XXVIII, 1908, pp. 233-282; E. De Ruggiero, Il Foro Romano, Roma 1913; C. Ricci, Per l'isolamento degli avanzi dei F. imperiali, in Boll. d'Arte, 1913; id., Il F. di Augusto e la casa dei Cavalieri di Rodi, Roma 1930; id., Il F. di Cesare, in Capitolium, VIII, 1932, p. 157 ss.; A. M. Colini, Forum Pacis, in Bull. Com., LXV, 1937, p. 7 ss.; G. Lugli, I mercati Traianei, in Dedalo, X, 1930, pp. 27-51; id., Il tempio di Venere Genitrice, in Pan, I, 1934, p. 166 ss.; id., Monumenti minori del F. Romano, Roma 1947; E. Welin, Studien zur Topographie des F. Romanum, Lund 1953; E. Gjerstad, Early Rome, in Acta Inst. Rom. Regni Sueciae, voll. I-III, Lund 1953-1960; G. Carettoni, Scavi nella basilica Emilia, in Not. Scavi, 1948, p. 111 ss.; id., Il fregio figurato della basilica Emilia, in Riv. Ist. Naz. Archeol. e St. Arte, N. S., X, 1961, p. 5 ss.; A. Bartoli, I pozzi dell'area sacra di Vesta, in Mon. Ant. Lincei, XLV, 1959, c. i ss.; id., Curia Senatus, in Ist. Studi Romani, 1962; M. E. Bertoldi, Ricerche sulla decorazione architettonica del Foro Traiano, in Studi Miscellanei Ist. Arch. Università Roma, n. 3, 1962; H. Kähler, Das Fünfsäulendenkmal für die Tetrarchen auf dem Forum Romanorum, Colonia 1964.

(G. Lugli)

V. - A r e a d e l l ' A r g e n t i n a. - Nel Campo Marzio meridionale, nella zona dell'odierno Largo Argentina, furono messi in luce negli anni 1926-29 gli avanzi di quattro templi, di portici adiacenti ai templi stessi, di una piccola parte dell'Hekatostylon e del lato orientale dei portici di Pompeo, oltre a minori costruzioni laterizie (tra cui una latrina).

I templi sono tutti orientati verso E e allineati sulla fronte; diversa, a causa dei successivi innalzamenti del terreno, è la quota di spiccato dei loro podi; un primo pavimento, in tufo, comprendente tutta l'area fu fatto alla fine del II sec. a. C., e un altro ad un livello più alto, in travertino, nella prima età imperiale. Questi piani lastricati e i portici conferiscono al complesso dei templi strettamente accostati una ben definita unità architettonica.

Dei quattro templi (che vengono comunemente indicati con le prime quattro lettere dell'alfabeto a cominciare dal N) il più antico è il tempio C, periptero sine postico, su alto podio in opera quadrata e con ampia gradinata frontale; era tetrastilo con intercolumnî larghissimi che ricordano, in questo primo esempio romano di tempio in pietra, l'architettura lignea. In base alla tecnica costruttiva, al livello, ad alcuni avanzi della decorazione fittile, il tempio può datarsi al IV sec. a. C. La cella fu rifatta in età domizianea, in opera laterizia. Davanti al tempio, nel mezzo di un'area lastricata, è un altare rifatto, come dice l'scrizione, da A. Postumio Albino (intorno alla metà del II sec. a. C.), e interrato non molti decenni dopo sotto il pavimento di tufo.

Segue cronologicamente il tempio A (seconda metà del III sec. a. C.), prostilo tetrastilo nella sua prima fase, rifatto quindi, alla fine del II sec., con la stessa pianta ad un livello più alto, e infine, nell'età di Silla o di Pompeo, trasformato in periptero esastilo.

Il tempio D, in considerazione del suo livello, è da datarsi nella seconda metà del II sec. a. C.; è un ampio tempio prostilo costruito in travertino; la cella fu rifatta in laterizio in età domizianea.

Il tempio B sorge al livello del pavimento di tufo; per tale motivo e in base alla tecnica dell'opera incerta assai perfetta, è da datarsi intorno al 100 a. C. Nella sua prima fase era circolare periptero; quindi fu trasformato (con l'abbattimento della cella e la chiusura degli intercolumnî) in pseudoperiptero. Dal tempio proviene molto probabilmente il grande acrolito femminile ora nel Museo Nuovo dei Conservatori.

Questi templi (con le loro varie fasi, delle quali si può stabilire sempre almeno la datazione relativa) offrono una documentazione molto importante della tipologia templare nell'età repubblicana, riguardo alla pianta, all'altezza del podio, agli intercolumnî, alla tecnica costruttiva, alle modanature delle cornici dei podî e alle sculture architettoniche.

Quanto all'identificazione dei templi, benché siano state proposte molte ipotesi (Giunone Regina, Diana, Apollo, Marte, Lari Permarini, Vulcano, Bellona, Ercole, ecc.) l'unica attribuzione probabile è quella, per il tempio B, della Fortuna huiusce diei, che fu costruito nel Campo Marzio da Q. Lutazio Catulo per commemorare la battaglia di Vercelli (101 a. C.) e che sappiamo essere stato di forma circolare periptera.

Bibl.: G. Marchetti Longhi, in Bull. Com., LX, 1932, p. 253 ss.; id., in Mem. Pont. Acc. Arch., (s. III), III, 1933, p. 133 ss.; id., in Bull. Com., 1933, p. 163 ss.; LXIV, 1936, p. 83 ss.; P. Boyancé, Aedes Catuli, in Mel. Ec. Franç., LVIII, 1940, p. 64 ss.; LXXVI, 1956-58, p. 45 ss.; id., L'area sacra del Largo Argentina, Roma 1960; F. Castagnoli, in Mem. Linc. (S. VIII7, 1948, I, p. 169 ss.

(F. Castagnoli)

VI. - A r c h i t r i o n f a l i e d o n o r a r i. - Viene qui data la descrizione degli archi tuttora esistenti. Per quelli testimoniati dalle fonti letterarie o da resti monumentali attualmente scomparsi, si rimanda alla voce arco onorario e trionfale, vol. I, p. 588 ss.

1) Arco di Tito. - È cronologicamente il primo degli archi onorarî e trionfali di R. che ci sia pervenuto nella sua interezza. Non se ne ha alcuna notizia dagli autori antichi; nel Medioevo fu incorporato nel castello dei Frangipane e solo dopo il 1822 fu isolato dalle costruzioni adiacenti e restaurato dal Valadier. Nell'iscrizione (C.I.L., vi, 945), conservata solo sulla facciata orientale, mancano la titolatura dell'imperatore ed il motivo per cui fu eretto il monumento, ma poiché a Tito è attribuito l'appellativo di divus, la dedica dell'arco va necessariamente posta dopo la sua morte e la consacrazione, ossia dopo l'81 d. C. La presenza di un altro arco, eretto nel Circo Massimo per il trionfo giudaico, ed il carattere insolito dell'iscrizione hanno fatto pensare che si trattasse della tomba stessa dell'imperatore o comunque di un monumento funebre del tipo dell'arco di Druso e Germanico a Spoleto o dell'arco dei Sergii a Pola.

L'arco è ad un solo fornice e sorge sull'altura della Velia all'inizio della Via Sacra (l'arcus in sacra via summa del rilievo degli Haterii); è alto m 15,40 e lungo m 13,50. Lo zoccolo non è articolato mentre i due piloni che fiancheggiano il passaggio centrale sono ornati con colonne d'ordine composito ionico-corinzio che servono di sostegno all'architrave e da aperture riquadrate a mo' di finestre di cui una permetteva forse l'accesso al vano vuoto contenuto nell'alto attico. Architettonicamente, rispetto ai tentativi del primo Impero, l'arco di Tito realizza una sintesi che molti studiosi non hanno esitato a definire "classica", accoppiandola però al tempo stesso ad una serie di elementi quali la grande mensola dell'archivolto che riunisce l'arco alla trabeazione, lo sfalsamento dei margini superiori delle cornici della fronte rispetto all'andamento delle cornici orizzontali all'interno del fornice, l'accentuazione delle cornici stesse, il crescendo degli elementi decorativi in senso verticale che nascono piuttosto nell'ambito del cosiddetto "barocco" dell'età flavia.

Del medesimo spirito sono partecipi le forme decorative, eseguite in una maniera ricca e pittorica. La trabeazione dell'arco è lontana dalla tradizione classica e richiama da vicino quella dei templi di Vespasiano e della Concordia: nel kymàtion compare la foglia a forma di freccia; l'elemento decorato con foglie sotto la sima si è trasformato in una fila di astragali; sotto le mensole della cornice grande le tipiche ed organiche foglie sono state sostituite da un motivo affatto nuovo di delfini intrecciati attorno ad una conchiglia; fra i dentelli dei cornicioni compaiono i due anellini che, se non costituiscono il motivo-firma di Rabirius, sono certo una peculiarità dei monumenti domizianei.

La decorazione figurata consta di un fregio sopra l'architrave e di tre pannelli all'interno del fornice di cui uno inserito nel cassettone della vòlta. Negli spicchi dell'archivolto, secondo uno schema che diverrà consueto per gli archi successivi, sono le Vittorie che si librano in volo su un globo e recano l'una un'insegna, l'altra una palma e una corona; le due grandi mensole sono arricchite dalle figure piuttosto mutile di Virtus sul lato occidentale e Honos su quello orientale. Il tema dei pannelli e del fregio è quello della pompa (v.) trionfale celebrata da Tito dopo la vittoria riportata in Giudea nel 71 d. C. In quel che resta del piccolo fregio (alto m 0,50) è rappresentata la fase iniziale della processione: le vittime con lunghi dorsualia sfrangiati, il popa, i victimari, i camilli che recano i tituli, le tavolette che ricordano i nomi dei popoli conquistati o fanno l'elenco dei bottini, alcuni togati ed un ferculum con una figura semisdraiata in cui viene riconosciuta la rappresentazione del fiume Giordano e che costituisce l'unica testimonianza figurata di un dettaglio spesso menzionato dalle fonti: Per stile e composizione il fregio si richiama all'ambito dell'artigianato popolare: il nesso fra le singole figure è molto allentato e non si ha l'impressione di una scena compiuta, ma di una serie di statuette allineate su una mensola; lo spettatore è chiamato a partecipare direttamente alla scena dalla posizione frontale della maggior parte dei personaggi; le proporzioni naturalistiche nei corpi sono falsate e la grandezza della testa è accentuata al punto di far apparire tozze e basse le figurine.

La parte culminante del trionfo è rappresentata nei due pannelli posti all'interno del fornice dell'arco. Nel primo i soldati romani recano a spalla gli arredi sacri del tempio di Gerusalemme: il candelabro a sette braccia, le trombe d'argento, la tavola per il "pane di proposizione"; due camilli dalle lunghe chiome portano i tabelloni che descrivono le fasi della vittoria. Il corteo si accinge a passare sotto ad un arco sormontato da una quadriga di elefanti in cui si deve riconoscere la Porta Triumphalis eretta da Domiziano (v. arco). Nel secondo rilievo compare la quadriga del trionfatore guidata dalla dea Roma, scortata dal Genio del Popolo Romano e dal Genio del Senato. Sul carro è Tito, incoronato da una Vittoria alata, con in mano lo scettro ed il ramo d'alloro. Al centro della vòlta decorata a cassettoni, incorniciato da ricchi festoni di foglie di quercia sorretti da putti, è inserito un rilievo con l'apoteosi dell'imperatore: una grande aquila trasporta il divo Tito verso il cielo.

Il primo a richiamare l'attenzione sui due grandi pannelli della pompa trionfale fu il Wickhoff esaltandone la libertà spaziale ed il pittoricismo. Le figure si muovono su uno sfondo non più neutro ed indifferenziato, ma in piena tridimensionalità, ed il gioco delle luci e delle ombre e la lontananza spaziale creata dalle aste, dai fasci dei littori, dai tituli e gli arredi del tempio permettono loro di acquistare un dinamismo nuovo, di dare l'impressione del reale sfilare di una processione sotto gli occhi dello spettatore, ottenendo l'effetto della folla con soli pochi gruppi di figure sapientemente diposti. Persino le incongruenze prospettiche, come la rappresentazione obliqua della Porta Triumphalis, concorrono ad accentuare la suggestione di movimento e di vita. Ma nonostante il loro realismo questi rilievi rimangono nell'ambito della tradizione dell'arte ufficiale dell'Impero che è epica e celebrativa, non già obiettivamente storica, per questo accanto ai personaggi reali compaiono le figure allegoriche e certe soluzioni, come l'impostazione frontale della quadriga, vanno spiegate sulla scorta di una tipologia simbolica e di vecchia data.

È stato proprio lo stile di questi rilievi a dare lo spunto al tentativo di alcuni studiosi di abbassare la datazione dell'arco fino all'età di Nerva. Il confronto istituito con altri rilievi di età domizianea ed in particolar modo con le lastre del Palazzo della Cancelleria a Roma, denunzierebbe una progressiva conquista dell'illusionismo spaziale a tre dimensioni, ad uno stadio iniziale in questi ultimi, che andrebbero datati all'83-85 d. C., e perfettamente raggiunto nell'arco che scenderebbe logicamente alla fine del regno di Domiziano se non all'età di Nerva. A sostegno della datazione più bassa sono invocate anche ragioni d'ordine storico come l'assenza completa di notizie sul monumento nelle fonti di età domizianea; l'ostilità ben nota di Domiziano verso il fratello; la presenza nel Circo Massimo di un secondo arco innalzato nell'81 per la vittoria giudaica; l'esistenza di un'iscrizione dedicatoria di Traiano al divo Tito (C.I.L., vi, 946). In generale però la nuova datazione non è stata accettata.

2) Arco di Settimio Severo. - Quando Settimio Severo giunse a Roma, il 13 aprile del 202 d. C., di ritorno dalle vittoriose campagne parthiche e aprì solennemente le feste dei Decennali, il Senato ed il Popolo decretarono in suo onore l'erezione di un grande arco ai piedi del Campidoglio. La lunga iscrizione (C.I.L., vi, 1033), ripetuta sull'attico di entrambe le fronti, attesta che il monumento è stato dedicato nell'anno compreso fra il 10 dicembre del 202 e il 9 dicembre del 203 d. C.

L'arco è a tre fornici: il passaggio mediano è alto m 12,30 e largo m 7; i passaggi laterali sono alti entrambi m 7 e larghi m 3. Malgrado l'ampiezza dei fornici esso non costituiva un passo carrabile ma, sopraelevato rispetto al piano del Foro, era accessibile dal lato E solo mediante scalinate di 6-8 gradini. Oggi è visibile anche la base dell'arco formata da grossi parallelepipedi di travertino. Su entrambe le facciate quattro grandi colonne composite, poggiate su plinti avanzati rispetto alla struttura principale dell'arco, salgono ad inquadrare i fornici ed i sovrastanti pannelli a rilievo. L'arco e coronato dalla vasta superficie dedicata all'iscrizione, inquadrata da ampie cornici, e doveva certamente essere sormontato da gruppi scultorei giacché una moneta di Severo (Mattingly-Sydenham, The Rom. Imp. Coinage, iv, parte i, p. 124, n. 259), databile fra il 202 e il 210 d. C., reca sul rovescio l'immagine del monumento che appare sormontato al centro da una biga a sei cavalli e ai lati da figure che sembrano dei cavalieri.

La decorazione scultorea è limitata alle due facciate principali. Tutti gli otto plinti delle colonne presentano sui tre lati visibili raffigurazioni del noto soggetto di barbari prigionieri e soldati romani; nelle chiavi di vòlta del fornice centrale appare una figura allegorica che sorregge un trofeo; quelle dei passaggi laterali hanno molto sofferto per le intemperie: forse sulla chiave di sinistra del lato O compariva Ercole. I triangoli al di sopra delle arcate laterali sono decorati da divinità fluviali; da entrambi i lati sopra queste figure corre un piccolo fregio con scene di pompa trionfale. I triangoli al di sopra del passaggio centrale sono invece decorati dalle consuete Vittorie alate con trofeo; l'angolo del cuneo è stato riempito con piccoli Genî alati delle quattro stagioni. Al di sopra dei due fornici laterali si trovano le sculture più importanti dell'arco: quattro grandi pannelli storici che ricordano episodî delle campagne parthiche di Severo. I singoli rilievi non hanno unità compositiva, ma sono frazionati in una serie di episodî che si susseguono in una disposizione a fasce orizzontali più o meno chiaramente delimitate e poste una sopra all'altra. La disposizione è decisamente insolita, ma anche questo nuovo tipo di composizione è retto da una sua logica interna. Come nei fregi e nelle colonne coclidi (v.) anche qui è narrata una serie di imprese che si susseguono in ordine cronologico. La narrazione ha inizio con il rilievo di sinistra del fronte E dell'arco. Nella successione delle varie scene va tenuto presente che i pannelli sono tripartiti sul fronte E e bipartiti sul fronte O e che vanno letti dal basso verso l'alto poiché, mentre nel settore più basso e in quello più alto è ripetuta la medesima località geografica, la situazione storica varia cronologicamente in modo che il settore superiore rappresenti un avvenimento posteriore nel tempo rispetto a quello inferiore. Il rilievo di sinistra del fronte E contiene la narrazione della prima campagna parthica di Settimio Severo (195 d. C.): la città fortificata da cui, nel primo settore in basso, si vedono uscire le truppe romane è Nisibis. La spedizione, a cui l'imperatore non partecipa, è quella contro gli Osroeni e gli Adiabeni che si vedono impegnati con i Romani in una battaglia campale nel settore centrale. Dopo la vittoria le truppe si restituiscono a Nisibis e qui Severo raccoglie i soldati attorno a sé per congratularsi della vittoria (adlocutio dell'ultimo settore in alto).

Gli assedî di tre grandi città, contenuti nei restanti rilievi, appartengono alla seconda campagna parthica (197-199 d. C.). Nel rilievo di destra del fronte E si scorgono in basso i Romani che con una potente macchina bellica si preparano a prendere d'assalto le mura di una città; al centro due scene che segnano inequivocabilmente la loro vittoria: i barbari fanno atto di sottomissione all'imperatore; segue una adlocutio. Nel settore più alto siamo alla fase conclusiva dell'azione bellica e al tempo stesso alle premesse per la continuazione del racconto: a destra il gruppo imperiale fa la sua solenne apparizione all'interno della città conquistata; a sinistra Severo ed il suo stato maggiore si apprestano a partire dal luogo dell'assedio vittorioso.

Nel rilievo di sinistra del fronte O siamo di fronte all'assalto romano di una città fluviale che segna il centro della composizione. Da entrambi i lati della città corre la cavalleria parthica che scende in campo contro il nemico. Anche quest'azione bellica si conclude vittoriosamente: nel settore superiore i capi parthi, scortati da una nutrita schiera di soldati romani, fanno atto di sottomissione all'imperatore. Nell'ultimo rilievo ancora una città assediata le cui mura sono minacciate da un grande ariete. La narrazione delle campagne parthiche si conclude con la vasta scena del settore superiore dove sono riuniti insieme due motivi del repertorio trionfale: l'adlocutio ai soldati ai piedi della città conquistata e la partenza dal teatro della guerra.

Le tre grandi città conquistate sono probabilmente Seleucia, Babilonia e Ctesifonte. La città fluviale è Babilonia e il fiume il Canale Regio che congiungeva l'Eufrate al Tigri fin dal tempo degli Assiri. L'ultimo episodio è la presa di Ctesifonte che fu l'unica ad opporre una certa resistenza e richiese perciò l'uso di potenti macchine d'assedio.

La singolare disposizione a fasce sovrapposte non trova confronto nell'arte monumentale precedente; i paralleli più evidenti si possono istituire con le pitture trionfali, sia i cartoni portati nel trionfo, sia le pitture murali eseguite su ordinazione dei generali vittoriosi sulle pareti degli edifici pubblici. Erodiano (iii, 9, 12) racconta che quando Severo con la conquista di Ctesifonte chiuse le campagne parthiche, mandò al Senato e al Popolo le notizie dei suoi successi accompagnandole con grandi dipinti illustrativi che vennero pubblicamente esposti prima del suo ritorno dall'Oriente. Il Rodenwaldt ritiene probabile che i quattro pannelli storici dell'arco abbiano tenuto presente come modelli proprio queste pitture trionfali.

3) La Porta degli Argentari. - Sorge nei pressi del Foro Boario (se si trovi o meno nell'area del Foro è questione controversa), vicino ad un arco quadrifronte di età costantiniana, orientata in modo che la facciata principale guardi a mezzogiorno. Consta di un ricco architrave dal ricco ornato che poggia su due pilastri di cui il destro fu incorporatonel 683 nel fianco della chiesa di San Giorgio in Velabro costruita dal papa Leone II. Le sculture di questo lato sono pertanto perdute ed i lavori di restauro del 1871 ne riportarono alla luce pochissime tracce. Inoltre il lato settentrionale della Porta è completamente privo di decorazione. Secondo quanto si deduce dall'epigrafe, la Porta fu eretta in onore della famiglia imperiale dei Severi dai negotiantes boari e dagli argentari fra il 10 dicembre del 203 e il 9 dicembre del 204 d. C.

La decorazione vegetale che contorna i pannelli a rilievo si richiama per la sua sovrabbondanza, per il suo "barocchismo" al gusto dell'età flavia, tanto che si è parlato di "rinascita flavia". Ma, mentre nei monumenti domizianei il movimento agitato, la turgidezza e la vitalità delle forme erano ottenute mediante il gioco delle luci e delle ombre dovuto alla pienezza del rilievo e l'elemento ornamentale, considerato un tutto unico, era subordinato alla struttura architettonica del monumento, sulla porta la profondità del rilievo è ottenuta per mezzo del trapano che isola le forme singole e distrugge l'unità dell'insieme.

Le restanti sculture sono distribuite secondo due soggetti principali: uno che segue le fasi di una cerimonia sacrificale: il toro guidato dal popa sul fronte; l'immolatio, i fregi con strumenti da sacrificio e la libagione nell'interno del fornice; l'altro che presenta i consueti temi dei trionfi militari: prigionieri barbari e soldati romani sul fianco occidentale, Vittorie che sorreggono una ghirlanda all'interno del fornice, aquile con una ghirlanda nel becco e stendardi militari sul fronte. Sull'architrave ai due lati dell'epigrafe le figure di Ercole e di un Genio; sulla fronte del pilastro occidentale la figura (assai corrosa dalle intemperie) di un togato che potrebbe identificarsi con Caracalla o con uno dei "patroni" dei due collegia che eressero il monumento.

I due rilievi principali sono situati nel passaggio interno e rappresentano la famiglia imperiale: nel pannello del pilastro orientale compaiono Settimio Severo e Giulia Domna sacrificanti e in quello del pilastro occidentale Caracalla, anch'egli in atto di libare su un tripode carico di frutta. Ambedue i pannelli presentano chiare tracce di abrasione: accanto ai due Augusti doveva essere raffigurata una figura giovanile da identificarsi con Geta (o Plautilla); a fianco di Caracalla comparivano Plautianus (v.) e la giovane Augusta Plautilla (o Geta).

Con la divisione in due soggetti principali va a coincidere una singolare duplicità di stile: nelle scene a carattere militare, ossia lì dove la rappresentazione possiede dietro di sé la lunga serie dei modelli del repertorio trionfale, l'esecuzione rimane più vicina alle forme tradizionali ed è meno disposta ad indulgere ad innovazioni di stile e composizione; al contrario nel ciclo del sacrificio, ed in particolar modo nei due rilievi con i personaggi della casa imperiale, affiorano una serie di elementi rimasti fino all'età di Severo in secondo piano nel rilievo ufficiale di R. o addirittura del tutto estranei ad esso: l'abbandono della prospettiva a più punti di fuga che crea la profondità spaziale e la visione tridimensionale con la conseguente assimilazione della scena ad un piano; lo sfondo neutro ed inarticolato che le figure tendono ad occupare il più possibile; l'impostazione frontale della scena e la perdita del movimento; la mancanza di proporzioni naturalistiche nei corpi; l'abbondante uso del rilievo negativo e principalmente la frontalità delle figure imperiali che fa di esse l'incarnazione del concetto della divina maiestas. Questo piccolo monumento, così ricco di sculture, non ricorda alcun avvenimento storico in particolare, anzi la disposizione della decorazione scultorea e persino l'economia compositiva interna agli stessi pannelli sono dettate da un gusto puramente ornamentale.

4) Arco di Costantino. - Il 25 luglio del 315 d. C., per le celebrazioni dei Decennali di Costantino, veniva inaugurato l'imponente arco trionfale che il Senato ed il Popolo avevano decretato in onore del liberator urbis all'indomani della vittoriosa battaglia di Ponte Milvio (28 ottobre 312). Il monumento ci è giunto pressoché intatto. Nel Medioevo fu adoperato come torre di fortificazione dai monaci di S. Gregorio e poi incorporato nel castello baronale dei Frangipane. Fu restaurato per la prima volta nel 1498-99, poi da Paolo III nel 1534-50; nel 1570 ed infine nel 1732-33 quando da Pietro Bacci furono rifatte le teste dell'imperatore negli otto rilievi aureliani e quelle delle statue dei Daci di età traianea. Opere di consolidamento sono state eseguite recentemente (1956-57).

L'arco, alto circa m 25, sorge nei pressi del Colosseo ed è a tre fornici. La struttura architettonica richiama da presso l'arco di Settimio Severo per le colonne poste su alti plinti e staccate dal corpo del monumento che trovano riscontro nei pilastri retrostanti; per la ricca cornice aggettante e l'ampio attico. Ma rispetto al modello l'arco è in un certo senso più "classico" giacché gli elementi architettonici restano nitidamente delineati malgrado la sovrabbondanza della decorazione plastica e riescono a vincolare la funzione di quest'ultima ad un sistematico riempimento di superficie. E un volontario ritorno alle forme tradizionali, condizionato in parte dal reimpiego di materiale appartenuto a monumenti più antichi. Contrariamente agli archi precedenti sembra che l'arco di Costantino non fosse sormontato da gruppi statuarî, ma il coronamento fosse costituito da una semplice modanatura, un elemento terminale non aggettante, ma rientrante, aggiunto al podio liscio e squadrato.

Fra gli elementi della decorazione architettonica solo una parte è coeva alla costruzione del monumento: il cornicione sotto l'attico è di età antonina; i capitelli ed i fusti delle otto colonne sono di un edificio della fine del II sec.; all'interno del fornice principale è posta la cornice di un piccolo monumento della seconda metà del III secolo. La decorazione di età costantiniana è facilmente riconoscibile sia per la tecnica con cui è stata eseguita, sia per lo stile che tende a trasformare gli elementi vegetali degli ornati in forme puramente ornamentali.

Anche la decorazione figurata proviene da monumenti di età anteriore, in parte forse divenuti fatiscenti dopo i grandi incendi del 283 (Carino) e del 307: di età traianea sono le statue di barbari daci sorrette dalle otto colonne delle fronti, due rilievi posti sull'attico lungo i lati corti, altri due rilievi situati nel fornice centrale; adrianei sono invece i tondi, tranne quelli con il Sole e la Luna che sono costantiniani; infine provengono da un monumento di Marco Aurelio gli Otto grandi rilievi dei lati lunghi dell'attico. Le restanti sculture, le Vittorie ed i barbari prigionieri scolpiti sui plinti delle colonne, le Vittorie alate, i Genî delle stagioni e le divinità fluviali degli spicchi degli archivolti, le figure delle chiavi di vòlta, gli otto busti dei fornici laterali, il lungo fregio che corre tutt'attorno al monumento ed i due tondi già ricordati sono di età costantiniana.

I rilievi di età traianea in cui la testa dell'imperatore è stata rielaborata in quella di Costantino, fanno parte di un unico lungo fregio (circa m 3 di altezza e quasi 20 di lunghezza secondo la ricostruzione che può farsene riunendo i rilievi dell'arco formati da otto lastre ed altri frammenti provenienti dal museo di Berlino, dal Louvre, dalla Galleria Borghese e dall'Antiquarium del Foro Romano) che celebrava la conquista della Dacia, riprendendo la narrazione nel punto in cui essa si interrompeva sulla colonna coclide di Traiano. Le lastre riadoperate nell'arco sono contigue e raffigurano nel tipico stile continuo dei monumenti traianei varie scene di battaglia e l'adventus dell'imperatore a Roma. L'originaria collocazione del fregio è incerta: sono stati proposti il Foro di Traiano e il Forum Pacis. Lo stile in cui è stato eseguito il fregio è molto vicino a quello dei bassorilievi della colonna, tanto che si è pensato ad un unico maestro.

Gli Otto tondi di età adrianea vivono in un atmosfera completamente diversa. I quattro che decorano il lato S dell'arco raffigurano, da sinistra, la partenza per la caccia, un sacrificio a Silvano, la caccia all'orso, un'offerta a Diana; quelli del lato N: la caccia al cinghiale, un sacrificio ad Apollo, la caccia al leone ed un sacrificio ad Ercole in un padiglione. La testa dell'imperatore Adriano è stata sostituita da quella di Costantino nelle scene di caccia e da quella di Costanzo Cloro (o secondo altri di Licinio) nelle scene di sacrificio. Le teste rilavorate sono circondate da un nimbo. Non si tratta di scene allegoriche o simboliche, ma di rilievi storici che descrivono avvenimenti realmente accaduti e databili, per le notizie delle fonti e per la presenza di Antinoo raffigurato inizialmente come un ragazzo e poi come un giovane, fra il 119-20 ed il 134 d. C. Con ogni probabilità gli otto tondi (alti più di due metri) costituivano l'intera decorazione di un monumento adrianeo e sono stati inseriti nell'arco conservando la disposizione originaria tranne gli ultimi tre il cui ordine è stato invertito, giacché il ciclo si concludeva con il sacrificio ad Apollo celebrato dall'imperatore nel tempio del Palatino dopo il suo ritorno alla capitale e la morte di Antinoo che infatti non compare più nel rilievo. Il fatto che i medaglioni si possano accoppiare a due a due (tre coppie formate da una scena di caccia con la relativa offerta ed una coppia costituita dalla scena della partenza e dal sacrificio per il ritorno) ha fatto supporre che il monumento al quale originariamente appartenevano fosse una costruzione quadrata con due medaglioni su ogni lato e la coppia partenzaritorno su quello principale. Lo stile dei rilievi denunzia chiaramente il ritorno al classicismo dell'età adrianea: le figure in atteggiamenti statuari si muovono su uno sfondo neutro ed indifferenziato e la composizione, pur inserita con magistrale equilibrio di proporzioni nella superficie rotonda del medaglione, è per lo più di una compostezza rigida ed a volte volutamente simmetrica.

Gli otto grandi rilievi (alti più di 3 m) dei lati lunghi dell'attico narrano episodî di guerra, probabilmente quella condotta contro i Marcomanni, ed altri fatti relativi a Marco Aurelio. I quattro rilievi del lato S dell'arco raffigurano da sinistra: la presentazione di un capo barbaro all'imperatore nei pressi del pretorio (I); l'imperatore che riceve i prigionieri (II); una adlocutio (III); un sacrificio (IV); quelli del lato N: l'adventus dell'imperatore a Roma (V); la partenza per la guerra (VI); un congiarium (VII) e la deditio di un capo barbaro (VIII). Le teste della figura imperiale erano state sostituite con quelle di Costantino e di Licinio e nella versione odierna sono quelle rifatte da Pietro Bacci nel 1732-33. L'attribuzione degli otto rilievi all'età antonina è indubbia, innanzi tutto per ragioni di stile e poi per la presenza di un personaggio, identificato con Tiberio Claudio Pompeiano, che ricorre anche nelle tre lastre, analoghe per misure e argomento, ma diverse per stile, che si trovano nel Palazzo dei Conservatori ed in varie scene della Colonna Antonina. Discussa invece ne è la datazione precisa. L'ipotesi più accreditata è quella che, considerando separatamente i due gruppi di rilievi, attribuisce i tre del Palazzo dei Conservatori ad un arco eretto per il trionfo celebrato da Marco Aurelio sui Germani ed i Sarmati il 23 dicembre del 176 (forse l'arco sul Clivus Argentarius) e gli otto dell'Arco di Costantino ad un monumento che va datato sicuramente dopo il 176, giacché nelle insegne militari compare Commodo che solo nel novembre di quell'anno fu proclamato compartecipe dell'Impero, e prima del 193 ossia prima della sua damnatio memoriae. E probabile dunque che si tratti di un monumento eretto in onore e memoria di Marco Aurelio dopo la sua morte, ossia subito dopo il I 8o, forse un tetràpylon con una coppia di rilievi su ogni lato, di cui quella formata dalle scene di profectio e di adventus, che ovviamente aprono e concludono la narrazione, sul fronte principale.

Il lungo fregio costantiniano, composto da sei rilievi (alti poco più di un metro e lunghi da cinque metri e mezzo a sei metri e mezzo) e da quattro piccole lastre di collegamento poste agli angoli sulle fronti, raffigura, a partire dal fianco occidentale dell'arco, la partenza delle truppe di Costantino da Milano con tutte le salmerie; l'assedio di Verona; la battaglia di Ponte Milvio; l'ingresso di Costantino a R.; Costantino che parla al popolo dai rostra del Foro (oratio); il congiarium del 1° gennaio 313 tenuto nel Foro di Cesare (liberalitas). Il sistema di legamento a perni interni ed il fatto che le parti scolpite combacino alla perfezione fanno pensare che questi rilievi furono eseguiti in situ quando la struttura architettonica dell'arco era già ultimata. Lo stile del fregio è caratterizzato dalla mancanza di ogni nesso spaziale fra le figure; dalla prospettiva "ribaltata" che abolisce lo scorcio e pone di fianco ciò che va visto davanti; dalla mancanza di proporzioni naturalistiche nei corpi; dalla piena frontalità e dalla maggiore statura della figura di Costantino che è incarnazione del concetto della divina maiestas imperiale; dal sovrabbondante uso del trapano che scontorna ed isola le figure dal piano di fondo. L'ambito in cui nascono questi rilievi è quello della corrente dell'arte popolare romana (v. romana, arte).

Malgrado l'arco sia un centone di parti di altri monumenti, l'intendimento che presiede alla disposizione degli elementi decorativi è chiaramente delineato e tende ad una univoca celebrazione trionfale dell'imperatore. Il realismo storico si è definitivamente trasformato in un astratto simbolismo concettuale.

5) Arco quadrifronte al Velabro: v. Sez. iv, I.

Bibl.: Arco di Tito: K. Lehmann-Hartleben, L'Arco di Tito, in Bull. Com., LXX, 1934, p. 89 ss.; P. H. v. Blanckenhagen, Flavische Architektur und ihre Dekoration untersucht am Nervaforum, Berlino 1940, p. 62 ss.; 134 ss.; G. Rodenwaldt, Römische Reliefs Vorstufen zur Spätantike, in Jahrbuch, LV, 1940, p. 41; F. Magi, I rilievi flavi del Palazzo della Cancelleria, Città del Vaticano 1945, p. 156 ss.; J. M. C. Toynbee, in Journ. Rom. Stud., XXXVII, 1947, p. 189 ss.; J. Scott Ryberg, Rites of the State Religion in Roman Art, in Memoirs Am. Acad., XXII, 1955, p. 147 ss.

Arco di Settimio Severo: G. Bendinelli, Osservazioni sui rilievi storici dell'Arco di Settimio Severo, in Atti III Congr. Studi Romani, I, 1935, p. 227 ss.; H. P. L'Orange-A. v. Gerkan, Der spätantike Bildschmuck des Konstantinsbogens, Berlino 1939, p. 40, nota 2; P. G. Hamberg, Studies in Roman Imperial Art, Copenaghen 1945, p. 145 ss.; G. Rodenwaldt, in Cambridge Ancient History, vol. XII, 1956, p. 546 ss.; L. Franchi, Ricerche sull'arte di età severiana in Roma, in Studi Miscellanei del Seminario d'Arch., IV, Roma 1964. È in preparazione la pubblicazione dell'arco da parte di R. Brilliant.

Porta degli Argentari: J. Madaule, Le Monument de Septime Sévère au Forum Boarium, in Mél. Arch. Hist., 1924, pp. 111-150; D.E.L. Haynes-P.E.D. Hirst, Porta Argentariorum, in Supplem. Papers of the British School at Rome, Londra 1939; M. Pallottino, L'Arco degli Argentari, Roma 1946; L. Budde, Die Entstehung des antiken Repräsentationsbildes, Berlino 1957, p. 6 ss.

Arco di Costantino: H. Bulle, Ein Jagddenkmal des Kaisers Hadrian, in Jahrbuch, XXXIV, 1919, p. 144 ss.; E. Buschor, Die Hardianischen Jagdabilder, in Röm. Mitt., XXXVIII-XXXIX, 1923-24, p. 82 ss.; M. Pallottino, Il grande fregio di Traiano, in Bull. Com., LXVI, 1938, p. 17 ss.; M. Wegner, Bemerkungen zu den Ehrendenkmälern des Marcus Aurelius, in Jahrbuch, LIII, 1938 (Arch. Anz.), c. 155 ss.; H. P. L'Orange-A. v. Gerkan, Die spätantike Bildschmuck des Konstantinsbogens, Berlino 1939; H. Kähler, Parerga zu einer Arbeit über den Römischen Triumph und Ehrenbogen, in Röm. Mitt., LIV, 1939, p. 265 ss.; G. Becatti, L'Arco di Costantino (recensione del L'Orange-Gerkan), in La Critica d'Arte, XXIII-XXIV, 1940, parte I, p. 41 ss.; R. Bianchi Bandinelli, Storicità dell'arte classica, Firenze 1950, p. 209 ss.; H. Kähler, Römische Gebälke, II: Die Gebälke des Konstantinsbogens, Heidelberg 1953; M. Cagiano de Azevedo, Alcune osservazioni sui rilievi storici aureliani, in Röm. Mitt., LX-LXI, 1953-54, p. 207 ss.; A. Giuliano, L'Arco di Costantino, Milano 1955; I. Maull, Hadrians Jagddenkmal, in Österr. Jahresh., XLII, 1955, p. 53 ss.; F. Magi, Il Coronamento dell'Arco di Costantino, in Rend. Pont. Accad. Arch., XXIX, 1956-57, p. 83 ss.; P. Mingazzini, È mai esistito l'arco di Trionfo di Marcaurelio sul Clivo Argentario?, in Röm. Mitt., LXX, 1963, p. 147 ss.

(L. Franchi)

VII. - E d i f i c i p e r l o s p e t t a c o l o. - Il rilevante numero degli edifici destinati in R. antica agli spettacoli è spiegabile con l'importanza che essi ebbero, fino dall'età più antica, in quanto collegati molto spesso a cerimonie religiose o civili, e parte integrante delle massime solennità, importanza accresciuta nell'ultima età repubblicana, e durante l'Impero, quando gli spettacoli (specialmente i ludi circensi) divennero anche uno strumento di propaganda personale e politica. Le corse del circo furono lo spettacolo più antico (e quello che serbò un sempre crescente favore fino alla fine dell'Impero); poi furono i giochi dei gladiatori e gli spettacoli teatrali; nell'impero si aggiunsero le cacce, le battaglie navali, gli spettacoli ginnici, le audizioni musicali. Si ebbero così vari tipi di edifici, sebbene gli spettacoli potessero svolgersi anche in altri luoghi, come il Foro, nel quale si dettero spesso ludi gladiatori, e i Saepta, che furono utilizzati persino per le naumachie.

1. Circhi. - a) Circo Massimo: era situato nella valle tra Palatino e Aventino che, per la sua configurazione naturale, ben si adattava allo svolgimento di corse di cavalli. La prima installazione del Circo, con la creazione di tribune per i senatori e i cavalieri, è attribuita a Tarquinio Prisco e a Tarquinio il Superbo. Soltanto nel 329 a. C. si ebbero i primi carceres, che furono di legno dipinto. Nel 196 a. C. fu eretto da L. Stertinio un arco (forse un ingresso monumentale). Nel 147 a. C. furono restaurati i carceres e le metae. Il circo, che doveva essere ancora per la maggior parte di legno, bruciò nel 31 a. C., e fu probabilmente rifatto da Augusto. Nel 10 a. C. egli collocò sulla spina un obelisco trasportato da Heliopolis, dedicandolo al Sole. Claudio rifece i carceres di marmo e le mete dorate. Il circo andò bruciato nel grande incendio di R. del 64 (che ebbe origine proprio nella zona orientale del circo), e dovette essere restaurato dallo stesso Nerone. La porta principale, nella estremità S, fu trasformata in arco di trionfo dedicato a Tito per la presa di Gerusalemme. Il circo fu poi completamente rinnovato da Traiano. Nel 337 Costanzo vi trasportò, sempre da Heliopolis, un secondo obelisco. L'ultimo spettacolo di cui si abbia ricordo è quello dato da Totila nel 549. Del Circo Massimo abbiamo, in parte, la planimetria dai frammenti dalla Forma Urbis. Molte vedute ci sono offerte da monete (specialmente di Traiano), da mosaici (di Barcellona, di Gerona, di Piazza Armerina, ecc.), da rilievi, (di Foligno), avorî, lucerne, ecc. Oggi rimane visibile solo un settore dal lato curvo, ma altre parti sono conosciute da scavi parziali. Il Circo, nella sua massima estensione, che risale all'età di Traiano, era lungo 6oo m; l'arena era lunga m 568, larga in media m 80; la cavea era larga 27 m. Le gradinate poggiavano su arcate sostruttive, che all'esterno si sviluppavano in tre ordini; la costruzione era in opera laterizia, che in parte doveva essere rivestita di lastre marmoree. I carceres, nella estremità N, erano 12; sopra di essi era la tribuna del magistrato che presiedeva ai giochi e che dava il segnale della partenza con la mappa; alle estremità dei carceres erano due torri. La linea mediana del Circo era occupata dalla spina, lunga m 344. In essa, oltre agli obelischi portati da Augusto e da Costanzo (e che furono scavati e collocati da Sisto V rispettivamente in piazza del Popolo e in piazza S. Giovanni in Laterano), erano, alle due estremità, le mete, e inoltre le impalcature con i delfini e le uova (che indicavano il numero delle corse), colonne con statue della Vittoria, trofei, il simulacro della Mater Magna sul leone e altri sacelli.

Discordanti le notizie degli antichi sul numero degli spettatori; le valutazioni dei moderni variano, per il periodo finale, da un massimo di 385.000 a un minimo di 140.000 spettatori.

b) Circo Flaminio: fu costruito nel 221 a. C. da G. Flaminio allora censore (Liv., Epit., 20): esso fu particolarmente destinato allo svolgimento dei ludi plebei e dei ludi Tauri (in onore di divinità ctonie); è menzionato più volte a proposito di adunanze del popolo e di cortei trionfali (moltissimi ricordi di avvenimenti o di monumenti posti in circo Flaminio non si riferiscono all'edificio, ma alla zona, già in precedenza detta prata Flaminia).

La sua ubicazione (già fissata presso via delle Botteghe Oscure) è stata recentemente stabilita da G. Gatti mediante la retta collocazione di un frammento della Forma Urbis in cui si legge il nome dell'edificio: esso era situato tra il Tevere, il Teatro di Marcello, i portici di Ottavia e di Filippo.

c) Circo di Caligola e Nerone: costruito da Caligola presumibilmente nei suoi giardini (horti Agrippinae), doveva essere un circo privato (se ne parla a proposito di corse cui parteciparono Claudio e Nerone). In esso Caligola collocò l'obelisco che nel 1586 fu trasportato da D. Fontana nel centro della piazza S. Pietro. Il circo è ricordato per l'ultima volta nell'iscrizione sepolcrale di G. Popilio Heracla posta sulla sua tomba scoperta sotto le Grotte Vaticane (prima metà del II sec. d. C.). All'edificio furono già attribuiti i grandi muri, scoperti al principio del '6oo nella demolizione della basilica costantiniana di S. Pietro, e su questa base fu data una ricostruzione del circo con l'obelisco al centro; ma negli scavi delle Grotte Vaticane si è visto chiaramente che si tratta delle fondazioni stesse della basilica. Scavi recenti nel luogo primitivo dell'obelisco hanno comunque dimostrato che questo si trovò certamente nella pista del circo, che il piano del circo è 9 m sotto il livello odierno, che esso doveva svolgersi in direzione E-O; il circo dovette essere abolito nella seconda metà del II sec. d. C., e allora tutta l'area fu adibita a cimitero; il fatto che non si siano trovati nelle Grotte elementi delle gradinate può essere dovuto al fatto che, trattandosi di un circo privato, le costruzioni in muratura erano forse limitate ad alcune parti (spina, carceres) mentre le gradinate potevano essere di legno.

Non è da confondere con questo circo il Gaianum, un'area del Vaticano in cui Caligola si esercitava nelle corse (Cass. Dio, lix, 14): la sopravvivenza toponomastica porta a collocare quest'area a N di Castel S. Angelo. Da alcuni viene ora identificato col grande edificio a forma di stadio che esistette fino al ‛700 in questa zona (esso era stato chiamato, senza fondamento, Circo di Adriano; e successivamente era stato identificato con la Naumachia della regione vaticana).

d) Circo degli Horti Variani: avanzi di un circo erano noti nel '400 e '500 a E di S. Croce in Gerusalemme, fuori delle mura; alcuni resti sono stati visti nel 1922 e, in misura più considerevole, nel 1959, all'interno delle mura (non è certa l'appartenenza ad esso dell'obelisco di Antinoo, che nel Rinascimento era in questa zona, ora al Pincio): il circo dovette essere costruito nell'ambito degli Horti Variani.

Le stalle dei cavalli delle quattro fazioni del circo (stabula IIII factionum) erano nella Regione IX, come risulta dai Cataloghi Regionari; e precisamente nella zona occidentale dove furono trovate iscrizioni di aurighi; si pensa che le stalle della fazione prasina fossero presso la Chiesa di S. Lorenzo in Damaso, detta anche in prasino.

2. Teatri. - In età molto antica era fatto obbligo agli spettatori di assistere in piedi alle rappresentazioni teatrali per evitare che vi trascorressero, nell'ozio, intere giornate (Tac., Ann., xiv, 20), e questa norma fu ribadita da un senatoconsulto del 154 a. C. Un primo teatro, provvisorio, fu costruito nel 179 a. C. dal censore M. Emilio Lepido presso il tempio di Apollo (theatrum et proscaenium ad Apollinis), forse perciò non lontano dal luogo dove più tardi fu costruito il teatro di Marcello; probabilmente esso fu strettamente connesso con il culto di Apollo e con la celebrazione dei ludi Apollinares. Nel 154 a. C. un teatro iniziato dal censore G. Cassio Longino vicino al Lupercale fu fatto distruggere da P. Scipione Nasica (Vell., i, 15). Claudio Pulcro nel 93 a. C. e M. Scauro nel 58 a. C. allestirono scene dipinte e riccamente ornate.

a) Teatro di Pompeo: il primo teatro stabile in muratura fu quello di Pompeo, dedicato nel 55 a. C. (Cass. Dio, xxxix, 38); secondo alcuni scrittori (Gell., x, 1, 7; Tertull., De spect., 10) la proibizione di erigere un teatro stabile fu superata da Pompeo mediante la costruzione, sulla sommità della cavea, nel punto centrale, del tempio di Venere Vincitrice, quasi egli avesse costruito non un teatro ma un tempio circondato da gradinate. Esempî mostranti la connessione tra tempio e teatro sono molto frequenti in Italia nel II e I sec. a. C.; mentre di solito il teatro era addossato ad una collina ed il tempio costruito sulla collina stessa, in questo caso invece si realizzò l'ardito progetto architettonico dell'elevazione di un grande tempio sul culmine di una cavea artificiale. Il teatro fu restaurato da Augusto; la scena bruciò nel 21 d. C., e la ricostruzione fu terminata da Caligola. Fu rifatto da Tito dopo il grande incendio del Campo Marzio. Nuovi restauri in età severiana, e per opera di Arcadio e Onorio. Del teatro rimangono, nella piazza dei Satiri, le sostruzioni della cavea, di opera reticolata della fase originaria; la topografia della zona conserva ancora oggi in parte la pianta dell'edificio, ma poco conosciamo della ricca decorazione di questo teatro, che è ricordato dagli antichi come una delle costruzioni più meravigliose di Roma. La planimetria ci è data dalla Forma Urbis: la cavea doveva avere un diametro di circa 150 m e la scena doveva essere lunga circa 90 m. Dietro la scena Pompeo costruì dei grandiosi portici, che sono ricordati da Vitruvio (v, 9, 1) come esempio dei portici da costruirsi dietro i teatri per dar riparo al pubblico in caso di pioggia improvvisa. Essi furono rifatti da Diocleziano. Erano costituiti da colonnati e da giardini e contenevano numerose opere d'arte. Nei portici era compresa anche la Curia di Pompeo, in cui fu ucciso Cesare. Anche dei portici abbiamo la pianta nei frammenti della Forma Urbis.

b) Teatro di Marcello: fu iniziato da Cesare a N-O del Foro Olitorio presso il tempio di Apollo (che si dovette demolire e riedificare più a N per dare sufficiente spazio al nuovo teatro), e fu compiuto da Augusto nell'11 a. C. e dedicato al nome del genero Marcello. La scena fu rifatta da Vespasiano. L'edificio, che è rappresentato nella Forma Urbis, è notevolmente conservato soprattutto nel lato esterno della cavea, costituito da una triplice serie di arcate (in opera quadrata); la parte più alta fu trasformata nel '500 per la costruzione del Palazzo Savelli.

Il diametro del teatro era di circa 150 m; la scena, situata a O, era lunga circa 80-90 m e profonda 20; alle estremità laterali di esse erano due aule absidate (una delle quali deve essere la regia ricordata da Asconio, In Scaur., 45). La capacità del teatro era, a quanto sembra, di 10-14 mila spettatori.

c) Teatro di Balbo: fu dedicato nel 13 a. C. da L. Cornelio Balbo. Danneggiato dall'incendio di Tito (80 d. C.). È ricordato nel IV sec. nella Regione IX.

L'edificio è stato recentemente identificato da G. Gatti con le costruzioni (in opera reticolata) di cavea sotto il palazzo Mattei-Paganica (già attribuite al circo Flaminio). Ad E era un quadriportico, la Crypta Balbi, rappresentato in un frammento della Forma Urbis che reca il nome del teatro di Balbo.

d) Teatro di Traiano: costruito da Traiano nel Campo Marzio, fu distrutto da Adriano (Hist. Aug., Hadr., 9).

3. Anfiteatri. - Dopo gli anfiteatri di Curione del 53 e di Cesare del 46 a. C., di cui abbiamo notizie incerte, il primo anfiteatro ricordato in R. è quello eretto nell'età di Augusto da L. Statilio Tauro nel Campo Marzio (il luogo preciso non è conosciuto); esso fu distrutto nell'incendio di Nerone nel 64. Un anfiteatro fu iniziato da Caligola vicino ai Saepta nel Campo Marzio, ma la costruzione fu tralasciata dal successore Claudio. Sempre nel Campo Marzio, fu edificato da Nerone nel 57 un anfiteatro di legno.

a) Anfiteatro flavio (detto anche, non prima del 1000, forse per la vicinanza del Colosso di Nerone, Colosseo). Fu costruito da Vespasiano nella valle tra Palatino, Esquilino e Celio, già occupata dallo Stagno della Domus Aurea di Nerone; la costruzione fu proseguita da Tito che poté dedicare l'edificio nell'80 con splendidi giochi che durarono 100 giorni (Marziale scrisse per l'occasione varî epigrammi che costituiscono il libro De spectaculis). Altri completamenti furono portati da Domiziano nella parte superiore. Restauri furono compiuti da Antonino Pio, e quindi da Elagabalo e Alessandro Severo dopoché, nel 217, fu gravemente danneggiato da un fulmine. L'edificio subì nel terremoto del 442 altri danni che richiesero nuovi restauri, documentati da iscrizioni in onore di Teodosio II e Valentiniano III. La rovina dell'anfiteatro comincia nell' VIII secolo. Dell'edificio abbiamo una parziale planimetria nei frammenti della Forma Urbis.

La pianta è ellittica; l'asse maggiore misura 188 m, il minore 156. L'esterno è costituito da una serie di arcate, sovrapposte in tre piani, 80 per piano (decorate con semicolonne di ordine dorico, ionico e corinzio), e sormontate da un attico, già ornato con grandi scudi di bronzo: l'altezza totale è di m 48,50. Gli archi corrispondenti agli assi minori erano più larghi e ornati e dovevano portare al palco dell'imperatore e ad un altro riservato probabilmente al praefectus urbi. Gli archi dell'asse maggiore conducevano direttamente nell'arena. Tutte le altre porte sono contrassegnate da un numero d'ordine che serviva ad indicare l'ingresso agli spettatori muniti di una tessera su cui era segnato il numero corrispondente: questo permetteva il rapido afflusso e deflusso degli spettatori. Sull'attico rimangono le mensole su cui poggiavano dei pali di legno ai quali si agganciava il velano (che proteggeva dal sole gli spettatori): essi venivano manovrati da un distaccamento di marinai. La cavea poggia su una complessa struttura di corridoi a vòlte, parte dei quali contengono bracci di scale che servivano per raggiungere le gradinate attraverso i vomitoria. Essa, si elevava dal piano dell'arena con un podio alto m 3,60, ed era suddivisa in tre meniani, cioè serie di gradinate (cui si aggiungeva un maenianum summum costruito in legno); i meniani erano poi ripartiti in cunei da gradini; l'inclinazione della cavea è di 37 gradi. Si calcola che i posti a sedere fossero intorno ai 45-50.000. Il pavimento dell'arena doveva essere di legno e poggiava su muri che suddividevano il sottosuolo, destinato ai servizi e all'attrezzatura degli spettacoli (gabbie per fiere, depositi, ascensori). La struttura dell'edificio è in opera quadrata di travertino (nelle parti esterne e nello scheletro portante), in opera quadrata di turo e in opera laterizia nelle parti con funzione statica secondaria. Il soffitto dei corridoi era decorato con stucchi (in parte conservati).

b) Anfiteatro castrense: è ricordato nei soli Cataloghi Regionari nella Regione V, e viene identificato con l'anfiteatro ancora esistente presso S. Croce in Gerusalemme (il nome deriva probabilmente da castrum, nel senso di dimora dell'imperatore, e infatti esso era attiguo ad una residenza imperiale). L'anfiteatro fu incluso nelle mura di Aureliano che si sono appoggiate all'esterno della cavea: la parte così incorporata è quella oggi conservata, mentre altre parti dell'edificio sono conosciute da disegni del 500. L'anfiteatro misurava nei due assi m 88 e m 75. Aveva all'esterno tre ordini di arcate ed era interamente costruito in opera laterizia. Discussa la datazione; molto probabile è che esso sia dell'età di Elagabalo e che facesse parte delle costruzioni della sua villa.

4. Naumachie. - La più antica Naumachia ricordata è quella di Cesare, scavata nel Campo Marzio in occasione del suo quadruplice trionfo del 46 a. C. (combatterono biremi, triremi e quadriremi della flotta fenicia ed egiziana: Suet., Caes., 39); il bacino fu ricolmato nel 43 a. C. La Naumachia di Augusto fu scavata nel Trastevere nel 2 a. C. per solennizzare la dedica del tempio di Marte Ultore: si scontrarono in quell'occasione 30 navi rostrate triremi o biremi e furono impegnati in combattimento, oltre ai rematori, tremila uomini. L'acqua venne derivata dall'acquedotto Alsietino, che fu costruito a questo scopo. La Naumachia era collegata entro un parco che in onore dei figli adottivi di Augusto fu detto Nemus Caesarum. Al centro della Naumachia era un'isola, ed è ricordato anche un pons naumachiarius (che doveva servire per le esigenze teatrali degli spettacoli). È discussa la sua ubicazione, o a N della villa Corsini o, più probabilmente, presso S. Cosimato. La Naumachia di Domiziano fu costruita presso il Tevere, forse sulla riva destra; essa fu probabilmente distrutta da Traiano. La Naumachia di Filippo fu costruita sulla riva destra del Tevere da Filippo l'Arabo nel 247, in occasione del primo millenario della fondazione di R. (secondo alcuni moderni, Filippo l'Arabo non fece che restaurare la Naumachia di Augusto). Due Naumachie nel Trastevere sono ricordate dai Cataloghi Regionari, ma non sappiamo con sicurezza a quali delle Naumachie sopraricordate essi si riferiscano. Una di esse doveva certamente essere nella zona vaticana, dato che varie fonti medievali ci tramandano un toponimo naumachia nella regione fra S. Pietro e Castel Sant'Angelo. È probabile che la Naumachia vaticana debba essere identificata con alcuni avanzi recentemente trovati presso il colonnato settentrionale della Piazza San Pietro. Sembra dunque da abbandonare la precedente identificazione con un edificio a forma di stadio esistente fino al '700 a N-O di Castel Sant'Angelo (cfr. sopra, Gaianum).

5. Ludi. - Scuole di esercitazione per gladiatori. Un Ludus Aemilius è ricordato da Orazio (Ars Poet., 32) e da antichi commentatori; la sua ubicazione è sconosciuta. Quattro Ludi furono costruiti da Domiziano e sono localizzati dai Cataloghi Regionari nelle Regioni II e III; essi dovettero essere costruiti in funzione dell'anfiteatro flavio. Essi sono: Ludus Dacicus; Gallicus; Matutinus; Magnus. Quest'ultimo, già conosciuto dalla Forma Urbis, è stato ritrovato recentemente a E del Colosseo; è costituito da un'area circondata da una piccola cavea inclusa in una pianta quadrata; è costruito in opera laterizia di età domizianea, con restauri traianei e del IV secolo.

6. Odeon. - Eretto da Domiziano nel Campo Marzio e destinato ad audizioni musicali. Fu restaurato dall'architetto Apollodoros nell'età di Traiano. Conteneva, a quanto pare, cinquemila spettatori. Sembra accertata la sua ubicazione sotto il Palazzo Massimo, la cui pianta ripete in parte quella dell'antico edificio.

7. Stadi. - Due stadi provvisori furono costruiti da Cesare e da Augusto nel Campo Marzio, il primo nel 46 a. C. da Cesare, in occasione del suo quadruplice trionfo, il secondo da Augusto nel 28 per le celebrazioni della battaglia di Azio (Suet., Gaes., 39; Cass. Dio, Liv, 1).

a) Stadio di Domiziano: eretto da Domiziano nel Campo Marzio, per lo svolgimento di giochi atletici; eccezionalmente fu usato per combattimenti di gladiatori. Fu restaurato da Alessandro Severo. Conteneva, a quanto sembra, quindicimila spettatori. L'odierna Piazza Navona ne segue esattamente la pianta; notevoli resti sono visibili sotto la chiesa di S. Agnese e sotto altri edifici che circondano la piazza. Lo stadio era disposto in direzione N-S, con il lato curvo a N; all'esterno presentava una doppia serie di arcate.

Si dà impropriamente il nome di Stadio a un edificio della Domus Augustana sul Palatino, foggiato a forma di circo o di stadio e che deve essere identificato con l'hippodromus Palatii ricordato negli Atti di San Sebastiano. Si tratta di un tipo di edificio molto comune nelle ville, consistente in un giardino circondato da portici.

Bibl.: F. Colagrossi, L'Anfiteatro Flavio nei suoi venti secoli di storia, Firenze-Roma 1913; G. Marchetti-Longhi, Circus Flaminius, in Mem. Acc. Linc., s. V, XVI, 1920, p. 621 ss.; A. von Gerkan, Das Obergeschoss des flavischen Amphitheaters, in Röm. Mitt., XL, 1925, p. 11 ss.; G. Cozzo, Ingegneria romana, Roma 1927, p. 203 ss.; N. Dacos, Les stucs du Colisée, in Latomus, XXI, 1962, p. 334 ss. (per l'anfiteatro flavio); A. M. Colini, Il Ludus Magnus, in Rend. Acc. Pont., s. III, XIV, 1939, p. 61 ss.; G. Lugli, L'origine dei teatri stabili in Roma antica, in Dioniso, IX, 91942, p. 55 ss.; A. M. Colini, Stadium Domitiani, Roma 1943; A. Calza Bini, Il teatro di Marcello, in Boll. Centro studi dell'architettura, 7, 1953; A. M. Colini, in Mem. Acc. Pont., VIII, 1955, p. 147 ss. (per l'anfiteatro castrense), 168 ss. (per il circo variano); G. V. Gentili, Le gare del circo nel mosaico di Piazza Armerina, in Boll. d'Arte, XLII, 1957, p. 7 ss.; J. A. Hanson, Roman Theater-Temples, Princeton 1959, p. 43 ss. (per il teatro di Pompeo); F. Castagnoli, Il Circo di Nerone in Vaticano, in Rend. Acc. Pont., XXXII, 1959-60, p. 97 ss.; G. Gatti, Dove erano situati il teatro di Balbo e il circo Flaminio?, in Capitolium, XXXV, 1960, 7, p. 3 ss.; A. M. Colini - L. Cozza, Ludus Magnus, Roma 1962.

(F. Castagnoli)

VIII. - T e r m e u r b a n e e N i n f e i. - 1. TERME: a) di Agrippa (thermae Agrippae o Agrippianae). Furono le prime fra le grandi terme imperiali di R. e quelle che, per la prima volta, almeno a quanto ci consta, furono espressamente chiamate con tal nome (Plin., Nat. hist., xxxvi, 104 e 121) oltre che con i nomi tradizionali di balineum o balaneion e di laconicum. Costruite nel 25 a. C. da Agrippa, nel Campo Marzio (Reg. IX), subito a S del Pantheon e in asse con questo, ricevettero in un secondo tempo - dopo il compimento dell'acquedotto dell'acqua Vergine (19 a. C.) - l'aggiunta, lungo il lato O, di giardini attraversati da un canale (euripus) che alimentava un piccolo lago (stagnum). Si estendevano su un'area di circa m 100-120 (nel senso N-S) per 80-100 (nel senso E-O) e furono lasciate in libero uso al popolo dopo la morte del fondatore (12 a. C.) che le aveva arricchite di opere d'arte (tra le quali l'Apoxyòmenos di Lisippo). Bruciarono nell'80 e furono restaurate da Tito e da Domiziano; poi ebbero un rifacimento pressoché totale per opera di Adriano fra il 120 e il 125. Ancora restaurate da Massenzio e forse da Costante e Costanzo (344-5), andarono probabilmente distrutte nel corso del VII secolo. Ne restano attualmente alcuni avanzi ma soprattuto una parte della pianta in un frammento con l'iscrizione [the]rmae Agrip[pae], della pianta marmorea severiana, integrabile con disegni del Peruzzi e del Palladio. È incerto quanto di questa pianta debba essere attribuito alla ricostruzione adrianea piuttosto che all'impianto originario; essa comunque si presenta, con un certo carattere dissimmetrico, con una grande sala circolare (diametro m 25) e una serie di ambienti adiacenti, alcuni absidati e altri con vasche (bagno caldo?) più due spazi forse all'aperto e con una vasca al centro (bagno freddo?) e un altro grande spazio libero che potrebbe indicare un'eventuale palestra o il sito dello stagno.

b) di Nerone (thermae Neronianae sive Alexandrinae). Rappresentano il secondo grande stabilimento termale della R. imperiale. Fatte costruire da Nerone, a poca distanza da quelle di Agrippa, nello stesso Campo Marzio a N-O del Pantheòn, fra il 62 e il 64. Interamente rifatte, nel 227, sotto Alessandro Severo (e da allora ufficialmente denominate Alexandrinae), dovettero cambiare completamente aspetto passando dal tipo del "ginnasio" greco, quale erano nell'impianto neroniano, a quello, ormai codificato, della grande terma imperiale romana. Ne restano pochi avanzi ma, attraverso disegni del Rinascimento (Palladio, Sangallo) è possibile ricostruire la pianta che si estendeva su una superficie con lati di m 190 × 120. Aperte sul lato N, avevano in asse gli ambienti principali fiancheggiati, con disposizione simmetrica, da ambienti minori e da due grandi aree porticate sui lati di O e di E.

c) di Tito (thermae Titi o Titianae). Fatte costruire da Tito sulle pendici del Fagutai prospicienti il Colosseo (Reg. III), entro il recinto della Domus Aurea neroniana, alle cui fabbriche furono allineate, e inaugurate nell'81, segnano, rispetto alle precedenti, un ulteriore passo verso la definizione del tipo della grande terma imperiale. Erroneamente identificate, fino alla fine dell'Ottocento, nei resti delle vicine terme di Traiano, sono andate invece quasi completamente distrutte. Se ne conosce però la pianta disegnata dal Palladio. Occupavano un'area con lati di circa m 150 × 120 ed erano rivolte, con la facciata principale, verso N. Costituiscono per noi, e con molta probabilità lo furono effettivamente, il primo esempio sicuro della tendenza a disporre gli ambienti principali in successione su un unico asse, al centro dell'edificio, con il calidario che sporge dal muro di fondo; ad affiancare a quelli, simmetricamente, da una parte e dall'altra, una doppia serie di ambienti minori e di cortili e, infine, a comprendere tutto il corpo dei bagni entro una vasta area all'aperto, recinta per tre lati da un muraglione continuo.

d) di Traiano (thermae Traiani o Traianae). Costruite dall'architetto Apollodoros di Damasco (Cass. Dio, lxix, per l'imperatore Traiano e inaugurate il 22 giugno del 109, sorsero sulle pendici dell'Oppius a N-E delle terme di Tito, nella stessa Reg. III, su una vasta platea con i lati di m 280 × 210, in parte artificialmente ottenuta distruggendo e interrando gli ambienti della Domus Aurea neroniana. Orientate in direzione NE-SO (e cioè con una radicale innovazione rispetto alle precedenti fabbriche di Nerone e di Tito) ne rimangono cospicui avanzi, anche se fra loro separati, una parte della planimetria in un frammento della pianta marmorea severiana e la possibilità di completarne la pianta attraverso i disegni del Cinquecento e del Seicento in cui sono scambiate con le terme Titianae. Sviluppano su scala più vasta il tipo delle precedenti terme di Tito e lo fissano in maniera definitiva per tutte le successive realizzazioni. Ma, oltre agli ambienti del bagno vero e proprio (disposti nel già visto ordine assiale al centro dell'edificio e fiancheggiati simmetricamente ai lati da tutta una serie di ambienti minori fra i quali si aprono due palestre circondate da portici) e oltre alla vasta area che circonda per tre lati il corpo dei bagni, chiusa da un muraglione continuo, presentano per la prima volta questo stesso muraglione che si articola in una grandiosa esedra al centro del lato lungo di S-E e che si arricchisce di ambienti ed esedre minori negli altri tre lati.

e) Surane (thermae Suranae o Surae o Syres, ecc.). Costruite nella Reg. XIII, sull'Aventino, da L. Licinio Sura amico e collaboratore di Traiano o dallo stesso Traiano che le avrebbe dedicate a Sura, in parte utilizzando precedenti costruzioni, conservarono, accanto all'ormai affermato tipo della grande terma imperiale, il tipo tradizionale del balneum repubblicano costituito dal corpo dei bagni formato da una serie di ambienti allineati su di un'unica fronte e intercomunicanti e dalla palestra che ad esso si affianca per tutta la lunghezza. Identificato con molta probabilità il sito dell'edificio proprio a S della chiesa di S. Prisca, non ne restano avanzi sicuri, ma la pianta è conservata quasi per intero in alcuni chiari frammenti della pianta marmorea severiana corredati dell'iscrizione balneum Surae.

f) di Caracalla (thermae Caracallae o Antoninianae). Iniziate verso il 212 da Settimio Severo e inaugurate nel 216 da Caracalla, sorsero nella valle fra il Celio e l'Aventino (Reg. XII) immediatamente al di fuori delle mura serviane sulla via Nova aperta per l'occasione, parallelamente all'Appia. Completate da Elagabalo e da Alessandro Severo (fra il 218 e il 235), furono concordemente giudicate magnificentissime fra tutte le altre (anche se superate poi in grandezza da quelle di Diocleziano) e nel V sec. elencate fra le meraviglie dell' Urbe. Restaurate ancora nel VI sec. da Teodorico, furono rese inagibili dal taglio dell'acquedotto operato dai Goti nel 537 e quindi abbandonate. Le imponenti rovine, conosciute durante il Medio Evo sotto varî nomi (l'Antoniana, palatium Antonianum, ecc.) furono oggetto di studî da parte degli architetti del Cinquecento e, più volte frugate e scavate, restituirono numerose opere d'arte (gruppo del Toro Farnese, Eracle di Glykon, Flora Farnese, ecc.). Scavi più regolari si ebbero nell'Ottocento e soprattutto poi fra il 1901 e il 1911 fino ai recentissimi restauri e consolidamenti murarî. Oggi rappresentano l'esempio più completo e conservato, soprattutto come insieme, di una grande terma imperiale, secondo la concezione del grande edificio centrale, rappresentante il bagno vero e proprio, circondato da una vasta area aperta recinta da un peribolo comprendente portici, sale, esedre, fontane, ecc. che, derivata con modifiche da quella delle terme di Traiano, raggiunge qui compiuta e grandiosa espressione. Tutto il complesso, orientato da N-E a S-O, sorge su una spianata, di circa m 450 di lato, in gran parte artificiale tranne che nel versante meridionale in cui si appoggiava al declivio del terreno. Il poderoso recinto esterno, quasi quadrato (m 337 × 328), aveva sulla fronte (lato E) al di sopra di una serie di concamerazioni, un portico con ambienti disposti su due piani, al centro dei quali si apriva l'ingresso principale della terma. Il lato opposto di fondo (lato O) era occupato quasi per intero da una grande conserva d'acqua (per oltre 80.000 m3) alimentata da una derivazione dell'acquedotto della Marcia e formata da sessantaquattro concamerazioni a vòlta, intercomunicanti, disposte in doppia fila su due piani. Un muro, ricurvo alle due estremità e sostenente ampie gradinate a guisa di stadio, aperto verso il giardino, nascondeva la cisterna, mentre ai lati di essa, agli angoli del recinto, si aprivano, con ambienti minori e isolate dalla cisterna mediante piccoli cortili, due biblioteche. Gli altri due lati (settentrionale e meridionale) erano simmetricamente occupati, per oltre la metà della lunghezza, da una grande esedra racchiudente, oltre a un portico interno, due sale rettangolari, di cui una con un nicchione sul fondo, e un'altra sala ottagonale, forse ninfeo. Per il resto dei due lati si svolgeva una serie di ambienti uguali a quelli del lato frontale. Il corpo centrale dei bagni, completamente staccato e indipendente dal recinto perimetrale e con pianta rettangolare di m 220 × 114, aveva, lungo l'asse minore, prima il frigidario all'aperto occupato quasi per intero dalla piscina della natatio (di m 58 × 22), poi l'enorme salone centrale coperto con vòlta a crociera e dotato di quattro piscine e due fontane rotonde, quindi una sala quadrata moderatamente riscaldata e dotata di due vasche (tepidario) e, finalmente, il calidario, una vasta sala rotonda (diametro m 34) per tre quarti sporgente al di fuori del muro perimetrale dell'edificio, coperta a cupola e munita di una vasca circolare nel mezzo e di sei vasche minori ricavate nello spessore dei pilastri. Ai due lati di questa serie di ambienti, si allineavano, simmetricamente reduplicati e aperti verso il recinto esterno e il giardino o raccolti attorno a portici interni, numerosi altri ambienti di difficile identificazione (apoditeria? all'altezza della natatio palestre? con portici e ampie esedre; ambienti per bagni speciali? fra cui due con pianta ellittica all'altezza del calidario, ecc.). Sotto tutto il corpo centrale dei bagni e anche oltre il suo perimetro correva una vasta rete di corridoi e di vere e proprie vie sotterranee destinate ai servizi, insieme a molte scale, magazzini e vasti praefurnia che alimentavano i complessi sistemi di riscaldamento. (Uno di questi sotterranei fu poi trasformato in aula basilicale e adattato a mitreo).

g) Deciane (thermae Decianae). Costruite sull'Aventino, nella Reg. XIII dall'imperatore Decio, nel 252 e restaurate in seguito da Costante e Costanzo, se ne può ricostruire la pianta in base a disegni del Palladio che mostrano una sala centrale, l'inizio probabilmente del calidario e alcuni ambienti laterali in un complesso planimetricamente grosso modo corrispondente alle terme di Traiano.

h) di Diocleziano (thermae Diocletianae). Le più grandi e perfette fra tutti i complessi termali di R. e dell'antichità, furono fatte costruire da Diocleziano nella Reg. VI, nella pianura all'estremità orientale del Quirinale e del Viminale. Iniziate da Massimiano per conto del collega maggiore, nel 288-89 e inaugurate fra il maggio del 305 e il luglio del 306, se ne conserva l'iscrizione dedicatoria (C.I.L., vi, 1130) da frammenti originali e una trascrizione dell'Anon. Einsiedlensis. Occupavano una superficie di oltre 13 ettari ed avevano una pianta che ripeteva, in forma più grandiosa, ma senza sostanziali varianti, quella delle terme di Caracalla. Tale pianta è abbastanza facilmente ricostruibile nonostante le gravi distruzioni e le cospicue trasformazioni subite dalle parti superstiti (Basilica di S. Maria degli Angeli, S. Bernardo, Chiostri, Museo Naz. Romano, Planetario, ecc.). Il recinto esterno con i lati di m 376 × 361, aveva l'ingresso principale al centro del lato di N-E occupato, da una parte e dall'altra, simmetricamente, da alcuni ambienti e da due esedre di cui una almeno adibita a monumentale forica. Oltre l'ingresso, si estendeva la grande spianata, in massima parte a giardino, che circondava l'edificio dei bagni, mentre, lungo i due lati di N-O e di S-E della recinzione perimetrale si aprivano, sulla stessa spianata, alcuni ambienti fra cui due con pianta semicircolare, separati e distanziati fra loro. Il quarto lato di fondo, aveva al centro una enorme esedra fronteggiante, con una gradinata, un'area sistemata a guisa di stadio e fiancheggiata ai lati da due serie di ambienti, fra cui due a pianta circolare, agli angoli estremi. L'edificio dei bagni, con i lati di m 144 × 244, aveva, sull'asse minore, la stessa disposizione di ambienti che nelle terme di Caracalla: la piscina della natatio (di m2 2.500 di superficie) nel frigidario all'aperto, fiancheggiata sui lati minori da due sale; poi l'immenso salone centrale con vòlta a triplice crociera e quattro grandi vasche, cui erano annessi, sui lati brevi, due complessi doppiamente tripartiti e formati di sei ambienti per parte. Seguivano, una sala a pianta centrale con due nicchioni laterali, coperta a cupola (tepidario) e finalmente l'aula del calidario rettangolare allungata, coperta da triplice crociera e con un nicchione, al centro di ogni lato, fornito di vasca. Ai lati dei grandi ambienti centrali erano allineate, come di solito, simmetricamente contrapposte, molte altre sale, riunite attorno a due palestre rettangolari porticate e con una grande esedra rettilinea, fra le quali, particolarmente notevoli, due a doppia abside, all'altezza della natatio (apoditeria?) e due altre, con pianta rotondo-ottagona, al termine della serie di ambienti allineati perpendicolarmente al calidario. Esterna al recinto termale era la cisterna che, alimentata da una diramazione dell'acquedotto della Marcia, era costituita da un vasto ambiente pluricellulare a serie di camere intercomunicanti (v. fig. 982).

i) di Costantino (thermae Constantinianae). Ultimo fra i grandi stabilimenti termali di Roma, furono costruite, nella Reg. VI, sul Quirinale, da Costantino, intorno al 315. Danneggiate da un incendio, furono restaurate nel 443, dal prefetto della città, Quadraziano. Costruite su un'area irregolare, dopo grandi sbancamenti di terreno, erano orientate in senso N-S con l'ingresso principale al centro del lato N. Distrutti i notevoli avanzi, soprattutto nel corso del sec. XVII, se ne può ricostruire la pianta da disegni del Rinascimento che ce le mostrano nello schema delle altre grandi terme con qualche variante, per esempio nella probabile assenza dei cortili porticati o palestre ai due lati degli ambienti centrali e nella presenza, invece, di un cortile semicircolare sulla fronte S a diretto contatto con la natatio.

l) Eleniane (thermae Helenianae). Situate nella Reg. V nell'estremo settore orientale del Celio, furono costruite fra il 323 e il 326 al posto di altre precedenti distrutte da un incendio, dalla madre di Costantino, Elena. Oggi quasi completamente scomparse, se ne conosce parzialmente la pianta che appare un compromesso fra quella delle grandi terme e quella dei complessi minori, attraverso disegni del Palladio e di A. da Sangallo il giovane. A breve distanza rimangono i resti di una grande cisterna con dodici ambienti intercomunicanti disposti in doppia fila.

Altre terme. Scarsissime notizie e nessun avanzo monumentale sicuro abbiamo di altri edifici termali di R. di cui pure ci è giunto il ricordo del nome, come nel caso delle thermae Domitii (costruite da Gn. Domizio Enobarbo sulla Via Sacra), delle thermae Etrusci (appartenenti o costruite da un certo Claudio Etrusco sul Quirinale o sulle pendici del Pincio), delle thermae Commodianae (costruite nella Reg. I dal favorito di Commodo, Cleandro), delle thermae Novati (che sorgevano presso S. Pudenziana), delle thermae Septimianae (o balnea Severi, costruite da Settimio Severo nel Trastevere), delle thermae Aurelianae (pure sorte nel Trastevere e denominate anche thermae aestivae).

Bibl.: C. Cameron, The Baths of the Romans, Londra 1775; A. Palladio, Le terme dei Romani, Vicenza 1785; Chr. Hülsen, Die Thermen des Agrippa, Roma 1910; A. M. Colini, in Mem. Pont. Acc., 1944, p. 334 ss. (per le terme di Nerone); R. A. Staccioli, in Arch. Class., XIII, 1961, pp. 94-6 (per le terme Surane); E. Brödner, Untersuchungen an den Caracalla-Thermen, Berlino-Lipsia 1951; E. Paulin, Les Thermes de Diocletien, Parigi 1890; R. Paribeni, Le Terme di Diocleziano e il Museo Nazionale Romano, 2a ed., Roma 1932; A. M. Colini, in Mem. Pont. Acc., 1955, pp. 140-7 (per le terme Eleniane).

(R. A. Staccioli)

2. Ninfei. - Secondo il catalogo delle regioni del IV sec. esistevano nella città di R. appena quindici ninfei, il che fa supporre che la parola avesse a quei tempi un significato assai più limitato di quanto abbia presso gli archeologi odierni. Possiamo pensare che significasse una fontana monumentale. Tali cataloghi elencano per nome soltanto tre ninfei, cioè, i Nymphaea Tria sull'Aventino (non ancora rintracciati), il Nymphaeum Iovis da identificare probabilmente con un edificio già esistente sotto l'attuale piazza S. Silvestro e il Nymphaeum divi Alexandri, sicuramente la fontana in piazza Vittorio Emanuele che durante il Rinascimento andava sotto il nome di Trofei di Mario. A questi va aggiunto anche il Septizodium, definito ninfeo da Ammiano Marcellino. Di ninfei, secondo l'uso attuale della parola, cioè una fontana di carattere essenzialmente architettonico, ne sono stati identificati entro il cerchio delle mura aureliane oltre una cinquantina, di cui più della metà esiste ancora oggi. Dobbiamo perciò limitarci alla descrizione di alcuni fra i più notevoli o meglio conservati. Il Septizodium, malauguratamente andato distrutto sotto Sisto V ma conosciuto attraverso disegni e incisioni dell'epoca e da un frammento della pianta marmorea di Settimio Severo, fungeva da fondale al termine della via Appia come una grandiosa scenae frons celante un angolo del Palatino. Era a tre piani ornati di colonne con tre esedre che si presume contenessero le fontane. Sappiamo da Ammiano Marcellino (Hist. Aug., Sev., 19, 24) che esso fu costruito nell'anno 203 sotto Settimio Severo, essendo così il solo ninfeo a R. con una data precisa. Il problema del significato astrologico del monumento rimane ancora molto oscuro.

La fontana o ninfeo pubblico più monumentale si trova nel muro orientale di sostegno del grande recinto del Templum Divi Claudi sul Celio. Essa consiste in una serie di esedre alternativamente curve e rettangolari con nicchie disposte simmetricamente ai lati di un ambiente rettangolare più grande con un'esedra curva in fondo. La costruzione in mattoni risale al tempo di Nerone con alcune modifiche apportate da Vespasiano. Il terzo ninfeo pubblico di eccezionale interesse è il monumento sopra ricordato conosciuto sotto il nome di "Trofei di Mario". Consisteva in una specie di arco trionfale sopra un'alta base trapezoidale - forma che risultava dallo spazio lasciato da un bivio - con un bacino davanti. Gli archi laterali contenevano i due gruppi di trofei ora sulla balaustrata del Campidoglio, ivi fatti trasportare dallo stesso Sisto V nel 1589. Confronti con certi medaglioni che sembrano rappresentare il nostro ninfeo suggeriscono che nella nicchia centrale stava il gruppo di una Vittoria che incorona un imperatore. La costruzione in mattoni, con malta abbondante, non pone ostacoli ad una datazione nel III sec. suggerita dalla nostra identificazione col ninfeo di Alessandro Severo.

Un ninfeo pubblico di epoca adrianea di più modeste dimensioni si trova lungo il Clivo Argentario sopra le botteghe del Foro di Cesare. La struttura ben conservata consiste in un ambiente di pianta quasi a ferro di cavallo che conteneva una vasca davanti ad una nicchia che ospitava una statua decorativa ora scomparsa.

Mentre i ninfei pubblici superstiti sono pochissimi, molto più comuni sono quelli trovati nei palazzi, nelle ville e nelle case dell'antica città. Essi erano specialmente comuni nei palazzi imperiali sul Palatino. L'esempio più bello era costituito dal complesso noto come i Bagni "di Livia", o "di Tiberio", sotto il posteriore triclinio della Domus Flavia e forse perciò da assegnare alla Domus Transitoria di Nerone. Fu danneggiato da tali costruzioni successive e buona parte della decorazione fu asportata in un infelice scavo del '700. Consisteva in una specie di scenae frons con scaletta di acqua nella nicchia centrale ed una serie di fontanine nelle nicchiette del pulpitum. Ai lati c'erano altri ambienti prospicienti il cortile centrale forniti anch'essi da scalette d'acqua. Il tutto era abbellito da marmi preziosi, alcuni intarsiati, capitelli di bronzo dorato ed una ricca decorazione pittorica sui soffitti.

Nella Domus Aurea di Nerone si sono scoperti due grandi ninfei. Uno che dava sulla grande aula ottagonale era a pianta rettangolare con un'abside leggermente curva contenente l'apertura di una lunghissima scaletta d'acqua. L'altro, scoperto recentemente, dava su un ambiente di raccordo col grande peristilio. Era rettangolare con vòlta a botte e con nicchie nelle tre pareti. I muri erano rivestiti di marmo nella parte inferiore e di mosaico e pietra rustica nel fregio e nella vòlta. Un altro bell'esempio di questo tipo di decorazione si trova in un ninfeo, conservato soltanto a metà a causa della costruzione di via degli Annibaldi che lo taglia; fu creduto anche esso appartenente alle costruzioni della Domus Aurea ma, sia la costruzione sia la decorazione, indicano una data augustea. In pianta consisteva in una profonda esedra curva con delle nicchie. Buona parte dell'esedra era occupata dal bacino.

Anche augusteo o tiberiano è il noto Auditorium di Mecenate che la scoperta di alcuni fori per l'uscita di acqua attorno ai gradini dell'abside ha dimostrato essere ninfeo, almeno nella prima fase. L'ambiente era una grande sala rettangolare con nicchie e con un'abside semicircolare occupata da otto gradinate. La decorazione in pittura del cosiddetto terzo stile pompeiano con scene di giardini nelle nicchie era ancora ben conservata al momento della scoperta nel 1874.

La nota sala decagonale dei Giardini Liciniani, più conosciuta sotto il nome di Tempio di Minerva Medica, era piuttosto una sala per ricevimenti che un ninfeo, sebbene non mancasse qualche elemento decorativo di fontane nelle esedre aggiunte dopo. Ad ogni modo non si può considerare come ninfeo-tipo.

Bibl.: Nymphaeum Iovis: L. Borsari, in Bull. Com., XV, 1887, p. 144 ss. Templum Divi Claudi: A. M. Colini, in Mem. Pont. Acc., VII, 1944, p. 143 ss. Ninfeo di Alessandro Severo: T. L. Donaldson, in Architectura Numismatica, 1859, p. 270 ss.; E. Maass, Die Tagesgötter, Berlino 1902, p. 63 ss. Bagni di Livia: Not. Scavi, 1949, p. 48 ss. Ninfeo sulla sala ottagonale della Domus Aurea: A. Boethius, The Golden House, Ann Arbor 1960. Ninfeo sul peristilio della Domus Aurea: G. Zander, in Boll. del centro di studi per la storia dell'architettura, XII, 1958, p. 47 ss. Auditorium di Mecenate: Bull. Com., III, 1874, p. 137 ss.; H. Thylander, in Acta Archaeologica, IX, 1938, p. 101 ss.; G. E. Nash, Bildlexikon, Tubinga 1961, I, p. 160 ss. Tempio di Minerva Medica: A. Giovannoni, in Annali Soc. Ingegneri e Architetti, 1904, p. 165 ss.; G. Caraffa, La cupola della Sala decagona degli Horti Liciniani. Restauri 1942, Roma 1944.

(N. Neuerburg)

IX. - ACQUEDOTTI E CLOACHE. - 1. Cloaca Massima. - Massimo collettore della città, aveva inizio alle propaggini dell'Esquilino e del Quirinale, dove oggi sorge la chiesa di SS. Quirico e Giulitta, attraversava il Foro di Nerva, entrava nel Foro Romano passando sotto la basilica Emilia (nel punto di incrocio con l'area del Foro sorgeva il Sacello di Venere Cloacina), tagliava la piazza a metà, seguiva poi l'andamento del Vicus Tuscul, si accostava al Campidoglio per riceverne gli scoli, attraversava il Foro Boario e si gettava nel Tevere dove si vede tuttora lo sbocco a valle dell'antico Pons Aemilius (il cosiddetto Ponte Rotto). Al tempo di Plauto era ancora un canale scoperto (cfr. Curculio, v. 476), ma prima della costruzione della basilica Emilia era già coperta a vòlta in quanto sotto la basilica ne è conservato un tratto abbandonato appunto in questo periodo e sostituito da un altro braccio che seguiva il nuovo andamento dell'Argileto riunendosi all'antico sotto il sacello di Venere Cloacina. Convogliavano le proprie acque nella Cloaca Massima il collettore della Suburra, le fogne del Campidoglio, della Velia, del Palatino e in parte quelle dell'Aventino. Opera dell'età già avanzata della Repubblica, lo speco non presenta nè una sezione nè una tecnica uniforme per i molteplici restauri di cui è stato oggetto. Nella prima fase la cloaca era coperta con un arco ad una sola armilla, con conci irregolari di tufo semilitoide, come appare dal tratto venuto alla luce nel Foro Transitorio davanti al basamento del tempio di Minerva. Per il resto era coperta da un arco a tutto sesto con triplice armilla di piccoli blocchi di tufo litoide, di m 4,35 di corda, per una altezza di m 4,50 in chiave; tuttavia essa si restringe sotto l'area del Foro Romano (m 2,10) e della via di S. Giovanni Decollato. In qualche punto l'opera quadrata a conci radiali è sostituita dall'opera cementizia su centina di travi, forse a causa di restauri dovuti alla fondazione di nuovi edifici. Ancora in efficienza da più di venti secoli, essa è ora visibile in un vicolo cieco davanti alla chiesa di S. Giorgio in Velabro e allo sbocco del Tevere.

Bibl.: A. W. Schultz, in Zeitschrift f. Altertumswissenschaft, 1856, p. 9 ss.; E. Brizio, in Bull. Inst. Corr. Arch., 1872, p. 226 ss.; P. Narducci, Sulla fognatura della città di Roma, Roma 1889, p. 39 ss.; R. Lanciani, in Bull. Arch. Com., XVIII, 1890, p. 95 ss.; O. Richter, in Antike Denkmäler d. Inst., 1891, p. 86; A. v. Gerkan, in Festschrift R. Egger, 1952, p. 93.

2. Acquedotti urbani. - Fino al 312 a. C. l'approvvigionamento idrico di R. era dato esclusivamente da pozzi, cisterne e da qualche sorgiva. Appio Claudio il Censore risolse il problema dell'alimentazione idrica urbana costruendo il primo acquedotto, cui ne successero numerosi altri che fecero di R. una città ricchissima di acque. Nonostante la diversità tecnica che i varî acquedotti presentano, il principio informativo è sempre lo stesso: le acque vengono convogliate in cunicoli sotterranei dove il terreno è montuoso, mentre fluiscono in spechi sopraelevati dove il terreno è pianeggiante; alle porte della città si trova il castello distributore che provvede alle varie regioni mentre in ciascun quartiere le fistulae aquariae distribuiscono l'acqua ai diversi edifici pubblici e privati.

Al tempo di Frontino gli acquedotti erano nove, quattro dei quali di età repubblicana:

a) Aqua Appia (Front., v; liv., ix, 29; Diod. Sic., xx, 36). Fu condotta a R. nel 312 a. C. dai censori Appio Claudio e G. Plauzio Venoce da una sorgente presso le cave della Rustica a S della Via Collatina. Del percorso urbano conosciamo quattro punti di riferimento: la Spes Vetus (nei pressi di Porta Maggiore), gli Orti Torquaziani (la zona presso il cosiddetto tempio di Minerva Medica), la Porta Capena e la Porta Raudusculana (nei pressi di piazza Albania).

Tratti rinvenuti: all'altezza del vicolo di Minerva Medica, a m 6,50 di profondità, formato da grossi blocchi di tufo sagomati a cilindro; in via Statilia, vicino al rivus Herculaneus dell'acqua Marcia; a Porta Capena.

Augusto aumentò la portata di questo acquedotto allacciandolo con nuove sorgenti; resti di questa seconda conduttura forse nei pressi dell'Arco di S. Bibiana e presso la Stazione Termini.

b) Anio Vetus (Front., vi; Aur, Vict., Vir. Ill., 43). Nel 272 a. C. i censori Manio Curio Dentato, Lucio Papino e il duumviro Fulvio Flacco allacciavano a R. le sorgenti di S. Cosimato sull'Aniene con una condotta di 63 km. Dalla Spes Vetus l'acquedotto arrivava alla piscina vicino alla Stazione Termini donde un ramo tornava indietro e sboccava presso la Porta Esquilina. Il condotto visto durante alcuni lavori sull'Esquilino era a sezione rettangolare sormontato da un semicerchio (m 1,60 × 0,42) con pareti in opera reticolata. Augusto ne derivò un ramo che giungeva fino a Porta Latina, di cui però è scomparso io sbocco.

c) Aqua Marcia (Front., vii; Mart., vi, 62; Plin., Nat. hist., xxxi, 3; Strab., vi; Cass. Dio, xlix, 42). Acquedotto maggiore di R. con una portata giornaliera di 19.000 m3 di acqua, fu allacciato nel 146 a. C. dal pretore Q. Marcio Re presso il 36° miglio della Via Valeria. Dopo 91 km di percorso extraurbano, dalla Spes Vetus raggiungeva il Viminale e il Campidoglio. Un importante resto del condotto della Marcia fu visto nel 1917 in via Statilia; scavato nel cappellaccio, era rivestito di opera reticolata mentre nel piano di roccia vergine era depositata una gran quantità di calcare. Fra i più importanti restauri sono da ricordare: quello di Augusto attestato dall'iscrizione di Porta Tiburtina, quello di Tito e quello di Caracalla. Delle varie ramificazioni sono da ricordare il rivus Herculaneus e l'Aqua Antoniniana.

Il rivus Herculaneus traeva origine nei pressi di Porta Tiburtina donde con una condotta sotterranea giungeva a Villa Wolkonsky; da qui, divenuto sopraelevato attraversava il Laterano, il Celio e giungeva fino a Porta Capena. Traiano prolungò il rivo sull'Aventino per alimentare le Terme Surane. Lo speco di questa ramificazione era, o fatto di grossi blocchi di tufo sagomati a cilindro, o direttamente scavato nel terreno. La seconda derivazione, l'aqua Antoniniana, fu condotta da Caracalla dal 3° miglio della Tusculana fino alle sue terme. L'avanzo più cospicuo è il cosiddetto Arco di Druso.

d) Aqua Tepula (Front., viii-ix; Plin., Nat. hist., xxxvii, 24). Fu condotta a R. nel 125 a. C. dai censori Gn. Servilio Cepione e Lucio Cassio Longino, da alcune sorgenti ai piedi del Colle Cimino. Fu chiamata così per la sua temperatura elevata. Nella città seguiva il corso della Marcia, correndo ad essa sovrapposta. Nel 33 a. C. Agrippa allacciò alla Tepula le sorgenti della Iulia alterandone il percorso extraurbano.

e) Aqua Iulia (Front., viii-ix; Plin., Nat. hist., xxxvi, 24). Fu condotta a R. nel 33 a. C. dall'edile M. Agrippa, dal Ponte degli Squarciarelli. Al 100 miglio della Via Latina la Tepula e la Iulia si fondevano in un unico speco fino al 6° miglio dove, uscendo da una piscina limaria, le condutture si dividevano nuovamente correndo sovrapposte.

In R. il percorso della Iulia era il medesimo di quello della Marcia fino alla zona compresa tra Porta Collina e Porta Viminale. Le principali ramificazioni erano: quelle che andavano verso la Porta Esquilina e quella che correva verso il Celio, usufruendo degli archi della Marcia. Sembra che tale acquedotto avesse lo sbocco monumentale nel ninfeo detto dei Trofei di Mario dove l'acqua era portata da un canale che correva su archi laterizi, sette dei quali si vedono ancora in piazza G. Pepe.

f) Aqua Virgo (Front., x; Plin., Nat. hist., xxxi, 25; xxxvi, 24; Vitr., viii; Cass. Dio, liv, ii; Sen., Ep., 83). Nel 19 a. C. Agrippa allacciò a R. le sorgenti dell'8° miglio della Via Collatina. Conosciamo benissimo il suo percorso in quanto è il medesimo dell'attuale acqua Vergine che alimenta Fontana di Trevi. Nell'interno della città l'acquedotto attraversava i Monti Parioli, il Pincio ricomparendo a Campo Marzio. Un tratto è ancora visibile in via del Nazareno.

g) Aqua Alsietina (Front., x). Fu condotta nel 2 a. C. da Augusto che l'attinse dal Lago di Martignano. Alquanto malsana servì quasi esclusivamente per la Naumachia di Trastevere e per gli Orti di Cesare.

h) Aqua Claudia (Front., viii-ix; Plin., Nat. hist., xxxvi, 24). Fu iniziato nel 38 d. C. e finito da Claudio nel 52 allacciando due sorgenti, la Cerula e la Curtia, al 38° miglio della Via Sublacense. Tratti che rimangono: quello veramente imponente, lungo più di 10 km dalle Capannelle a R. e quello tra gli Orti Variani e la Porta Maggiore. Le arcuazioni di blocchi di peperino e travertino bugnato mostrano una fodera interna in opera laterizia databile al tempo dei Flavi e dei secondi Antonini. A S di Porta Maggiore si staccava un ramo noto col nome di Arcus Neroniani, che, attraverso il Celio, giungeva all'Aventino, al Palatino e a Trastevere. Tratti ancora visibili: nella Villa Wolkonsky, lungo la via di S. Stefano Rotondo, sulla Piazza della Navicella, lungo la via di SS. Giovanni e Paolo, attraverso la via di S. Gregorio.

i) Anio Novus (Front., viii-ix). Fu condotta da Caligola e da Claudio tra il 38 e il 52 d. C., dal 42° miglio della via Sublacense. Mentre fuori R. l'Anio Novus era ben distinto dall'Aqua Claudia, in città i due acquedotti si fondevano fra loro ed erogavano acqua a tutte le 14 regioni.

A questi acquedotti ricordati da Frontino vanno aggiunti quello traianeo e quello alessandrino.

l) Aqua Traiana. Nel 109 d. C. (cfr. C.I.L., vi, 1360) Traiano volle risolvere l'approvvigionamento idrico di Trastevere portandovi l'acqua da sorgenti nei pressi di Bracciano. Costeggiando la Clodia e l'Aurelia l'acquedotto giungeva in R. presso Porta S. Pancrazio.

m) Aqua Alexandrina. Le sorgenti vanno ricercate nei pressi di Colonna. Il percorso extraurbano si segue facilmente ed è tutto in muratura laterizia molto accurata, a mattoni rossi e sottili. Il percorso urbano invece, dopo Porta Maggiore, è incerto; sappiamo solo che l'acqua era destinata alle Terme Neroniane, ricostruite da Alessandro Severo in Campo Marzio.

Bibl.: C. Fea, Storia delle acque di Roma, Roma 1832; J. H. Parker, The Aqueducts of Ancient Rome, Oxford 1876; R. Lanciani, I Commentari di Frontino, Roma 1880; E. B. van Deman, The Building of the Roman Aqueducts, Washington 1934; Th. Ashby, The Aqueducts of Ancient Rome, Oxford 1935; A. M. Colini, in Bull. Com., LXVI, 1938, p. 244 ss.

(A. M. Sagripanti)

D) MONUMENTI SINGOLI (in ordine alfabetico):

1. Ara Pacis, v. vol. i, p. 523 55.

2. Ara Pietatis Augustae, v. vol. i, p. 528.

3. Basilica di Giunio Basso, v. vol. iii, p. 928 ss., s. v. fgiunio basso.

4. Colonne Coclidi, v. vol. ii, p. 754 ss.

5. Colosseo, v. sopra, Sez. C, vii, a.

6. Domus Aurea. - Sontuosa residenza costruita dall'imperatore Nerone dopo il grande incendio del 64 d. C. Fu rapidamente smembrata dai successori di Nerone e gli ultimi resti importanti scomparvero per far posto alle Terme di Traiano. I principali resti sono quelli del complesso residenziale più importante sulle pendici S del Colle Oppio.

Sia nella concezione generale che nei dettagli la Domus Aurea fu il frutto dell'esperienza acquisita nei primi tentativi architettonici di Nerone, la Domus Transitoria e le ville di Anzio e Subiaco. La prima, ancora in costruzione quando fu distrutta dall'incendio, fu progettata per unire la residenza imperiale preesistente sul Palatino con le numerose proprietà private che, per eredità o confisca, Nerone ed i suoi predecessori avevano acquisito sulle colline a N e N-E del Foro. Molte di queste ultime erano horti in cui, come nelle ricche ville del Rinascimento, architettura e studio della disposizione del giardino erano combinati per creare dentro la città un ambiente di rusticità sofisticata. Questa architettura era fortemente influenzata da quella delle ville sparse sulla riva del mare lungo le coste del Lazio e della Campania; e a Subiaco gli architetti di Nerone avevano ulteriormente sviluppato l'idea, creando un ambiente artificiale con la costruzione di una diga sul fiume Aniene per formare un lago. Nonostante le molte novità tecniche di dettaglio, lo schema della Domus Aurea era abbastanza comune: quello che impressionò e stupì l'opinione contemporanea non fu il lusso e la stravaganza, ma la collocazione di un enorme parco pubblico nel cuore di una città operosa e sovraffollata.

Sembra che i suoi confini coincidessero molto da vicino con quelli del bacino naturale tra l'Esquilino, il Celio e il Palatino, seguendo approssimativamente la linea delle mura e delle moderne vie Merulana e Giovanni Lanza, per racchiudere un'area di quasi 100 ettari. All'estremità S incideva il tempio incompiuto del Divo Claudio che era stato in parte demolito; ad E si univa con gli Horti Maecenatis, che erano già proprietà imperiale; e a N confinava, senza includerla, con la Suburra. Al centro era un lago artificiale (stagnum) nel luogo usato più tardi da Vespasiano per il Colosseo; il complesso residenziale guardava attraverso il lago verso il tempio di Claudio; e l'intera area tra l'ala residenziale e il Foro Romano fu trasformata in accesso monumentale e vestibolo. La pianta fu disegnata come quella di una villa di campagna, con edifici termali, portici, ninfei, tempietti e altre caratteristiche architettoniche di valore puramente scenografico. Seneca e Svetonio sottolineano entrambi l'ingegnosità delle applicazioni meccaniche ideate dagli architetti, Severus e Celer, tra cui soffitti che spargevano fiori e profumi, e una grande cenatio con una vòlta o soffitto girevole, che si ritiene avesse carattere astrologico. A parte l'edificio residenziale e le sostruzioni sulla Velia, poco di tutto ciò rimane: il ninfeo costruito a ridosso della platea del tempio di Claudio e l'acquedotto, gli Arcus Neroniani, che lo serviva; e sul Palatino un criptoportico lungo il fianco E della Domus Tiberiana e le sostruzioni curvilinee di due piccoli edifici sotto il palazzo flavio. Uno di questi ultimi fu costruito sopra i resti sepolti di un ninfeo della Domus Transitoria, i marmi e i dipinti murali del quale lasciano intravvedere la ricchezza e la raffinatezza del gusto decorativo neroniano.

L'edificio residenziale, preservato dal caso per essere stato incorporato nelle fondazioni delle Terme di Traiano, consisteva principalmente di una serie di grandi stanze rettangolari che si aprivano su una facciata porticata, divisa in due ali da un profondo cortile a forma di tre lati di un esagono irregolare. Soltanto un alto e stretto criptoportico di servizio separava le stanze dell'ala E dal ripido fianco della collina su cui era terrazzata. Dalla parte dell'ala O il pendio era più lieve e qui una seconda serie di stanze, costruita con la parete di fondo in comune con la prima, si apriva su un cortile interno porticato, dominato da una grande diaeta posta al suo termine orientale. La facciata principale guardava su una terrazza, presumibilmente aperta, che offriva la vista del lago e della valle sottostante. Le principali novità dell'edificio erano il cortile esagonale al centro della facciata (una caratteristica derivata dall'organizzazione più scenica e più sciolta delle ville marittime) e il salone con fontana, ottagonale e con cupola, nel mezzo dell'ala E. La loro introduzione creò problemi di progettazione che gli architetti fecero poco per risolvere, ma specialmente il salone con il suo ambulacro interno illuminato obliquamente dall'alto e con aperture che si irradiano da cinque lati dell'ottagono, e un'innovazione molto significativa, perché è la prima volta che la nuova architettura dello spazio internò, basata sullo sfruttamento delle proprietà dell'opera cementizia romana, fa la sua apparizione in un simile contesto. Il punto centrale dell'intero edificio era il grande salone quadrato che si apriva sull'asse del cortile centrale, la cosiddetta Sala della Volta Dorata.

Ad eccezione dei dipinti veramente di second'ordine del criptoportico di servizio, la decorazione rimasta dell'edificio residenziale è ora una pallida ombra di ciò che era quando "le grotte" del colle Oppio cominciarono ad essere esplorate verso la fine del XV secolo. L'edificio era stato nell'antichità completamente spogliato dei suoi marmi e altri preziosi materiali, ma quando fu esplorato per la prima volta molti dipinti e stucchi delle vòlte erano ancora ben conservati e servirono infatti di ispirazione alle "grottesche" che rappresentarono una parte così ampia nel repertorio decorativo di R., dal tempo di Raffaello in poi (Giovanni da Udine, gli Zuccari, ecc.). Gli schemi dei dipinti murali così indirettamente conosciuti sono essenzialmente quelli del IV stile pompeiano, ma le vòlte posero problemi che erano relativamente nuovi per Pompei. Da un lato ripetevano disegni, simili a carta da parati, di un tipo che solo eccezionalmente raggiunse la Campania prima del 79 (per esempio poco prima a Stabia). D'altra parte vi sono i precursori della tradizione romana del II sec., come è rappresentata nella Villa Adriana: schemi decorativi elaboratamente suddivisi in cui bordi di stucco modellato formano una cornice geometrica per pannelli dipinti, alcuni di carattere puramente convenzionale (paesaggi, grottesche, ecc.), altri che rappresentano ben note scene mitologiche. Fu senza dubbio in queste ultime che il pittore Famulus (o Fabullus) concentrò il lavoro di tutta la sua vita (Plin., Nat. hist., xxxv, 120). Caratteristica di entrambi i tipi è l'uso abbondante di materiali incastonati (paste vitree, pietre semipreziose, ecc.). La concezione d'insieme era di una ricchezza straordinaria, ma molti particolari erano ugualmente finissimi. La combinazione di opulenza e raffinatezza sofisticata è invero il marchio del gusto decorativo neroniano.

Degli edifici sulla Velia è rimasto molto poco. Sulle pendici O, che salgono dal Foro Romano, la Via Sacra fu riallineata per formare un viale di accesso monumentale, fiancheggiato da molteplici portici paralleli con archi. L'entrata vera e propria comprendeva la facciata dorata da cui l'edificio prese il nome e deve essere stata situata approssimativamente sul luogo della facciata della chiesa di S. Francesca Romana. Si apriva su un vestibolo, al centro del quale era un grande cortile porticato (atrium) dove si trovava il Colossus Neronis, una gigantesca statua dell'imperatore in bronzo dorato, alta 30 m, trasformata in seguito da Vespasiano in una statua del Sole. Il vestibolo stesso fu sostituito più tardi dal tempio di Venere e Roma, ma il Colossus fu conservato, perché Adriano lo spostò e lo pose più vicino al Colosseo. I principali resti neroniani ancora visibili, incorporati nella platea del tempio di Adriano, sono quelli di alcune delle sostruzioni del vestibolo e una parte piccola ma ben conservata di uno degli edifici della Domus Transitoria. Questa parte consiste di corridoi con vòlta a botte, che si intersecano ad angolo retto in una camera circolare centrale, che aveva probabilmente una cupola. I corridoi erano suddivisi da pareti trasversali, vi erano bacini di marmo bianco nei pavimenti, i muri erano coperti da pannelli di marmi preziosi, le vòlte erano decorate con mosaici e il pavimento con un elaborato opus sectile di marmo e pasta di vetro colorato: un interessante anticipo del gusto per le concezioni spaziali e i profusi ornamenti nella stessa Domus Aurea.

Bibl.: F. Weege, in Jahrbuch, XXVIII, 1913, p. 127 ss. (con bibl. degli album e delle pubblicazioni più antiche, p. 151 ss.); E. B. Van Deman, in Am. Journ. Arch., XXVII, 1923, p. 383 ss.; id., in Mem. Am. Acad., V, 1925, p. 115 ss. (edifici sulla Velia); G. Giovannoni, in Atti I Congr. Stor. Architettura, 1938, p. i ss. (il salone ottagonale); M. Barosso, ibid., 1940, p. 75 ss. (resti della Domus Transitoria sotto il tempio di Venere e Roma); H. P. L'Orange, in Symbolae Osloenses, Suppl. II, 1942, p. 68 ss. (interpreta la Domus Aurea come residenza simbolica di Nerone-Helios, una tesi che non è stata generalmente accettata); G. Carettoni, in Not. Scavi, 1949, p. i ss. (ninfeo della Domus Transitoria sul Palatino); C. C. Van Essen, Mededeeling Nederl. Akad., 1954, p. 371 ss.; J. B. Ward Perkins, in Antiquity, XXX, 1956, p. 209 ss.; G. Lander, in Boll. Centr. Studi Architettura, XII, 1958, p. 47 ss.; A. Boethius, The Golden House, Ann Arbor 1960, p. 94 ss.

(J. B. Ward Perkins)

7. Mausoleo di Adriano. - Fu iniziato nel 130 d. C., al di là del Tevere, negli orti di Domiziano e fu collegato al Campo Marzio mediante il Pons Aelius. Nel 138 ancora non era ultimato, tanto che Adriano fu sepolto provvisoriamente nei pressi di Pozzuoli (cfr. Hist. Aug., Hadr., 25, 7; Ant. Pius, 5, 1, 8, 2). Il monumento consta di due parti distinte, un nucleo centrale cilindrico (diametro m 64, altezza m 21) e un basamento quadrato (m 89 di lato) che fascia il corpo circolare senza mostrare alcun legamento con esso nelle fondazioni. Tra il perimetro del plinto quadrato e la parete circolare molteplici muri radiali formano 67 camere, diverse fra loro per dimensioni ma tutte uguali per altezza (m 8 in chiave) e coperte con vòlta a botte, superiormente spianate in quattro grandi terrazze. Nella costruzione centrale, attraverso un dròmos, coperto da una vòlta a tutto sesto poggiante su pareti di blocchi di travertino, si giunge in un vestibolo quadrato con una abside di fondo per una statua, una nicchia sulla sinistra e sulla destra l'accesso ad una galleria elicoidale, rivestita di un'accurata cortina laterizia, che salendo di 12 m di livello imbocca un corridoio che conduce alla cella funeraria. Di pianta quadrata (m 8× 8) essa ha due nicchie laterali e una frontale; profonda m 1,60, è illuminata da due finestre oblique e mostra tracce di un antico rivestimento marmoreo.

Sopra la cella ve ne è un'altra più bassa, coperta con vòlta a botte e su questa ancora una terza circolare molto alta, coperta con vòlta emisferica. Queste concamerazioni costituivano un alto podio terminale su cui insisteva una statua o un gruppo statuario. All'intorno era stato fatto un tumulo di terra su cui erano piantati i cipressi. Esternamente il tamburo cilindrico era rivestito di travertino e marmo e sopra l'attico una serie di statue formava una specie di merlatura (cfr. Procop., De bello Goth., 1, 22). Il plinto quadrato, aggiunto forse da Antonino Pio, era ugualmente rivestito di marmo e, sulla parete che guarda il Tevere, recava incise le iscrizioni funerarie (C.I.L., vi, 984-996); sull'epistilio correva un fregio di bucrani e festoni. Sugli angoli del basamento erano gruppi statuarî in bronzo (cfr. Procopio, op. cit.). Una grande cancellata metallica, di cui si sono trovate le fondazioni nel 1891-92, circondava tutto il monumento. Il mausoleo si inserisce nello schema tradizionale del tumulo, largamente diffuso dal tempo di Augusto in poi.

Bibl.: E. Rodocanachi, Le château Saint-Ange, Parigi 1909; M. Borgatti, Il Mausoleo di Adriano, Roma 1929; S. Q. Pierce, in Journ. Hell. Stud., 1925, p. 75 ss.; D. E. Strong, in Papers British School at Rome, 1953, p. 129 ss.

(A. M. Sagripanti)

8. Mausoleo di Augusto, v. vol. i, p. 916 ss., s. v. augusteo.

9. Obelischi, v. vol. v, p. 617 s5., s. v.

10. Pantheon. - Tempio, nel Campo Marzio centrale, così chiamato perché dedicato a tutti gli dèi (ma in particolare a Marte e a Venere), oppure nel senso di "tutto divino, santissimo"; fu costruito da Agrippa nel 27 a. C. (secondo l'iscrizione sul fregio del pronao) o nel 25 (Cass., Dio, liii, 27). Nel suo pronao erano statue di Augusto e di Agrippa; la decorazione (capitelli con Cariatidi) era opera di Diogenes di Atene. L'edificio bruciò nell'80; restaurato da Domiziano, andò nuovamente bruciato sotto Traiano e fu quindi interamente rifatto da Adriano, e a quest'epoca appartiene l'edificio attuale, come è ampiamente mostrato dai bolli laterizi; di entità trascurabile sono i restauri di Settimio Severo e Caracalla ricordati dalla seconda iscrizione del pronao.

L'edificio è costituito da un'aula circolare preceduta, a N, da un pronao ottastilo, cui è collegata mediante un avancorpo.

La fondazione della rotonda è costituita da un anello di muratura, alto m 4,50 e largo m 7,30 circa, formato di strati orizzontali di scaglie di travertino annegate in una malta tenacissima di calce e pozzolana, rivestito all'esterno in laterizio con paramento di semilateres. L'avancorpo è fondato su una platea, eseguita con la medesima tecnica, ma addossata all'anello della rotonda; il che permette di stabilire che tale parte dell'edificio fu innalzata materialmente in un secondo tempo rispetto al corpo cilindrico, ma che essa nacque con il medesimo atto creativo. La fila esterna delle colonne del portico sorge invece su blocchi di travertino (che taluni vogliono identificare come un resto delle fabbriche augustee).

Le murature della rotonda dal pavimento alla prima cornice, per un'altezza di m 12,50, sono formate da un nucleo composto a strati alternati di scaglie di travertino e di tufo allettate con malta fina, rivestito da laterizio minuto con paramento di semilateres dello spessore di m 0,60, e sono divise orizzontalmente da ricorsi regolari di bipedali alla distanza di circa m 1,20. Dalla prima cornice all'imposta della vòlta, per un'altezza di m 9,50, il nucleo è composto di strati alternati di tufo minuto e di frammenti di laterizio, disposti regolarmente in letti di malta, ed è pure rivestito di semilateres con ricorsi di bipedali.

La cupola, impostata sull'ultimo cornicione interno, è stata costruita su un'armatura emisferica di eccezionale solidità, che portava le forme dei lacunari.

La muratura è sempre tessuta a corsi orizzontali ed è così costituita: dall'imposta, per un'altezza di m 11,75, da laterizio minuto con ricorsi di bipedali; per i seguenti m 2,25 da tufo e laterizio a corsi alternati, con due spianamenti di bipedali ravvicinati; per la parte rimanente da tufo e scoria vulcanica leggerissima, sempre a ricorsi alternati. L'apertura circolare in chiave è formata da un grande anello (diametro di circa m 9) di bipedali legati, disposti a piattabande; la tessitura orizzontale richiede, per ragioni tecniche, che la costruzione dell'anello sia anteriore a quella dell'ultima parte della cupola.

La cupola è rivestita all'esterno prima da semilateres disposti a squame, poi da uno strato di opus signinum che ne costituisce lo strato impermeabile, ed infine da lastre di piombo di età posteriore con varî stemmi papali. Il peso della cupola è ripartito sugli otto grandi piloni, vuoti all'interno, mediante robuste vòlte di scarico in bipedali, sovrastanti le nicchie e che si estendono per tutto lo spessore dell'anello perimetrale. Il diametro interno della cupola è uguale all'altezza totale dal pavimento, e misura m 43,30. La configurazione delle pareti perimetrali è in stretta dipendenza del sistema costruttivo: le tradizionali nicchie alternatamente rettangolari e curve muovono le masse; l'attico prepara lo slancio prospettico dei lacunari.

Il portico ha sedici colonne monolitiche di granito rosa e grigio, con base e capitelli di marmo; le tre colonne a sinistra crollarono e furono rialzate una da Urbano VIII, le altre da Alessandro VII.

Forti lesioni si dovettero verificare dopo la demolizione delle poderose armature che avevano servito per la costruzione della vòlta, dalle fondazioni sino quasi alla sommità della rotonda. Si resero così necessarie complesse opere di consolidamento, consistenti in rinfianchi alle fondazioni e alla cupola, in fasciamenti e speronature del corpo anulare, maggiori verso il Tevere e in corrispondenza dell'ingresso e del nicchione principale.

Dal 609, il Pantheon divenuto chiesa cristiana, S. Maria ad Martyres, subì varie mutilazioni per l'adattamento al nuovo culto: lo scavo di corridoi e cappelle nei piloni, e cioè nei punti staticamente più delicati, la trasformazione delle nicchie, più tardi la sistemazione di sepolture, come quella di Raffaello e di varî altri artisti, le asportazioni degli ornati in bronzo, soprattutto ad opera di Urbano VIII (motivo alla nota pasquinata - quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini -), la distruzione dei marmi policromi dell'attico compiuta dal Posi nel 1747, l'addossamento di case, l'installazione di forni, i tagli enormi di murature per la costruzione dei campanili del Bernini, (le "orecchie d'asino" che Guido Baccelli fece demolire nel 1883), l'asportazione delle opere di rinforzo non credute tali e soprattutto l'azione edace del tempo non sono riusciti però né a menomare la stabilità né a turbare l'armoniosa grandiosità dell'edificio.

Per il Pantheon è stato sempre vivissimo l'interessamento degli artisti e degli studiosi. Tra i primi sono da menzionare quei maestri del Rinascimento, come Raffaello, i Sangallo, il Dosio, il Palladio, che ce ne hanno lasciato interessanti schizzi ed interpretazioni grafiche del sistema costruttivo.

Nella storia dell'architettura templare il Pantheon non ha precedenti; diverso è infatti il periptero circolare di derivazione ellenistica, il cui punto di vista è essenzialmente esterno; la rotonda del Pantheon era invece in gran parte non visibile dall'esterno, essendo circondata da altri edifici (Saepta, basilica Neptuni): l'edificio tende, secondo la concezione romana, a creare uno spazio interno, e l'unico ambiente, vastissimo, interamente impostato sulla linea curva (tamburo e cupola) è certamente il più atto a realizzare un insieme finito, non lasciando alcuna illusione di prospettive non chiuse. La presentazione esterna dell'edificio era solo nel grandioso pronao ottastilo, non dissimile da quello dei templi a pianta rettangolare. Un tale edificio fu reso possibile dalla perfezione tecnica dell'opera laterizia e dell'opera cementicia e dalla esperienza architettonica degli edifici circolari, specie termali, che in quell'epoca si andava sempre più arricchendo; esso è il punto di partenza per successive articolazioni delle masse, che culmineranno quando nel tardo Impero e poi nel mondo bizantino la cupola, liberata dal suo rinfianco esterno poggerà su sostegni isolati distinti dall'anello perimetrale.

Bibl.: R. Lanciani, Il Pantheon e le Terme di Agrippa, in Not. Scavi, 1881, p. 255 ss.; 1882, p. 340 ss.; L. Beltrami, Il Pantheon, Milano 1898; A. M. Colini-I. Gismondi, Contributi allo studio del Pantheon. La parte frontale dell'avancorpo e la data del portico, in Bull. Com., LIV, 1926, pp. 67 ss.; K. Ziegler, in Pauly-Wissowa, XVIII, 1949, c. 729 ss., s. v. Pantheion, IV; R. Vighi, Il Pantheon, Roma 1959.

(A. Terenzio)

11. Pasquino, v. vol. v, p. 985.

E) NECROPOLI E SEPOLCRI NELL'AREA URBANA. - 1. Notizie generali. - Le sepolture singole e collettive dell'antica R. furono regolate da speciali disposizioni di legge. La tavola x, 1 delle Dodici Tavole prescrive, come è noto, che hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito, dove si nota anzitutto che la proibizione comprende ambedue i modi della inumazione e della cremazione, allora (metà del V sec. a. C.) coesistenti. Sembra che il motivo determinante di questa disposizione decemvirale sia stato di carattere puramente religioso. La legge decemvirale d'altronde non abrogò i diritti acquisiti da alcune famiglie di inumare i loro morti in città, come i Poplicolae e i Tuberti (Cic., De leg., ii, 23, 58), né il diritto consimile delle Vestali quia legibus non tenentur (Serv., Ad Aen., xi, 206), né tolse via l'uso delle sepolture sotto la tettoia della casa (subgrundarium: Fulgent., Serm. ant., 560, 13) dei neonati morti prima di raggiungere i quaranta giorni.

La proibizione di inumare e cremare i defunti entro la città, salvo alcune eccezioni, fu confermata a più riprese dalla legislazione romana e fu sanzionata con pene varie per coloro che ne facessero infrazione (C.I.L.; ii, 5439, col. 73; Ulp., 25, ad Ed. Dig., xlvii, 12, 3, 5).

Nell'età più antica, sia per tradizione italica che per influenza etrusca, anche R. ebbe le sue vere e proprie necropoli nettamente separate dall'abitato cittadino, come ad esempio quelle del Foro e dell'Esquilino, pur tollerando sepolture familiari nell'interno dell'abitato, e addirittura nelle case medesime (ma dovettero essere casi piuttosto rarî); la promulgazione della legge decemvirale a metà del sec. V non fece dunque, in fondo, che sanzionare uno stato di fatto, anche accettando le poche eccezioni esistenti.

In età più recente, le sepolture romane si andarono disponendo ai due lati delle vie di accesso alla città. Il luogo nel quale si seppelliva era per eccellenza locus religiosus.

Questa disposizione "viaria" non è una esclusività dei Romani, ma dai Romani fu adottata e ampliata nel modo più grandioso talora per miglia e miglia (v. appia, via). Le testimonianze più antiche di questa disposizione non sembrano risalire oltre il III sec. a. C., ma non è escluso che la consuetudine esistesse da prima. Certo è che questi sepolcri che, senza particolare distinzione, si mescolano, sia quanto ai diversi riti della cremazione e della incinerazione, sia quanto alla loro sontuosità o povertà per la maggior parte, cominciano ad apparire con il I sec. a. C. e continuano per tutta l'età imperiale. Si intende che le sepolture non sono soltanto allineate al di qua e al di là dalla strada in due file che si fronteggiano, occupando solamente il terreno necessario a ciascuna di esse, ma possono anche estendersi, e talora considerevolmente all'interno, costituendo cosi fasce di sepolcri abbastanza profonde. Ma sono soprattutto le sepolture di facciata che dànno alla strada romana, alla periferia di R., un inconfondibile carattere proprio, orlandola di costruzioni dei tipi più svariati fino a serrarla da ambo i lati come una via cittadina.

(F. Magi)

2. Le sepolture. - Le sepolture qui di seguito elencate sono le più notevoli che si siano ritrovate in R. e sue immediate adiacenze, o di cui si abbia memoria nelle fonti. Per i sepolcreti più antichi v. sez. IV (Foro Romano). Per la necropoli arcaica dell'Esquilino, v. sez. I, I.

a) III e II sec. a. G. - Sepolcro del collegio dei Tibicini. Fu scoperto sull'Esquilino, presso S. Eusebio, negli anni 1875-76, insieme ad altri piccoli sepolcreti di carattere assai antico, conservanti sulle pareti avanzi di pitture di soggetto storico. Dal sepolcro dei Tibicini proviene forse, conservato nel Museo Nuovo Capitolino, il famoso dipinto con l'incontro di Marco Fannio e Quinto Fabio, seguiti dai rispettivi eserciti dinanzi alle porte di una città, probabile copia eseguita nel sec. III della pittura di Q. Fabio Pittore nel tempio della Salute.

Sepolcro degli Scipioni. Noto sepolcro della celebre famiglia romana degli ultimi secoli della Repubblica. Fu scoperto sull'Appia fin dal 1614 quando venne alla luce l'iscrizione di Lucio Scipione, figlio di L. Scipione Cornelio Barbato (C.I.L., vi, 1287). Caduto in abbandono fu nuovamente scoperto dal 1780 al 1783 e infine sistemato nel 1926-29. È tagliato nella roccia, ed ha pianta rettangolare con due pilastri nel mezzo, i loculi per i sarcofagi sono ricavati nelle pareti; nel II sec. a. C. fu aggiunta una galleria più piccola. La facciata principale sull'Appia è completamente scomparsa. Qui secondo la testimonianza di Livio (xxxviii, 56) dovevano trovarsi le statue dei due Scipioni e del poeta Ennio. Resta invece parte di una fronte laterale. In basso è un alto podio, che fu almeno per tre volte dipinto (la seconda con una scena storica), nel quale si apre un ingresso a forma di fornice. Sopra la cornice del podio è una base di semicolonna di peperino su di un fondo bugnato (ricostruzione di E. Q. Visconti, Monumenti degli Scipioni, 1785). I membri della famiglia furono sepolti in sarcofagi, di cui si conserva un buon numero; il più ornato e famoso è quello di Scipione Barbato, console nel 298 a. C. (portato al Vaticano insieme a varie iscrizioni; in situ sono le copie). Per le iscrizioni v. G.I.L., vi, 1284-94. Sulla facciata sull'Appia si sovrappose, nel sec. III d. C., una casa.

Sepolcro di Scipione (l'Africano): v. oltre Meta Romuli; la tomba si chiamò fino al 1000 Sepulcrum Scipionis (Africani) per il fatto che nel commento di Arrone agli Epodi di Orazio (ix, 25), si afferma che le ceneri del grande generale sarebbero state tolte dalla piramide del Vaticano e deposte nel porto che prospettava Cartagine.

Bibl.: G. Lugli, I monumenti antichi di Roma e Suburbio, Roma 1930-1938, p. 678.

Sepolcro di Cecilio Stazio. La tomba del poeta del Il sec. a. C. sarebbe stata presso il Gianicolo (Suet., Reliq., ed. Reiffers, 26).

Sepolcro di Ser. Sulpicio Galba. Scoperto nel 1885 in via Giovanni Branca fra la Porticus Aemilia e gli Horrea Galbae, dove esso già appariva in un frammento della Forma Urbis. I resti della tomba, quadrangolare su podio, costruita in blocchi di tufo di Monteverde, con cornice di base e iscrizioni di travertino, sono stati ricomposti nell'Antiquario Comunale. L'iscrizione al centro dà il nome di Sergio Sulpicio Galba, console nel 109 a. C., ed è fiancheggiata da ambo le parti da cinque fasci littori scolpiti sui blocchi di tufo.

b) I sec. a. C. ed età augustea. - Sepolcro di Bibulo. Ai piedi del Vittoriano in piazza Venezia rimane un cospicuo avanzo della nota tomba di G. Poplicio Bibulo, a lui eretta dal Senato honoris virtutisque caussa (C.I.L., vi, 1319, 31599). Si trovava all'esterno delle mura serviane sulla strada che dalla Porta Fontinale conduceva alla via Flaminia. L'opera, di travertino, della prima metà del I sec. a. C., si eleva su alto podio (m 4,75) (scavato nel 1907) e doveva avere la forma di un tempietto. L'apertura al centro della facciata di S-O, si è supposto che avesse funzione di nicchia per la statua del defunto.

Sepolcro di Aulo Irzio. Scoperto nel 1938 sotto il Palazzo della Cancelleria. È un recinto quadrato (m 6 × 6) (tagliato dalle fondazioni del muro perimetrale del palazzo) in opera laterizia, con base di peperino e copertura di travertino a doppio spiovente. Agli angoli sono inseriti cippi con la scritta (meno in uno): A. Hirtius A. f. Il console Irzio cadde col collega Gaio Vibio Pansa Cetroniano nella battaglia di Modena nel 43 a. C. Per la loro fine eroica furono eccezionalmente sepolti in Campo Marzio.

Sepolcro di Giulia. La tomba di Giulia, figlia di Cesare e sposa di Pompeo, costruita eccezionalmente in Campo Marzio, pare che abbia servito ad accogliere anche le ceneri del padre.

Sepolcro affrescato in piazza di Porta Maggiore. Fu rinvenuto nello stesso tempo in cui si rinvenne il sepolcro degli Statilii, e prossimo ad esso. È un piccolo colombario (m 2,90 × 1,95; altezza m 4,20) specialmente importante per l'abbondante decorazione pittorica che ne orna le pareti (distaccata e trasportata nel Museo Nazionale Romano). Il fregio, dipinto in età augustea, presenta infatti illustrazioni dell'Eneide e della più antica storia di Roma. Esso era a metà altezza delle pareti. Al disopra e nella vòlta erano altre pitture degli inizî del sec. III d. C.

Sepolcro di G. Cestio. È il sepolcro più monumentale di R. dopo l'Augusteo e la Mole Adriana, e certamente il meglio conservato. Sorge sulla via Ostiense, subito a destra fuori della porta. Gaio Cestio, pretore, tribuno della plebe e settemviro degli epuloni, come dice l'iscrizione incisa (C.I.L., vi, 1374), è un contemporaneo di Augusto, morto prima del 12 a. C., e cioè prima della morte di Agrippa; infatti su due basi di statue rinvenute nel 1662 davanti al monumento, si trova fra i nomi dei suoi eredi quello di Marco Agrippa. D'altra parte il sepolcro, che ha forma di piramide rivestita di blocchi di marmo (misura alla base m 29,50 ed è alta m 36,40) è una tipica testimonianza della moda egittizzante entrata in R. dopo la conquista dell'Egitto (30 a. C.). Agli spigoli erano quattro basi per colonne, oltre a quelle sopra menzionate per le statue. La cella, cui si perviene da un lungo corridoio dal fianco di N-O, è rettangolare e ornata di pitture.

Meta Romuli. Monumento sepolcrale a forma di piramide nei pressi della chiesa di S. Maria in Traspontina in via della Conciliazione. Distrutto in parte nel 1499, quando Alessandro VI costruì il Borgo Nuovo; definitivamente nel 1518. Molto simile alla piramide di Cestio, come appare da raffigurazioni medievali e rinascimentali, fu come quella un prodotto della moda egittizzante seguita alla conquista dell'Egitto, e probabilmente anche coevo. Il nome medievale che la piramide di Cestio ebbe nel Medioevo di meta Remi sembra che abbia procurato al monumento similare quella di meta Romuli (all'inizio del Rinascimento fu anche chiamato Sepulcrum Scipionis). Le fondazioni furono rinvenute da G. Gatti nel 1948.

Bibl.: Platner-Ashby, Topographical Dictionary, Londra 1929, p. 340; G. Gatti, in Bull. Com., LXXIII, 1949-50, appendice, p. 107.

Sepolcro di G. Sulpicio Platorino. Fu scoperto in occasione della costruzione dei muraglioni del Tevere nel 1880, sulla sponda destra, fra il Ponte di Agrippa e le mura aureliane che lo avevano ricoperto assicurando la conservazione delle urne e statue ivi contenute. Non potendosi conservare in situ fu, nel 1911, ricostruito nel Museo Nazionale Romano. È un edificio rettangolare (m 7,12 × 7,44) con facciata a O, in travertino all'esterno, su stilobate pure di travertino; all'interno (pavimento a mosaico) si rinvennero due statue e un busto, oltre ad urne con iscrizione. La scritta esterna (C.I.L., vi, 31761) indica come proprietario G. Sulpicio Platorino, che fu triumviro monetale nel 18 a. C. Le iscrizioni interne (C.I.L., vi, 31762-31768 a) si stendono dall'età di Augusto ai Flavi.

Colombarî di Vigna Codini. Sono tre colombarî di liberti della dinastia dei Giulio-Claudi situati nella zona compresa fra la via Appia e la via Latina e limitata a S dalle mura aureliane, scoperti tra il 1840 (il primo) e il 1852 (il terzo; il secondo nel 1847). Fra i meglio conservati monumenti funerarî di questo genere, constano di grandi vani nelle cui pareti si aprono centinaia di nicchie per i cinerari e anche per urne o ritratti marmorei. Frequenti le iscrizioni e presente anche una discreta decorazione pittorica. Il secondo colombario contiene in numero prevalente i cinerari dei liberti di Marcella, prima moglie di Agrippa, e della sua figliola Marcella iunior.

c) I sec. d. C. - Sepolcro degli Ottavi. Colombario nella Villa Wolkonsky lungo la antica via Celimontana, comprendente anche le tombe dei servi e liberti (cfr. il Sepolcro di Ti. Claudio Vitale).

Sepolcro dei Tulli. Colombario nella Villa Wolkonsky, lungo la antica via Celimontana, comprendente anche le tombe dei servi e liberti (cfr. il Sepolcro di Ti. Claudio Vitale).

Sepolcro di Ti. Claudio Vitale. È un colombario scoperto nel 1866 nella Villa Wolkonsky, su di una antica strada parallela agli archi celimontani dell'Acqua Claudia, costruito per un Tiberio Claudio Vitale, intorno al 50 d. C., dai suoi familiari, fra i quali sono qualificati due architetti (C.I.L., vi, 9151). Ottimo lo stato di conservazione della costruzione che ha tre piani, di cui l'inferiore ipogeo. Il pavimento della camera mediana è a mosaico bianco e nero con disegni che ricordano la professione dell'architetto. La facciata è in laterizio con una cornice in alto; l'iscrizione marmorea è inserita sotto la cornice al centro; la porta è spostata sulla sinistra.

Sepolcro dei Calpurnî (Calpurnii Pisones). Scoperto nel 1855 nella Villa Bonaparte sul lato E della via Salaria, a circa 100 m a S della Porta Salaria. Vi furono rinvenute urne e iscrizioni.

Sepolcro dei Domizi. La tomba della famiglia dei Domizi era sul Pincio probabilmente negli horti appartenenti ai Domizi sul pendio N-O della collina. Vi fu sepolto Nerone in un sarcofago di porfido con sopra un altare di marmo lunense, il tutto rinchiuso da una balaustra di marmo di Taso. Nel Medioevo si credette che la tomba dell'esecrato imperatore fosse invece ai piedi della collina, e così nacque una cappella per esorcizzare lo spirito diabolico (1099), che poi divenne la chiesa di S. Maria del Popolo.

Terebinthus, o Tiburtinus Neronis. Sorgeva tra la Meta Romuli e il Mausoleo di Adriano. Menzionato nei documenti medievali e più volte raffigurato come un edificio rotondo costituito di due parti: l'una, di minore circonferenza, sovrapposta all'altra. Pietro Mallio lo dice: aedificium rotundum cum duobus gironibus sicut castrum; i Mirabilia ci informano che era tantae altitudinis quantum Castellum Hadriani, e che era miro lapide tabulatum. Da ciò si deduce che dovette essere una grande tomba circolare rivestita di lastre di travertino (terebinthus può essere corruzione di tiburtinus). Le sue fondazioni circolari furono recentemente ritrovate dal Gatti presso quelle della Meta Romuli in via della Conciliazione.

Bibl.: B. M. Apollonj-Ghetti, A. Ferrua, E. Josi, E. Kirschbaum, Esplorazioni sotto la Confessione di S. Pietro in Vaticano, Città del Vaticano 1951, p. 17 ss.

Sepolcro di Q. Sulpicio Massimo. Fu rinvenuto nel 1871 sotto la torre orientale della Porta Salaria, a sinistra della Porta del Vespignani; abolita la porta fu trasferito a E della nuova grande apertura nelle mura. Di pianta quadrangolare, su basamento, è costruito in tufo e travertino (di questa pietra sono le parti decorative: cornice di base e lesene). In una nicchia marmorea contigua è scolpita la statua togata di Quinto Sulpicio Massimo, un ragazzo di 11 anni, il quale vinse in una competizione poetica nel terzo certame capitolino, sotto Domiziano, nel 94 d. C. (Suet., Domitian., iv, 4). Sui lati della nicchia è incisa la composizione poetica, in lingua greca, del defunto (C.I.L., vi, 33975). La nicchia originale è al Museo Nazionale Romano; nel luogo è sostituita da una copia.

Sepolcro di Cornelia. Scoperto nel 1871 nella demolizione della Porta Salaria, sotto la torre di O. È costituito da uno zoccolo quadrato di travertino sul quale si ergeva una costruzione circolare con rivestimento marmoreo. Gli avanzi furono più volte spostati nelle vicende della sistemazione del luogo: dal 1950 si trovano davanti alle mura fra Porta Salaria e Porta Pinciana. Da un'iscrizione frammentaria (C.I.L., vi, 1296) si sa che la defunta era figlia di L. Scipione (forse il console dell'83 d. C.) e moglie di Vatieno.

Sepolcro dei Passieni. Colombario scoperto nel 1705 nella Vigna Moroni sul lato O della via Appia, non lontano, a N, dalla porta omonima. Conteneva numerose iscrizioni dei primi due secoli dell'Impero (C.I.L., vi, 7257-7280, 33248, 33249).

Sepolcro di Traiano. Secondo Cassio Dione (lxvii, 16) Traiano avrebbe innalzato la sua colonna nel Foro denominato dal suo nome, anche per propria tomba. Nella camera ricavata nella base della colonna, che dà accesso alla scala interna, è una tavola di marmo che ebbe forse lo scopo di sostenere l'urna dell'Optimus Princeps.

Sepolcro di Elio Gutta Calpurniano. Scoperto nel 1877 nella torre orientale di Porta Flaminia. I frammenti del fregio marmoreo figurato con tre quadrighe sono stati ricostruiti nel giardino del Museo Nuovo Capitolino. Il defunto, che fu un celebre auriga (C.I.L., vi, 10047), si fece fare da vivo il monumento sepolcrale; metà del II sec. d. C.

Colombario di Pomponio Hyla. Scoperto nel 1831, è un colombario situato immediatamente dentro la Porta Latina delle mura aureliane. Il suo fondatore, Gn. Pomponio Hyla e sua moglie Pomponia. Vitalinis, sono menzionati in una iscrizione a musaico colorato (C.I.L., vi, 5552) sull'ingresso della tomba, sopra la scala di 28 gradini che conduce alla camera sepolcrale decorata con pitture. Il colombario è databile nella seconda metà del II sec. d. C. Le altre iscrizioni ivi ritrovate (C.I.L., vi, 5553-5557), non mostrano alcuna connessione familiare con Pomponio Hyla.

d) III e IV sec. d. C. - Ipogeo degli Aureli. Ipogeo sepolcrale scoperto nel 1919 presso l'angolo fra il viale Manzoni e la via di S. Croce in Gerusalemme, all'interno delle mura aureliane a circa 200 m da Porta Maggiore. Appartenne ad una setta cristiana della prima metà del III sec. d. C. Si compone di una camera superiore in gran parte distrutta e di due inferiori, che si raggiungono con una doppia scala, e di un vestibolo (fra la scala e la camera inferiore di S-O). Il sepolcro è soprattutto ricco di pitture, ben conservate, sia sulle pareti che nel soffitto, la cui esegesi è tuttora sub iudice, anche se non c'è disaccordo sul carattere eretico di esse rispetto alla ortodossia cristiana. Dal piano più basso si dipartono catacombe che non ebbero grande estensione a causa della costruzione delle mura aureliane che racchiusero il sepolcro entro la città.

e) Di data incerta. - Sepolcro dei Cinci. Situato presso la Porta Romana infimo divo Victoriae. La località fu chiamata "statua Cincia", il che vuol dire che il sepolcro era ornato dalla statua di un membro della famiglia.

Sepolcro dei Claudi (cosiddetto). Alla base del Campidoglio, un poco a N del sepolcro di Bibulo, sul lato O della via Flaminia.

Sepolcro di Ottavia. Scoperto nel 1616 all'angolo di via Sistina con via di Porta Pinciana, sul tracciato della antica via che portava verso N da Porta Quirinalis. La tomba era di marmo con un'iscrizione nel fregio e apparteneva ad una certa Ottavia figlia di M. Appio (C.I.L., vi, 23330).

Sepolcro degli Statilî. Situato nella piazza di Porta Maggiore, questo colombario fu scavato nel 1875. Esso apparteneva alla famiglia di Tito Statilio Tauro e conteneva più di 700 loculi (C.I.L., vi, 6213-6640).

f) Ustrini. - Nell'architettura funeraria romana rientrano infine anche gli ustrina. Lasciando da parte quelli direttamente connessi col sepolcro, sia che si tratti dei busta sepulcra (recinti a cielo aperto privi di porte, entro i quali si brucia il cadavere e se ne seppelliscono le ceneri in un vaso di terracotta che si presenta nel pavimento in terra battuta lungo la parete interna), sia che si tratti di vani connessi o prossimi al colombario (cfr. M. Floriani Squarciapino, Scavi di Ostia, III, Le necropoli, p. 1, passim), sul cui uso effettivo non è ancora tutto chiaro, è qui sufficiente menzionare gli ustrina più monumentali, e cioè, quello augusteo prossimo al mausoleo di Augusto (v.), che di questo ripeteva la forma circolare (Strab., v, 3, 8), e più ancora il grandioso ustrinum Antoninorum, esso pure situato in Campo Marzio (con un altro messo in luce più tardi lì vicino), ritrovato in condizioni tali da poterne avere un'idea assai precisa. Sappiamo così che si trattava di una base quadrata sulla quale si elevava la catasta del rogo, circondata da due recinti concentrici: il tutto costruito con grandiosità e sontuosità di materiali.

Il primo fu scoperto nel 1703 mentre si costruiva la Casa dei Frati della Missione a O di Piazza di Montecitorio, a breve distanza dalla base della Colonna Antonina. Esso consisteva di una base quadrata di m 13 di lato, sulla quale fu fatto il rogo di Faustina e Antonino Pio, circondata da due recinti quadrati; l'interno era un muro di blocchi di travertino con due aperture, l'esterno (lato m 30) di pilastri di travertino con una cancellata aperta verso la Colonna Antonina. Il secondo ustrino, probabilmente di Marco Aurelio, fu rinvenuto nel 1907 in occasione della nuova costruzione per il parlamento a ridosso a N del Palazzo di Montecitorio, fra via della Missione e via dell'Impresa. Simile al primo, ma meno conservato, i suoi resti furono trasportati al Museo Nazionale Romano.

Bibl.: E. Nash, Bildlexikon, Tubinga 1961, p. 487, figg. 1303-1307.

(F. Magi)

F) NECROPOLI VATICANE. - 1. Necropoli ad circum (detta vaticana o sotto la basilica di S. Pietro). - Scoperta in occasione degli scavi compiuti sotto la basilica di S. Pietro durante gli anni 1940-45 e 1953-57, ed estesi poi a S della Basilica negli anni 1957-59, questo tratto di una necropoli orientata press'a poco sull'asse principale della Basilica, si prolunga, sia ad E verso Castel S. Angelo (un sepolcro fu scoperto nel 1936 in piazza S. Pietro a S-E dell'obelisco), sia ad O nei giardini vaticani (probabili resti si trovano oggi murati sui fianchi della chiesa di S. Stefano degli Abissini). Per distinguerla dalla necropoli della via Triumphalis, anche essa ritrovata nell'attuale territorio vaticano, questa necropoli può essere chiamata ad circum a causa dell'iscrizione di Popilio Eracla (mausoleo A), che indica precisamente con questa formula l'ubicazione di uno dei suoi mausolei.

Due file di sepolcri orientati a S formano il tratto di questa necropoli scavato sotto S. Pietro. Le costruzioni della fila settentrionale si seguono senza soluzione di continuità. I sepolcri estremi della fila furono edificati verso il 125 d. C. a O (sepolcro M) o alla metà del sec. II a E (mausoleo A); nello stesso secolo anche si chiudeva la fila con la costruzione di un piccolo sepolcro, che prese il posto di un passaggio verso N e che, verso il 260, passò in mani cristiane, come attestano i mosaici delle pareti. Fu costruita questa fila lungo una piccola strada che fiancheggiava dall'altro lato il circo. Di questa strada, come delle mura esterne del circo, non si è trovata traccia alcuna, ma si può dedurre la sua presenza dalla posizione dell'obelisco, oggi in piazza S. Pietro. Alla fine del sec. II e all'inizio del secolo seguente, la necropoli si estese anche sul lato S della strada fino a ricoprire la spina del circo allora caduto in disuso. Dai ritrovamenti fatti nei secoli XVI-XVII risulta che costruzioni analoghe esistevano già nel I sec. lungo questa strada piu a E o piu a O. Di più, gli scavi condotti nelle vicinanze immediate dell'altare papale hanno rivelato sotto le costruzioni del sec. II la presenza di depositi funerari o resti di tombe più antiche.

I sepolcri appartenevano a famiglie di facoltosi liberti. Si notano, fra altri, i nomi degli Aelii, degli Aurelii, dei Caetennii, degli Iulii, dei Marcii, dei Tullii, degli Ulpii e dei Valerii. Costruzioni imponenti, con muratura accuratissima in facciata, decorate di ornamenti di terracotta, camere riccamente dipinte (sepolcri B, E, F, X) o con le pareti interne rivestite di sculture in stucco (sepolcro H), sarcofagi sontuosamente scolpiti (mausolei I e X), attestano questa agiatezza. Generalmente i mausolei racchiudono una sola camera; tuttavia alcuni possiedono un vestibolo d'ingresso, utilizzato a sua volta per le urne cinerarie. Altri sono muniti di una scala interna costruita in un secondo tempo, forse per permettere l'uso delle terrazze superiori. I riti funebri della cremazione e della inumazione si mescolano nella fila settentrionale; nella fila più recente domina invece nettamente l'inumazione. Dal lato religioso si noterà la preponderanza dei simboli dionisiaci, ma anche pitture di culto egiziano (sepolcro Z) e un Apollo Harpokrates (sepolcro H).

Tanto lo stile dell'architettura a nicchie ad arcosoli, quanto quello della pittura a pannelli decorati da motivi isolati e sottili (uccelli, cervi, vasi) sul fondo rosso, giallo o bianco delle pareti ricordano il gusto ornamentale, conosciuto dai più ricchi ipogei dell'Isola Sacra ad Ostia o di Clodio Hermes alle Catacombe di S. Sebastiano nei secoli II e III. Una scena più originale illustra in modo familiare un padrone seduto davanti ad una tavola verde, dove uno schiavo viene a portare del denaro (sepolcro G). La stessa impressione è data dal mosaico pavimentale con quadriga in bianco e nero (mausoleo I); ma una tecnica più tarda si osserva nel soffitto dove Cristo è figurato sotto l'aspetto dell'Apollo solare sulla quadriga in mezzo ad un fogliame di verde vivace sul fondo oro (sepolcro M). Il ricco stile antoniniano del grande sepolcro dei Valerii (H), con statue neoclassiche in stucco sulle loro basi, in fondo ad un sistema di nicchie separate da erme espressive, presenta un particolare interesse (sepolcro H). Quanto ai sarcofagi monumentali con figure mitologiche, separate da strigili e coperchi con i soliti ritratti dei defunti davanti al parapètasma tenuto da genî alati e maschere espressive agli angoli, si possono collocare fra gli esemplari più belli conosciuti del sec. III (sepolcro Φ). La necropoli rimase in uso fino alla costruzione della basilica come provano una iscrizione (sepolcro B) e le numerose tombe o urne che, senza riguardo al decoro primitivo, vennero a riempire tutti i posti utilizzabili. Di questo tempo sono le rare tombe a inumazione cristiane, con iscrizioni, che si sono ritrovate nei mausolei. Ma tracce di una occupazione cristiana più densa e più antica si sono trovate all'estremità O della necropoli, nel sottosuolo dell'attuale altare papale.

L'elemento più caratteristico di questa zona è costituito da una piazzuola di circa 7 m × 4, circondata quasi completamente da sepolcri. Significativo si rivelò un piccolo monumento funerario, fatto da due nicchie sovrapposte. Fu costruito insieme con il muro che delimita la piazzuola a O, nel quale appunto furono riservate le nicchie. Questo monumento aveva all'incirca l'altezza di m 2,30. Le sue nicchie erano separate fra di loro da una lastra di marmo di m 1,80 di lunghezza che si appoggiava su due colonmne. Detto muro con il piccolo monumento funerario fu costruito verso la metà del sec. II insieme con i mausolei vicini e una scala retrostante, come appare dai bolli dei mattoni utilizzati per coprire un fognolo sottostante alla scala. È da notare che l'accesso a questa piazzuola da S fu reso possibile dalla costruzione non soltanto della scala retrostante al monumento, ma anche da un'altra che fiancheggiava l'ultimo sepolcro (O) della fila meridionale vicino alla piazzuola. Tutte e due le scale, a differenza delle altre della necropoli, sono contemporanee ai mausolei; l'ingresso di ciascuna è munito di una porta, nel caso della scala a E anche di un corridoio d'accesso situato lungo la facciata del mausoleo. Tale doppio sistema d'accesso sembra rispettare diritti anteriori.

Il significato del piccolo monumento o, in altre parole, la sua identità, appare dalla sua storia archeologica successiva. Subì serî danni sul lato N; in compenso, in due riprese successive gli furono aggiunti due piccoli muri laterali, le pareti, il pavimento e la nicchia inferiore furono decorati di marmo. Tutto ciò accadde verso la metà del sec. III. Questa sistemazione si estese anche alla piazzuola stessa che fu ricoperta di un pavimento a mosaico. Questi fatti mostrano che il monumento non perdé durante il sec. III una identità che i dati archeologici dell'inizio del sec. IV fanno chiaramente apparire. L'ubicazione della basilica, come il suo livello, furono stabiliti in modo che il piccolo monumento funerario del tempo di Marco Aurelio rimanesse intatto e ben visibile nel mezzo del presbiterio della nuova basilica costruita da Costantino come glorioso martyrium dell'Apostolo Pietro. Così la basilica stessa, chiara testimonianza della credenza nel sec. IV intorno al luogo della tomba apostolica, permette, attraverso il secolo precedente, di far risalire il riconoscimento del carattere petriano del monumento fino a metà del sec. II. Numerosi graffiti cristiani scoperti su una parete del monumento confermano la prova archeologica fornita dalla costruzione costantiniana. Suffraga tale interpretazione generale anche l'abbondanza delle tombe ad inumazione ritrovate nel suolo della piazzuola. In maggioranza esse appartengono al sec. II, ma non è da escludere che qualcuna sia anche più antica. D'altra parte, che il luogo fosse già destinato a sepoltura prima delle costruzioni del sec. II è attestato dalla presenza di depositi funerarî radunati dai costruttori del muro, con il suo monumento e dai sepolcri circostanti; derivano da quattro tombe preesistenti dietro il monumento e da una quinta situata proprio sul luogo del medesimo. Quivi infatti furono rinvenuti resti di una sistemazione anteriore in un muretto e un deposito di ossa fu trovato proprio sotto le fondamenta del monumento, che si rialzano notevolmente in questo punto, assumendo la forma di una piccola rozza nicchia sotterranea. Ma se appare certo che questo deposito fu creato all'atto della costruzione del monumento, appare più difficile, data la natura stessa del deposito, assicurarne l'identità. In ogni modo i dati archeologici bastano ad assicurare la validità della tradizione antica circa l'ubicazione della tomba apostolica: il piccolo monumento a nicchia (chiamato spesso inesattamente "trofeo" dal termine utilizzato dal sacerdote Gaio al plurale "trofei" per parlare delle spoglie dell'apostolo) fu costruito sotto Marco Aurelio per mantenere nella nuova necropoli il ricordo del luogo ritenuto già allora come quello della sepoltura di Pietro.

Bibl.: J. Ruysschaert, Recherches et études autour de la Confession de la Basilique vaticane, 1940-1958, État de la question et bibliographie, in Triplice omaggio a Sua Santità Pio XII, 2, Città del Vaticano 1958, pp. 3-46 (con confronto degli scavi degli anni 1940-1949 e di quelli degli anni 1953-1957). Studî successivi: Rivista di archeologia cristiana, XXV, 1959, pp. 284-286; XXXVII, 1961, pp. 137-138; B. M. Apollonj Ghetti, A. Ferrua, E. Josi e E. Kirschbaum, Esplorazioni sotto la Confessione di San Pietro in Vaticano eseguite negli anni 1949-1949, 2 vol., Città del Vaticano 1951 (campo P, area Q e mausolei L.-O, R, R‛ e S); M. Guarducci, Cristo e San Pietro in un documento precostantiniano della necropoli vaticana, Roma 1953 (mausoleo H); A. Prandi, La zona archeologica della Confessione vaticana. I monumenti del secolo II, Città del Vaticano 1957 (campo P, area Q, mausolei O, R, R‛ e S); M. Guarducci, I graffiti sotto la Confessione di San Pietro in Vaticano, Città del Vaticano, 3 vol. 1958; id., Documenti del I secolo nella necropoli vaticana, in Rend. della Pont. Acc. rom. di arch., s. 3, XXIX, 1958, pp. 111-137; F. Castagnoli, Il circo di Nerone in Vaticano, ibid., XXXII, 1960, pp. 97-121. - Studî particolari: mausolei: La Civiltà cattolica, XCII, 1941, t. 3, pp. 358-365, 424-433; XCIII, 1942, t. 3, pp. 73-86, 228-241; Bull. Com., LXX, 1943, pp. 95-106 (A. Ferrua: mausolei B-H, Q e X); Roma, 21 (1943), pp. 80-81; Bollettino del Centro Naz. di studi dell'architettura. Sezione di Roma, fasc. 4, 1945, pp. 1-3 (B. M. Apollonj Ghetti: mausoleo F e I); Rend. della Pont. Acc. rom. di arch., s. 3, XXIII-XXIV, 1950, pp. 217-229 (A. Frrua: mausoleo I); Das Münster, 2, 1949, pp. 400-406 (E. Kirschbaum: mausoleo M); J. Tounbee-J. B. Ward Perkins, The Shrine of S. Peter and the Vatican Excavations, Londra 1956 (mausolei B, F e Z). Sarcofagi: Arch. Class., VII, 1955, pp. 32-49 (L. Nicolosi: mausolei Z, Q e H). Mosaici: O. Perler, Die Mosaiken der Juliergruf im Vatikan, Friburgo in Sv., 1953 (mausoleo M); Late Classical and Medieval Studies in Honor of Albert Mathias Friend jr, Princeton 1953, pp. 7-14 (H. P. L'Orange: facciata del mausoleo Q). Iscrizioni: L'antiquité classique, XV, 1946, pp. 117-126 (F. De Visscher: mausoleo A); Bulletin de l'Académie royal de Belgique. Classe des Lettres, s. 5, t. XXXII, 1946, pp. 160-162 (F. Cumont: mausoleo E); Revue des études anciennes, LIV, 1952, pp. 326-331 (H.-I. Marrou: epitafio di Eventio); Epigrafica, VII, 1945, pp. 27-34 e La Civiltà cattolica, XLVII, 1946, t. i, pp. 41-46 (A. Ferrua: frammenti degli Atti degli Arvali); Dictionnaire d'archéologie chrétienne et de liturgie, 15, 1953, col. 3291-3310 (J. Carcopino: elenco delle iscrizioni; cfr. anche J. Toynbee e J. B. Ward Perkins, op. cit.).

(J. Ruysschaert)

Poìchè la tomba a fossa sotto l'edicola ricordata da Gaio fu trovata vuota, si è fatta l'ipotesi, da parte di M. Guarducci, che le ossa di S. Pietro originariamente inumate in questa tomba terragna, siano state esumate sotto Costantino e deposte in una cassetta rivestita di marmo ricavata nel muro destro dell'edicola, dove si sono trovati elementi dello scheletro di un uomo circa sessantenne e resti di stoffa purpurea con filamenti d'oro.

Bibl.: M. Guarducci, Le reliquie di Pietro, Città del Vaticano 1965.

(Red.)

2. Necropoli della via Trionfale. - Lungo il tratto della vecchia via Trionfale che traversava parte della Città del Vaticano, identificandosi, ad un livello molto più basso, con l'attuale via del Pellegrino e le sue prosecuzioni a N e a S, furono trovate a più riprese, nella fascia di terreno a monte della via stessa, numerose sepolture costituenti una cospicua parte di quella necropoli che chiameremo "della via Trionfale", di cui altri resti erano già apparsi oltre le mura vaticane, e fin dalla seconda metà del secolo scorso. Nei limiti del Vaticano, una prima grande parte della suddetta necropoli di ben 600 m2 fu rinvenuta in occasione dei lavori per l'edificio dell'annona vaticana, ma di essa rimane oggi ben poco, mentre gli oggetti ivi scoperti, soprattutto iscrizioni, si conservano nei magazzini dei Musei Vaticani. Contemporaneamente si rinvennero altre tombe, in parte ancora visibili, nello scavo del tunnel che reca alla Fontana della Galera. E un anno dopo, a conferma del tracciato dell'antica via, si trovava un tratto del suo basolato. La parte però più importante della suddetta necropoli (anche perché essa si è potuta perfettamente conservare così come si trovò coi suoi resti monumentali e con tutto il suo corredo, in una specie di "scavomuseo") è quella che apparve nel 1956 nello sterro eseguito per la costruzione del nuovo autoparco vaticano, tra l'annona e le tombe della Galera. Le tombe sono molto fitte in un'area di circa 244 m2, e risultano disposte sul pendio della collina senza regole di successione cronologica. Buona parte di esse sono colombari, quasi tutti privi di tetto e spesso rimaneggiati; principale causa di questo deterioramento fu certamente la frequenza di frane e dilavamenti dall'alto dei colli soprastanti. Le proporzioni degli edifici funerarî sono molto varie. Frammezzo a questi si rinvennero numerose tombe a inumazione coperte di tegole o di bipedali ("alla cappuccina"), per lo più datate dal bollo laterizio, le quali hanno restituito un buon numero di monete di bronzo (obolo per Caronte), ma un solo denaro d'argento (di Traiano). Non mancano anche sepolture in vasche di cotto. Gli edifici, anché i meglio conservati, presentano minore ricchezza di quelli della necropoli ad circum. Si conserva qualche pittura ornamentale e qualche pavimento a mosaico. Numerosi i titoli di marmo, più scarsi quelli di travertino. Di travertino è anche un cippo con all'interno due deposizioni, di cui la superiore coperta da un disco di marmo. Altri pochi cippi-are sono di marmo. Di un sarcofago marmoreo si sono trovati alcuni frammenti. Fra gli oggetti più degni di menzione, oltre ad alcune tabellae defixionum, e alle numerose lucerne di cotto e ad alcune fiale di vetro, è il corredo di uno scriba, tra i cui oggetti si è trovato un calamaio di bronzo contenente ancora una notevole quantità di inchiostro (analizzato è risultato composto di schisto, misto a nerofumo di pianta resinosa), datato da una moneta di Domiziano verso il 100 d. C., e un cospicuo avanzo di sacco di tessuto d'amianto (circa 2 m per più di 1 m), che dovette servire a involgere i cadaveri sul rogo al fine di evitare che le loro ceneri si mescolassero con quelle della legna abbruciata (cfr. Plin., Nat. hist., xix, 19: funebres tunicae). Numerosissimi, in rapporto ad altre necropoli, i tubi fittili per la libazione, e caratteristico un sarcofago, costruito in muratura e tinto di rosso (con dentro l'urna cineraria) di tipo egittizzante. Ma ciò che più importa in questa porzione di necropoli sono i suoi dati topografici e storici. Essa mostra anzitutto una continuità di esistenza per circa quattro secoli senza rilevanti interruzioni. Da un bustum-sepulcrum databile negli ultimi decennî del I sec. a. C. si giunge infatti, attraverso i colombari (anche a rito misto) e le tombe singole, a una grande costruzione sepolcrale che può essere datata al sec. IV, di cui si conserva soprattutto il pavimento di terra battuta forato da numerose formae costruite con tufelli parallelepipedi, trovate tutte vuote, meno una in cui le ossa sono quasi esclusivamente cranî (evidente esempio di esumazione limitata alla testa: ubi caput ibi corpus). Speciale risalto assumono in questa successione di sepolture due tombe sicuramente databili entro il regno di Nerone, quella del servus saltuarius Nunnius e dei suoi congiunti, ornata di una bella stele marmorea coi ritratti a rilievo della moglie e del figlio a lui premorti (monumento di cui è evidente l'importanza cronologico-stilistica) e quella di Verecunda Veneria de hortis Servilianis, serva anch'essa dello stesso imperatore. Esse stanno a dimostrare che allorché questi divenne padrone del luogo, non solo non impedì che si continuasse a seppellire lungo la via Trionfale, sul fianco nord-orientale della collina, ma consentì anzi che vi si seppellissero i suoi stessi servi. Non si vede perché altrettanto non dovesse accadere lungo o presso la via Aurelia o Cornelia traversante lo stesso fondo imperiale, dove la tradizione vuole seppellito S. Pietro (la distanza in linea d'aria tra la necropoli ad circum e quella di cui si parla è di non più di 400 m).

Infine altro dato topografico-storico di grande rilievo che è emerso dalla necropoli della via Trionfale è quello che riguarda gli enigmatici Horti Serviliani. Tenuto conto delle menzioni di questi Horti quivi ritrovate fra i titoli degli schiavi, e riesaminate quelle già note, quanto alla provenienza, si può concludere che i detti Horti così celebri e ricchi, e così strettamente legati a Nerone si debbono collocare nell'area vaticana e non, come si è finora creduto da quasi tutti i topografi, fra le vie Ardeatina e Ostiense.

Bibl.: F. Magi, Ritrovamenti archeologici nell'area dell'autoparco vaticano, in Triplice omaggio a Sua Santità Pio XII, Città del Vaticano 1958, p. 87 ss.; id., Il titolo di Verecunda Veneria, in Röm. Quartalschrift für christliche Altertumskunde, 1962, p. 287 ss.

3. Mausoleo di Ignoto. - Edificio rotondo costruito all'epoca di Caracalla in prossimità dell'obelisco del Circo Vaticano, poco più a E del mausoleo di Maria (v. più sotto) del quale è più antico (Platner-Ashby, op. cit., p. 481, lo ritengono invece, a torto, contemporaneo). Dedicato da papa Simmaco a S. Andrea, sopravvisse all'altro col nome di Rotonda di S. Andrea fino sotto il pontificato di Pio VI.

Bibl.: F. Castagnoli, in Rend. Pont. Acc. Rom. Archeol., XXXII, 1960, p. 100 ss.

4. Sepolcro di Maria. - Sul luogo del Circo Vaticano a S della basilica di S. Pietro fu costruito un mausoleo circolare per Maria, figlia di Stilicone e moglie di Onorio, nel quale forse ebbero sepoltura lo stesso Onorio, Teodosio II e Valentiniano II. Il mausoleo aveva otto micchie interne, una delle quali serviva da entrata. Nel sec. VIII vi fu trasferito il corpo di S. Petronilla e la tomba fu conosciuta come cappella dei re franchi. Fu demolita circa il 1520 a causa dei lavori della nuova basilica, ma il sarcofago di Maria con grande tesoro di oro e argento fu rinvenuto più tardi nel 1544.

(F. Magi)

G) PRINCIPALI MONUMENTI DEL SUBURBIO. - I. Via Appia. - 1. Sepolcro detto di Priscilla. - Identificabile forse con il sontuoso mausoleo eretto alla moglie Priscilla da Abascanto, liberto di Domiziano, e di cui Stazio (Silv., v, vv. 221 ss.) attesta la magnificenza. Sorge sulla destra della via prima del bivio con l'odierna Ardeatina, e presenta un grandioso basamento quadrangolare di conglomerato cementizio, con cella a pianta cruciforme coperta da vòlta a crociera; sul masso quadrato si eleva una rotonda cilindrica, in antico rivestita di travertino, incavata a nicchie che contenevano, secondo la testimonianza del poeta, statue di dee e figure simboliche con i tratti della defunta eroizzata.

Bibl.: G. B. Piranesi, Le Antichità Romane, Roma s. d., II, tavv. XXVII-XXXVIII; L. Canina, La prima parte della Via Appia da Roma a Boville, Roma 1853, II, tav. VI; G. Tomassetti, La Campagna Romana, II, Roma 1910, p. 41; G. T. Rivoira, Architettura Romana, Milano 1921, p. 139 s., fig. 125; L. Crema, L'architettura romana, Torino 1959, p. 326. Disegni del Palladio: G. Zorzi, I disegni delle antichità di A. Palladio, Venezia 1959, p. 103, fig. 258.

2. Sepolcri dei Calvenzi e dei Cercenni. - Si trovano al II miglio, sulla sinistra della via, prima del bivio con la Pignatelli; la denominazione risale al Ligorio che si basò su iscrizioni rinvenute nei pressi.

Il sepolcro dei Calvenzi consta di un'aula circolare (diametro m 9,50) con sei absidi curvilinee, in forte aggetto all'esterno; le rientranze fra le absidi sono occupate da piloni su cui posava la vòlta a spicchi, individuati esternamente, secondo quanto attestano disegni del Ligorio, da costolature rilevate. L'intradosso della cupola era a lacunari. La notevole affinità della pianta con il ninfeo degli Horti Liciniani si accorda con una datazione alla metà del III secolo. Dubbia è la ricostruzione del vestibolo, di cui non resta oggi quasi nulla, disegnato dal Palladio come un semplice atrio rettangolare con tre aperture, mentre lo schizzo di Pirro Ligorio mostra in facciata un protiro a pilastri e colonne sorreggenti un timpano spezzato al centro da un arco. Il sepolcro dei Cercenni ha una pianta più comune, a croce greca (m 6,50 × 6,50), ma la slanciata cupola, impostata su di un alto tamburo con finestre, posava su quattro colonne corinzie poste all'intersezione dei bracci della croce; questi ultimi, coperti da vòlta a botte, costituirono il rinfianco statico della cupola. Come quella dei Calvenzi, la tomba dei Cercenni, nel disegno ligoriano, presenta un protiro con timpano interrotto da un arco e ricca trabeazione. Anche per questo sepolcro la datazione è attorno alla metà del III sec. d. C.

Bibl.: I due sepolcri sono principalmente noti da disegni rinascimentali tra cui si citano: B. Peruzzi e altri, disegni agli Uffizî, Roma 1914-22, I, tav. II, 4 e II, figg. 302 e 407); Palladio (G. Zorzi, op. cit., p. 106, fig. 272); Codex Excurialensis (H. Egger, Codex Excurialensis, Vienna 1905, f. 37); Giuliano da Sangallo (C. Hülsen, Il libro di G. da Sangallo, Lipsia 1906, f. 8, p. 15; S. Serlio, Il III libro dell'Architettura, Venezia 1540, pp. 33-34); i disegni del Ligorio sono riprodotti da G. Lugli, Studies Presented to D. M. Robinson, II, St. Louis 1953, p. 1221 ss. (con bibliogr. precedente); G. T. Rivoira, Architettura Romana, Milano 1921, p. 223 ss., 229 ss., figg. 220-2; L. Crema, Architettura Romana, Torino 1959, p. 529, figg. 836-837.

3. Pago Triopio. - Fra il II ed il III miglio della via si estendeva una Vasta tenuta che, come attesta una iscrizione (C.I.L., vi, 1342), Annia Regilla portò in dote ad Erode Attico. Il nome Triopio è forse frutto della fantasia erudita dello stesso Erode (probabilmente ricorda il Triopeion di Demetra a Cnido), che vi eresse edifici religiosi tra cui un tempio dedicato a Cerere e Faustina venerata come Demetra; le iscrizioni (I.G., xiv, 1390, 91, 92) citano inoltre un campus sacro alle due dee attiche Atena e Nemesi. Il praedium si spingeva forse anche sulla destra dell'Appia, ma i fabbricati residenziali sorgevano alla sinistra della via verso la valle dell'Almone (odierna valle della Caffarella), dove infatti si trovano i ruderi più importanti; del pagus propriamente detto non restano invece che scarse tracce. La tenuta passò successivamente in proprietà imperiale e nell'alto Medioevo era possesso della Chiesa di S. Sebastiano.

I principali monumenti riferibili al Triopio sono:

4. Chiesa di S. Urbano alla Caffarella (Tempio di Cerere e Faustina?). - Sorge nella valle dell'Almone, presso la via della Caffarella. È un tempietto, prostilo tetrastilo, elevato su un alto podio, con colonne corinzie ed epistilio in marmo pentelico; il timpano dalla ricca cornice e le mura della cella sono invece in finissimo laterizio. Internamente, le pareti sono spartite da lesene in cotto con capitelli corinzi in peperino, che inquadrano specchiature laterizie con archetti abbinati. La vòlta a botte è decorata di stucchi assai fini (in cattivo stato di conservazione) con trofei d'armi ed una partizione regolare ad ottagoni; il riquadro centrale mostra una figura femminile in atto di compiere un sacrificio (Faustina come diva?). L'edificio era inserito in una corte rettangolare, in cui si è proposto di riconoscere il campo di Atena e Nemesi ricordato dalle iscrizioni.

5. Ninfeo detto della ninfa Egeria. - È l'unico avanzo di qualche rilievo riferibile alla vera e propria villa del Triopio. Conosciutissimo e spesso studiato e disegnato dal Rinascimento in poi, deve la sua celebrità alla amenità del sito più che ad un particolare interesse architettonico. E rettangolare, con una grande nicchia sul fondo e nicchie minori sui fianchi; le pareti, in opus mixtum del II sec., sopportano una vòlta a pieno centro.

6. Tomba di Annia Regilla. - È un bellissimo esempio di architettura laterizia del Il sec. dell'Impero, costruito interamente in cotto di due colori, giallo per le pareti e rosso per cornici, lesene, modanature. Appartiene al tipo dei sepolcri "a tempio", a due piani, l'inferiore costituente la vera cella funeraria, il superiore adibito a cerimonie funebri. Il lato meridionale, dove è la porta della cella, è il più riccamente decorato, e presenta due semipilastri ottagoni profondamente incassati che dividono la parete in tre specchi, dove si aprono una finestrella, con cornice sorretta da mensole, e due incassi incorniciati per tabelle iscritte o per rilievi. Al disotto, corre una elaborata fascia a meandro. Alla stanza superiore si accede sul lato E per una grandiosa gradinata che, davanti alla facciata, si allarga in un profondo pronao. La porta architravata è sormontata da una nicchia curva inquadrata da due colonne con timpano dalla ricca modanatura, mentre ai lati si aprono due finestre. Più semplici, gli altri due lati sono spartiti da lesene corinzie in cotto rosso, e ripetono, nelle finestrine con architrave sorretto da mensoloni e nelle fasce a meandro che ne marcano il davanzale, i motivi decorativi già trovati sui lati principali. La identificazione dell'edificio con il sepolcro di Annia Regilla (morta nel 161) risale al Lanciani.

Bibl.: R. Lanciani, Pagan and Christian Rome, Londra 1892, p. 288 ss.; G. T. Rivoira, Architettura Romana, Milano 1921, p. 189 ss.; G. Lugli, in Bull. Com., LII, 1925, p. 94 ss., (con bibl. preced.); Th. Ashby, The Roman Campagna in Class. Times, Londra 1927, p. 180 s.; L. Crema, in Serta Haffilleriana, Zagabria 1940, p. 268 ss.; G. Lugli, La tecnica edilizia dei Romani, Roma 1957, pp. 577, 610, tav. CLXXVII e fig. 121; L. Crema, Architettura romana, Torino 1959, pp. 466; 495 ss.

8. Villa di Massenzio. - Sorgeva tra la via Appia e l'Appia Pignatelli (forse la antica Asinaria) e occupò probabilmente una parte dei terreni dell'antico Triopio. L'appartenenza a Massenzio è resa certa dal rinvenimento di alcune iscrizioni, particolarmente l'epigrafe commemorante il divo Romolo (C.IL., vi, 1138) trovata dal Nibby che condusse per primo scavi sistematici e cui va il merito di aver fissato la cronologia dell'intero complesso. La villa sorse unitariamente, assieme al circo e allo heroon (v. appresso) in una zona già occupata da fabbriche del I e del II sec., che vi furono incorporate al pari di alcuni sepolcri (tra cui, monumentale, quello detto dei Servili). I ruderi, esplorati recentemente dal Comune di Roma (si attende la pubblicazione dei risultati) consistono principalmente in una grandiosa abside voltata nota come Tempio di Venere e Cupido, avanzi di edifici termali con annessa palestra e un'altra abside con nicchie, forse la parte terminale di una basilica. Un lungo corridoio raccordava la villa al pulvinar del circo, che era quindi considerato come edificio semiprivato nella proprietà imperiale. Dagli edifici massenziani proviene una importante serie di ritratti e sculture varie, in massima parte al Museo Torlonia.

Bibl.: R. Lanciani, in Not. Sc., 1883, pp. 49, 210; G. T. Rivoira, Architettura Romana, Milano 1921, p. 185 ss. (riproduce i disegni del Ligorio); G. Lugli, in Bull. Com., LII, 1925, p. 120 ss.; Th. Ashby, The Roman Campagna in Class. Times, Londra 1927, pp. 182-89; Th. Ashby-G. Lugli, in Mem. Pont. Acc., II, 1928, p. 160 ss.; G. Lugli, La tecnica edilizia dei Romani, Roma 1957, pp. 637, 693, tav. CXCV, 2.

9. Mausoleo di Romolo. - Sorge sulla via Appia, orientato secondo la strada. Consiste in una grandiosa rotonda del diametro di circa 33 m, a due piani, collegati da una scaletta a chiocciola, di cui resta assai ben conservato quello inferiore semisotterraneo. Era preceduto da un profondo pronao innalzato su un alto podio con gradinata frontale, che si ricostruisce forse esastilo e sormontato da un timpano triangolare. Dell'alzato del piano superiore nulla si può dire, se non che era coperto certamente da una cupola che forse presentava un'alternanza di nicchie analoga a quello del sotterraneo. Questo consiste in un corridoio ad anello, coperto da vòlta a botte, e con la parete d'ambito a nicchie alternatamente rettilinee e semicircolari, corrispondenti a quelle incavate nel grandioso pilone centrale (diametro m 7,50), in cui forse eran poste alcune statue. Altri tre ambienti rettangolari sono ricavati al disotto del pronao e della gradinata.

La rotonda sorge al centro di una corte di m 107 × 121, circondata da un portico ad archi coperto da volticelle a crociera. La struttura architettonica d'insieme ricorda moltissimo il Mausoleo di Tor de' Schiavi (v. via prenestina) e, al pari di quello, diede occasione di studiA e ricerche ad architetti rinascimentali (particolarmente al Palladio, che si è supposto vi si sia ispirato per la Rotonda di Vicenza e la Chiesa di Maser).

Il Mausoleo fu eretto da Massenzio in onore del figlio Romolo, morto nel 309 e divinizzato. È molto dubbio se sia questo, o non piuttosto quello eretto nel Foro, l'edificio riprodotto su medaglioni aurei coniati in occasione della divinizzazione di Romolo (cfr. J. Babelon, in Mélange à la mem. de Fr. Martroye, 1941, p. 139 ss.).

Bibl.: G. T. Rivoira, Architettura romana, Milano 1921, p. 263 ss.; G. Lugli, in Bull. Com., LII, 1925, p. 126 ss.; Th. Ashby, The Roman Campagna in Class. Times, Londra 1927, p. 180 s.; L. Crema, Architettura Romana, Torino 1959, p. 625 s. Disegni rinascimentali: Uffizi, autori varî: A. Bartoli, I Monumenti antichi di Roma, Roma 1914-22, I, fig. 15, II, fig. 284; III, fig. 401; IV, figg. 653 e 687; Palladio: G. Zorzi, I dis. delle antichità di A. Palladio, Venezia 1929, pp. 80, 106, figg. 181, 272; Ligorio: Journ. Rom. St., IX, 1919, p. 186; S. Serlio, Il III libro dell'Architettura, Venezia 1540, p. 45; G. da Sangallo: C. Hülsen, Il libro di G. da Sangallo, Lipsia 1906, p. 59, fol. 43 v.

10. Circo di Massenzio. - È il meglio conservato tra i circhi romani. Faceva parte della villa massenziana, e fu sistemato in una valletta naturale tra la via Appia e la Pignatelli, accessibile da ambedue le strade. Assai noto dal Rinascimento, rimase però attribuito a Caracalla fino alla fondamentale dimostrazione del Nibby.

Misura 512 × 81-85 m, con una spina di m 333 × 7, non parallela all'asse longitudinale, ma spostata verso la estremità orientale ed obliqua per permettere ai carri di affluire in massa all'inizio della corsa: per lo stesso motivo i lati lunghi non sono paralleli tra loro e conseguentemente varia di qualche metro la larghezza del manufatto. Sul lato corto O sono i carceres, in numero di 12, in due gruppi di sei disposti a semicerchio ai lati dell'entrata principale, in modo che risultasse uguale per ogni carro il tratto da percorrere per imboccare il rettilineo. Ornati esternamente da erme marmoree, i carceres erano fiancheggiati da due torri di tipo militare alte oltre 16 m, con fronte semicircolare a tre piani con belle finestre ad arco; due ampi passaggi voltati, forse per l'ingresso della pompa, le raccordano alle gradinate. Dalle torri si accède ad una ampia terrazza posta sopra i carceres, dove sedevano i magistrati preposti ai giochi. La pista era in leggera ascesa dai carceres verso il rettilineo; negli scavi non si è trovata traccia di sabbia, ed è pertanto ignoto come fosse costituito il fondo. A semicerchio è pure il lato corto orientale, dove si apre la porta triumphalis, ad arco, sormontato da un timpano spezzato, non praticabile ai carri perché elevata rispetto alla pista; tale lato, come i lati lunghi, è sorretto da vòlte rampanti, alleggerite da olle fittili, su cui erano poste le gradinate, mentre un corridoio, accessibile dalle torri e da altri passaggi e illuminato da finestre esterne, corre tutt'in giro al disotto di esse. Il pulvinar imperiale è sul lato N, all'altezza della prima metà; un altro palco a esedra, forse riservato ai giudici di gara, si trova sul lato opposto, ed è raggiungibile dalla pista per mezzo di due scalette.

Di particolare interesse è la spina, in blocchi di tufo rivestiti di marmi, interrotta da passaggi e superiormente conformata a vasche in cui versavano acqua, a quanto sembra, delfini posti sopra colonne; edicole e piedistalli per statue di divinità (Venere, Vittoria, Proserpina, ecc., rinvenute durante gli scavi Nibby) abbellivano la costruzione al cui centro sorgeva l'obelisco domizianeo attualmente collocato in Piazza Navona. Le mete, in gruppi di tre, sorgevano su due basamenti semicircolari isolati alle estremità della spina.

L'intera costruzione era in opera listata mista, di età massenziana. Pitture con scene circensi, riprodotte dal Bianconi, ornavano le camere delle torri.

Bibl.: A. Nibby, Del circo detto di Caracalla, Roma 1825; G. Lugli, in Bull. Com., LII, 1925, p. 126 ss. (con bibl. prec.); id., La tecnica edilizia dei Romani, Roma 1957, pp. 440, 653, 672, tavv. CXCIV, CCVI; L. Crema, Architettura Romana, Torino 1959, pp. 595 ss.

11. Mausoleo di Cecilia Metella. - È il più noto ed il meglio conservato dei sepolcri dell'Appia. Strutturalmente presenta forme abbastanza semplici: sopra un basamento quadrangolare di conglomerato, un tempo rivestito di travertino (lato m 28), si eleva un alto corpo cilindrico che conserva il paramento nella stessa pietra, chiaro-scurato da semplici bugne lisce. Il coronamento della rotonda è costituito da un fregio marmoreo a bucrani e festoni, cui si unisce, in corrispondenza della targa iscritta posta sul lato verso la strada, un bassorilievo con un trofeo d'armi. Il tumulo di terra, come ben vide il Canina, non era emisferico ma ad alta calotta conica, e si conservava ancora nel Medioevo (in un documento dell'XI sec. è detto Monumentum peczutum) prima che i Caetani adattassero il mausoleo a torrione del loro castello (sec. XIII-XIV). Un lungo corridoio a vòlta, sul fianco dell'edificio, immette, attraverso un massiccio portale di travertino, nella camera sepolcrale, circolare e altissima, a cono; forse un tempo era divisa in due piani da una vòlta oggi scomparsa, l'inferiore prolungantesi in un ambiente rettangolare sotto il corridoio d'accesso. Le pareti interne sono rivestite di laterizio, e rappresentano uno dei più antichi esempi di impiego estensivo di questo materiale.

La datazione dell'edificio è in parte legata alla identificazione della defunta, non nota da altre fonti se non dall'iscrizione ancora in situ (C.I.L., vi, 1, 1274) che la dice figlia di Metello Cretico (console nel 69 a. C.) e moglie di un Crasso di incerta identificazione. Vi si riconosce generalmente Marco Crasso figlio del triumviro, che ricoprì magistrature in età cesariana (il mausoleo viene datato tra 50 e 40 a. C.); secondo lo Hülsen e altri, che propongono conseguentemente una datazione del sepolcro in età augustea, si tratterebbe invece del console del 30 a. C. È falsa la notizia del Bartoli e del Ficoroni che il sarcofago a tinozza ora nel cortile di Palazzo Farnese provenga dal Mausoleo.

Bibl.: G. B. Piranesi, Antichità Romane, Roma 1756, III, tavv. XLIX-LIV; L. Canina, La prima parte della Via Appia, Roma 1853, II, tav. XV; F. Azzurri, in Bull. Com., XXIII, 1895, p. 14 ss.; Ch. Hülsen, Caecilia Metella, in Neue Heidelb. Jahrbücher, Heidelberg 1896; G. Tomassetti, La Campagna Romana, II, Roma 1910, p. 60 ss.; A. Muñoz, in Bull. Com., XLI, 1913, p. 3 ss.; G. T. Rivoira, Architettura Romana, Milano 1921, p. 6 ss.; Th. Goetze, Das Rundgrab in Falerii, Stoccarda 1939, p. 15 s.; G. Lugli, in Amor di Roma, 1955, p. 233 ss.; G. Lugli, La tecnica edilizia dei Romani, Roma 1957, pp. 180 ss.; 354 ss.; 587 ss.; tav. CVI; L. Crema, Architettura Romana, Torino 1959, p. 250.

12. Cosiddetto Tempio di Giove. - Al IV miglio sulla sinistra della via sorge un edificio in laterizio, verosimilmente un sepolcro, la cui denominazione deriva dalla presunta identificazione con un tempio ricordato in questa località dagli Acta Sanctorum. Attualmente è in pessimo stato di conservazione, ma di notevole interesse è la sua pianta a trifoglio, cioè con ampie absidi (larghezza m 6,90) aprentisi su ciascuno dei lati lunghi, che ricorda da vicino la tomba di Claudia Antonia Sabina a Sardi, e alcuni edifici sepolcrali di analoga conformazione riprodotti dal Ligorio e dal Montano (v. bibl.). L'affinità di pianta con un edificio della Villa Adriana tra il Pecile e le Piccole Terme, oltre che con i sepolcri summenzionati, ne pone la datazione alla seconda metà del II piuttosto che nel III sec. d. C.

Bibl.: L. Canina, La prima parte della Via Appia, Roma 1853, II, tav. XX; G. Tomassetti, La Campagna Romana, Roma 1910, II, p. 80 s.; G. T. Rivoira, Architettura Romana, Milano 1921, p. 173 ss. (riproduce i disegni del Montano); G. Lugli, La tecnica edilizia dei Romani, Roma 1957, p. 610. Il disegno del Ligorio è riprodotto in Journ. Rom. St., IX, 1919, p. 175, fig. 19.

13. Pagus del IV miglio. - Gli Acta Sanctorum (iv, Acta Martyrii S. Urbani, III, 13) ricordano al IV miglio della via un pagus, una domus Beatae Marmeniae, un palatium Vespasiani e il sepolcro di S. Urbano. Si è proposto di identificare quest'ultimo in un bel sepolcro laterizio del II sec. d. C., che sorge su un diverticolo che si stacca sulla sinistra dell'Appia; è del tipo consueto, "a tempio", con alto podio preceduto da una gradinata racchiusa tra plutei e cella funeraria a vòlta con nicchie ad arco sulle pareti lunghe ed un'abside nel fondo; il pavimento era in opus sectile di ricchi marmi. Coperta a vòlta, con nicchie nelle pareti, è pure la camera inferiore; la datazione all'età di M. Aurelio è assicurata dal bollo C.I.L., xv, 789. Nelle vicinanze si sono rinvenuti resti di una ampia domus, con una parte residenziale ad atrio ed ampio peristilio, e un vasto impianto rustico, che il Lugari identifica con la Domus Beatae Marmeniae. Altri trovamenti nella zona, all'inizio del secolo passato, portarono alla luce alcuni pregevoli mosaici (tra cui uno con scena bacchica firmato da Aristos e un altro con Apollo eseguito da un T. Flavius), oltre a varie sculture ora al Museo Torlonia.

Bibl.: F. Capranesi, in Atti Pont. Acc., II, 1823, p. 668 ss.; Not. Sc., 1883, p. 130; 1884, pp. 80 ss., 104 ss.; 1893, p. 33 ss.; G. B. Lugari, in Diss. Pont. Acc. Ser., II, III, 1888-89, p. 87 ss.; G. Tomassetti, La Campagna Romana, Roma 1910, II, p. 81 ss.

14. Sepolcri degli Orazi e dei Curiazi. - La tradizione erudita settecentesca ha denominato sepolcri degli Orazi e dei Curiazi tre tumuli che sorgono sulla destra della via, all'altezza del V miglio, dove le fonti localizzano le Fossae Cluiliae, teatro del leggendario combattimento. Trattasi in realtà di costruzioni della fine della Repubblica o inizio dell'Impero, come mostrano le platee di fondazione in calcestruzzo e il tipo di paramento in blocchi squadrati; mantengono tuttavia forme costruttive assai arcaiche, essendo prive di cella funeraria o limitandosi la sepoltura ad una pietra incavata, contenente le ceneri, interrata nel nucleo del tumulo. Il più settentrionale dei due tumuli attribuiti agli Orazi sembra il più antico ed ha un tamburo in peperino; l'altro invece aveva una fodera in blocchi di travertino con alcune parti decorative in marmo. Nell'interno esso presenta una serie di tramezzi arcuati per suddividere la massa di terra e frazionarne la pressione; sul tumulo si eleva una torretta che forse costituiva un sostegno interno per il monticello terragno che si innalzava assai più dell'attuale.

Gli scavi del Pinza, nel 1906, hanno mostrato che la zona fu precedentemente occupata da sepolcri più antichi, in relazione con tre diversi livelli stradali; le deduzioni che lo scavatore credette poterne trarre, e soprattutto le datazioni da lui proposte, vanno tuttavia accettate con prudenza.

Bibl.: L. Canina, La prima parte della Via Appia, I, Roma 1853, p. 123 ss.; G. Pinza, in Not. Sc., 1906, p. 338 ss.; id., Ricerche intorno ai monumenti ritrovati al V miglio della Via Appia, in Öst. Jahreshefte, X, 1907, p. 191 ss.; G. Tomassetti, La Campagna Romana, Roma 1910, II, p. 78; G. T. Rivoira, Architettura Romana, Roma 1910, II, p. 78; G. T. Rivoira, Architettura Romana, Milano 1921, p. 13 ss.; Th. Ashby, The Roman Campagna in Class. Times, Londra 1927, p. 186; L. Crema, Architettura Romana, Torino 1959, pp. 13,1, 243, fig. 260.

15. Sepolcri del IV miglio. - Si segnalano due sepolcri in laterizio del II sec. d. C. di conservazione particolarmente buona. Il primo è "a tempio", con alto podio gradinato che dà accesso alla camera superiore con nicchie nelle pareti, forse per statue; la camera inferiore conserva la vòlta a crociera su piloni angolari. L'esterno mostra una accuratissima cortina laterizia messa in rilievo dalla dicromia del mattone usato, rosso per lesene, cornici, ecc., giallo per le specchiature delle pareti. L'altro sepolcro presenta un pronao senza graclinata, forse accessibile per mezzo di scalette lignee. Le pareti mostrano due ordini di paraste in cotto rosso, separate da una cornice a dentelli; la camera inferiore, meglio conservata, è coperta da vòlta a crociera impostata su piloni angolari.

Bibl.: G. B. Piranesi, Antichità Romane, Roma 1756, II, tav. XLVII; III, tav. VIII; L. Canina, La prima parte della Via Appia, Roma 1853, p. 120, tavv. XXIII-XXV; G. T. Rivoira, Architettura Romana, Milano 1921, p. 191 s.; L. Crema, in Serta Hoffilleriana, Zagabria 1940, p. 264 ss.; L. Crema, Architettura Romana, pp. 4393, 496. Disegno agli Uffizî: A. Bartoli, I Monumenti antichi di Roma, Roma 1914-22, IV, tav. 392, fig. 691.

16. Villa dei Quintili. - L'amplissima villa, probabilmente passata da Q. Cecilio a Pomponio Attico e da questi alla gens Quintilia (Canina), si estende su di una superficie di quasi un km2 alla sinistra della via, poco oltre il V miglio. Dai Quintili, sterminati per volere di Commodo, il predio passò al fisco imperiale; lo stesso Commodo, a stare alle fonti (Herod., 1, 12; Cass. Dio, lxxii, 13), vi avrebbe dimorato. Vi sono stati eseguiti scavi nel 1787-1790, nel 1827-30 e, a più riprese, tra il 1840 e il 1869, che hanno fruttato pitture (Villa Albani: Helbig, Führer, ii, n. 852), mosaici (Vaticano, Sala a croce greca, Nogara, I mosaici antichi del Vaticano, p. 15) e numerose sculture in gran parte al Museo Torlonia (Cat. Visconti, nn. 1, 8, 52, 55, 63, 68, 149, 160, 161, 171, 199, 237, 251, 272, 328, 330, 364, 396, 404, 409).

I ruderi si dividono in cinque gruppi (Ashby). Il primo, adiacente al Casale di S. Maria Nova, comprende due conserve d'acqua a più vani coperti da vòlta a botte, e una serie di ambienti absidati attorno ad una sala quadrata. Lungo la via Appia il secondo gruppo si apre con un ninfeo cui si accede per un ingresso colonnato: di qui si passa in un atrio pavimentato in peperino e mosaico, sul cui fondo si erge la grande fontana, con un nicchione tra due ali rettilinee preceduto dalla ampia vasca in cui si raccoglieva l'acqua. L'opera è sorta in due momenti diversi, nel II e nel IV sec. d. C. (vi si sono poi aggiunte superfetazioni medievali), e doveva delimitare un ampio giardino. All'estremità N-E di questo giardino, sorge il terzo gruppo che comprende due sale quadrate. La prima, in opera laterizia, in buono stato di conservazione, presenta grandiose finestre arcuate sui quattro lati ed è attorniata da una serie di ambienti minori assai più bassi; l'interno aveva decorazione marmorea con colonne composite sorreggenti ricche cornici (Nibby, Analisi, iii, 731). La seconda sala è a poca distanza, ed è attorniata anch'essa da una serie di sale minori; assai notevole è il prospetto con finestroni su due ordini. Le grandi sale sono da identificare con ambienti termali, come prova la piscina rivestita di marmi che occupa per intero la seconda di esse, e le suspensurae presenti in vani semisotterranei che collegano i due complessi. Il lato verso l'Appia Nuova è sorretto da potenti sostruzioni, ed è occupato da una serie di ambienti posti attorno ad una corte che attestano un complesso residenziale dalla pianta assai ricca e variata. Il quarto gruppo di ruderi si incentra attorno al cosiddetto Ippodromo, un giardino lungo oltre 400 m e largo circa 100, e comprende una serie mal conservata di edifici tra i quali altre grandi conserve di acqua; il quinto gruppo, infine, situato a settentrione, offre edifici di minore importanza, tra cui la rampa d'accesso alla villa verso N. Le fasi costruttive si concentrano alla metà del II sec. (fase laterizia) e nel IV sec. (fase in opera listata mista).

È dubbio se appartenga alla villa un sacello dedicato a divinità orientali rinvenuto nel 1935 non lontano dalla via Appia Nuova.

Bibl.: Th. Ashby, in Ausonia, IV, 1909, p. 48 ss. (con piante e bibl. prec.); G. Tomassetti, La Campagna Romana, Roma 1910, II, p. 89 ss.; A. Muñoz, in Bull. Com., XLI, 1913, p. 3 ss.; G. T. Rivoira, Architettura Romana, Milano 1921, p. 175 s.; Th. Ashby, The Roman Campagna in Class. Times, Londra 1927, p. 185 ss.; Not. Sc., 1935, p. 76 ss.; G. Lugli, La tecnica edilizia dei Romani, Roma 1957, pp. 440, 524, 608 s., 652, 681, tav. CLXXVII; L. Crema, Architettura Romana, Torino 1959, p. 464.

17. Casal Rotondo. - È un grandioso sepolcro a tumulo che sorge al VI miglio. Il monumento ha conosciuto tre fasi: ad un primo tumulo assai più piccolo con tamburo di lapis albanus, succedette un mausoleo più grandioso con una rotonda in conglomerato rivestita di travertino; infine, nella terza fase, alla calotta di terra fu sostituita una copertura conica a lastre marmoree. La fronte verso la via Appia era arricchita da una esedra decorata forse da statue. In base ad un frammento di iscrizione (C.I.L., vi, 1935), il sepolcro è stato attribuito ad un certo Cotta, in cui, secondo il Canina, si dovrebbe riconoscere M. Valerio Messalino Cotta. In ogni caso l'edificio, nella sua fase ultima, è da assegnare ad età augustea.

Bibl.: L. Canina, La prima parte della Via Appia, Roma 1853, p. 145 s.; G. Tomassetti, La Campagna Romana, Roma 1910, II, p. 101 ss.; G. T. Rivoira, Architettura romana, Milano 1921, p. 15; B. Goetze, Das Rundgrab in Falerii, Stoccarda 1939, p. 15; L. Crema, Architettura Romana, Torino 1959, p. 248.

(M. Torelli - F. Zevi)

II. Via Latina. - 1. Ipogeo di Trebio Giusto. - Scoperto nel 1910 al I miglio della via (tra la Latina e l'odierna Appia Nuova), l'ipogeo consta di un lungo dròmos, di un vestibolo e di una camera sepolcrale che conta tre loculi per ciascuna delle pareti laterali ed un arcosolio nella parete di fondo.

L'intera camera sepolcrale è affrescata con scene relative alla vita del defunto, Trebio Giusto, probabilmente un costruttore edile morto in età giovanile. Nei loculi delle pareti laterali sono illustrate infatti le attività di un cantiere edilizio, mentre sulla parete di ingresso è raffigurato un trasporto di materiali probabilmente da costruzione. Più complessa la rappresentazione sulla parete di fondo, dove nel loculo è ritratto il giovinetto fra rotuli, capsa e materiali scrittori; Trebio Giusto compare di nuovo nella lunetta superiore tra i suoi genitori, e una terza volta è effigiato sullo zoccolo attorniato dai suoi contadini. Sulla vòlta dell'ambiente è un pastore tra due pecore, e decorazioni con fiori ed uccelli.

La datazione e l'esegesi del complesso pittorico sono molto controverse. Quanto alla cronologia, se molti studiosi e particolarmente coloro che hanno esaminato le pitture dal punto di vista esegetico (Cecchelli, Buonaiuti) pensano al III sec. d. C., maggior fondamento sembra avere la datazione ai primi decenni del IV sec. d. C. (Becatti, Rumpf). Dubbia rimane anche l'interpretazione dell'ipogeo come monumento cristiano eretico, permeato com'è nelle sue figurazioni di vivo senso realistico, senza alcuna allusione precisa alla simbologia cristiana. Da un punto di vista stilistico si può rilevare una notevole affinità tra queste pitture e quelle della cosiddetta Nuova Catacomba della via Latina. L'ipogeo attualmente non è accessibile.

Bibl.: R. Kanzler, in Nuovo Bull. Arch. Crist., XVII, 1911, p. 201 ss.; O. Marucchi, ibid., p. 209 ss.; R. Delbrück, in Arch. Anz., 1912, c. 289 ss.; O. Marucchi, apud Dölger, Konstantin der Grosse, Friburgo 1913, p. 297 ss.; J. Wilpert, ibid., p. 276 ss.; H. Leclercq, in Dict. Arch. Chrét., VI, 1925, c. 2937 ss., s. v. Hypogée; C. Cecchelli, Monumenti cristiano-eretici di Roma, Roma 1944, p. 135; G. Becatti, in Boll. d'Arte, XXXIII, 1948, p. 197 ss.; A. Rumpf, Malerei und Zeichnung, Monaco 1953, p. 196; M. Borda, La pittura romana, Milano 1958, p. 343 ss.

2. Sepolcro detto "La Torretta". - È sulla sinistra della via, presso il Ponte della ferrovia Roma-Civitavecchia (II miglio). Circondato da un recinto sepolcrale adibito a colombario, è rettangolare a due piani, con fronte in cotto a lesene angolari nell'ordine inferiore e semicolonne corinzie nel superiore. Le due stanze inferiori, coperte con vòlta a botte cassettonata, presentano un partito di nicchie coperte ad arco e a timpano triangolare, con modanature e cornici in cotto. I bolli laterizi assicurano una datazione alla metà del Il sec. d. C. (C.I.L., xv, 596). È probabile sia questo l'edificio riprodotto da Pirro Ligorio nel God. Bod. Canon. Ital., 438 (f. 143 r).

Bibl.: A. Nibby, Analisi della carta dei Dintorni di Roma, Roma 1849, III, p. 588; O. Marucchi, Le catacombe Romane, Roma 1903, p. 249; T. Ashby, in Pap. Br. Sch. Rome, IV, 1907, p. 23 ss.

3. Necropoli del IV miglio. - Le tombe monumentali fanno parte di una cospicua necropoli, scavata in buona parte alla metà del secolo scorso e composta per lo più di sepolcri del II sec. d. C.:

a) Tomba dei Pancrazi. - È a pianta rettangolare, originariamente a due piani con pavimenti figurati in mosaico bianco e nero; si conserva attualmente solo quello inferiore, semisotterraneo, composto di due ambienti coperti a vòlta, nei quali si rinvennero numerosi sarcofagi (alcuni in situ, altri al Museo Laterano: Benndorf-Schoene, nn. 48, 49, 50, 6o, 61). La decorazione pittorica della prima stanza è quasi completamente evanida; nella seconda invece si conservano ottimamente sulla vòlta decorazioni con stucchi policromi alternati a pannelli dipinti (v. soffitto). La tomba risale alla metà circa del II sec. d. C. ed apparteneva al collegio funeraticio dei Pancratii (C.I.L., vi, 10279).

b) Sepolcro cosiddetto Barberini. - Conserva una bella facciata in cotto, con lesene corinzie su due ordini agli angoli e cornici riccamente modanate. Piccole finestrine rettangolari e un riquadro contenente forse il titolo sepolcrale si aprono nel piano inferiore; un grande finestrone ad arco nel superiore. Le nicchie sepolcrali eran poste oltre che nelle due camere dell'edificio anche nel recinto che delimitava l'area, pavimentata a mosaico. Attualmente assai danneggiato, il sepolcro è meglio noto da antiche riproduzioni, particolarmente del Ligorio (cfr. Journ. Rom. St., xi, 1919, pp. 193, tavv. xi-xii) e del Bartoli. Vi si rinvenne il noto sarcofago vaticano con il mito di Protesilao e Laodamia (Galleria dei Candelabri, n. 113).

c) Sepolcro dei Valerii. - La tomba (la cui denominazione è fantastica), è del tipo a due piani; il piano superiore è quasi interamente di ricostruzione. Si apriva sulla strada con un portico sostenuto da colonne e pilastri; due scale portavano al piano ipogeo. Qui un atrio immette in due camere sepolcrali opposte, ambedue coperte con una vòlta a botte, in una delle quali si conserva la bella decorazione in stucco bianco e medaglioni (v. stucco). I sarcofagi rinvenuti sono databili al II sec. d. C.; alcuni sono oggi al Laterano (Benndorf-Schoene, nn. 37 e 40). La datazione del complesso all'età antonina è confermata dal rinvenimento di un bollo laterizio del 159 d. C. (C.I.L., xv, 1368).

d) Villa e Basilica di S. Stefano. - Nella zona della necropoli venne anche in luce una vastissima villa che prospettava sulla via con un ampio colonnato: oggi rimangono visibili solo i ruderi di una conserva d'acqua. Da qui provengono numerose sculture oggi al Laterano (BenndorfSchoene, nn. 1-25). Nella villa, edificata nel corso del II sec. d. C., fu installata all'epoca di Papa Leone I (440-61) una basilichetta, dedicata a S. Stefano, di cui restano avanzi.

Bibl.: L. Fortunati, Relazione generale degli scavi e scoperte fatte lungo la Via Latina, Roma 1859; T. Ashby, in Pap. Br. Sch. Rome, IV, 1907, p. 60 ss. (con bibl. prec.); id., The Roman Campagna in Class. Times, Londra 1927, p. 154 ss. Tombe dei Pancrazi e dei Valeri: C. A. Mills, The Tombs of the Via Latina, in Journ. Br. Am. Soc. of Rome, IV, 1906-1912, p. 400 ss.; E. L. Wadsworth, in Mem. Am. Ac. Rome, IV, 1924, p. 69 ss. Tomba Barberini: G. Tomassetti, La Campagna Romana, Roma 1910, IV, p. 60 ss.; L. Crema, in Serta Hoffilleriana, Zagabria 1940, p. 279 ss.; G. Lugli, La tecnica edilizia dei Romani, Roma 1957, tav. CLXXXIII.

4. Villa "Le vignacce". - A qualche distanza dalla via sulla sinistra (V miglio - località Quadraro) si estendono i ruderi di un'amplissima villa, i cui nuclei principali ora affioranti possono forse identificarsi con un complesso termale con una vasta sala absidata a nicchie, fiancheggiata da ambienti minori coperti da vòlte a botte e a crociera, e un grande ambiente circolare a cupola racchiuso fra una serie di stanze secondarie. Si stendeva lungo la fronte N-E una grandiosa terrazza, lunga oltre 120 m, con una fontana centrale absidata e decorata all'esterno di nicchie. Per la tecnica costruttiva e i bolli laterizi la villa si data in età adrianea (probabilmente tra il 125 e 130: Bloch), ma con restauri del IV sec., tra i quali spicca il rifacimento delle vòlte con olle fittili. Ipotetica rimane l'attribuzione a Q. Servilio Pudente, proprietario di figline del periodo adrianeo. Da questa villa provengono la testa colossale di Giulia Domna della Rotonda Vaticana (n. 554) e le celebri sculture della Tyche di Antiochia e del Ganimede rapito dall'aquila del Museo Chiaramonti.

Bibl.: Th. Ashby, in Pap. Brit. Sch. Rome, IV, 1907, p. 74 ss.; Th. Ashby-G. Lugli, in Mem. Pont. Acc., II, 1928, p. 188 ss. (con bibl. prec.); G. Lugli, La tecnica edilizia dei Romani, Roma 1957, p. 671. Per la cronologia: H. Bloch, in Bull. Com., LXV, 1937, p. 181 ss.

5. "Romavecchia". - Nella tenuta detta di Romavecchia è stato scavato un vasto edificio adrianeo che comprendeva, oltre ad ambienti minori, una sala semicircolare con nicchie e una tribuna di fronte alla porta d'ingresso principale; vi si notarono soprattutto due vaste aule absidate, internamente spartite da pilastri e colonne e contrapposte in modo che le due absidi si innestassero nella loro convessità, ripetendo così il motivo architettonico del tempio di Venere e Roma. La villa conservava resti di belle pitture e di pavimenti in mosaico ed opus sectile.

Bibl.: Not. Sc., 1883, p. 210 ss.; Th. Ashby, in Pap. Brit. Sch. Rome, IV, 1907, p. 89 ss.; id., The Roman Campagna in Class. Times, Londra 1927, p. 155.

Villa di Sette Bassi. - Grandiosa villa vicina alla via Latina (VI miglio, la moderna località Osteria del Curato). L'attuale denominazione è di origine incerta: secondo alcuni ripete il nome di un antico proprietario, Septimius Bassus, ma l'ipotesi resta tuttora indimostrata. Scavata solo parzialmente nel 1780 (mosaici al Vaticano, sala degli Animali: Nogara, p. 15, tavv. 25-26), nel 1861, 1865 e 1933, fu disegnata nel XVI sec. da fra' Giocondo e nel XVIII dal Guattani e dal Piranesi. La villa si è formata in tre periodi principali (Lupu), che però si susseguono l'uno all'altro in fasi così strettamente congiunte da potersi affermare che si trattò probabilmente della esecuzione di un progetto unitario, realizzato in lotti di costruzione scaglionati tutti nei decenni del regno di Antonino Pio (Bloch). Il primo periodo (inizio del regno di Antonino Pio) vide la costruzione di un edificio non grande, dalla pianta compatta, articolata intorno ad un grande peristilio con ambienti termali, diaetae ed un interessante oecus finestrato. Nel secondo periodo (anni 140-150 d. C.), si hanno notevoli ampliamenti eseguiti in opus mixtum con grandi prospetti finestrati e balconate verso O e N. Con la terza fase (fine del regno di Antonino Pio) abbiamo l'edificazione di un altro complesso di grandi proporzioni (di nuovo in solo laterizio), detto "il grande palazzo", in parte eretto su colossali terrazzamenti, adiacente all'angolo N-O del precedente gruppo di costruzioni: articolato grandiosamente su più piani di cui quello terreno, preceduto da un portico, conteneva nuovi ambienti termali. Inoltre verso S si creò un vastissimo giardino, bordato ad oriente e a mezzogiorno da un lungo criptoportico con esedre alle estremità e varî padiglioni e nicchie lungo tutto il percorso dei muri perimetrali. Altri nuclei minori, appartenenti alla stessa villa (tra cui un tempietto), completano il quadro di questa ricca e complessa architettura, il cui rudere più importante, un grandioso muro di facciata con finestre su due ordini, è stato malauguratamente abbattuto da un temporale nel 1951.

Bibl.: Th. Ashby, in Pap. Brit. Sch. Rome, IV, 1907, p. 97 ss. (con bibl. prec. e piante del complesso); G. Tomassetti, La Campagna Romana, Roma 1910, IV, p. 100 ss.; G. T. Rivoira, Architettura Romana, Milano 1921, p. 178 ss.; Th. Ashby, The Roman Campagna in Class. Times, Londra 1927, p. 156 ss.; N. Lupu, in Ephem. Dacoromana, VII, 1937, p. 117 (con studî di ricostruzione); G. Lugli, in Palladio, N. S. II, 1952, p. 176 s.; id., La tecnica edilizia dei Romani, Roma 1957, pp. 439, 524, 579, 609 ss., 641, 652, 679 ss., tavv. CXCV, i; CCV-CCVI; A. M. Colini, in Capitolium, XXIII, 1958, 5°, p. 7 ss.; L. Crema, Architettura Romana, Torino 1959, p. 461. Per la cronologia: H. Bloch, in Bull. Com., LXVI, 1938, p. 124 ss.

7. Cosiddetto "Tempio della Fortuna Muliebre". - È un sepolcro laterizio, sulla sinistra della via Appia Nuova (identificata dall'Ashby con l'antica strada per Castrimoenium), all'altezza dell'ippodromo delle Capannelle. Ne restano cospicui ruderi che, noti col nome di Tempio della Fortuna Muliebre, sono stati spesso disegnati dal Rinascimento in poi. Consta di una cella quadrata (m 6,20 di lato) con nicchie alle pareti, decorata all'esterno da pilastri di ordine corinzio, tra i quali sono pannelli con una ricca decorazione in cotto. Nel sec. XII venne trasformato in abitazione.

Bibl.: Th. Ashby, in Pap. Br. Sch. Rome, IV, 1907, p. 147; G. Tomassetti, La Campagna Romana, Roma 1910, IV, p. 105; L. Crema, in Serta Hoffilleriana, Zagabria 1940, pp. 270 ss.; 279; id., Architettura Romana, Torino 1959, p. 496.

(M. Torelli - F. Zevi)

III. Via Tuscolana moderna. - 1. Colombari di via Taranto. - Nel 1932, nell'angolo formato tra le moderne vie Taranto, Enna e Pescara, a qualche distanza dalle mura aureliane, furono rinvenuti due colombarî decorati di pitture, conservati in situ. Di semplice struttura, si presentano come ambienti rettangolari, coperti da vòlta a botte, sulle cui pareti si aprono nicchiette rettangolari o ad arco contenenti le olle cinerarie; in facciata, mostrano un portale architravato in travertino, al disopra o ai lati del quale sono feritoie e l'incavo per la lapide iscritta, secondo una tipologia ben nota a Porto ed altrove. Il più antico tra i due colombarî (in opera reticolata), presenta una decorazione pittorica assai ben conservata, con alto zoccolo a riquadri imitante una parete isodoma; tra le nicchiette ad arco sono dipinte snelle anfore dorate e negli angoli e sulle pareti corti tralci di vite e rami di melograno; in alto, pendono esili festoni legati con bende cui sono appesi corni potori e cembali. La vòlta è decorata a quadrati racchiudenti ciascuno un ramo di rosa. La pittura, di buona qualità, ricorda ancora i modi compendiarî e i colori sobriamente sfumati dell'età augustea, e si può datare alla metà del I sec. d. C.

Il secondo colombario (le cui pareti mostrano una più variata disposizione di nicchie) reca sulla parete di fondo due maschere funerarie e una figura di Tyche con l'attributo della ruota; la vòlta è ripartita in pannelli a losanghe e tondi a fondo rosso con uccelli, Eroti, Psychai, che attorniano un esagono bianco in cui è una figura femminile velata. Lo stile classicistico delle figure e soprattutto il contrasto di campi di colori cercato nei pannelli della vòlta, riportano come cronologia alla prima età antonina.

Bibl.: M. Pallottino, in Bull. Com., LXII, 1934, p. 41 ss.; M. Borda, La pittura romana, Milano 1958, pp. 67, 91, 272, 276.

2. "Monte del Grano". - Al quarto chilometro della moderna Tuscolana, si eleva una piccola altura che contiene un grandioso sepolcro in laterizio: il rivestimento esterno del tumulo, in travertino, era perduto nel sec. XIV. La cella circolare era divisa in due piani da una vòlta, oggi crollata che, secondo il Piranesi, era sorretta da colonne. Al piano inferiore si accede attraverso un lungo corridoio mentre la cella superiore, con copertura a calotta, preceduta da un ambiente rettangolare, era illuminata da due pozzi di luce che attraversavano diagonalmente la massa del tumulo; inoltre un pozzo d'aria verticale intersecando uno dei lucernai, sboccava al termine del corridoio d'accesso. Lucernai e pozzo d'aria sono foderati da una cortina laterizia che per tecnica è databile alla fine del II-principio del III sec. d. C. (Ashby-Lugli). La tomba venne aperta intorno al 1582 e ci si rinvenne il sarcofago con scene della vita di Achille oggi al Museo Capitolino (Stuart-Jones, p. 77 ss.); destituita di fondamento la notizia, spesso ripetuta, del rinvenimento, nell'interno del sarcofago, del celebre Vaso Portland.

Bibl.: Th. Ashby, in Pap. Br. Sch. Rome, IV, 1907, p. 53 ss. (con bibl. prec.); G. T. Rivoira, Architettura Romana, Milano 1921, p. 17 ss.; Th. Ashby-G. Lugli, in Mem. Pont. Acc., II, 1928, p. 179 ss.

(M. Torelli - F. Zevi)

IV. Via Labicana. - 1. Cenotafio di Antinoo. - I geroglifici dell'obelisco pinciano, probabilmente incisi a Roma, dicono che esso fu eretto sul luogo della tomba (o cenotafio?) di Antinoo, subito fuori i limiti cittadini. Il monumento sepolcrale dovette essere nel luogo stesso dove l'obelisco giaceva agli inizi del XVI sec., e cioè a circa 390 m a E delle mura aureliane fuori di Porta Maggiore sull'antica via Labicana. Forse era associato ad un altro, come quelli posti a ornamento del Mausoleo di Augusto.

Bibl.: E. Nash, Bildlexikon zur Topogr. d. ant. Rom, Tubinga 1961-2, II, p. 130, figg. 846, 847.

(F. Magi)

2. Osteria di Centocelle (III miglio). - È una singolare costruzione assai nota nel Rinascimento, di incerta destinazione, a pianta centrale coperta a cupola gettata, con finestre; sulla rotonda si innestano radialmente delle profonde nicchie ad arco di mattoni che, aggettando dal nucleo, costituiscono il rinfianco della cupola. L'edificio, cui in età posteriore furono aggiunti sul fianco una serie di ambienti terminanti in un salone longitudinale con abside, sembra si aprisse sulla via con un portichetto colonnato. Se ne conservano interessanti rilievi del Ligorio (ms. Bodl., f. 81v), del Montano e dell'Anonimo di Windsor. Nelle vicinanze fu scoperto il monumento degli Haterii (v.).

Bibl.: Th. Ashby-G. Lugli, in Mem. Pont. Acc., II, 1928, p. 167 ss. (con piante e bibl. prec.); G. Lugli, La tecnica edilizia dei Romani, Roma 1957, pp. 619, 688, 692; id., in Studies to D. M. Robinson, 1951, II, p. 1271 ss.

3. Villa "ad duas lauros". - Al IV miglio sorgeva una grande villa, distrutta nel 1926 in occasione dei lavori per il campo di aviazione, identificabile forse con la proprietà costantiniana detta ad duas lauros (Tertull., Apolog., 35). I fabbricati, la cui pianta è stata ora integrata con l'ausilio di aerofotografie (v. vol. iii, pag. 457) si svolgono attorno ad un grande cortile con colonne tuscaniche di peperino, sul cui lato N si apre una serie di ambienti residenziali raggruppati attorno ad un salone con vòlta a crociera sorretta da piloni angolari. Ambienti di rappresentanza, tra cui spicca una sala aprentesi in facciata con un portico a due colonne fiancheggiata simmetricamente da due aule absidate, si svolgono sul lato meridionale; notevole è qui inoltre una sala basilicale a tre navate, mentre un grosso complesso di ambienti termali fu aggiunto in epoca più tarda. Altri ruderi, isolati dal nucleo principale, comprendevano una terma incentrata su un salone ottagono con nicchie negli angoli, e una ampia sala circolare coperta da una cupola la cui spinta era bilanciata all'esterno da archetti costituenti un originale partito decorativo. Il grandioso complesso fu oggetto di una continua attività edilizia tra il II ed il IV sec. d. C. (v. elena, vol. iii, p. 299). Vi furono rinvenuti nel secolo scorso emblemata musivi figurati, alcuni ritratti imperiali e una notevole serie di sculture decorative (parte al Museo Torlonia, parte al Vaticano).

Bibl.: Th. Ashby-G. Lugli, in Mem. Atti Pont. Acc., II, 1928, pp. 157 ss., 168 ss. (con piante e bibl. precedente).

(M. Torelli - F. Zevi)

V. Via Prenestina. - Monumento di Eurisace. - Monumento sepolcrale del panettiere M. Vergilius Eurysacis, subito fuori di Porta Maggiore all'angolo fra le antiche vie Labicana (ora Casilina) e Prenestina. Costruito nella seconda metà del I sec. a. C., fu nascosto da una torre della Porta Prenestina di Onorio, e scoperto in occasione della demolizione della doppia porta sotto Gregorio XVI nel 1838. La tomba è trapezoidale (lati: m 8,75; 6,85; 5,80; 4,05), in opera cementizia, ricoperta di travertino. L'architettura è bizzarra; la parte inferiore, che si eleva sul podio, è costituita da pilastri e cilindri alternati; la superiore mostra tre file di bocche rotonde di poco sporgenti dal fondo inquadrato da pilastri con capitello, e da un fregio a rilievo con cornice terminale, nel quale sono chiaramente espresse le varie operazioni del panettiere. Cilindri e bocche potrebbero rappresentare misure di grano o recipienti per fare la pasta. Sul plinto, che separa le due parti a circa metà altezza, è incisa l'iscrizione ripetuta su tutti i lati (C.I.L., vi, 1958). Nel 1838 furono anche ritrovati i ritratti ad alto rilievo di Eurisace e sua moglie, esposti fino al 1955 sulla via Labicana.

Bibl.: E. Nash, Bildlexikon zur Topogr. d. ant. Rom, 1961-2, II, p. 329, figg. 1096-1102.

(F. Magi)

2. Basilica sotterranea di Porta Maggiore. - Scoperta casualmente nel 1917, in seguito al cedimento del terreno sotto uno dei binari della linea ferroviaria Roma-Napoli, fu isolata e restaurata in modo definitivo nel 1951-52.

La basilica, orientata da E a O, fu appositamente costruita sotterranea, a circa m 8, al di sotto del piano dell'antica via Prenestina. Il monumento, edificato interamente in calcestruzzo di selce, consta di tre parti, nettamente distinte: 1) corridoio d'accesso (di cui non si conosce lo sbocco esterno) coperto a vòlta, illuminato da pozzi e sobriamente decorato; 2) vestibolo od atrio quadrato, con pozzetto centrale, fornito di lucernario, decorato in modo ricco e fastoso, ma organicamente composto (in parte in stucchi a rilievo, in parte dipinto con motivi policromi su fondo rosso): 3) basilica vera e propria, a tre navate, con abside in corrispondenza dell'estremità di quella centrale. Le navate, coperte da una vòlta a tutto sesto, sono messe in comunicazione per mezzo di quattro archi a sesto ribassato, che impostano sopra pilastri rettangolari. Questo ambiente è completamente decorato con stucchi bianchi, di straordinaria finezza e vigore, tra i più ricchi, che il mondo romano ci abbia tramandato (v. stucco).

I temi ed i soggetti rappresentati possono essere distinti in tre gruppi: 1) scene di vita quotidiana (scuola, giocolieri, matrimonio); 2) scene e figure mitologiche (Eracle ed Alcesti, Medea con il pedagogo davanti ai figli da lei stessa uccisi; Achille col centauro Chirone; tritoni, nereidi); 3) scene, figure ed oggetti di contenuto religioso e simbolico (tiaso dionisiaco, Hermes psychopompòs, Demetra con Trittolemo, menadi).

Da questo straordinario complesso emerge la scena absidale, rappresentante Saffo che, sospinta da un erote, scende nel mare, dove un tritone spiega un largo drappo per riceverla, mentre Apollo appare su una roccia, con la destra protesa verso di lei per proteggerla.

Il carattere della decorazione e l'ubicazione sotterranea del monumento mostrano che l'edificio era un luogo di riunione per una setta mistica, e precisamente neopitagorica, come fu proposto dal Cumont e successivamente dal Carcopino e dalla maggior parte degli studiosi. Il Bendinelli invece, vi ha riconosciuto un edificio sepolcrale, notando che l'idea fondamentale ispiratrice è quella della separazione dell'anima dal corpo (pur non escludendo che possa essere stato utilizzato per il culto funerario).

La basilica in base ai frammenti di reticolato (osservati dal Gatti sull'estradosso del lucernaio del pronao, nel punto in cui esso si apriva sul soprassuolo), all'opera cementizia di selce ed alla decorazione degli ambienti, è con sicurezza datata entro la prima metà del I sec. d. C. (Carcopino: periodo Claudio; Bendinelli: augusteo-tiberiano; Bastet: 20 d. C. riferendosi al III stile pompeiano).

Questo monumento, in uso solo per breve tempo, poiché non presenta tracce di rifacimento o di restauro, ci testimonia l'uso a R., fin dal I sec. d. C., della pianta basilicale, che verrà poi adottata negli edifici cristiani.

Bibl.: E. Gatti-F. Fornari, Brevi notizie relative alla scoperta di un monumento sotterraneo presso Porta Maggiore, in Not. Scavi, 1918, pp. 30-52; R. Lanciani, in Bull. Com., 1918, p. 69 s.; F. Cumont, La Basilique souterraine de la Porte Majeure, in Rev. Arch., V S., VII-VIII, 1918, p. 52 s.; G. Giovannoni, in Rend. Pont. Acc. Arch., 1919, p. 113 s.; C. Curtis, in Am. Journ. Arch., XXIV, 1920, p. 146 s.; G. Bendinelli, Il monumento sotterraneo di Porta Maggiore, in Mon. Ant. Lincei, XXXI, 1927, pp. 601-859; J. Carcopino, La Basilique pythagoricienne de la Porte Majeure, Parigi 1927; F. L. Bastet, De Datum van het Grote Hypogaeum bij de Porta Maggiore te Rome, Leida 1958 (con riassunto italiano); S. Aurigemma, La Basilica sotterranea neopitagorica di Porta Maggiore in Roma, Roma 1961; P. Mingazzini, Sul preteso carattere religioso della cosiddetta basilica sotterranea di Porta Maggiore, in Festschrift E. v. Mercklin, Weldsossen 1964, p. 90 ss.

(L. Crozzoli)

3. Sepolcro detto "il torrione". - È un grandioso sepolcro a tumulo (diametro m 42) di cui resta in buono stato di conservazione la cella rettangolare (m 4 × 5) con nicchie rettilinee, preceduta da un lungo corridoio d'accesso aprentesi sul lato opposto alla strada (II miglio). La cella è costruita in opera quadrata di tufo, con architravi e chiavi di vòlta in travertino; il corpo cilindrico, un tempo con rivestimento marmoreo, è invece in scaglie di selce e conferma con la sua tecnica la datazione all'età augustea.

Il Canina, senza fondamento, ha attribuito il sepolcro al tragediografo T. Quinzio Atta.

Bibl.: L. Canina, Edifizi di Roma Antica, Roma 1856, V, p. 86, VI, tav. 105; TH. Ashby, in Pap. Brit. Sch. Rome, I, 1902, p. 152 ss.; G. T. Rivoira, Architettura romana, Milano 1921, p. 10; C. Pietrangeli, in Bull. Com., LXVIII, 1940, p. 239 ss.; id., in L'Urbe, 1941, 5, p. i ss.

4. Villa dei Gordiani e Mausoleo di Tor de' Schiavi. - La Historia Augusta (Gordiani Tres, III, cap. 32), menziona sulla via Prenestina una grande villa appartenuta a questa famiglia, e ne magnifica le terme, le tre basiliche e i colonnati di marmi preziosi. I resti della villa sono tradizionalmente riconosciuti in una serie di edifici che si estendono sulla sinistra della via, al III miglio; vi sono stati recentemente condotti scavi da parte del Comune di Roma, ma i risultati sono inediti e manca pertanto una pianta definitiva del complesso. La villa, che incorporò anche un edificio repubblicano, comprende fabbricati del II, del III e del IV sec., e probabilmente costituiva un praedium della famiglia ancor prima che alcuni suoi membri assurgessero alla dignità imperiale. All'età antonina appartiene una grande conserva d'acqua in opus mixtum, a due piani, con contrafforti esterni e pareti intermedie leggermente concave forse per motivi statici, divisa in due serbatoi coperti a vòlta; più tarda un'altra conserva minore semisotterranea. L'edificio più imponente è una grande sala ottagona, il cui aspetto originario è stato modificato da superfetazioni medievali; sui lati del poligono si alternano nicchioni curvi e rettilinei, e si aprono quattro porte che mostrano come l'ambiente dovesse far parte di un vasto complesso di costruzioni. Potenti arconi laterizi sormontano le nicchie e sorreggono la cupola emisferica che si imposta su peducci in laterizio agli angoli dell'ottagono; costruita con olle fittili, era illuminata da grandi occhiali circolari, simili a quelli del vicino mausoleo. Avanzi di stucchi nelle nicchie testimoniano la ricchezza della sua decorazione. L'edificio era probabilmente una sala termale o un ninfeo; la tecnica e i particolari struttivi riportano all'avanzato III secolo. Allo stesso complesso termale appartiene un altro ambiente di età anteriore (edificato in opus mixtum), con una grande abside rettilinea la cui calotta è modellata in stucco a conchiglia, fiancheggiata da due altre nicchie semicircolari.

Passata in proprietà imperiale, la Villa dei Gordiani fu unificata agli altri possedimenti costantiniani in un unico vastissimo praedium (in età tarda detto Subaugusta) estendentesi per l'intero settore Prenestina-Latina (cfr. Liber Pontificalis, Duchesne, 1, p. 182). A tale epoca risale la costruzione del grandioso mausoleo detto Tor de' Schiavi dal nome di una famiglia che nel Medioevo possedette la tenuta. Come il mausoleo di Romolo sull'Appia, cui somiglia moltissimo, è circolare a due piani, l'inferiore costituito da un massiccio pilone centrale intorno al quale gira un corridoio anulare incavato nel muro d'ambito da nicchie rette e curve e coperto da vòlta a botte. La camera superiore presenta uguale alternanza di nicchie, quella centrale, più ampia, messa in evidenza da un timpano sorretto da mensoloni; la vòlta a sesto pieno è gettata su un'armatura di arconi laterizi concatenati a cassetta; presenta grandi occhiali circolari ed era adorna di stucchi con scene di genere (v. stucco); all'esterno, la cupola appare come una calotta ribassata, perché il muro prosegue verticalmente anche al disopra dell'imposta della cupola stessa. La rotonda era preceduta da un pronao a colonne di granito grigio (alte m 4,50) con ampia gradinata frontale, sotto la quale erano ricavati ambienti in comunicazione con la cella inferiore, in parte conservati. Secondo il Canina, il monumento era circondato da un colonnato di cipollino. Nell'immediata vicinanza del mausoleo è stata posta in luce una basilica cristiana, del tipo costantiniano a deambulatorio. Misura m 66,60 × 34 circa, ed è divisa in tre navate da robusti pilastri; l'intera costruzione è in opera vittata mista. La facciata è rivolta esattamente ad E, ed è per tale motivo leggermente obliqua rispetto all'asse longitudinale della basilica che sembra invece orientata con la via Prenestina. Si ignora a chi fosse dedicata; per quanto non collegata direttamente con il mausoleo (come invece avviene per Tor Pignattara, il mausoleo di Costantina e quelli di S. Pietro), è tuttavia logico supporre una relazione tra i due edifici.

Al predio imperiale del IV sec. possono ancora appartenere alcune grandi conserve d'acqua che sorgono sul lato opposto della via Prenestina. La fascia di terreno che costeggia la strada, dall'una e dall'altra parte, rimase tuttavia occupata da sepolcreti in varie epoche; gli scavi recenti hanno messo in luce, nel tratto antistante Tor de' Schiavi, alcuni colombarî del I sec. d. C. di ottima conservazione, adorni di pitture e stucchi. Da Villa dei Gordiani provengono mosaici ora al Museo Vaticano (Nogara, tavv. xxv-xxvi).

Bibl.: Th. Ashby, in Pap. Brit. Sch. Rome, I, 1902, p. 156 ss.; G. Lugli, in Bull. Com., XLIII, 1916, p. 136 ss. (con bibl. prec.); G. T. Rivoira, Architettura romana, Milano 1921, p. 219 ss.; Th. Ashby, The Roman Campagna in Class Times, Londra 1927, p. 130 ss.; G. Lugli, La tecnica edilizia dei Romani, Roma 1957, pp. 442, 687; L. Crema, Architettura romana, Milano 1959, pp. 570, 625; G. Gatti, in Capitolium, XXXV, 1960, 6°, p. 3 ss. Per gli stucchi: G. B. Piranesi, Antichità Romane, s. d., II, tav. XXX; E. L. Wadsworth, in Mem. Am. Ac. in Rome, IV, 1924, p. 88.

(M. Torelli - F. Zevi)

VI. Via Tiburtina. - 1. Sepulcrum Pallantis. - Il noto liberto di Claudio ebbe la sepoltura dal senato sulla via Tiburtina intra primum lapidem. Da cfr. l'iscrizione sulla tomba di un M. Antonius Asclepiades Pallantis libertus, trovata presso la Porta Tiburtina (C.I.L., vi, 11965).

2. Sepolcri della Vigna Lozani-Argoli detti della Medusa. - Furono rinvenuti nel 1839, in questa località presso la Porta Chiusa, tra il Castro Pretorio e il Policlinico, decorati con stucchi e pitture.

(F. Magi)

VII. Via Nomentana. - 1. Necropoli di Villa Patrizi. - Tra la fine dell'Ottocento e i primi decennî del nostro secolo, è stata riportata alla luce una vastissima necropoli estendentesi nell'area della distrutta Villa Patrizi. Le tombe si aggruppavano attorno alla antica via Nomentana (che usciva dalle mura circa 200 m a S dell'odierna Porta Pia) e a numerosi diverticoli e vie minori che ad essa facevano capo. I seppellimenti si estendevano dall'età tardo repubblicana a tutto il I sec. d. C.; per lo più si trattava di tombe modeste appartenute a personaggi di basso e medio ceto. Nell'età di Traiano tutta la zona tra Nomentana e Salaria subì un rialzamento di oltre cinque metri, forse per gli scarichi dovuti alle grandiose opere pubbliche di quell'imperatore; la maggior parte degli antichi sepolcri rimase interrata, il livello della via fu innalzato. Sorse allora proprio all'inizio della via un grandioso mausoleo cilindrico rivestito di travertino (diametro m 22,50) posato su un dado quadrato di conglomerato (lato m 24), e sormontato dal consueto tumulo conico di terra. Nelle vicinanze vennero edificate ville con ampi penstilî colonnati, una delle quali possedeva un lungo xystos riccamente ornato. Numerose fistule acquarie con timbri di imperatori del II sec. attestano la presenza di proprietà imperiali.

Bibl.: R. Lanciani, in Riv. Tecnica delle Ferrovie It., VII, XIV, 1918, 2-4, p. 3 ss. (con bibl. prec.); E. Martinori, La Via Nomentana, Roma 1932, pp. 17-19.

2. Sepolcro detto "Sedia del Diavolo". - Si trova sulla sinistra della via, poco oltre la chiesa di S. Agnese. Appartiene al tipo dei sepolcri a tempio, a due piani. La camera inferiore semisotterranea, accessibile attraverso una scala ricavata sotto il podio, presenta una disposizione simmetrica con due arcosolî in ogni parete, al disopra dei quali sono cinque nicchie, rettangolari e ad arco, di altezza digradante; sopra di esse si aprono finestrine strombate. Il pavimento è in mosaico bianco. Le pareti, in opus vittatum mixtum (testimonianza di un tardo restauro), sorreggono una vòlta a vela, di un tipo cioè assai raro nell'architettura romana. Non meno interessante la camera superiore: sulla parete di fondo si apre un'ampia nicchia ad arco, inquadrata da due colonnine laterizie, al centro della quale è un avancorpo in cui si Incurva una nicchia minore, con calotta a conchiglia in stucco. Nicchie rettangolari sormontate da un timpano con il davanzale sorretto da mensole, si aprono sulle pareti laterali. La copertura dell'ambiente, infine, era ottenuta con una calotta posante su pennacchi sferici (oggi in gran parte crollata), un sistema struttivo poco comune nell'epoca in cui si data la tomba (metà del II sec.).

A quanto può giudicarsi dai tre prospetti superstiti (la facciata è interamente crollata), l'esterno non differiva dal consueto tipo dei sepolcri laterizi, con paraste corinzie in cotto, che inquadrano specchiature in laterizio con finestrine rettangolari: originale il fregio in cui, con mattoni di vario colore, disposti di piatto e per coltello, si è ottenuto l'effetto di una struttura lapidea isodoma. L'attribuzione del sepolcro ad un Aelius Callistion liberto di Adriano (Tomassetti) è infondata.

Bibl.: G. T. Rivoira, Architettura romana, Milano 1921, p. 192 ss.; Th. Ashby, The Roman Campagna in Class. Times, Londra 1927, p. 83 (con bibl. prec.); E. Martinori, La Via Nomentana, Roma 1932, p. 29; G. Giovannoni, in Palladio, I, 1937, p. 13; L. Crema, in Serta Hoffilleriana, Zagabria 1940, p. 263 ss.; G. De Angelis d'Ossat, in Atti III Congr. Naz. St. Rom., 1938 (1941), p. 227 ss.; L. Crema, Architettura romana, Milano 1959, pp. 340, 496.

3. Sepolcro di Tor Spuntapiedi o Torraccio della Cecchina. - Si trova sulla destra della via al km 3,650. È un edificio laterizio a pianta quadrata (m 5,20 di lato), a due piani, il superiore accessibile per mezzo di una scaletta laterale. Il mattone usato è giallo per i prospetti laterali, che non presentano decorazioni di sorta, e rosso in facciata, dove, al centro, è un ampio riquadro ornamentale delimitato da una cornice che superiormente s'incurva ad imitare, con il suo disegno a foglie lanceolate ottenuto alternando laterizi e pietre pomici, un festone appeso. Ai lati si aprono due finestre, un tempo con transenne marmoree, inquadrate da un prospetto architettonico in laterizio chiaro, con due colonnine poggianti su mensole (tra le quali corre un fregio a losanghe), che sorreggono un pesante timpano. La camera inferiore mostra una nicchia semicircolare e tre altre rettangolari con arco ribassato; la copertura è a crociera ribassata. L'ambiente superiore, che presenta analoga alternanza tra nicchie curve e rettilinee, è coperto (come la Sedia del Diavolo) da una calotta su pennacchi emisferici, con un interessante sistema di alleggerimento ottenuto lasciando dei vuoti nelle zone struttivamente morte della massa muraria. La vòlta recava delle figurazioni in stucco, oggi molto deteriorate. L'edificio si data nei decenni attorno alla metà del II sec. d. C.

Bibl.: Th. Ashby, The Roman Campagna in Class. Times, Londra 1927, p. 87; L. Crema, in Serta Hoffilleriana, Zagabria 1940, p. 271 ss. (cfr. bibl. della Sedia del Diavolo).

4. Villa di Faonte. - All'altezza del IV miglio della via, un poco discosti da essa in direzione della Salaria, sono noti alcuni resti di una villa del I sec. d. C., in particolare di un'ampia cisterna in opera reticolata coperta a vòlta; i topografi hanno riconosciuto in questi ruderi la Villa di Faonte, liberto di Nerone, dove si tolse la vita l'ultimo imperatore Giulio-Claudio. L'identificazione, basata sui dati delle fonti (Suet., Nero, 48) che pongono la villa a quattro miglia da R. sulla via Patinaria (tra Salaria e Nomentana) è avvalorata dal rinvenimento nella zona di un'urna cineraria appartenuta a Claudia Ecloge (C.I.L., vi, 34916), nella quale dovrebbe riconoscersi la liberta nutrice di Nerone, sepolta pertanto dove era stato cremato il patronus.

Bibl.: R. Lanciani, in Bull. Com., XIX, 1891, p. 227 ss.; id., in Not. Sc., 1891, p. 337 ss.; Th. Ashby, in Pap. Br. Sch. Rome, III, 1906, p. 46; id., The Roman Campagna in Class. Times, Londra 1927, p. 85; A. M. Colini, in Capitolium, XXIII, 1958, 3°, p. 3 ss.

5. Villa di S. Basilio. - Presso il casale di S. Basilio, su un diverticolo che si stacca alla destra della via tra il VII e l'VIII miglio è stata parzialmente esplorata una villa d'età repubblicana, che conserva tutti i caratteri della domus. L'ingresso, preceduto forse da una terrazza, immette in un atrio tuscanico con impluvium in tufo, pavimentato a mosaico bianco e nero, con fasce geometriche colorate come soglie delle porte e intorno all'impluvio. In asse con l'atrio si apre un piccolo peristilio circondato da un portico sorretto da colonne binate in muratura e collegate da plutei in calcestruzzo. A lato dell'atrio e del peristilio si aprono ambienti residenziali (solo parzialmente esplorati) e cubicoli con alcova e bei pavimenti a mosaico colorato con motivi geometrici (triangoli, scutulata, losanghe, dentelli in rilievo), eseguiti con molta finezza. La villa presenta affinità con la cosiddetta Casa di Catilina al Palatino, con la villa della Cecchignola, con quella repubblicana sotto Villa Adriana e con quella detta di Clodio sulla via Appia, tutte databili in età sillano-cesariana. Sono state rinvenute pitture di II stile; i bolli laterizi sono repubblicani (C.I.L., vi, 1268 e 1355). I mosaici, staccati, si conservano al Museo delle Terme.

Bibl.: Not. Sc., 1930, p. 529 ss.; G. A. Mansuelli, Le ville nel mondo romano, Milano 1958, p. 65; L. Crema, Architettura romana, Milano 1959, p. 122.

(M. Torelli - F. Zevi)

VIII. Via Salaria - 1. Mausoleo di Lucilio Preto. - È un grande monumento circolare nello stile dei tumuli etruschi; misura m 34,90 di diametro. Situato lungo la via Salaria (n. 125), a circa 300 m fuori della Porta Salaria, fu scoperto nel 1885. La crepidine, in calcestruzzo e rivestita di travertino, ha alto zoccolo e termina superiormente con una cornice a dentelli. Al disopra dovette esserci originariamente il tumulo di terra che portava l'altezza del monumento a circa 16 m. L'iscrizione, sulla via, incisa in un grande cartiglio marmoreo corniciato e lievemente sporgente, dice che il sepolcro fu fatto da Marco Lucilio Peto, vivente, per sé e per la sorella Lucilia Polla (C.I.., vi, 32932). Nel dietro si apre un corridoio che porta alla camera sepolcrale, misurante m 1,70 × 1,55, coperta con bassa vòlta a crociera. La tomba è databile alla fine del I sec. a. C., e già era scomparsa sotto terra in età traianea. Nel IV sec. d. C. fu riaperta e riadoperata, e vi fu scavata anche una catacomba.

Bibl.: E. Nash, Bildlexikon zur Topogr. d. antiken Rom, Tubinga 1961-2, II, p. 344, figg. 1117-1119.

(F. Magi)

2. Ipogeo di via Livenza. - Trattasi di un ambiente sotterraneo scoperto nel 1923, a pianta rettangolare, con uno dei lati corti absidato; nei lati lunghi si aprono due porte che conducevano ad ambienti che non vennero purtroppo esplorati, mentre l'altro lato corto presenta una bassa e lunga nicchia arcuata racchiudente una vasca assai profonda, che una transenna marmorea separa dal resto della sala. La parete di fondo della nicchia è decorata da pitture ottimamente conservate: su uno sfondo boscoso, a destra è raffigurata Diana in atto di estrarre una freccia dalla faretra, a sinistra una ninfa in abiti venatorî. Al centro della parete è una piccola nicchia decorata da pitture a finta incrostazione marmorea e, nel catino, la rappresentazione di colombe presso una fontana. Pitture decorano le altre pareti intorno alla vasca (finte crustae e scene con divinità marine), mentre la parte superiore delle stesse pareti era decorata con mosaici solo in parte superstiti, con ricca policromia a base di paste vitree; nei quali si riconosce un'iconografia cristiana (Mosè-Pietro che fa sgorgare l'acqua dalla rupe). L'ipogeo, di epoca tardo-costantiniana (come prova anche la tecnica delle murature in opera listata mista), è considerato un battistero cristiano (Wilpert) o un edificio sincretistico pagano connesso col culto delle acque (Cecchelli); le pitture risentono fortemente della tradizione classicista.

Bibl.: Not. sc., 1923, p. 380 ss.; R. Paribeni, in Rend. Pont. Acc., II, 1923-24, p. 45 ss.; G. Wilpert, ibid., p. 57 ss.; C. Cecchelli, Monumenti cristiano-eretici di Roma, Roma 1943, p. 201 ss.; A. Rumpf, Malerei und Zeichnung, Monaco 1953, p. 198 (con dataz. alla seconda metà del VI sec.); M. Borda, La pittura romana, Milano 1958, p. 353, tav. 23.

(M. Torelli - F. Zevi)

IX. - Via Flaminia. - 1. Mausoleo di Tor di Quinto. - Rinvenuto nel 1876 a Tor di Quinto, è stato ricostruito sul muro di cinta della villa Blanc di via Nomentana. Consta di un dado quadrato in tufo sormontato da un corpo cilindrico a blocchi isodomi di marmo lunense con base adorna di un motivo a foglie di acanto. Il cilindro è coronato da un fregio a girali che sopporta una cornice molto aggettante riccamente decorata da astragali, köma lesbio, ovuli e dentelli. Una merlatura a specchi lisci incorniciati da un köma lesbio completa l'edificio, databile forse alla seconda metà del I sec. d. C.

Bibl.: Not. Sc., 1876, pp. 12, 26, 44; E. Martinori, La Via Flaminia, Roma 1929, p. 55; B. Götze, Ein römisches Rundgrab in Falerii, Stoccarda 1934, p. 12; L. Crema, Architettura romana, Milano 1959, p. 326.

2. Tomba dei Nasoni e Villa repubblicana di Grottarossa. - Scoperta nel 1674, era una tomba ipogea (oggi in parte distrutta), scavata nei banchi di tufo sul lato sinistro della via all'altezza del V miglio. La facciata presentava due coppie di lesene corinzie sormontate da un timpano triangolare e inquadranti una porta con semplice modanatura, sopra la quale era l'epigrafe che ricordava Q. Nasonius Ambrosius e Nasonia Urbica (C.I.L., vi, 22882). L'interno, pavimentato con mosaico bianco e nero, era coperto a vòlta e presentava tre nicchie in ciascuna delle pareti laterali e una in quella di fondo. Tra una nicchia e l'altra erano pitture con partizioni architettoniche e, nella parte superiore, figurazioni mitologiche; scene riferentisi all'Oltretomba erano nelle nicchie, mentre la vòlta (nota da un disegno del Bartoli) era dipinta con uno schema decorativo con padiglioni a ombrello agli angoli, un medaglione centrale con un Pegaso e lunette di raccordo che contenevano scene di genere. Alcune pitture sono conservate al British Museum, altre, distaccate all'epoca della scoperta, sembrano oggi perdute; le rimanenti, ancora in situ, sono abbandonate in uno stato deplorevole. La datazione del complesso è da porsi (Rodenwaldt) all'avanzato II sec. d. C.; lo stile delle pitture, paragonabili ad alcune di Villa Adriana, è di impronta classicistica. Sul colle proprio al disopra della tomba è stata esplorata nel 1944 un'interessante villa di età tardo-repubblicana con due atrî, uno tuscanico e uno tetrastilo, e numerosi ambienti, tra i quali, oltre agli usuali, come il tablino, le alae, ecc., erano oeci e diaetae. I pavimenti erano in signino con disegni geometrici a tessere isolate. Nei livelli sottostanti sono venuti alla luce alcuni resti di una costruzione con copertura ad ogiva, in opera quadrata, databile al IV sec. a. C.

Bibl.: Tomba dei Nasoni: P.S.-F. Bartoli, Le pitture antiche delle grotte di Roma e del sepolcro dei Nasoni, Roma 1706; Not. Sc., 1890, p. 189; A. Michaelis, in Jahrb., XXV, 1910, p. 101 ss. (con bibl. prec.); G. Rodenwaldt, in Röm. Mitt., XXXXII, 1917, p. i ss.; H. Krieger, ibid., XXXIV, 1919, p. 39 ss.; P. Hinks, Cat. of Greek, Etr. and Rom. Paint. in the Br. Mus., Londra 1933, n. 72 ss., p. 47 ss.; J. Fink, in Mitt. Deutsch. Inst., VI, 1953, p. 58 ss.; M. Borda, La pittura romana, Milano 1958, p. 281 ss.; A. Rumpf, Malerei und Zeichnung, Monaco 1953, p. 185, tav. 65, 4. Villa di Grottarossa: Not. Sc., 1944-45, p. 52 ss.; 1947, p. 101 ss.; G. A. Mansuelli, Le ville nel mondo romano, Milano 1958, p. 64.

3. Villa di Livia. - Le fonti (Plin., Nat. hist., xv, 136; Suet., Galba, 1) ricordano un grande predio appartenuto a Livia, al IX miglio della via vicino al Tevere, in una località detta ad gallinas albas. Della villa restano oggi imponenti ruderi presso Prima Porta, con un grandioso muro di sostruzione a contrafforti, in reticolato regolare, che sostiene la terrazza su cui sorgevano i fabbricati residenziali. Sulla spianata si conserva una cisterna ed una serie di ambienti semisotteranei, cui dà accesso, attraverso un vestibolo, una rampa gradinata: sulla destra sono ambienti minori ed un criptoportico, sulla sinistra una grande sala di m 11,70 × 5,90, pavimentata a lastre marmoree e con la vòlta a botte coperta di stucchi policromi di cui restano pochi avanzi. Sulle pareti, rivestite da tegoloni disposti di piano e fermati con grappe, si stendeva l'intonaco con le celebri pitture di giardino (ora al Museo delle Terme, v. pittura).

Il praedium liviano doveva avere una estensione considerevole e confinare con altre vaste tenute imperiali: una iscrizione di età traianea (Not. Sc., 1909, p. 433) menziona nella zona ben tre centri amministrativi (praetoria) uno dei quali è detto Gallinarum albarum. Restauri di età severiana e bolli laterizi di Teodorico attestano che la villa, proprietà del fisco imperiale, continuò ad essere abitata fino in epoca assai tarda.

Oltre ad una terma di età antonina, scavata a valle dei precedenti ruderi, al di là del fosso di Prima Porta, possono aver appartenuto alla villa anche alcuni ambienti scoperti nel 1909 a due km dal borgo di Prima Porta, in località Montebello: vi si rinvennero bei pavimenti musivi con un gorgonèion e figurazioni egittizzanti (II sec. d. C.). Possibile è inoltre l'appartenenza al praedium di un altro vasto edificio termale, scoperto nel cimitero di Prima Porta, in cui appaiono degni di nota i mosaici di una grande corte porticata e un ninfeo a vòlta sorretta da pilastri, riccamente decorato di marmi. Sorte in età tardo-repubblicana, le terme subirono rifacimenti in epoca augustea e adrianea, seguiti da una generale riedificazione del III sec. d. C., cui vanno riferiti i mosaici della corte.

Dalla Villa di Livia, oltre a sculture di minor interesse, proviene la celebre statua loricata di Augusto ora nel Braccio Nuovo dei Musei Vaticani.

Bibl.: Not. Sc. 1878, p. 370 ss.; 1892, p. 112 ss.; 1896, p. 22; O. Marucchi, in Bull. Com., XX, 1892, p. 160 ss.; G. Lugli, ibid., LI, 1923, p. 26 ss. (con bibl. prec.); E. L. Wadsworth, in Mem. Amer. Ac. Rome, IV, 1924, p. 35; Th. Ashby, The Roman Campagna in Class. Times, Londra 1927, p. 2548; C. Pietrangeli, in Fasti Arch., I, 1946, n. 2000, p. 245 s.; M. B. Gabriel, Livia's Garden Room at Prima Porta, New York 1955, p. i ss.; G. Lugli, La tecnica edilizia dei Romani, Roma 1957, pp. 477, 504.

4. Arco di Malborghetto. - un grandioso arco quadrifronte di pianta rettangolare (m 14,86 × 11,87) al XII miglio della via. Le fondazioni sono costituite da un masso di conglomerato livellato superiormente da lastroni di travertino; su di esse s'impostano i quattro massicci piloni con paramento laterizio, di fattura non molto accurata, con filari marcapiano di bipedali; una fascia di blocchi di pietra corre all'imposta dei grandi archi a doppia ghiera. La vòlta, ancora ben conservata, mostra un telaio formato dall'incrocio di due triplici catene di mattoni, entro cui è stata effettuata la gettata; gli arconi a pieno centro che collegano i piloni ne costituiscono il rinfianco. Nell'alto attico, che spicca con una lieve risega dal filo dei piloni sottostanti, sono ricavati tre ambienti comunicanti attraverso porte ad arco. L'edificio in antico era interamente rivestito di marmi: restano oggi in posto solo alcuni blocchi della cornice, la cui semplice modanatura (non rifinita) trova particolari analogie negli elementi architettonici della basilica massenziana sulla Velia. Probabilmente l'arco fu spogliato del rivestimento marmoreo già nel sec. XIII, quando fu trasformato in casale; si deve perciò ritenere frutto di fantasia erudita un disegno di G. da Sangallo (C. Hülsen, Il libro di G. da Sangallo, p. 53, fol. 36 v.), che lo mostra ornato da colonne e paraste corinzie su due ordini e sormontato da una cuspide a cono. Il Töbelmann ricostruisce su ciascuno dei lati maggiori quattro colonne anteposte alla parete, posanti su plinti e, sui lati corti, immagina invece paraste lisce binate. L'alto attico, spartito da pilastrini, sosteneva probabilmente una quadriga.

La tecnica edilizia, i dettagli architettonici concordano per una datazione nei primi decennî del IV sec. d. C. Si è supposto che l'arco commemori la battaglia dei Saxa Rubra, eretto nel luogo ove Costantino aveva posto il campo alla vigilia dello scontro.

Bibl.: F. Töbelmann, Der Bogen von Malborghetto, in Abhandl. d. Heidelb. Akad. d. Wiss., II, 1915 (con bibl. prec.); G. T. Rivoira, Architettura romana, Milano 1921, p. 287; Th. Ashby, The Roman Campagna in Class. Times, Londra 1927, p. 249; E. Martinori, La Via Flaminia, Roma 1932, p. 65; H. Kähler, in Pauly-Wissowa, VII, 1939, c. 337 ss., s. v. Triumphbogen; C. Pietrangeli, in Capitolium, XXV, 1950, p. 303 ss.; G. Lugli, La tecnica edilizia, Roma 1957, p. 686; L. Crema, Architettura romana, Milano 1959, p. 599.

(M. Torelli - F. Zevi)

X. Via Cassia - Via Clodia. - 1. Villa di Lucio Vero. - La villa sorgeva al V miglio, sulla sinistra dell'antica Cassia e sulla destra della moderna, in località Acquatraversa, ed è stata identificata sulla base delle fonti (Hist. Aug., Verus, 8 ss.). Attraverso alcuni disegni di A. Morillonio (Windsor Castle) siamo a conoscenza di varî particolari della pianta, oggi non più rilevabili; tali disegni sembrano mostrare un avancorpo monumentale con colonnato a giorno che collega due emicicli dai corridoi anulari coperti da vòlta a crociera, sorgente su un'alta terrazza con fronte a nicchie. Di tutto il complesso attualmente restano il grande muraglione di costruzione a nicchie (II sec. d. C.), alcune conserve d'acqua di varia epoca e pochi ambienti con mosaici. La villa imperiale si sovrappose al più antico edificio di età repubblicana, probabilmente una villa del tipo di quella della Cecchignola sull'Ardeatina (v. oltre). L'identificazione con la villa di Vero sembra trovare conferma nei numerosi ritratti di imperatori di età antonina che vi furono rinvenuti. Dal Bartoli (apud Fea, Miscellanea, I, p. 264) si ha notizia di pitture e stucchi oggi interamente perduti.

Bibl.: G. Tomassetti, La Campagna Romana, Roma 1910, III, p. 18 ss. (con bibl. prec.); G. Lugli, in Bull. Com., LI, 1923, p. 47 ss.; id., La tecnica edilizia dei Romani, Roma 1957, pp. 440, 610.

2. Tomba di Nerone. - Una leggenda popolare designa con questo nome un sepolcro situato sul lato destro dell'antica via, nella località detta appunto Tomba di Nerone (VI miglio). Trattasi di un grande sarcofago marmoreo, eretto su podio, con coperchio displuviato a grandi acroteri recanti Vittorie che ornano un trofeo; le figure dei Dioscuri fiancheggiano la tabella iscritta (C. I. L., vi, 1636), che lo dice appartenuto a P. Vibio Mariano, procuratore in Sardegna (età antonina) e alla di lui moglie Reginia Maxima. Il sarcofago proviene da un'officina dell' Italia settentrionale. Nelle vicinanze del sepolcro è stato scoperto un edificio rustico.

Bibl.: G. Tomassetti, La Campagna Romana, Roma 1910, III, p. 23 ss.; Th. Ashby, The Roman Campagna in Class. Times, Londra 1927, p. 232; E. Martinori, La Via Cassia, Roma 1930, p. 14 (con bibl. preced.); J. B. Ward Perkins, in Pap. Brit. Sch. Rome, XXVII, 1959, p. 131 ss.

(M. Torelli - F. Zevi)

XI. - Via Trionfale. - 1. Necropoli della via Trionfale: v. Sezione F, 2.

2. Pagus di Colle S. Agata. - Nell'effettuare lavori edilizi sul colle S. Agata di Monte Mario, a breve distanza dall'antica Trionfale, nel 1921 vennero in luce testimonianze di un antichissimo insediamento. I resti stratigraficamente più antichi (non anteriori comunque alla prima Età del Ferro) sono costituiti da una serie di fossati scavati nel tufo naturale con sezione a V e pareti assai scoscese; profondi da un m a oltre 3,50, erano di larghezza variabile da 1,35 a 8 m e sembra si estendessero in lunghezza per molte decine di m. In alcuni casi il fondo appariva livellato artificialmente, in altri si notarono incavi per pali. La destinazione ne rimane estremamente incerta: l'ipotesi più comunemente accettata, che si trattasse cioè di lunghissime capanne, adagiate sul fondo o sospese su travi posanti sulle due sponde, è resa difficile non soltanto dalla eccezionale lunghezza dei fossati, ma anche dalla ripidità delle pareti e dalla loro notevole larghezza che, nel caso di capanne sospese, avrebbe richiesto palificazioni di sostegno di cui non restano adeguate tracce. A questo primitivo abitato dovrebbero appartenere alcune tombe a grotticella intagliate nel tufo, rinvenute sulle pendici del colle, purtroppo già spogliate e rovistate in antico sì che il materiale rinvenuto non dà affidamento circa la cronologia.

In epoca successiva la sommità della collina fu circondata da un largo e profondo fossato difensivo (largo m 11 circa, profondo oltre m 4,80); una lingua di tufo naturale, lasciata appositamente, ne consentiva l'attraversamento. La difesa era rafforzata da una muraglia a grandi blocchi tufacei, eretta sul lato a monte. L'opera rimase in uso per lungo tempo, e le mura ebbero rifacimenti in blocchi più piccoli; un muro, sempre in opera quadrata, fu inoltre eretto tra le due rive del fossato forse per costituire un secondo più agevole passaggio. La stratigrafia sembra fosse abbastanza nitidamente rilevabile, al momento della scoperta, sì che l'apprestamento di tale opera difensiva dovrebbe potersi collocare nel VII sec. a. C.

Della necropoli appartenente al villaggio furono messe in luce una tomba a corridoio e quattro tombe a camera, che intersecavano con i loro dròmoi i fossati della primitiva fase di insediamento. Precedute da lunghi corridoi d'accesso, presentavano generalmente un'unica cella, con o senza banchina per la deposizione dei cadaveri; in un solo caso (tomba 1) la cella sul fondo era fiancheggiata da due altre minori, aprentisi lateralmente al termine del dròmos. Il materiale rinvenuto comprende ceramica d'impasto e bucchero sottile, tra cui calici sostenuti da cariatidi del tipo dell'Artemide Persiana, e consente pertanto di datare le tombe (tra le quali non si osserva sensibile divario di cronologia) agli ultimi decenni del VII sec.; alcuni tipi vascolari, in particolare grossi anforoni con decorazione geometrica dipinta, mostrano affinità con materiale di Veio, e consentono di affermare che il pagus etrusco di Colle S. Agata rientrava nella zona di influenza di quella città.

Alla fase etrusca appartengono ancora alcuni resti di costruzioni in blocchi di tufo, cunicoli e opere di drenaggio; tombe a loculo e a fossa del IV-III sec. a. C., seguite da altre costruzioni e sepolcri di età repubblicana e imperiale, attestano che la zona continuò ad essere abitata senza soluzione di continuità.

Bibl.: C. Caprino, in Not. Sc., 1954, p. 195 ss. (con bibl. prec.)

3. Ipogeo degli Ottavi. - L'ipogeo venne scoperto nel 1920 all'VIII miglio. Era preceduto da un corridoio d'accesso in laterizio con pavimento in opus spicatum, solo in parte coperto da una semplice vòlta cementizia; quindi, attraverso una rozza porta si entrava in un breve vestibolo pure voltato e di qui nella camera sepolcrale, la quale, nelle pareti laterali e in quella di fondo, aveva tre nicchioni contenenti sarcofagi. Le pareti del vestibolo e della camera sono affrescate con finti riquadri marmorei; la vòlta, invece, e la parete di fondo presentano quadretti e medaglioni scompartiti da fasce su fondo bianco, entro i quali sono rappresentate scene allegoriche della vita oltremondana (oggi al Museo delle Terme). Il pavimento aveva un mosaico bianco con fasce nere. La datazione viene posta intorno alla metà del III sec. d. C.

Bibl.: Not. Sc., 1922, p. 428 ss.; G. Patroni, in Rend. Acc. Lincei, 5a, XXXII, 1923, p. 252 ss., tav. 38; A. Rumpf, Malerei und Zeichnung, Monaco 1953, p. 192, tav. 69, 6; M. Borda, La pittura romana, Milano 1958, p. 315.

(M. Torelli - F. Zevi)

XII. - Via Cornelia. - 1. Mausolei attigui a S. Pietro: v. Sezione F, 3, 4.

2) Necropoli ad Circum: v. Sezione F, 1.

XIII. - Via Aurelia. - 1. Colombario di Villa Doria Pamphili. - Venne scoperto nel 1838, ma era già stato precedentemente spogliato, e la vòlta a botte che lo copriva sembra fosse stata demolita intenzionalmente all'epoca dell'impianto della villa. Costruito in opera reticolata, l'ipogeo aveva una pianta irregolare, con un ambiente romboidale di m 5,81 × 3,06 cui si aggiunge lateralmente un braccio minore. Vi si scendeva per una scala di undici gradini.

Le pareti, rivestite di intonaco bianco finissimo e compatto, sono occupate da 7-8 file di loculi contenenti le olle cinerarie, per un totale di oltre 500 deposizioni; sotto ogni loculo è dipinta una tabella ansata col nome del defunto, mentre tra l'una e l'altra fila di loculi corrono fasce continue spartite in pannelli rettangolari figurati. Senza un apparente ordine logico, alternati seguendo un pretesto puramente decorativo, si susseguono riquadri con fiori ed uccelli, nature morte, paesaggetti idillico-sacrali, figurazioni caricaturali con pigmei, scene teatrali e di vita domestica e anche rappresentazioni mitologiche (Ercole e il centauro, liberazione di Prometeo, Niobidi, Dirce, ecc.). Opera quasi tutta di un solo artista, le pitture si segnalano per la finezza della esecuzione con una tecnica rapida a tocchi sottili, e una gamma di colori assai varia basata su tonalità tenui. Un'altra mano, dai duri ed infantili modi disegnativi, si riconosce invece in alcuni dei pannelli con scene mitologiche. Le pitture, che vanno collocate ancora nella tradizione del tardo II stile (Villa della Farnesina) sono state distaccate e si trovano oggi al Museo Nazionale Romano.

Bibl.: E. Braun, in Bull. Inst., 1838, p. 4 s.; E. Samter, in Röm. Mitt., VIII, 1893, p. 105 ss. (con appendice epigrafica di Ch. Hülsen); G. Bendinelli, Le pitture del colombario di Villa Pamphili, in Mon. Pitt. Ant., Roma, V, 1941; A. Rumpf, Malerei und Zeichnung, Monaco 1953, p. 175; M. Borda, La pittura romana, Milano 1958, p. 209 s.

2. Santuario delle divinità orientali al Gianicolo. - Nel 1906, sul Gianicolo (Viale Glorioso) vennero casualmente in luce ruderi che, esplorati negli anni successivi, si rivelarono appartenenti ad un santuario dedicato a divinità orientali.

Nella zona del santuario sono attestate tre fasi edilizie. La prima è rappresentata da una piscina del I sec. d. C. che doveva probabilmente raccogliere le acque del Lacus Furrinae (Pasqui); molto improbabile l'ipotesi di chi vuol riconoscervi un vivaio per pesci sacri (Gaucider) e riporterebbe pertanto alla prima età imperiale la fondazione del santuario. Tra la fine del II e l'inizio del III sec. d. C. si ebbe l'edificazione del primo santuario, di cui sono stati scavati un corridoio e un ambiente con pavimento a mosaico, in laterizio (con un bollo di Settimio Severo); e, in particolare, un cortile in cui si rinvennero lunghe file di anfore vinarie e olearie, accuratamente allineate, conficcate ritte al suolo o adagiate con ordine e deposte in un terriccio costituito da ossa di animali sacrificati. Dalle numerose iscrizioni rinvenute (in parte riutilizzate come materiale di costruzione nella fase seguente) sappiamo che il culto si indirizzava principalmente a Giove Eliopolitano, Hadad e Atargatis, oltre che a Fortuna, Febris, Zeus Keraunios di Fenicia ecc. In epoca posteriore, forse alla fine del III sec. (bolli dioclezianei) il santuario venne interamente ricostruito mutandone pianta ed orientamento. Due gruppi di ambienti sorsero sui lati brevi di una vasta corte rettangolare, scoperta. Sul lato O, preceduto da alcuni ambienti minori, sorgeva il vero tempio, con tre celle di cui la centrale, absidata e assai più vasta delle altre, recava sul fondo una nicchia in cui si rinvenne la statuetta frammentaria di un dio assiso (Hades, Serapide o, più probabilmente, Hadad nell'iconografia eliopolitana). Particolari riti di seppellimento (o sacrifici?) sono attestati dal rinvenimento di un cranio umano sepolto ai piedi della nicchia. Nel centro della cella, su una base triangolare, sorgeva un'ara con rilievi (busti di Sol e Luna, toro in corsa).

Sul lato opposto del cortile è un ambiente, forse ipetrale, a pianta romboidale che si prolunga ad uno degli angoli in una profonda abside, in cui si rinvenne una statuetta basaltica di tipo egizio (un faraone o Osiride); nel mezzo dell'ambiente si è posta in luce una grande vasca triangolare con al centro un pozzetto in cui era deposta una statuetta bronzea, raffigurante un personaggio avvolto in un sudario e circondato dalle sette spire di un serpente, in ciascuna delle quali era collocato un uovo di gallina. L'ambiente era fiancheggiato da due sale minori pentagonali, coperte da vòlte a tubi fittili; vi si rinvennero due statue di Dioniso.

Controverso è il significato dei riti attestati da questi trovamenti. In particolare, è viva la polemica tra chi sostiene che nella ricostruzione del santuario ci fu un cambiamento nelle divinità venerate (Will) e chi invece pensa trattarsi delle stesse divinità che purtuttavia assunsero aspetti più complessi in virtù di un accentuato fenomeno sincretistico (Felletti Maj). Secondo quest'ultima ipotesi (che parte dalla constatazione che le statue di culto del secondo santuario sono di età antonino-severiana, e percio erano probabilmente le stesse esistenti nel santuario precedente), la partizione in tre celle attesterebbe una triade con Iuppiter-Hadad assimilato a Ba῾al e a Sol, e Atargatis-Luna; nel terzo membro della triade, il dio figlio, assimilato a Dioniso e Osiride, si riconoscerebbe forse Adone, rappresentato nella statuetta dove le spire del serpente simboleggerebbero la rinascita alla vita astrale attraverso le sette sfere planetarie. Altri ha proposto di riconoscervi la personificazione di Aion (Leglay).

Bibl.: A. Pasqui, in Not. Sc., 1909, p. 389 ss.; S. Aurigemma, in Ausonia, IV, 1909, p. 17 ss.; P. Gauckler, Le sanctuaire syrien du Janicule, Parigi 1912; G. Darier, Les Fouilles du Janicule, Ginevra 1920; M. S. M. Savage, in Mem. Amer. Acad. Rome, XVII, 1940, pp. 35, 44 ss.; M. Leglay, in Mél. Ec. Franc., LX, 1948, p. 129 ss.; E. Will, in Syria, XXVI, 1949, p. 161; B. M. Felletti Maj, in Bull. Com., LXXV, 1953-55, p. 137 ss.; E. Will, in Syria, XXXVII, 1960, p. 201 ss.; E. Nash, Bildlexicon zur Topogr. des antiken Rom, I, Tubinga 1961, s. v. Iuppiter Heliopolitanus.

(M. Torelli - F. Zevi)

XIII. - Via Portuense - Via Campana. - 1. Scavi di Pietra Papa - Horti Caesaris. - Sulla riva destra del Tevere, circa un km a valle del Porto Fluviale, in località Pietra Papa, venne posto in luce un complesso di costruzioni in reticolato, con rifacimenti in laterizio del II sec. d. C. (bolli del 123). Due ambienti contigui, appartenenti alla fase adrianea, conservavano pavimenti musivi con ornati geometrici, ed una interessante decorazione pittorica con rappresentazione di sei navicelle di vario tipo montate da rematori e pescatori, naviganti su di un mare popolato di grandi pesci e molluschi. Le navicelle hanno le fiancate riccamente decorate con motivi ornamentali e figurazioni di divinità, esseri favolosi del mondo marino, Vittorie, ecc.; due tra esse recano dipinto anche il nome. A monte di questo complesso si scavò un piccolo ninfeo di età repubblicana.

Circa cento metri più a valle, inoltre, venne in luce un nucleo rettangolare di opera a sacco, appartenuto ad un edificio di cui si rinvennero grandi acroteri a girali e frammenti di un pilastro decorato con trofei d'armi; poco lontano fu scoperta un'ara marmorea. Resta problematica l'identificazione proposta (Jacopi) con il tempio della Fors Fortuna situato al I miglio della Via Campana (Fasti Amiternini e Fasti Esguilini, VIII kal. Iul.: C.I.L., 12, pp. 243, 320) che, come sappiamo da Plutarco (Brutus, 20), era collocato negli Horti Caesaris, cui apparterrebbero, conseguentemente, gli edifici di Pietra Papa. Ma gli Horti Caesaris, che le fonti collocano genericamente nel Trastevere, vengono localizzati dai topografi (Lanciani, Lugli) sulla destra della via Portuense tra il Gianicolo (zona dell'odierna Villa Sciarra) e le prime pendici dei Colli di Monteverde; è poco probabile, comunque, che si estendessero tanto fuori delle Mura Aureliane fino ad includere Pietra Papa. Non farebbe difficoltà l'identificazione del tempio della Fors Fortuna con alcuni ruderi emersi nel 1895 in Vigna Massimi (viale Trastevere), perché le fonti attestano l'esistenza di almeno tre (o forse quattro) templi o edicole (aedes) dedicati alla dea, tutti posti tra il I ed il V miglio della via Campana. Tuttavia è più verosimile riconoscere nell'edificio di Pietra Papa un sepolcro in forma di tempietto, anche perché attorno ad esso furono rinvenute altre sepolture più povere; incerta rimane l'identificazione degli altri edifici.

Agli Horti Caesaris, tenendo conto della loro più probabile localizzazione, potrebbe invece appartenere un interessante edificio basilicale scoperto nel 1884 lungo il Viale Trastevere, a tre navate divise da colonne marmoree con eleganti capitelli dorico-compositi; una vasta abside si apriva nel fondo, con nicchie semicircolari e rettilinee ai piedi delle quali girava un podio con piedistalli per colonne o per statue. Ai lati e alle spalle della sala si stendevano altri ambienti riccamente decorati di marmi; il complesso era sostruito a monte da un nicchione con fontana. A qualche distanza, sul viale di Trastevere, fu altresì scoperto un sacello scavato nel tufo, dedicato ad Ercole; una statuetta ivi rinvenuta ha permesso di riconoscervi con qualche probabilità un santuario di Hercules Cubans menzionato nei Cataloghi Regionali. Ne provengono le erme di aurighi del Museo Nazionale Romano (B. M. Felletti Maj, Cat. dei ritratti, nn. 115, 126-130, 193).

Bibl.: Horti Caesaris e Fors Fortuna: R. Lanciani-C. L. Visconti, in Bull. Com., XII, 1884, p. 25 ss.; idd., Not. Sc., 1884, p. 41 s.; Bull. Com., XV, 1887, p. 36 ss., 90 ss.; R. Lanciani, The Ruins and Excavations of Ancient Rome, Londra 1897, p. 546 ss.; id., Forma Urbis Romae, Milano 1893-1901, tavv. 33, 39, 43; G. Lugli, in Diz. Epigrafico, III, p. 1018, s. v. Horti Caesaris; S. B. Platner-Th. Ashby, A Topographical Dictionary of Ancient Rome, Londra 1929, s. v. Fors Fortuna; G. Lugli, I monumenti antichi di Roma e Suburbio, III, Roma 1938, p. 635 ss.; G. Carettoni, in La pianta marmorea di Roma antica, Roma 1960, p. 87 s. tav. XXVI. Hercules Cubans: Not. Sc., 1889, p. 243; Ch. Hülsen, in Röm. Mitt., 1891, p. 149 ss.; L. Borsari, in Bull. Com., XVIII, 1890, p. 9; S. B. Platner-Th. Ashby, op. cit., s. v.; E. Nash, Bildlexicon zur Topogr. d. ant. Rom, Tubinga 1961-1962, I, s. v. Pietra Papa; G. Jacopi, in Le Arti, I, 1939, p. 513, tav. CLXII; id., in Bull. Com., LXVIII, 1940, p. 97 ss.; id., in Mon. Ant. Lincei, XXXIX, 1943, col. i ss.; H. Fuhrmann, in Arch. Anz., 1940, col. 448 ss.; M. Borda, La pittura romana, Milano 1958, p. 280.

2. Necropoli in località Pozzo Pantaleo (Raffineria Purfina). - Scavi occasionali, operati tra gli ultimi decenni dello scorso secolo e i nostri giorni, hanno messo in luce, presso un'antica biforcazione di strade (forse quella tra la Portuense e la Campana), una vasta necropoli, che è andata completamente distrutta per far posto alle costruzioni moderne tra le quali la raffineria ex-Permolio (attuale Purfina). Di notevole interesse sono alcune tombe scavate nel banco tufaceo, rinvenute nel 1951. La prima (tomba A) aveva una semplice facciata ricavata nel tufo e l'interno con una serie di nicchie dalle cornici di stucco: la vòlta, a sesto ribassato, recava una bella decorazione di stucco a medaglioni contenenti alternativamente figurette e motivi ornamentali (età adrianea). La seconda (tomba B) è un colombario, dalle pareti laterali in tufelli e dalla facciata in laterizio, addossato alla roccia, che solo in un secondo tempo venne scavata per accogliere alcune inumazioni: la facciata, con soglia sopraelevata, era ornata da un basso zoccolo dipinto in rosso bordato superiormente da una cornicetta, mentre l'interno, con nicchie, presentava semplice decorazione dipinta a fasce verticali rosse e gialle. La terza tomba (tomba C), la più nota ed interessante, è un colombario dalle pareti affrescate (oggi al Museo delle Terme), con la facciata simile a quella della tomba A: la parete di fondo mostra tre nicchie rettangolari sormontate da alti timpani, due dei quali contengono ritratti di giovinetti entro medaglioni, mentre altri medaglioni erano sul soffitto (in gran parte distrutto) e contenevano personificazioni delle stagioni alternate a pannelli con scene mitologiche. Assai notevole l'affresco della parete laterale destra, ove si vedono scene di banchetto e di giochi, allusive alla vita dell'aldilà; altre figurazioni minori sono dipinte sull'altra parete laterale (coppia di pavoni ai lati di un bacino) e fra le nicchie (vasi, uccelli, melograni, scene familiari). La tomba data al secondo venticinquennio del II sec. d. C. e la decorazione presenta notevoli affinità tipologiche con quelle di alcuni ipogei palmireni. Accanto a queste tombe erano akri due colombari (D ed E) con semplici decorazioni pittoriche a motivi vegetali; analogo a questi è un colombario scoperto nel secolo scorso nell'adiacente Vigna Pia. Nella necropoli erano inoltre sepolti i custodes corporis di Nerone.

Bibl.: Not. Sc., 1884, p. 156; 1885, pp. 74, 476; 1889, p. 70; 1920, p. 284; 1922, p. 408; 1950, p. 86; 1957, p. 336 ss.; G. Gatti, in Bull. Com., LV, 1927, p. 235 ss.; L. Borrelli Vlad, in Bull. Ist. Centr. Restauro, 11-12, 1952, p. 135 ss.; S. Aurigemma, in Boll. d'Arte, XXVIII, 1953, p. 158 ss.; B. M. Felletti Maj, in Riv. Ist. Arch. St. Arte, N. S., II, 1953, p. 40 ss.; M. Borda, La pittura romana, Milano 1958, p. 278.

3. Santuario dei Fratelli Arvali. - Questo antichissimo collegio, che la leggenda dice fondato dallo stesso Romolo, aveva sede in un bosco sacro alla dea Dia, al V miglio della via Campana: l'arcaico culto praticato dai fratres Arvales, strettamente connesso con la primitiva struttura agricola della società romana, fu continuato in epoca imperiale, quando, tra Augusto e i Gordiani, vennero anche incisi su tavole marmoree gli atti delle cerimonie. Il bosco sacro viene localizzato nei pressi della via della Magliana, ove si conserva, unico superstite dei numerosi edifici di culto, un interessante edificio sotterraneo a pianta circolare, con nicchie alle pareti ed attorno ad un pilastro centrale, rivestito da cortina laterizia. Scoperte fortuite tra il sec. XVI e il sec. XIX e scavi regolari del Pellegrini attorno alla metà dell'Ottocento hanno messo in luce alcuni edifici, che sono stati variamente identificati con quelli ricordati dalle tavole arvaliche, il tempio della dea Dia, il tetrastilo, il circo, il Caesareum, l'abitazione dei Fratres. Da un disegno della seconda metà del sec. XVI eseguito da Sallustio Peruzzi W. Abeken (in Ann. Inst., xiii, 1841, p. 121 ss., tav. G) conosciamo un'edicola absidata a pianta rettangolare, preceduta da due colonne e chiusa da transenne forse lignee, entro la quale, è detto, si rinvennero statue imperiali con basi iscritte. Negli scavi del Pellegrini vennero in luce numerosi ruderi, oggi scomparsi. Lo scavatore propose una serie di identificazioni e di ricostruzioni non sempre attendibili: in tre absidi contigue raccordate da nicchie egli riconosceva il tetrastilo, sede delle riunioni del collegio, che immaginava come una sala quadrangolare entro un portico, con nicchie interne contenenti i sedili. Più verisimile l'identificazione del circo con una serie di sostruzioni arcuate e del tempio della dea Dia con una parete a blocchi bugnati ornata di paraste (riferibile alla cella), nella quale però lo Henzen vuole vedere il Caesareum. Quest'ultimo edificio viene riconosciuto dal Pellegrini nell'edificio sotterraneo già ricordato, che invece il Lanciani identifica con il recesso del tempio della dea Dia e il Lugli con un sepolcro.

Bibl.: G. Melchiorri, Appendice agli atti e monumenti dei fratelli Arvali, Roma 1855; A. Pellegrini, Gli edifici del collegio dei fratelli Arvali nel luco della dea Dia e i loro avanzi, Roma 1865; W. Henzen, Scavi nel bosco sacro dei fratelli Arvali, Roma 1868; Not. SC., 1888, p. 229 ss.; C. Hülsen, in Ephem. Epigr., VII, 1892, p. 341 ss.; G. Lugli, in Stud. Pres. to D. M. Robinson, II, S. Louis 1953, p. 1211 ss.; id., Tecnica edilizia dei Romani, Roma 1957, tav. CLXXXIII.

(M. Torelli - F. Zevi)

XIV. - Via Ostiense. - 1. Necropoli della Roccia di S. Paolo. - Questa grande necropoli adiacente alla basilica di S. Paolo, messa in luce tra la fine del secolo scorso e i principî del nostro, è in parte ancora conservata in vista. Si sviluppa soprattutto sulla sinistra della strada con una serie di tombe gentilizie, di colombarî e di sepolture individuali che datano dalla seconda metà del I sec. a. C. a tutto il V sec. d. C. Tra questi edifici ricordiamo il colombario dei Pontii, di età giulio-claudia, con una bella edicola decorata da pitture rappresentanti una coppia di leoni in atto di sbranare una gazzella, e la tomba di Livia Nebris (II sec. d. C.), interessante mausoleo con fronte in cotto e decorazione pittorica dell'interno, costituita da motivi floreali su fondo e da alto zoccolo rosso. Il monumento più interessante tuttavia è una tomba a camera con pitture di età severiana negli arcosoli (ora al Museo della Via Ostiense), una delle quali rappresenta Prometeo in atto di plasmare l'uomo alla presenza di Minerva.

Bibl.: G. Gatti, in Bull. Com., XXV, 1897, p. 310 ss.; Not. Sc., 1897, pp. 335 s., 418 s., 454 ss., 1898, pp. 24 ss., 65, 119 s., 185 ss., 241 ss., 450 ss.; E. Stevenson, in Not. Bull. Crist., III, 1897, p. 283 ss.; IV, 1898, p. 60 ss.; Not. Sc., 1919, p. 285 ss.; G. Gatti, in Bull. Com., LXI, 1933, p. 285; M. Floriani Squarciapino, ibid., LXXV, 1953-55, p. 109 ss.

2. Sepolcro di M. Antonio Anzio Lupo. - A noi noto solo attraverso riproduzioni e menzioni di eruditi rinascimentali (particolarmente un disegno di Giuliano da Sangallo, Tacc. Sen., f. 32 v), già nel XVII sec. era andato distrutto. Il sepolcro, un grande cippo marmoreo cuspidato, ornato di sedia curule fiancheggiata da fasci consolari e con una duplice iscrizione in greco e in latino, apparteneva al senatore M. Antonio Anzio Lupo, che, ucciso per volere di Commodo, alla morte di questi ebbe il sepolcro ripristinato per decreto del Senato.

Bibl.: Disegno del Sangallo in R. Falb, Il taccuino senese di Giuliano da Sangallo, Siena 1902, tav. 32 v; disegni di B. Peruzzi e A. da Sangallo il G. agli Uffizi: A. Bartoli, I monumenti antichi di Roma, Roma 1914-22, II, tav. CLXXXVI; III, tav. CCXXXI, fig. 377.

(M. Torelli - F. Zevi)

XVI. - Via Ardeatina. - 1. Tor Marancio. - La tenuta di Tor Marancio (il cui nome si vuole derivi dai praedia Amaranthiana), si estende 2 km fuori Porta S. Sebastiano, tra l'attuale via Ardeatina, via delle Sette Chiese e la marrana di Grotta Perfetta. Il tracciato della Ardeatina antica in questo tratto non è noto con certezza, ma sembra che corresse molto più ad O della moderna; sia gli edifici di Tor Marancio, che la Villa della Cecchignola (v. sotto) sarebbero allora più vicini alla via Appia. Si è supposto che la zona, in età flavia, facesse parte dei praedia di Domitilla. Gli scavi condotti nel 1817-23 scoprirono due ville del II sec. d. C. a breve distanza l'una dall'altra, di cui le fistule acquarie ci hanno restituito il nome delle proprietarie Munazia Procula e Numisia Procula. La prima villa si stendeva attorno a due ampi cortili a peristilio, e conteneva vasti impianti rustici; due ambienti residenziali, posti sul fondo della corte principale, recavano le note pitture con le eroine e mosaici acquistati in parte dai Musei Vaticani.

L'altra villa, più grandiosa, centrata anch'essa su un vasto peristilio rettangolare sul cui fondo si apriva un'aula absidata con due colonne in antis e un'ara sacrificale nell'interno, era arricchita da un vasto impianto termale disposto sul lato lungo della corte, alla cui destra si collocava il quartiere residenziale sostruito a valle da un potente muraglione incavato a nicchie, nel cui interno correva un criptoportico. Due ambienti conservavano pitture e mosaici che vennero distaccati e passarono poi in parte ai Musei Vaticani.

I bolli rinvenuti appartengono ad età adrianea; ma iscrizioni frammentarie (G.I.L., vi, 1465) riportano all'avanzato periodo antonino. I mosaici distaccati sono ora inseriti nei pavimenti del Braccio Nuovo del Vaticano; trattasi di mosaici geometrici e figurati in bianco e nero, e due emblemata a colori con nature morte e scene di genere, del III secolo. Le pitture comprendono le cinque note figure di mitiche eroine (Canace, Scilla, Mirra, Fedra, Pasifae, come le designano le didascalie) più nove figure decorative, maschili e femminili, tutte conservate ai Musei Vaticani e inoltre, una serie di altre tredici figure di amorini, danzatori e danzatrici racchiuse entro partizioni architettoniche con sobrî ornati floreali che rimasero presso i proprietarî del fondo.

Bibl.: B. Nogara, Le Nozze Aldobrandini, ecc., Roma 1907, p. 55 ss. (con piante delle ville e bibl. preced.); id., I mosaici antichi del Vaticano, Milano 1910, p. 10 ss., tavv. XX-XXIV; A. Rumpf, Malerei und Zeichnung, Monaco 1953, p. 192, tav. 69, 3; M. Borda, La pittura romana, Milano 1958, p. 283 ss.

2. Villa alla "Cecchignola". - Al 14° km della attuale Ardeatina, alla destra della via (ma probabilmente alla sinistra dell'antica), è stata parzialmente scavata nel 1939 una villa di età repubblicana, con modifiche e rifacimenti del II sec. d. C. Brevi fauces immettono in un ampio atrio quadrangolare (16 m di lato), di tipo tuscanico, con impluvio in tufo; attorno ad esso, si aprono cubicoli ed ambienti residenziali decorati da bei mosaici bianchi e neri e policromi con motivi geometrici; in fondo all'atrio è un grande tablino con pavimento a lithostroton. Sui lati lunghi dell'edificio centrale, corre un portico con piloni laterizi (rifatto nel II sec. d. C.) che all'esterno dovevano formare un prospetto architettonico; all'estremità del corridoio orientale si trovava un piccolo cubicolo, appartenente alla prima fase costruttiva, il cui pavimento recava incassato al centro il noto emblema musivo con le figurazioni di un gatto che afferra una quaglia e di due uccelli acquatici.

Alla villa sembra fossero annessi ambienti termali (rifatti in età antonina). Le caratteristiche di tecnica muraria (blocchetti di tufo e peperino e opus quasi reticulatum), e l'analogia di pianta con le Ville di S. Basilio sulla Nomentana e della parte più antica della Villa di L. Vero alla Cassia, confermano una datazione in età sillana.

I mosaici sono stati in parte distaccati e trasportati al Museo Nazionale Romano.

Bibl.: Not. Sc., 1939, p. 351 ss.; P. E. Arias, in Riv. Ist. Arch. St. Arte, VIII, 1940, p. 16 ss.; G. A. Mansuelli, Le ville nel mondo romano, Milano 1958, p. 64.

(M. Torelli - F. Zevi)

H) PERSONIFICAZIONI DI ROMA ANTICA. - Le personificazioni della città di R. ne mettono in evidenza il carattere mitico e guerresco; a questo si sovrappone, a partire dall'età imperiale, l'aspetto più propriamente divino.

Il concetto della dea R. è estraneo alla mentalità giuridica e religiosa dello stato romano più antico. Solo quando gli storici greci ricalcarono le origini dell'Urbe su quelle delle altre città greche e microasiatiche, facendo intervenire alla Κρίστις eroi eponimi e figure divine, comincia a prender forma l'idea superumana connessa alla personificazione di Roma. Quest'ultima acquista importanza politica e conseguentemente onori di culto con l'avvento al potere di Augusto: ai due templi eretti già nella prima metà del II sec. a. C. a Smirne e ad Alabanda in Caria, se ne aggiungono numerosi altri in tutto l'Impero. Il tempio di Venere e R. eretto in età adrianea segna, come vedremo, una decisa svolta anche nella tipologia di R., assurta alla divinizzazione piena; ma se l'ideologia sembra ormai essersi definitivamente fissata, non così avviene per l'aspetto più propriamente iconografico che, durante tutto il corso dell'arte romana presenta oscillazioni e tentativi, non sempre riusciti, di distaccarsi dai tipi presi a prestito dalla Grecia ed assurgere ad una creazione autonoma, che possa dirsi peculiarmente romana.

A prescindere dalle teste elmate, cui vengono aggiunti varî simboli nel campo (cornucopia, palma, corona di alloro, Vittoria), e che appaiono su monete repubblicane fin dal IV sec. a. C. (si tratta di un adattamento della testa di Pallade, se pure in molti casi non è la stessa Minerva ad essere rappresentata, anziché R.), la prima immagine completa di R. appare su una moneta di Locri Epizefiri del tempo di Pirro: R. è seduta, con lungo chitone che le lascia un seno scoperto, il braccio destro poggiato su uno scudo, il parazonio al fianco sinistro, mentre la Pistis stante la incorona (Haeberlin, tav. vi, 9). Il seno scoperto indica che l'abbigliamento di R. è quello amazzonico: il tipo amazzonico, stante o seduto, che appare qui per la prima volta, compare sulle serie monetali per tutto il corso dell'età repubblicana e oltre, insieme a qualche rarissimo esempio di figura di R. con corona murale, a somiglianza della Tyche ellenistica, o con lunga veste, lancia e scudo con gorgonèion, simile in ciò alla Atena Πολιάς (da notare che queste due ultime iconografie non avranno seguito nella produzione monumentale, forse proprio per la troppo marcata ripetizione di modelli stranieri).

La R. amazzonica delle monete repubblicane, incoronata dalla Vittoria (Belloni, n. 973), o dal Genio del Popolo Romano (n. 957), eretta o assisa su una congerie di scudi, associata alla lupa allattante i gemelli oppure incoronante un trofeo di armi galliche (n. 632), è sempre una figura collegata con le origini leggendarie dell'Urbe, oppure la personificazione della città egemone e vittoriosa: il carattere divino non appare mai, giacché solo una volta R. è accanto a Venere e tiene il piede su una testa di lupa, l'animale di Marte, ripetendo un'ideologia più greca che romana (n. 1628). Tuttavia un primo tentativo di conferire maggiore austera idealità alla figura di R. si ha all'inizio dell'età imperiale: sulla Gemma Augustea R. appare accanto ad Augusto, seduta sullo stesso trono, con chitone ed hymàtion sulle gambe, un piede poggiato sulle armi: ma l'elmo attico a tre creste e il balteo sul petto indicano che la tipologia amazzonica è sempre alla base di questa figura, come lo è pure nella personificazione di R. stante su uno sköphos di Boscoreale, ora al Louvre: anche qui R. galeata ha la veste succinta all'amazzone, il balteo a tracolla, la lancia e la spada, il piede su un elmo. Questo ultimo particolare (ma all'elmo si è sostituito un globo) si ritrova in due statue di età giullo-claudia, la R. da Tripoli e la R. dal tempio di Roma e Augusto nel Foro di Ostia; particolarmente significativa la figura ostiense, che mostra una R. divenuta dominatrice del mondo e nella quale il mantello sulle gambe, la Vittoria che doveva reggere nella sinistra protesa, temperano l'abituale iconografia amazzonica. Questa prevale nei bassorilievi storici e nei grandi monumenti pubblici, a cominciare dal pannello del fornice centrale dell'Arco di Tito, in cui R. in abito militare, con elmo e calzari, regge i cavalli della quadriga dell'imperatore trionfante. Nei rilievi flavî del Palazzo della Cancelleria (età di Domiziano: 83-85 d. C.), la R. che appare nel fregio A con l'adventus di Domiziano, ha lancia e spada, scudo ornato dal gorgonèion, palesandosi del più stretto tipo amazzonico, con un'eco semmai dell'iconografia di Minerva; la R. del fregio B con l'adventus di Vespasiano, seduta su un alto trono con poggiapiedi, priva del balteo e con la tunica cinta senza rimbocco, circondata da un gruppo di Vestali, ha perduto in parte le sue caratteristiche guerresche: il Magi pensa a un influsso del tipo di Vesta in trono su questa figura, inserita in un contesto di carattere evidentemente più religioso che eroico.

Di natura controversa è la figura che appare nella parte destra dell'attico dell'arco di Benevento; probabilmente la sua identificazione con R. (Strong) è da escludersi, come pure quella con la Virtus: giacché la corona turrita è rarissima nell'iconografia di R. (appare, abbiamo visto, in alcune monete repubblicane coniate nelle Gallie, e in altre di città microasiatiche di età imperiale) e si adatta più facilmente all'Italia (Toynbee).

Le monete, durante tutto il corso del periodo imperiale, continuano il tipo di R. amazzonica, seduta sugli scudi, tenente un parazomo e un'asta, più spesso una Vittoria alata nella mano protesa: da Costantino in poi R. è talora assisa di fronte a Costantinopoli, la nuova capitale, oppure reca il globo sovrastato dal monogramma cristiano, ovvero una fenice, simbolo di eternità: ma si tratta sempre di modifiche minori, inserite sulla tradizionale iconografia amazzonica, e volte a sottolineare l'elemento divino ormai strettamente connesso, dell'ideologia, alla figura di Roma. Tuttavia alcuni aurei e denari adrianei del 134-138 d. C., con la leggenda romae aeternae, mostrano una figura di R. seduta, con chitone lungo fino ai piedi, che le lascia un seno scoperto, elmo, palladio in una mano e lancia nell'altra; soprattutto la lunga veste, che era già apparsa nella moneta locrese, associa più intimamente R. alla Atena greca, creando una contaminazione fra il tipo tradizionale eroico e l'aspetto divino, quale doveva essere espresso nel simulacro di R. nel tempio adrianeo; questa statua, la cui posa assisa riecheggia forse nella statua del Palazzo dei Conservatori, con lunga veste che copre anche il petto e mantello (definita dal Calza una R., benché lo schema derivi da quello di una Demetra attica del tardo V sec. a. C.), andò distrutta durante un incendio e fu rifatta sotto Massenzio nel 307 d. C., tenendo conto della nuova tipologia adrianea. Quest'ultima, oltre che sulle monete, appare in altri documenti figurati del tempo; la R. sugli scudi, con elmo senza cresta ed asta in mano, si mostra nel mosaico colonnese, ove ha ancora il carattere di figura mitica connessa con le origini della città; nella base vaticana con l'apoteosi di Antonino Pio e Faustina riprende il chitone lungo fino alle caviglie, che le lascia però scoperto un seno; ha l'elmo con alto cimiero, la bandoliera della spada a tracolla e poggia il gomito su uno scudo su cui è sbalzata in altorilievo la lupa allattante i gemelli: ai suoi piedi, altri trofei militari.

La R. del puro tipo amazzonico sembra godere di nuovo grande favore a partire dalla prima metà del III sec., segno che la iconografia di tipo misto creata sotto Adriano non aveva messo radici profonde: R. è un'amazzone dalle vesti succinte, con elmo, calzari, mantello affibbiato su una spalla in un capitello corinzio proveniente dalle terme di Caracalla, e nel rilievo di età traianea nel fornice principale dell'Arco di Costantino, con l'adventus dell'imperatore (la figura nella chiave di vòlta non è R., ma una Venere per il Cagiano), nell'attico dell'arco di Settimio Severo a Leptis Magna (qui è seduta dietro Giulia Domna, partecipa a una scena sacrificale, ed ha un globo in mano), sul sarcofago di Balbino, accanto all'Abbondanza. La scena sacrificale, che appare qui come nell'arco di Leptis, sembra essere uno dei contesti in cui R. si mostra di preferenza, in quest'epoca più tarda; giacché essa partecipa al sacrificio in onore di Marte nella base della colonna eretta nel Foro a celebrazione del decimo anniversario della Tetrarchia (303 d. C.): la testa è interamente perduta ma si scorgono ancora la veste amazzonica e il mantello poggiato sulle ginocchia, il balteo che attraversa il petto: con un braccio alzato sembra sorreggere il busto del Sol Invictus che la sovrasta.

Infine, in età postcostantiniana (riconosciuta dal Cagiano come figura di Venere la Dea Barberini, dal palazzo di Massenzio in Laterano), abbiamo solo le descrizioni dei poeti, Claudiano, Sidonio Apollinare, che devono ispirarsi sicuramente a rappresentazioni del tempo: è da notare il ritorno degli elementi tipicamente guerrieri, in queste immagini di R. che siede exerto pectore... craestatum turrita caput (Sidon. Apol., Carmina, v, 13 ss.); se la corona turrita mostra un curioso ritorno a una tipologia repubblicana di scarsissima diffusione, il seno scoperto è il motivo più tipico dell'abito amazzonico, che la dea indossa ancora nel clipeo argenteo di Flavius Ardaburius Aspar, il console nel 414 d. C.; il barbaro è circondato dalle personificazioni di Cartagine (?) e di R., questa ultima elmata, con asta in mano, balteo sul petto: a distanza di cinquecento anni, il tipo amazzonico che qui appare connesso alla figura di R. è ancora quello delle prime monete repubblicane (v. figg. a p. 912).

Monumenti considerati. - Tazza di Boscoreale: A. Héron de Villefosse, Le trésor de Boscoreale, in Mon. Piot, v, Parigi 1899, tav. xxxii, 1; E. Strong, Roman Sculpture from Augustus to Constantine, Londra-New York 1907, tav. xxvii, 1. Gemma Augustea: A. Furtwängler, Gemmen, 1, tav. lvi; E. Strong, op. cit., tav. xlviii, 4. Statua di Tripoli: G. Calza, op. cit. in bibl., fig. alla p. 669. Statua di Ostia: id., ibid., fig. alla p. 667. Mosaico di Piazza Colonna: G. Tomassetti, Il musaico marmoreo colonnese, in Röm. Mitt., 1, 1886, pp. 3-17, tav. 1; S. Reinach, Rép. Peint., p. 221, I. Rilievi della Cancelleria: F. Magi, I rilievi flavi del Palazzo della Cancelleria, Roma 1945, passim, tavv. i, ii, iv, xiv, xx. Rilievo dell'Arco di Tito: E. Strong, op. cit., tav. lix. Arco di Traiano a Benevento: E. Petersen, L'arco di Traiano a Benevento, in Röm. Mitt., vii, 1892, pp. 239-64; J. M. C. Toynbee, The Hadrianic School, Cambridge 1934, pp. 18-9. Statua del Palazzo dei Conservatori: G. Calza, op. cit. in bibl., fig. alla p. 681. Base della colonna di Antonino Pio: W. Amelung, Die Sculpturen des Vaticanischen Museums, i, Berlino 1903, p. 883 ss., n. 223, tav. cxvi; I. M. C. Toynbee, op. cit., tav. xxx, 4. Capitello di Caracalla: H. Lucas, Roma auf Säulenkapitäl in den Caracalla Thermen, in Röm. Mitt., xvi, 1901, p. 248. Arco di Settimio Severo a Leptis: G. Calza, op. cit. in bibl,, fig. alla p. 683; E. Strong, op. cit., tav. cxvi. Rilievi dell'Arco di Costantino: H. P. L'Orange-A. von Gerkan, Der Spätantike Bildschmuck des Konstantinsbogen, Berlino 1939, pp. 66-7; 70, nota i; 149; 190, tavv. xxxv, xlvii a; M. Pallottino, Il grande fregio di Traiano, Roma 1938, tav. i; E. Strong, op. cit., p. 16o, I, tav. xlviii, 4; tav. lxxv. Sarcofago di Balbino: V. Scrinari, in E.A.A., i, 1958, p. 966, fig. 1215, s. v. Balbino; E. Strong, op. cit., tav. cxxi. Base dei decennali: H. P. L'Orange, Ein Tetrarchisches Ehrendenkmal auf dem Forum Romanum, in Röm. Mitt., liii, 1938, pp. 1-34; E. Strong, op. cit., tav. cxxxi. Disco di Orbetello: L. E. Milani, Il R. Museo Archeologico di Firenze, Firenze 1912, tav. cxlii.

Bibl.: In generale: F. Richter, in Roscher, IV, 1909-15, c. 130-164 (specialmente c. 145 ss. sull'analisi del tipo iconografico); G. Calza, La figurazione di ROma nell'arte antica, in Dedalo, VII, 1926-27, pp. 663-88; M. Cagiano de Azevedo, La dea Barberini, in Rivista dell'Ist. Naz. di Archeologia e Storia dell'Arte, N. S., III, 1954, pp. 108-46. Sulle monete: A. Kluegmann, L'effigie di Roma nei tipi monetarî più antichi, Roma 1879; E. J. Haeberlin, Der Roma-Typus auf den Münzen der römischen Republik, in Corolla numismatica B. Head, Oxford 1906, pp. 135-55, tavv. VI, VII; H. Mattingly-E. A. Sydenham, The Roman Imperial Coinage, I-V, Londra 1923-33; IX, Londra 1951 (v. indici, s. v. Roma); J. W. Crous, Roma auf Waffen, in Corolla Ludwig Curtius, Stoccarda 1937, pp. 217-24, tav. LXXII; G. G. Belloni, Le monete romane dell'età repubblicana, Milano 1960; C. C. Vermeule, The Goddess Rome in the Art of the Roman Empire, Cambridge Mass. 1960.

(A. Bisi)

J. ROMA CRISTIANA. - 1. Premessa. - Che avanti il IV sec. esistessero a R. un buon numero di aule cultuali cristiane è cosa indubbia; difficile è invece precisarne il numero e le caratteristiche morfologiche. Certamente fino alla metà del II sec. non esistevano edifici destinati esclusivamente al culto: la risposta di Giustino negli atti autentici del suo martirio (Acta Sanct., apr. ii, 104 ss.) e il passo della sua prima apologia ad Antonino Pio (138-61), ove descrive il battesimo, l'eucarestia e la vita sociale dei cristiani (Apol., i, 65-67), attestano che il luogo per il battesimo e la sinassi non era sempre lo stesso. Liturgicamente però le assemblee dovevano essere già stabilmente articolate, come si desume da una lettera di Ireneo a papa Vittore (192-201), che ricorda la "consuetudine" d'inviare da parte del papa il fermentum (particella di pane consacrato) ai presbiteri della città (Eus., Hist. Eccl., v, 24). Cinquant'anni dopo la riforma promossa da papa Zefirino (202-217) e l'opera di riorganizzazione di Callisto, il diacono, poi pontefice, che ha legato il suo nome alla catacomba dell'Appia e alla basilica del Trastevere, dovettero riguardare anche gli edifici di culto - Minucio Felice adopera per la prima volta il termine sacraria (Oct., ix, 1) - diventati forse numerosi e stabili. E Lampridio - se vero quanto narra (Hist. Aug., Vita Sev., 40, 6) - ricorda che Alessandro Severo (222-35) preferì assegnare ai cristiani, piuttosto che ai bottegai, una proprietà demaniale, perché ne facessero un luogo di culto.

Dopo le confische avvenute durante la persecuzione di Valeriano, un editto di Gallieno ordina la liberazione dei "luoghi di culto" (Eus., Hist. Eccl., vii, 13). Nel successivo, lungo periodo di pace l'accrescersi delle comunità avrebbe reso insufficienti, secondo Eusebio (Hist. Eccl., viii, 1, 5), le vecchie aule cultuali, favorendo la costruzione di "vaste e larghe chiese". Non sappiamo se questa ultima notizia, riferita in termini generali, possa riferirsi anche a R.; ma la cosa è da ritenersi più che probabile se si vuole, come dobbiamo, spiegare in senso storicistico l'evoluzione dell'architettura sacra. La stessa fonte poi, ormai testimone oculare, ricorda la distruzione dei "luoghi di preghiera" durante la persecuzione di Diocleziano (Hist. Eccl., viii, 2, 1), come pure i successivi editti di liberazione, che estendono progressivamente a tutto l'impero la libertà di erigere le chiese e tenervi le assemblee (Hist. Eccl., viii, 17 ss.; ix, 10, 10).

Da tutte queste notizie pochissimo lume ci viene sulla tipologia dell'aula cultuale, ove doveva riunirsi quella che S. Paolo chiama ripetutamente domestica ecclesia (Ad Cor., i, 16, 19; Ad Rom., 16, 5). L'unico confronto possibile, quello con la domus ecclesiae di Dura Europos (v.) al principio del III sec.,fa pensare ad ambienti ricavati in domus private, semplici aule senza particolare suppellettile liturgica (l'altare [v.] poteva essere ligneo e perciò mobile), con il battistero (uno solo per ogni centro comunitario) allogato in un vano vicino.

Sul numero e la distribuzione di questi luoghi di culto mancano notizie precise. Eusebio (Hist. Eccl., vi, 46, 11) menziona una preziosa lettera di papa Cornelio (251-53), da cui si sa che il clero romano comprendeva allora "46 preti, 7 diaconi, 7 suddiaconi, 42 accoliti, 52 esorcisti, lettori e ostiari, più di 1.500 vedove e indigenti". D'altra parte il redattore, che è del VI sec., del Liber Pontificalis ricorda a più riprese una suddivisione del clero e dei luoghi di culto in venticinque unità. L'attribuzione si fa risalire persino a Cleto o Anacleto (76-88 circa), si ripete con Evaristo (97-105 circa) e Dionisio (259-69), e si ritrova da ultimo con più precisione nella biografia di Marcello (307-309), ove si dice (Lib. Pont., ed. Duchesne, i, 165) che "XXV titulos in urbe Roma constituit, quasi diocesis, propter baptismum et paenitentiam multorum qui convertebantur ex paganis et propter sepulturas martyrum". Titulus, nel linguaggio giuridico, va inteso come proprietà immobiliare; e difatti la tabella affissa su una domus rendeva noto il nome del titolare o proprietario. Quando l'immobile poi passò in dotazione o fu amministrato dalla Chiesa, il nome del donatore vi rimase legato, sia come segno di riconoscenza sia come un tradizionale toponimo sino a che venne santificato o sostituito dal nome di un santo. Questo fatto va tenuto presente nella discussione sulle origini dei "titoli", perché offre un criterio preliminare di distinzione tra le vecchie fondazioni e le nuove (e più tarde) che assumono solo nomi di santi. Naturalmente il numero di venticinque "titoli" rispecchia la situazione dell'epoca dell'amanuense: nel III sec. doveva essere certamente minore. Del resto il sec. III è l'epoca in cui si riordina, su basi ormai stabili, l'intera organizzazione ecclesiastica: al papa Fabiano (Liber Pontific., i, 148) dovrebbe anche risalire la suddivisione della città in sette regioni diaconali, che di fatto richiamano il numero dei diaconi menzionati nella citata lettera di Cornelio.

Per quanto riguarda il numero presumibile dei "titoli" nel III sec., le ipotesi finora avanzate partono tutte dalla notizia dei 46 presbiteri della stessa lettera di Cornelio, ma restano discordi. L'Harnack e l'Homo, ad esempio, suppongono un numero corrispondente di 46 luoghi di culto, calcolando esageratamente un presbiterio per "titolo"; il Kirsch li riduce a poco più di una decina, ritenendo - a ragione - più presbiteri assegnati ad un "titolo"; il Vielliard ne indica una ventina, considerando che di nove (Clemente, Anastasia, Bizante, Equizio, Crisogono, Sabina, Gaio, Crescenziana e Pudente) restano vestigia di domus di secoli anteriori al IV; di tre (Callisto, Cecilia e Marcello) qualche elemento storico relativo ai titolari; di Otto (Emiliana, Ciriaco, Fasciola, Lucina, Nicomede, Prassede, Prisca e Tigrida) i nomi dei fondatori riconducono ad epoca ptecostantiniana.

I risultati delle indagini condotte a più riprese sotto alcune delle chiese titolari confermano solo in modo generico le ipotesi fin qui enunciate.

Nel III sec., in base al numero del clero ricordato da Cornelio, comprendente 150 unità, e a quello degli assistiti (1500 tra vedove e indigenti), si può presumere una comunità cristiana di circa 30.000-40.000 persone su una popolazione ritenuta di oltre 1.000.000 circa di abitanti. Questa comunità la sappiamo distribuita in sette regioni ecclesiastiche, senz'altri dettagli.

In base a varie e concorrenti considerazioni, si può concludere supponendo la situazione seguente: nel Campo Marzio i due "titoli" di Lucina e di Marcello; sul Quirinale, dominato dalle terme di Diocleziano e abitato presso l'aggere da una comunità giudaica, il "titolo" di Gaio (più dubbio quello di Ciriaco); nella zona dell'Esquilino, ormai bonificata e ricca di giardini, quelli di Pudente e di Equizio (incerto quello di Prassede); tutt'intorno al Celio, intensamente popolato verso il S-E da artigiani, commercianti e viaggiatori, i "titoli" di Clemente, della Fasciola, di Emiliana, di Bizante (poi SS. Giovanni e Paolo); dubbi quelli di Nicomede e Crescenziana; sull'Aventino, ov'erano abitazioni aristocratiche, il "titolo" di Prisca (più dubbio l'altro di Sabina); nella valle del Velabro, che con il Foro Boario e la Valle Murcia era fittamente abitato da commercianti d'ogni provenienza, forse il solo "titolo" di Anastasia; e infine nel Trastevere, quartiere tradizionale di giudei, nordici, orientali, mercanti e artigiani in pittoresca commistione, i due "titoli" di Callisto e Cecilia (incerto quello di Crisogono).

I dubbîe le incertezze che caratterizzano la situazione del III sec., non hanno ragione di esistere a partire dal IV sec., per la documentazione di cui disponiamo. Per il V ed il VI sec. inoltre si hanno due preziosi documenti che qui di seguito riproduciamo: le sottoscrizioni ai sinodi del 499 e 595 (Hülsen, Chiese, 124-25), dalle quali si può rilevare un fatto di notevole importanza, e cioè che alla fine del VI sec. le chiese hanno tutte assunto il nome di un santo, sia esso il nome stesso del primitivo titolare santificato o quello di santi molto venerati. Quanto al numero, si noti che i quattro nomi in più nel documento del 499 debbono attribuirsi ad errore del copista: si ritiene infatti che i "titoli" di Damaso e di Lorenzo, di Nicomede e di Matteo, di Pammachio e di Bizante, e - se vera la congettura del Duchesne - di Romano e di Marcello, dovrebbero identificarsi. Al contrario resta inspiegabile, nell'elenco del 595, l'assenza del "titolo" di S. Anastasia.

2. Le fonti per la topografia cristiana. - Premessa indispensabile per lo studio della topografia di R. cristiana nel periodo qui considerato, che va da Costantino al VI sec., è la conoscenza delle principali fonti che ci sono pervenute. Le segnaliamo brevemente:

Depositio episcoporum; Depositio martyrum. Sono calendarî di anniversarî celebrati dalla Chiesa di R. con la menzione del cimitero in cui si teneva la commemorazione. Le due liste si trovano nel Cronografo del 354, compilazione attribuita a Furio Dionisio Filocalo, il noto calligrafo del pontefice Damaso (Valentini-Zucchetti, Codice topografico, ii, 12 ss.).

Laterculus di Polemio Silvio del 449 (Mommsen, Chronica minora, in Mon. Germ. Hist., I, 545) che enumera i luoghi religiosi.

Sottoscrizioni del sinodo romano del 499 (Hülsen, Chiese, pp. LXIX; 124).

Sottoscrizioni del sinodo romano del 595 (ibid., p. 125).

Martirologi, in modo speciale il Martirologio Geronimiano (G. B. De Rossi e L. Duchesne, in Acta Sanct., Novembris, ii, pars prior, Bruxelles 1894; e l'edizione critica più recente a cura di H. Delehaye e H. Quentin, in Acta Sanct., Nov., ii, pars posterior, Bruxelles 1931) per la parte relativa alle commemorazioni celebrate a R., le cui notizie il primo compilatore trasse da un coevo calendario ecclesiastico romano e da una lista registrante le deposizioni dei vescovi romani tra la metà del sec. III e il V circa.

Di regola, insieme al nome del santo, vengono indicati il giorno e il luogo dell'anniversario e talvolta si aggiunge anche una breve notizia sulle circostanze del martirio. I manoscritti che si conoscono dipenderebbero, secondo il Delehaye, da una recensione compilata ad Auxerre nel 592.

Descrizione di R. inserita nella storia attribuita a Zaccaria Retore (596) (Valentini-Zucchetti, Cod. top., I, p. 330 ss.). Si accenna ai cimiteri e si ricordano 24 chiese cattoliche.

Papiri di Monza. Sono targhette di papiro (pittakia), in origine legate ad ampolle, e una lista (notula), che registrano nomi di martiri romani dalle cui lampade all'epoca di Gregorio Magno (590-604) raccolse l'olio un tal Giovanni per farne dono alla sua regina Teodolinda (Valentini-Zucchetti, Cod. top., Il, p. 36 ss.).

Indice dei cimiteri (Index coemeteriorum vetus), catalogo dei maggiori cimiteri romani, compilato verso il sec. VII circa (Valentini-Zucchetti, Cod. top., ii, p. 60 ss.).

Notitia ecclesiarum urbis Romae, prezioso itinerario - sorta di guida ad uso dei pellegrini - redatto probabilmente sotto il pontificato di Onorio I (625-38) o poco dopo (Valentini-Zucchetti, Cod. top., ii, p. 72 ss.). Descrive con minuziosa diligenza i santuarî dei martiri, iniziando da SS. Giovanni e Paolo, unica chiesa urbana contenente reliquie venerate, e proseguendo dalla via Flaminia verso destra: Salaria Vecchia e Nuova. Nomentana, Tiburtina, Labicana, Latina, Appia, Ardeatina, Ostiense, Portuense, Aurelia, Cornelia e basilica Vaticana.

De locis sanctis martyrum quae sunt foris civitatis Romae, unito ad una seconda parte riguardante le basiliche urbane: Istae vero ecclesiae intus Romae habentur (Valentini-Zucchetti, Cod. top., ii, p. 106 ss.). L'itinerario è forse di poco più tardo del precedente nella forma in cui è giunto e, rispetto al primo, segue il giro inverso, spingendosi fino ad Albano. Il De Rossi lo considera un'epitome di più ampia e completa compilazione.

Itinerario Malmesburiense, contenuto nei Gesta regum Anglorum di Guglielmo di Malmesbury (sec. XII). che ha copiato un documento del VII sec. (Valentini-Zucchetti, Cod. top., ii, p. 38 ss.). Cataloga le porte e i santuarî delle corrispondenti vie consolari, nonché qualche centro sacro all'interno della città.

Itinerario di Einsiedeln, da un codice del monastero di quella città svizzera. È un documento veramente prezioso, che si trova unito ad una silloge d'iscrizioni pagane e cristiane, e alla descrizione delle mura di R. (Valentini-Zucchetti, Cod. top., ii, p. 163 ss.), fonte importantissima per conoscere lo stato del recinto murario tra il VI e l'VIII secolo.

Itinerario cosiddetto di Sigerico, breve relazione fatta dall'arcivescovo di Canterbury sullo scorcio del sec. X (B. Pesci, L'itinerario romano di Sigerico Arcivescovo di Canterbury e la lista dei papi da lui portata in Inghilterra [anno 990], in Rivista di archeologia cristiana, XIII, 1936, p. 43 sa.)

Liber Pontificalis (ed. L. Duchesne, 2 voll., Parigi 1886-92; un 3° vol. con gli appunti del Duchesne e gli aggiornamenti fu pubblicato a cura di C. Vogel, Parigi 1957). Insieme al commento del Duchesne, si veda anche quello del Valentini-Zucchetti, Cod. top., ii, p. 221 ss.: fondamentale documento dell'evoluzione della R. pagana alla cristiana, di avvenimenti e personaggi che lasciarono la loro orma nella storia della città. Redatto in forma biografica, essa è opera di più autori, che attinsero per il loro lavoro di sintesi alle redazioni ufficiali della curia romana. Le biografie dei pontefici hanno tuttavia diversa stesura: scarne fino a tutto il V sec., diventano sempre più ampie e documentate fino al sec. IX.

Sillogi o raccolte d'iscrizioni cristiane. In un primo tempo si compilarono per corredare itinerarî a scopo di devozione; a partire dal sec. VII invece si cominciò ad inserirle, smembrate o in maniera frammentaria, in antologie poetiche ad uso letterario e scolastico, non senza giunte, correzioni e rifacimenti. La maggior parte delle sillogi - cimiteriali e basilicali a seconda dei luoghi d'origine delle iscrizioni - interessano i monumenti di R. (si vedano il vol. II delle Inscriptiones christianae urbis Romae, pubblicato da G. B. De Rossi nel 1888 e il prospetto degli autori contenuto nel vol. I della nuova serie delle Inicriptionei christ. urbis R. septimo saeculo antiquiores, Roma 1922 ss. di A. Silvagni, continuata ora da A. Ferrua, che sta pubblicando il IV volume).

Bolle papali, anteriori al 1198, raccolte da P. F. Kehr, in Italia Pontifida, vol. I: Roma, Berlino 1906, ove si trova una ricchissima messe di notizie relative agli edifici sacri dell'Urbe.

Le piante di Roma, non tutte di carattere archeologico e ovviamente non ugualmente utili all'archeologo. Oltre quelle del Lanciani e del Lugli relative alla R. pagana, alle classiche del Bufalini, Du Perac-Lafréry, Maggi-Maupin-Losi, Falda e Nolli, ricordiamo le più recenti del Lanciani (L'Itinerario di Einsiedeln e l'Ordine di Benedetto Canonico, Roma 1891), Grisar (1898), Hülsen (1926), Valentini-Zucchetti (1924 e 1946), Frutaz (1953), per le quali si vedano le raccolte del De Rossi, dell'Ehrle, e quella recente dello stesso Frutaz promossa dall'Istituto di Studi Romani, Roma 1962. Un buon sussidio offrono le carte del Vielliard (1942) e del Van der Meer-Mohrmann (Atlas of the Early Christian World, Elsevier 1958), nonché collezioni e riproduzioni di monumenti, come, ad esempio, quella di H. Egger, Römische Veduten. Handzeichnungen aus dem XV. bis XVIII. Jahrhundert, Vienna-Lipsia 1911-1931.

Itinerarium Urbis Romae di Fra' Mariano da Firenze (ed. a cura di E. Bulletti, Roma 1931): descrive in sei escursioni (1518) i monumenti pagani e cristiani della città, avanti le trasformazioni di Leone X e Sisto V, e perciò nella situazione formatasi nel corso del Medioevo, quando ancora persiste nelle sue grandi linee l'antica topografia.

(P. Testini)

II. - Sviluppo urbanistico e topografico. - 1. Il secolo IV. - I tre secoli dal principio del IV alla fine del VI, fra Costantino e Gregorio Magno, segnano, com'è noto, il risoluto e definitivo inserimento del Cristianesimo nella Vita della città, pur tra pause e contrasti. Non si hanno dati sulla consistenza della comunità cristiana sotto Costantino; tuttavia la politica tollerante di Massenzio (Eus., Hisr. Eccl., viii, 14, 1) e il successivo editto di pacificazione dell'anno 312, dovettero determinare un rapido accrescimento delle conversioni.

Nel IV sec., se da una parte la comunità cristiana erige i suoi monumenti trionfali in onore del Salvatore e dei martiri, gli imperatori si preoccupano di conservare le costruzioni esistenti (Cod. Theod., xvi, 10, 3; anno 346), quantunque cominci per esse la fase dell'abbandono. Solo per i templi l'opposizione si traduce lentamente in ostilità. Salvo qualche sporadico episodio di chiusura dei templi nelle regioni orientali (Eus., Vita Const., iii, 55 e 57; Socrat., Hist. eccl., i, 18; Sozomen., Hist. eccl., v, 10), a R. dovette accadere solo qualche caso di spoliazione di templi abbandonati: lo si dedurrebbe da Animiano Marcellino (xxxii, 4), secondo il quale alla corte di Costanzo v'erano ufficiali arricchitisi in questa maniera. Dopo la parentesi di Giuliano e fino a Valente, la tolleranza non viene apparentemente turbata, anche se la vecchia religione scade inesorabilmente. Graziano infatti rinunzia, tra il 379-382, alle insegne di pontifex maximus (Zosim., iv 36) e Teodosio emana, fra il 381-92, una serie di costituzioni contro i sacrifici e i culti pagani (Cod. Theod., xvi, 10, 7; xvi, 10, 9; xvi, 10, 10). Tuttavia, ancora nel 399, Arcadio e Onorio confermano il proposito di conservare i monumenti (Cod. Theod., xvi, 10, 15).

Per l'architettura cristiana l'età di Costantino rappresenta il punto di arrivo di un processo di maturazione che supponiamo avvenuto in modo speciale nella seconda metà del III sec. (ma non sussistono al riguardo dati positivi). A R. l'imperatore asseconda lo sforzo della comunità cristiana, tutta intenta ad esaltare con costruzioni monumentali le tombe dei martiri ed erigere una degna sede episcopale.

Al Laterano, quasi a ridosso del recinto aureliano, sorge la basilica Salvatoris con il grandioso complesso del patriarchio. A poca distanza, verso E, Elena, madre di Costantino, adatta al culto una sala della proprietà imperiale del Sessorium per custodire un frammento della Croce portata da Gerusalemme (onde il nome di Hierusalem o basilica Sessoriani palatii). Sopra i sepolcri dei martiri, costruite quasi tutte secondo uno schema che sembra ispirato al complesso gerosolimitano dell'Anastasismartyrium (v. gerusalemme; martyrion), si elevano le basiliche in onore di Pietro, Paolo, degli Apostoli, ad Catacumbas (Mav., iii, 5), Marcellino e Pietro, Lorenzo, Agnese.

Nel corso del IV sec. l'attività edilizia dei papi si concentra nelle zone che paiono provviste di "titoli" già dal III secolo. Nuove fondazioni titolari si aggiungono infatti a quelle esistenti: la basilica di papa Marco (336) iuxta Pallacinis; il "titolo" di Damaso (366-384) presso il teatro di Pompeo; il "titolo" di Eusebio sull'Esquilino, e forse il titulus Apostolorum, più tardi noto come S. Pietro in Vincoli per la memoria delle catene dell'Apostolo. Sotto il pontificato di Giulio I (337-52) si ha notizia di cinque fondazioni, di cui tre cemeteriali: S. Felice ad insalsatos sulla via Portuense, S. Valentino sulla Flaminia e Calepodio sull'Aurelia, e due urbane: una, conosciuta col nome dello stesso pontefice, in Trastevere (sede di assemblee tumultuanti per le elezioni degli antipapi Felice e Ursino); l'altra nella VII regione iuxta forum divi Traiani (da identificarsi con la seriore dei SS. Apostoli?). A Liberio (352-56) si attribuisce la fondazione di una basilica sull'Esquilino (si discute se presso o sul luogo della sistina S. Maria Maggiore); ad Anastasio (399-402) quella della basilica quae dicitur Crescentiana, in regione II (civile o ecclesiastica?), via Mamurtini, in urbe Roma (Lib. Pont., i, 218); a Siricio (384-99) la ricostruzione dei "titoli" di Clemente, Nicomede, Pudente, nonché lavori di ampliamento in diversi edifici.

Da tutta questa attività emerge una duplice constatazione: la fondazione di chiese non titolari che accolgono assemblee e sussidiano le parrocchiali; il moltiplicarsi degli edifici di culto ancora negli stessi quartieri, ove si erano consolidati i primi gruppi cristiani nel corso del sec. III.

Un gruppo di martyria (v. martyrion) quasi tutti costantiniani, costituiscono per ora esempi esclusivi di R., sia per la forma delle costruzioni a deambulatorio, che per l'insieme del progetto, chiaramente unitario nella concezione e ispirato al complesso monumentale eretto dallo stesso imperatore sulla tomba di Gesù a Gerusalemme. Il primo cronologicamente (ma i pareri sono discordi) sembra essere stato quello dei SS. Marcellino e Pietro sulla Labicana; anche in una proprietà imperiale sorse la basilica presso la tomba di S. Agnese sulla via Nomentana: Costantino vi aggiunse il suo mausoleo, collegandolo mediante un atrio a forcipe. Un terzo complesso martiriale, comprendente una memoria sul sepolcro di S. Lorenzo, rifatta e ampliata da Pelagio II (578-90), e una grande basilica vicina (la maior), si edificò nell'agro Verano. Una quarta costruzione infine, la basilica Apostolorum, forse postcostantiniana (ma anteriore al 349), secondo alcuni invece addirittura edificata sotto Massenzio, si costruì sulla memoria che accolse per un certo tempo reliquie di Pietro e Paolo (gravi ragioni parlano in favore di un'effettiva traslazione, nonostante il silenzio delle fonti) sulla via Appia.

2. Il secolo V. - Si apre con la costruzione, sotto il pontificato di Innocenzo I (401-407), dell'ultimo del "titoli", quello di Vestina, dedicato poi ai SS. Vitale, Gervasio e Protasio; e con una legge di Arcadio, Onorio e Teodosio (407), che ordina di asportare dai templi i simulacri pagani, mentre i templi stessi e le are diventano proprietà demaniali (God. Theod., xvi, 10, 19). Tre anni dopo (710), Alarico coi Goti saccheggia la città; segue Genserico nel 455 e infine Ricimero nel 472. Ai danni dei Goti si aggiungono quelli del violento terremoto del 442, ricordato da Paolo Diacono (Hist. Rom., xxiii, 16). I periodi di quiete tra queste calamità vedono ricostruzioni e nuove fondazioni. Dopo Alarico: S. Sabina sull'Aventino (Celestino I, 422-32); il titulus Apostolorum e forse la grandiosa basilica di S. Maria Maggiore sull'Esquilino; le ricostruzioni di S. Lorenzo in Lucina al Campo Marzio e del battistero Lateranense (Sisto III, 432-40). Dopo Genserico: il compimento della ricostruzione del "titolo" iniziato da Pammachio (SS. Giovanni e Paolo) ad opera di Leone I (440-61) - allo stesso pontefice si deve la ricostituzione della suppellettile liturgica in tutti i "titoli" (Lib. Pont., I, 239); la fondazione delle basiliche di S. Bibiana iuxta palatium Licinianum e di S. Stefano Rotondo sul Celio sotto il pontificato di Simplicio (468-83). Nello stesso tempo due goti, imitando la liberalità del patriziato romano, erigono due chiese: una Flavio Valila Teodovio dedica a S. Andrea adattando l'aula basilicale di Giunio Basso (v.) sull'Esquilino; l'altra Flavio Ricimero fonda ai margini della Subura, verso il Quirinale, per la comunità ariana (poi dedicata a S. Agata), che già possedeva un'altra chiesa (in seguito S. Severino) iuxta domum Merulanam regione III (Greg., Reg. lib., iii, ep., 19, in Kehr, Italia Pont., 1, 40).

3. Il VI secolo. - Particolarmente operoso nel primo decennio del VI sec. appare il pontificato di Simmaco (498-514): oltre a rifacimenti e fondazioni di diversi oratorî, sorgono S. Andrea presso S. Pietro, S. Agata sull'Aurelia, S. Martino presso l'antico titulus Equitii. Sotto Felice IV (526-30) si registra un avvenimento particolarmente significativo: la costruzione, al margine della Via Sacra, della basilica dei SS. Cosma e Damiano e più a N, sempre nel Foro Romano, di quella di S. Maria Antiqua. Le due chiese sono i primi edifici di culto sorti nel centro della città imperiale e insieme i due primi esempi di trasformazione di edifici pubblici da parte del clero.

Lutti e rovine si accumulano durante la guerra ventennale tra Goti e Bizantini (536-55). Nel 537 Vitige taglia gli acquedotti. Soffrono anche i monumenti antichi, i cui materiali, quando non emigrano altrove (caso delle tegole di bronzo dorato del Pantheon portate in Oriente da Costante II nel 633), vengono adoperati largamente per la costruzione delle basiliche cristiane. La sola fondazione ecclesiastica ricordata in questo periodo è la basilica degli apostoli Filippo e Giacomo, iniziata da Pelagio (556-61) e compiuta da Giovanni III (561-74), il quale invia ogni domenica a tutti i cimiteri oblationem et amula vel luminaria dal Laterano (Lib. Pont., i, 305), per assicurare la messa domenicale nelle chiese suburbane minacciate dall'abbandono. Nella città si moltiplicano invece i monasteri: ne menziona parecchi Gregorio Magno (590-603), ma debbono essere in parte istituzioni del sec. VI, in parte del secolo precedente.

III. - MONUMENTI PRINCIPALI. - (N. B. Dei singoli edifici sono prese in considerazione soltanto le residue parti del primitivo impianto paleocristiano, tralasciando l'ulteriore sviluppo).

1. Catacombe. - A partire dall'inizio del III sec. (grazie agli scavi e agli studî promossi scientificamente dal P. Marchi e dal De Rossi nel secolo scorso e continuati ininterrottamente fino ad oggi), i cimiteri cristiani forniscono una messe ingente di elementi per la ricostruzione della vita della Chiesa primitiva. E l'importanza delle pitture, delle sculture (sarcofagi), degli oggetti minuti e delle iscrizioni finora messi in luce, oltrepassa senza dubbio l'ambito stesso della antichità cristiana, per investire gli aspetti essenziali della cultura figurativa e certi problemi sociali della tarda antichità e dell'Alto Medioevo. Conviene ripetere tuttavia, a smentita di una ancor diffusa opinione popolare, che i cimiteri cristiani non furono di regola né luoghi di rifugio, né luoghi di culto ordinario. Fu piuttosto una diversa concezione della morte a suscitare il desiderio di aree comuni; aree dapprima limitate ad ipogei isolati, sorti lungo le vie consolari, poi sempre più vasti per l'ampliamento dei primitivi ipogei e il loro collegamento mediante una rete di gallerie, condotte con criteri di vera architettura funeraria, diversa però dalla tecnica usata già da Etruschi ed Ebrei. Con le aree subdiali prima e con le catacombe poi, il cristianesimo stabilisce un legame tra la vita religiosa urbana e i centri funerarî suburbani. Nel concetto di regione urbica penetra un fatto nuovo, che è forse da ritenersi fondamentale per comprendere la distinzione tra regione civile e regione ecclesiastica.

Il IV sec. segna la fase del massimo sviluppo delle aree cemeteriali. L'attività dei cimiteri dal V sec. comincia la sua parabola discendente, a causa degli avvenimenti politici. La cura dei pontefici è volta a restaurare i santuarî dei martiri, ad assicurare l'officiatura liturgica, a preservare le tombe venerate. Fino a tutto il VII sec. le chiese martiriali con il rispettivo retro-sanctos restano le uniche parti dei cimiteri ancora frequentate e custodite. Nello stesso tempo l'inumazione viene introdotta nell'ambito della città e poi anche nelle stesse basiliche urbane. Già nella prima metà del VI sec. tombe cristiane si installano sull'Esquilino, nel Castro Pretorio, presso le chiese di S. Saba, sul piccolo Aventino, e di S. Cosimato nel Trastevere e, a N del Colosseo, presso le Terme di Tito.

Per la storia delle aree cemeteriali cristiane, la loro dislocazione e la documentazione artistica, v. catacombe.

(P. Testini)

2. Salvatore (S. Giovanni al Laterano). - Assai poco è visibile della antica basilica episcopale fondata da Costantino, prototipo di tante altre durante tutto il Medioevo in Occidente. Successivi scavi (specialmente quelli condotti da E. Tosi, 1934-38) hanno fornito informazioni sull'antica pianta, completando le notizie delle fonti; alcuni frammenti della muratura costantiniana sono stati osservati inclusi nella costruzione secentesca. La ricostruzione dell'alzato della primitiva basilica è tuttavia ancora ipotetica. La data di fondazione oscilla tra il 310 (nell'ipotesi che Costantino avesse autorizzato la costruzione già prima dell'editto di Milano) e il 315.

L'area della chiesa occupava il sito della caserma degli Equites singulares severiana, presso quella che era stata la casa di T. Sesto Laterano.

Per la costruzione della basilica la caserma fu demolita e nessun muro della nuova costruzione venne a coincidere con quelli della precedente. Gli scavi hanno scoperto le fondazioni costantiniane, che si iniziano circa 5 m avanti l'attuale facciata (non sono tuttora note le fondazioni della facciata costantiniana) e si prolungano sino all'abside: sono in conglomerato in basso e nella parte superiore in opera listata. Non esiste un muro di fondazione trasversale tra navata e transetto, ossia sotto l'arco trionfale; invece i muri che delimitano la navata centrale, che occupa l'antica strada di accesso alle caserme, proseguono oltre l'attuale transetto, lo attraversano e vanno a finire contro la parte di fondo presso l'inizio della curva dell'abside, dividendo così una campata mediana tra abside e nave maggiore dai bracci del transetto. Delle quattro navate laterali, quelle più vicine alla mediana arrivano fino al muro ove attacca l'abside; le due esterne si interrompono invece circa 15 m prima, incontrando ciascuna un vano che sporge di circa 4 m dal perimetro della basilica. Ne consegue un disegno assai vario della zona del coro, che pone complessi problemi a un'ideale ricostruzione dell'alzato. Interessante è l'esistenza di grandi finestre (tracce conservate nei frammenti di muro superstiti) nelle navatelle estreme, che erano così fortemente illuminate (a differenza di S. Pietro).

Scavi condotti nel 1876, durante il deprecato rifacimento del coro, rivelarono che la curva esterna dell'abside toccava i resti dell'atrio di una casa, che non doveva essere stata demolita e in cui si volle identificare la aedes Laterani ancora descritta nel V sec. da Aurelio Vittore.

Il Liber Pontificalis inserisce nella Vita Silvestri un elenco, con ogni probabilità autentico, dei donativi di Costantino alla basilica, di notevole importanza per definire l'aspetto interno della chiesa e per le notizie che ci dà sulla sua suppellettile. Soprattutto notevoli il ciborio d'argento, con sulle due facce i rilievi di Cristo in sella fra gli Apostoli e di Cristo in throno, e i sette altaria ex argento purissimo. La posizione degli altari e il loro significato liturgico sono oggetto di discussione.

Bibl.: Recenti: E. Josi, Scoperte n. bas. Cost. al Laterano, in Riv. Arch. Cristiana, XI, 1934, p. 334 ss.; A. M. Colini, Storia e topografia del Celio, in Memorie Pont. Accad., VII, 1944, p. 322 ss.; R. Krautheimer, Il transetto nella basilica paleocristiana, in Actes du Ve Congr. Int. Arch. Chrét., Parigi 1954, p. 283 ss.; J. B. Ward Perkins, Costantine and the Christian Basilica, in Papers British School at Rome, XXII, 1954, pp. 84-85; H. Kähler, Die Spätantiken Bauten unter dem Dom von Aquileia, Saarbrücken 1957, p. 70, nota 2; E. osi, R. Krautheimer, S. Corbett, Note lateranensi, in Rivista Arch. Cristiana, XXXIII, 1957, pp. 79-97; XXXIV, 1958, pp. 59-72.

3. S. Pietro in Vaticano. - Numerosi indizî fanno ritenere che la costruzione della basilica, in corrispondenza del monumento onorario già ricordato (v. Sez. F, I) e nella convinzione che esso racchiudesse le spoglie di S. Pietro, avesse inizio in un periodo relativamente tardo del regno di Costantino; certamente il completamento dell'edificio avvenne dopo la morte dell'imperatore, benché, stando all'iscrizione già sull'arco trionfale, la consacrazione dovesse avvenire ancora durante il suo stesso regno.

La basilica antica, per la cui erezione era stata necessaria un'imponente opera di terrazzamento della necropoli (fino allora ancora in uso) è stata completamente distrutta nei secoli XVI e XVII. Nel 1571 Tiberio Alfarano, chierico beneficiato della basilica, ne redasse una pianta e una descrizione assai accurate, mentre il Grimaldi, canonico, ne curò il disegno di varî aspetti. Altri documenti figurativi risalgono ancora al Medioevo (per esempio codice di Eton College), e altri ne esistono risalenti al sec. XVI e all'inizio del seguente. Infine scavi recenti oltre alla necropoli vaticana (v. loc. cit.) hanno rimesso in luce le fondazioni costantiniane, parte delle decorazioni della basilica primitiva e il monumento di Gaio (v. loc. cit.), incorporato entro la struttura costantiniana.

L'antica S. Pietro era una basilica a cinque navate, lunga 85 m e larga 64, con abside a O, stretto transetto e un ampio atrio. Ventidue colonne separavano ciascuna navata. A differenza della basilica costantiniana del Salvatore quivi il transetto era nettamente separato dal resto dell'organismo basilicale. Al punto di congiunzione fra la navata e il transetto, in corrispondenza dell'arco trionfale, un muro di fondazione tagliava trasversalmente la navata; gli accessi dalle navatelle all'area del transetto erano costituiti da trifore spartite da due colonne; anche i muri esterni delle navate estreme proseguivano nel transetto per andare a congiungersi alla parete di fondo, separando così dal resto della basilica le due ali del transetto che sporgevano dal perimetro della basilica e che, con qualche analogia con la basilica del Salvatore, venivano a costituire quasi due vani a sé, aperti, sull'area del transetto da una trifora suddivisa da due colonne che restava inclusa nel perimetro della basilica. A differenza della basilica del Salvatore, gli stilobati delle colonne delle navate si arrestavano di fronte al transetto anziché attraversarlo. Era appunto in quest'area sacra, isolata dal corpo della basilica, che sorgeva la memoria dell'Apostolo, collocata esattamente all'inizio dell'abside. Grazie al terrazzamento della necropoli, a questo punto il pavimento della basilica costantiniana si trovava ad un livello di 30 cm superiore alla base del monumento precostantiniano, che, racchiuso, come in una "teca", entro un parallelepipedo di marmo bianco con lastre di porfido inserite come lesene, era il centro d'interesse di tutto l'edificio. Sono ancora conservate in varî punti della basilica attuale le colonne tortili con figure di putti vendemmianti, di marmo pario, che componevano il recinto (pergula) intorno al monumento, del quale la cassetta delle reliquie scoperta a Samagher, presso Pola, del V sec., ci tramanda una rappresentazione eccezionalmente fedele. La calotta dell'abside era decorata da un mosaico, secondo l'iscrizione appostavi eseguito sotto uno dei figli di Costantino (Costante ?), forse con la rappresentazione della traditio legis a Pietro, oppure, come nel mosaico del XII sec. che lo sostituì, noto da copie, di Cristo in trono fra i due principi degli Apostoli.

Bibl.: v. sotto Sez. F, 1.

4. San Paolo fuori le mura. - La basilica fu fondata da Valentiniano II nel 386, in sostituzione di un primo martyrion costantiniano che si affacciava sulla via Ostiense, orientato, dunque, nel senso opposto a quello della basilica; il quale doveva costituire già la sistemazione di un luogo di culto più antico, indicato dagli Itinerarî in praedio Lucinae. Gaio parla infatti di un tropaeum negli stessi termini usati per quello di S. Pietro. Doveva trovarsi in un affollato cimitero lungo la strada, di cui una parte è stata scavata a N della basilica, mentre altri sepolcri simili a quelli rinvenuti furono disegnati dal Vespignani durante gli scavi nel transetto. Alcuni resti venuti allora alla luce appunto nell'area del transetto della basilica permisero la ricostruzione ipotetica di una basilichetta, non si sa se ad una o a tre navate, con l'abside situata in corrispondenza dell'arco trionfale attuale. Fu allora supposto (Belloni, 1853) che la costruzione, che includeva la tomba dell'apostolo, fosse addirittura pre-costantiniana; ipotesi per la quale i dati raccolti sembrano insufficienti. Siamo invece eccezionalmente bene informati sulle vicende costruttive della basilica, che purtroppo, in seguito a un incendio occorso nel 1823, e più ancora per il tetro restauro che ne seguì, si può dire sia ormai quasi del tutto scomparsa. Conosciamo infatti l'editto imperiale di fondazione, che dà disposizione per gli esproprî, per la chiusura di una strada (iter vetus), ecc. e persino il nome dell'architetto principale Kyriades, che non sappiamo se sia lo stesso che, sulla base di una colonna, con la dedica di papa Siricio (18 novembre 390), si firma come Flavius Philippus. I lavori proseguirono sotto Teodosio e furono conclusi da Onorio. La basilica dei tre imperatori, a cinque navate, era ancora più vasta di S. Pietro; le sue ottanta colonne di marmi pregiati provenivano in gran parte da edifici antichi, fra i quali la Basilica Emilia. Malgrado i danni dei restauri, l'innesto della vasta abside nel transetto conserva all'interno ancora qualcosa dei volumi antichi; all'esterno appunto nel transetto si possono osservare tracce delle mura del IV secolo. Un grandioso arco restaurato da Leone I (440-461) in seguito ad un terremoto - resta, anche se profondamente alterato, il mosaico con la visione apocalittica, importante non soltanto per l'iconografia, ma anche stilisticamente, soprattutto per il fondo d'oro - separava il transetto dalla navata, vero arco trionfale, sorretto da due colossali colonne con elegantissimi capitelli ionici, che inquadravano la tomba dell'apostolo non rimossa dal luogo in cui l'aveva già trovata Costantino. Ne è rimasta la lastra superiore sicuramente non nella posizione originaria (la tomba fu restaurata nel IX sec. dopo un'incursione saracena), con i fori per introdurvi i brandea e le ampolle, con l'iscrizione costantiniana. Come a S. Pietro, era inclusa in un'arca marmorea, al cui interno poteva accedere chi voleva pregare sulla tomba o calarvi gli oggetti che il contatto con il corpo del martire avrebbe consacrato. Forse poiché fu rispettata la posizione che aveva l'altare costantiniano nella basilichetta precedente, il celebrante si trovò rivolto verso l'abside e non verso il popolo, contrariamente all'uso generale. Una pergola di venti colonne di porfido si levava inter chorum et altare. Si rimane dunque perplessi sulla funzione reciproca di navate e transetto e sulle relazioni fra la tomba e l'altare. Le antiche raffigurazioni dell'interno di S. Paolo danno un'idea della ricchezza decorativa della basilica; gli archivolti erano decorati di stucchi, il fregio sotto il cleristorio era affrescato con una serie di clipei (inizialmente sino a Leone Magno) con i ritratti dei papi - alcuni clipei, staccati, sono conservati nel lapidario dell'abbazia annessa alla basilica -, infine le pareti erano spartite in varî riquadri con affreschi, sempre dovuti a Leone Magno, relativi al Vecchio e al Nuovo Testamento (il Nuovo sulla parete S, il Vecchio sulla parete N), che Gregorio Magno imitò poi in S. Pietro. Se ne conservano copie del sec. XVII, in alcune delle quali si osservano schemi simili a quelli del Virgilio Vaticano; del racconto biblico di S. Paolo è sensibile il ricordo in alcuni manoscritti del IX sec. dello scrittorio di Tours.

Tabella

Bibl.: A. Bosio, Roma sotterranea, Roma 1632, p. 148; M. J. Ciampini, De sacris aedificiis, Roma 1693, p. 109; M. M. Nicolaj, Della Bas. di S. P., Roma 1815; G. B. De Rossi, Roma sotterr., Roma 1870, III, pp. 463-4; Liber Pontificalis, ed. Duchesne, ad indicem; Armellini-Cecchelli, Chiese, Roma 1942, p. 928; P. Belloni, Sulla grandezza e disposizione della primitiva basilica ostiense, Roma 1853; C. Erbes, Das Alter der Gräber und Kirchen des Paulus und Petrus in Rom, in Zeitschrift f. Kirchengesch., VII, 1884; H. Grisar, Die Grabplatte des heil. Paulus, in Röm. Quartalschr., 1892, pp. 119-153; id., in Analecta Romana, I, 1899, pp. 259-73, tav. I; R. Lanciani, Pagan and Christian Rome, Londra 1892, p. 151; H. Lietzmann, Petros und Paulus2, Bonn 1915, p. 211 ss.; R. Lanciani, Delle scoperte fatte nel 1838 e 1850 presso il sepolcro di Paolo apostolo, in Nuovo Bull. d'arch. crist., XXIII, 1917, pp. 1-29; G. Lugli, Scavi di un sepolcreto romano presso la basilica di S. Paolo, in Not. degli Scavi, 1919, pp. 285-354; J. Garger, Wirkungen der frühchr. Gemäldezyklen von S. Peter u. S. Paul, Vienna 1938; G. Wilpert, Mosaiken und Malereien, Friburgo in Br. 1917, II, pp. 548-630; P. Toesca, Storia dell'Arte, I, Torino 1913, indice: Ch. Hülsen, Chiese, Firenze 1927, p. 415, n. 11; W. Köhler, Die Schule von Tours, Berlino 1933, I, 2, p. 143 ss.; L. De Bruyne, L'antica serie di ritratti papali della basilica di S. Paolo f. l. m., Città del Vaticano-Roma 1934; I. Schuster, La basilica e il monastero di S. Paolo f. l. m., Note storiche, Torino 1934; P. Styger, Märtyrergrüfte, Berlino 1935, p. 72 ss.; F. W. Deichmann - A. Tschira, Die frühchristlichen Basen und Kapitelle von S. Paolo f. l. m., in Röm. Mitt., LIV, 1939, pp. 99-111; F. W. Deichmann, Frühchr. Kirchen, Basilea 1948, p. 31 ss. e passim; B. Belvederi, L'origine della Basilica Ostiense, in Riv. Arch. Crist., XXII, 1946, p. i ss.; P. Künzle, Bemerkungen zum Lob auf Skt. Peter und Skt. Paulus v. Prudentius, in Riv. Stor. della Chiesa in Italia, XI, 1957, pp. 309-370; G. Matthiae, Chiese, Bologna 1961, p. 82 ss.

5. San Sebastiano. - La basilica, divisa in tre navate da pilastri, con deambulatorio ed endonartece, è del tipo costantiniano dei SS. Pietro e Marcellino, S. Lorenzo, S. Agnese. La sua muratura è però così simile a quella del vicino circo di Massenzio da consentire l'ipotesi (Josi, Torp) che si tratti di una fondazione dello stesso Massenzio; quindi un precedente, anzi il modello, delle costruzioni costantiniane. Prima dell'accertamento della pianta delle altre basiliche dello stesso tipo l'iconografia insolita di questa aveva fatto sorgere il dubbio che qui si avesse non una basilica, ma un recinto cemeteriale con portici disposti intorno ad un'area centrale scoperta (Lanciani), tesi che in seguito ebbe un suo sviluppo critico, ma che è sicuramente da escludere. Come nel caso delle altre basiliche simili, tutta la zona circostante è fittamente coperta di mausolei, taluno anzi è addirittura addossato alla basilica, come quello di S. Quirino, più tardi scambiato con la Platonia, corruzione di platoma, la lastra su cui Damaso aveva fatto incidere un famoso carme sul luogo della sepoltura provvisoria dei SS. Pietro e Paolo. Infine numerose fosse sono scavate nel pavimento della chiesa, e il loro addensarsi circa la metà della navata dimostra, concordemente alle descrizioni delle fonti, ove fosse il luogo più venerato dell'edificio.

Per ottenere il livello del pavimento della basilica e dell'area circostante era stato necessario compiere un grande lavoro di terrazzamento, dovendo colmare un avvallamento in cui forse già dal I sec. si aprivano le gallerie di una cava di pozzolana, seppellendo una casa (cosiddetta "villa"), una serie di colombarî, e sconvolgendo il sistema di diverticoli che in questo punto si dipartivano dall'Appia. I colombarî sono allineati, al di sotto della navata centrale, lungo uno dei vicoli che uscivano dall'Appia; risalgono alla seconda metà del I sec. d. C. La casa ("villa") consta di più vani, di non grandi dimensioni, costruiti in opus reticulatum; in una delle stanze è notevole l'affresco di un paesaggio, databile nel II sec. d. C., entro una cornice in cui ricorre il motivo del tripode (v. s. v. paesaggio), mentre altre stanze hanno le pareti e le vòlte spartite e decorate secondo schemi del secondo-terzo decennio del III secolo. A un livello ancora inferiore a quello della casa, circa 9 m più in basso del pavimento della basilica, gli scavi del 1915 hanno scoperto tre ipogei, con fronti in laterizio sormontate da architrave, che si affacciavano su uno spiazzo ovale ("piazzola"), ricavato dal crollo di una delle gallerie scavate nella pozzolana. Almeno dall'età traianea, infatti, la cava, ormai abbandonata, era stata convertita in un sepolcreto. I tre mausolei dovettero essere costruiti insieme, secondo un piano comune, verso la metà o il terzo venticinquennio del III sec.; in ognuno una scala scendeva ad un livello inferiore, raggiungendo una delle antiche gallerie e incorporando così anche sepolture anteriori. Uno è detto dell'"ascia", dall'emblema scolpito sulla fronte, un altro di Clodios Hermes, dal nome del proprietario, il terzo degli Innocenzi, dal nome del collegio che lo usò, prendendo il titolo dagli imperatori - duobus Gordianis Innocentiorum, Gordiano Innocentiorum, Popenio Balbeino Innocentiorum - del 238-44. In quest'ultima tomba, in una fase imprecisata della sua storia, una mano graffî la parola ΙΚΤΘΥS (il simbolo di Cristo e la Tau). In tutti e tre, la decorazione di stucchi ed affreschi è assai raffinata; tematicamente interessante è uno degli affreschi di Clodios Hermes (III sec.) con scena di apoteosi. Altre tombe più modeste si affacciarono sulla piazzola, altre furono scavate nelle gallerie vicine. Una scala scendeva a una cisterna sotterranea; al sommo della collina, al livello dei columbaria, il sito era chiuso in un recinto rettangolare, delimitato dalla parte posteriore dei columbaria, e da tre muri. Con la recinzione della zona, parte delle attività connesse con il culto dei morti si trasferirono ad un livello superiore. Direttamente al di sopra della sala centrale del mausoleo di Clodios Hermes gli scavi hanno rivelato i resti di un'esedra a sigma, con banchi lungo le pareti; alcuni resti indicherebbero la stessa disposizione anche al di sopra degli altri due mausolei. Verso il III sec. il sigma fu sostituito da una camera a vòlta, in cui trovò posto anche una pietra, spesso interpretata come un baetylus. Finalmente, verso il 200, furono eseguite alcune singolari pitture cristiane al di sopra del frontone della facciata di Clodios Hermes, ma dopo pochi anni il piazzale dei tre mausolei era quasi completamente ostruito, tranne che per i due mausolei di Clodios Hermes e degli Innocenzi, ai quali si accedeva da due scale coperte da tettoie di legno, che danneggiarono gli affreschi cristiani. Infine tutto il piazzale fu interrato. L'area al livello della "villa" (in realtà una casa in qualche modo connessa con il vicino cimitero, come indicherebbero anche alcuni graffiti) si trovava, verso il sesto decennio del III sec., così distribuita: una zona, l'area cemeteriale, risultava delimitata dai colombarî, dalle mura della "villa", quindi da un muro di sostegno, a S, dove la collina precipitava in una scarpata; sull'angolo N-E dell'area, a ridosso dei colombarî, sorgeva una vasta stanza, con sedili lungo tre pareti e una cucina, la cosiddetta Triclia, ossia taverna. La spalliera dei sedili era affrescata con visioni agresti (avanzi di uno steccato, una pecora, una colomba), ma i resti di intonaco risultano fittamente coperti di graffiti con l'invocazione agli apostoli Pietro e Paolo e il ricordo di refrigeria celebrati sul posto. I graffiti si datano dalla metà del III sec. agli anni prima di Costantino. La Triclia si affacciava ad E su un cortile lastricato, fiancheggiato da portici su questo lato e su quello N; l'angolo fra i due portici era occupato da una stanza e nel muro di uno di essi è scavata una nicchia, interpretata come lararium, oppure come mensa martyrum; infine sempre nello stesso cortile trovava posto un mausoleo absidato, con numerose sepolture, e una scala scendeva a una cisterna scavata nella roccia. Anche dall'area del cortile provengono graffiti simili.

I risultati archeologici, che provano l'esistenza di una memoria apostolorum frequentatissima, e che trovano un'eco confusa e talora contraddittoria nella tradizione scritta, hanno fatto sorgere varie ipotesi interpretative. La memoria è certamente posteriore alle ultime sepolture avvenute nell'ipogeo degli Innocenzi (238-44) e la tradizione ricorda una depositio degli apostoli nel 258.

La basilica del IV sec. fu costruita in asse con la memoria apostolorum e la stanza posta all'angolo fra i due portici venne a trovarsi immediatamente al di sotto del luogo in cui nella basilica fu eretto da Damaso il monumento commemorativo dei due apostoli.

Bibl.: G. B. De Rossi, Roma sott. crist., I, Roma 1864, p. 138 ss.; id., Inscriptiones Christianae Urbis Romae, II, Roma 1888, p. 32, n. 77; P. Styger, in Röm. Quartalscrh., XXIX, 1915, p. 73 ss.; id., in Diss. Pont. Acc. Rom. Arch., s. II, XIII, 1918, p. 3 ss.; R. Lanciani, in Diss. Pont. Acc. Arch., II, XIV, 1920, p. 57 ss.; G. Mancini, ibid.; O. Marucchi, ibid.; A. Ratti, ibid.; L. Duchesne, in Mem. Pontif. Accad. Rom. Arch., I, 1923, p. 5 ss.; G. Mancini, Scavo sotto la basilica di S. Sebastiano sull'Appia Antica, in Notizie Scavi, 1923, p. 46 ss.; A. V. Gerkan, in H. Lietzmann, Petrus und Paulus in Röm, 1927, pp. 248-301; Ch. Hülsen, Chiese, Roma 1927, p. 460, n. 48; G. Mancini, S. Sebastiano f. l. m., Roma, 1928; F. Wirth, Röm. Wandmalerei, Berlin 1934, pp. 166-69; A. Prandi, La Memoria Apostolorum in Catacumbas, Roma 1936; E. Josi, Comunicazione non pubblicata letta all'Accad. Pont. il 16 genn. 1939; Leclercq e Marrou, in Dict. Arch. Chrét., XIV, s. v. Refrigerium; Rome; A. M. Schneider, Die Memoria Apostolorum an der via Appia, in Nachrichten der Akad. d. Wiss. in Göttingen, I, Phil.-hist. Kl., 1951, n. 3, p. 1 ss.; L. K. Mohlberg, Historisch-kritische Bemerkungen zur Ursprung der sog. Memoria Apostolorum, in Colligere Fragmenta, Festschrift A. Dold, Berna 1952, p. 52 ss.; P. Künzle, in Rivista Storica della chiesa in Italia, 1957, pp. 309-370. V. inoltre tutta la bibliografia relativa a S. Pietro e agli scavi vaticani.

6. San Lorenzo fuori le mura. - Nel 258 il martire Lorenzo veniva sepolto in un cimitero sulla via Tiburtina. Questo, come altri cimiteri cristiani di R., doveva essere iniziato nel tardo II sec. e, secondo le fonti, circa il 300 era di proprietà di una Ciriaca, cui era confiscato nella persecuzione di Diocleziano. Agli inizî del IV sec. il luogo era sicuramente associato al culto di S. Lorenzo. Secondo il Liber Pontificalis durante il pontificato di Silvestro (314-355), Costantino costruiva una basilica super (sub, secondo alcuni codici) arenas cryptae, che dotava di trenta candelabri e di una ricca suppellettile; la basilica era collegata da due scale, per la discesa e la salita, con la tomba del Santo, dallo stesso Costantino inclusa in un'abside rivestita di porfido preceduta da una cancellata d'argento. Attualmente esistono una catacomba, una grande chiesa risultante dalla fusione di altre due più antiche, l'una del VI sec., l'altra costruita tra la fine del XII sec. e il 1220 e conclusa nel 1254 incorporando oratorî anteriori che costituivano il retro sanctos della prima e trasformando quest'ultima nel coro della nuova; infine esistono le rovine di una grande basilica nell'area dell'attuale Campo Santo. Gli scavi condotti dal 1947 al 1957 hanno rivelato una storia costruttiva assai complessa e in parte diversa da quanto affermato dal Liber Pontificalis.

È possibile oggi formulare la seguente ipotesi delle varie fasi occorse. La zona del Verano, comprendente la collina ed il piano sottostante, era usata per sepoltura già dal I sec. d. C., se non dal secolo avanti. Nel II sec. d. C. nel fianco della collina fu iniziato lo scavo di una catacomba. In un momento imprecisato (sotto Costantino, secondo il Krautheimer, già prima secondo altri), la catacomba ricevette una nuova sistemazione, con una galleria che andava direttamente dalla tomba del martire (che deve essere sempre rimasta ove si trova tuttora) a una stanza a L, nelle cui pareti si aprivano nicchie che han fatto pensare alle lampade di Costantino; in questa stessa sala, a partire alla fine del IV sec., si compivano varie trasformazioni, in rapporto a nuove esigenze di culto; forse per onorare la tomba, esistente, di un altro martire sconosciuto, oppure i martiri Ireneo e Abbondio, cui nel VII sec. era dedicato un oratorio sopra terra, posto al di sopra della stanza a L.

Durante il IV sec., tutto il Verano subì una radicale trasformazione. Sotto Costantino il blocco di tufo in cui era scavato il loculo con la tomba del santo fu isolato, e incluso entro un'abside, probabilmente scavata nello stesso tufo della catacomba. Il sommo del blocco fu livellato, e forse vi fu eretto sopra un baldacchino. Non si sono trovate tracce delle scale di accesso a questo santuario sotterraneo. A breve distanza dal piede della collina, verso S, sorgeva una grande basilica (larghezza totale 35,50 m = 120 piedi romani), i cui resti sono stati identificati e scavati nel 1950-57; la basilica maior delle fonti, la basilica sub arenario che il Liber Pontificalis attribuisce a Costantino e la cui muratura si data effettivamente al IV secolo. È basilica a tre navate con abside e deambulatorio, del tipo delle basiliche di S. Elena, dei SS. Apostoli ad catacumbas, di S. Agnese. È noto soltanto il titulus del mosaico (?) absidale donato circa il 400 dal presbitero Leopardo. Numerose tombe attestano l'uso funerario dell'edificio. Addossato al muro S della basilica sorgeva un mausoleo tricoro del vescovo Leone, disegnato dal Vespignani nel XIX sec. e ora solo tentativamente localizzato. Molti altri mausolei sorgevano nei pressi. Secondo le fonti, un lungo portico congiungeva la basilica alla Porta Tiburtina. È probabile che il portico si ricollegasse al deambulatorio della basilica, che presenta vaste aperture.

Per un certo periodo la grande basilica fu connessa dalle scale già ricordate alla tomba sub divo. Ma nel VI sec. la collina doveva essere crollata, probabilmente in seguito agli scavi praticati, e si decideva il taglio del monte e l'erezione sulla tomba di una basilica ad corpus, la cui abside fu demolita nel XIII sec. per congiungerla alla costruzione che forma l'attuale parte occidentale di un'unica chiesa, di cui la basilica del VI sec. costituisce la parte orientale. La tomba del Santo occupava il centro della costruzione, che era tanto a ridosso della collina da esservi parzialmente inclusa: soltanto il cleristorio della navata centrale era del tutto libero al di sopra del terreno; di fatto un solo accesso era consentito alla basilica: lateralmente dalla navata S, mentre il giro esterno dell'abside si svolgeva entro terra, confinando con una sala a livello inferiore (retro sanctos) collegata con la ricordata sala a L. Una fenestella rendeva visibile dall'abside il retro sanctos, rischiarato da due (o forse quattro) finestre aperte nell'abside stessa. La basilica, che più che come impianto basilicale si può descrivere come una sala absidata circondata su tre lati da colonne, con logge e matroneo, ha un distinto accento bizantino riscontrabile anche nell'uso del piede bizantino anzichè del romano. Tuttavia questo tipo di basilica con gallerie non era più attuale a Costantinopoli; mentre è possibile una derivazione da altre province, resta significativa l'originalità con cui l'impianto è applicato alla particolare situazione di S. Lorenzo. Soltanto la navata riceveva luce dalle finestre poste a grande altezza, mentre i matronei e le navatelle rimanevano in penombra. Le logge erano accessibili dalla collina entro cui la chiesa era serrata. Alle estremità occidentali delle navatelle due archi immettevano nell'area sub divo. Le colonne maggiori con i relativi capitelli, di spoglio, furono celebri nel Rinascimento. Altri particolari architettonici sono invece del sec. VI e rivelano chiara l'impronta bizantina, benché la tecnica muraria denunci maestranze romane. E superstite il mosaico dell'arco trionfale, dedicato dal papa Pelagio (579-590), importante monumento di questa fase dell'arte a Roma.

Bibl.: Tutta la bibl. è raccolta in R. Krautheimer, Corpus basilicarum, I, II, Città del Vaticano 1959, p. 1 ss.

7. S. Maria Maggiore. - Della basilica, che sorge su una sommità dell'Esquilino e che è tuttora la meno alterata delle maggiori basiliche cristiane di R., esiste una documentazione contraddittoria. L'identificazione della chiesa con quella basilica Liberi o con quella basilica Sicinini nota dalle fonti per l'incursione fattavi dai partigiani di papa Damaso, sette giorni dopo la morte di Liberio (ottobre 366) e infine il riconoscimento che la basilica di Liberio sia lo stesso edificio detto anche di Sicinino, interpretazioni negate dalla critica recente, sono state entrambe sostenute ultimamente, con nuovi argomenti, da P. Künzle. Sulla fronte dell'abside è conservata l'iscrizione Sixtus Episcopus Plebi Dei, evidentemente interpolata nella decorazione musiva, ed è nota una seconda iscrizione con la dedica del tempio alla Vergine ad opera dello stesso Sisto III (432-440), posta forse sulla facciata interna della basilica.

L'abside fu demolita nel sec. XIII, trasformandone la fronte in arco trionfale; i sondaggi eseguiti accertano che essa apparteneva alla stessa fase costruttiva della navata. Le indagini sulla tecnica muraria rivelano per altro sensibili anologie con S. Lorenzo in Lucina (432-40) e S. Sabina (422-40). U risalto plastico dato alle pareti della navata centrale, il cui cleristorio, che si elevava sopra un architrave continuo retto da colonne con capitelli ionici, e che presentava lesene scanalate con capitelli corinzî tra finestra e finestra e, sotto ogni finestra, edicole di stucco con mosaici, è stata confrontata a soluzioni complesse ricercate dagli architetti del periodo di Sisto III.

La facciata, sulla cui parete interna si poteva trovare il mosaico con l'iscrizione perduta, si apriva con una pentafora delimitata da colonne diverse e di modulo inferiore rispetto a quelle della navata. I mosaici ancora superstiti sulle pareti della navata e sulla fronte dell'abside sono stati variamente datati, talora distinguendo quelli della navata da quelli della fronte dell'abside, e assegnando eventualmente i primi al V sec. e gli altri al IV. La ricerca più recente ha riconosciuto invece l'unità stilistica del complesso, pur distinguendo esecutori diversi e un abbandono delle direttive dell'artista principale man mano che si procede dall'abside verso la facciata. Discusse sono tuttavia la datazione e l'interpretazione dei mosaici. Alla data ormai generalmente accolta, circa il 432, si oppone la difficoltà di ammettere che questi mosaici siano stilisticamente posteriori a quelli di S. Pudenziana, mentre sembrano interessanti le analogie con mosaici più antichi, come quelli scoperti in Domitilla datati all'età di Damaso. L'interpretazione del ciclo è resa ardua dalla soppressione dell'abside, che doveva rappresentare il centro del tutto, e dall'adozione di un'iconografia insolita, specialmente nelle scene del Vecchio Testamento. Sembra, comunque, assai improbabile un riferimento, che è stato tuttavia cercato, alla consacrazione di Maria come Theotokos, sancita dal Concilio di Efeso.

Altro problema è costituito dalla denominazione ad presepe, che compare per la prima volta nel VI sec. e che deve riferirsi ad un oratorio posto nella chiesa o forse nei suoi pressi, ben presto associato con il culto delle reliquie (reliquia dello stesso "presepio" di Betlemme) e forse delle icone (frammento di un'icona identificata in seguito come reliquia della greppia). L'oratorio, profondamente trasformato sullo scorcio del sec. XIII, fu nel Cinquecento trasportato nella attuale cappella Sistina, e ne è perciò impossibile la ricostruzione, benché la sua stessa esistenza sia interessante per le affinità con altri casi romani e non romani (cfr. la basilica della Natività a Betlemme).

Bibl.: Tutta la bibl. è discussa criticamente da A. Schuchert, S. Maria Maggiore zu Rom, I, Die Gründungsgeschichte der basilika und die ursprüngliche Apsisanlage, Città del Vaticano-Roma 1939 e ora specialmente da P. Künzle, Per una visione organica dei mosaici antichi di S. Maria Maggiore, in Rendiconti Pont. Accad. Rom. Arch., XXXIV, 1961-62, pp. 153-190; è inedita la comunicazione letta dallo stesso Künzle presso la stessa Accademia di cui è il riassunto in Rendiconti, XXXIII, pp. 9-10 (Verbale dell'adunanza pubblica del 27 aprile 1961).

8. S. Croce in Gerusalemme. - Fra il 313 0, meglio, il 348 e il 361 d. C., il grande atrio del palazzo Sessoriano, costruzione severiana che nel IV sec. era venuta in possesso dell'imperatrice Elena, fu trasformato per ospitarvi una reliquia della croce. Malgrado le profonde trasformazioni che l'edificio subì nel sec. XVIII, ne è ancora conservata la struttura antica, con le sue alte mura di laterizi, originariamente forate in basso da una serie di grandi aperture e, in alto, da finestre arcuate amplissime. L'ambiente risultava tanto alto (m 22,15 dal livello originario, pari a 75 piedi romani) quanta ne era la larghezza (74 piedi). Uno dei lati lunghi, quello verso N-O, costituiva la facciata dell'edificio; al muro opposto si appoggiava un lungo vano, coperto da vòlta a botte, quasi un corridoio dietro l'atrio. La conversione cristiana mutò l'orientamento della costruzione facendo dell'asse longitudinale quello principale ed aggiunse di conseguenza un'abside, di 50 piedi di diametro, al lato breve S-E. Il "corridoio" del retro si trovò così ad affiancare l'unica grande navata; un altro corridoio girava esternamente intorno all'abside in modo di congiungere la navata con un vano che sorgeva a fianco dell'abside, l'attuale cappella di S. Elena, che veniva così incorporata nell'organismo ecclesiastico. Contemporaneamente furono chiusi i passaggi che immettevano al palazzo, isolando così l'edificio consacrato dalla vita del palazzo; non furono però chiuse le cinque arcate sui lati lunghi dell'atrio: o che collegassero, su un lato, l'unica navata al corridoio-navatella, o che anche sull'altro lato esistesse un corridoio simile - di cui però non è stata sinora rinvenuta alcuna traccia - o infine, che, come altre sale di culto dell'epoca - confronta la sala precedente la prima S. Pietro in Vincoli - anche il santuario eleniano presentasse le pareti aperte.

Due muri, in cui si aprivano tre archi - di cui quello laterale più ampio -, forse sorretti dalle stesse colonne di granito che sono incorporate nei pilastri barocchi, dividevano in senso trasversale la navata. La loro ricostruzione è ipotetica, ma restano chiaramente le tracce dell'attacco degli archi sulle pareti della nave. Essi sorgevano dopo la seconda e dopo la terza arcata, dividendo dunque la navata in tre campate, di cui la mediana, in corrispondenza della terza arcata, risultava la metà delle altre due. Una pentafora di ingresso doveva aprirsi sul lato breve opposto all'abside.

L'esame delle murature farebbe datare le innovazioni cristiane piuttosto circa la metà del sec. IV, anziché all'età di Costantino, come vorrebbe invece la tradizione raccolta dal Liber Pontificalis. La spartizione dell'aula in senso trasversale, che crea una significativa successione di spazi, è un fatto insolito nell'architettura paleocristiana, in cui le divisioni interne raramente raggiungevano tanta monumentalità e non incidevano sulla disposizione architettonica dell'edificio; inoltre il passaggio laterale che conduce all'attuale cappella di S. Elena fa pensare che anche qui, come nelle grandi basiliche ad corpus, si fosse voluto distinguere il luogo della congregazione (la navata) dal più piccolo santuario in cui poteva essere custodita la memoria o la reliquia.

Bibl.: R. Krautheimer, Corpus, I, III, Roma 1937, pp. 165-194; A. M. Colini, Horti Spei veteris Palatium Sessorianum, in Mem. Pont. Acc. Arch., 1956, p. 137 ss.; G. Matthiae, Chiese, Bologna 1962, v. indice.

9. S. Maria in Trastevere. - Una tradizione relativamente antica vorrebbe identificare il sito della basilica con quello di una taberna meritoria, presso cui, secondo Cassio Dione, nel 38 d. C., dell'olio sarebbe scaturito prodigiosamente dalla terra; avvenimento cui in seguito Eusebio darà interpretazione cristiana. La prima menzione della basilica è nel catalogo liberiano, che la indica come fondazione di Papa Giulio (337-352), trans Tiberim, regione XIIII, iuxta Callistum, cioè presso un luogo (memoria? titolo?) connesso con un Callisto che è da identificare forse con il pontefice di questo nome, in onore del quale lo stesso Giulio erigeva un'altra basilica sulla via Aurelia, presso la sua sepoltura. Più tardi (già nel Liber Pontificalis) la basilica trasteverina sarà ritenuta una fondazione dello stesso Callisto del quale porta il titolo. Un oratorio di S. Callisto esiste tuttora presso S. Maria in Trastevere.

Non è nota alcuna traccia della basilica di Giulio, dopo la totale ricostruzione sotto Innocenzo II (1130-1143). Dalla descrizione (Liber Pontificalis) dei lavori compiuti da Gregorio IV (827-844) nella basilica, apprendiamo che l'altare si trovava quasi al centro della navata.

Bibl.: Ch. Hülsen, Note di topografia romana, in Bull. Archeol. Com., LV, 1925, p. 85 ss.; C. Cecchelli, S. Maria in Trastevere, Roma s. a. (con bibl.); E. Josi, Note di topografia cemeteriale romana: il sepolcro del papa S. Giulio I e il cimitero di S. Callisto sull'Aurelia, in Miscel. G. Belvederi, Città del Vaticano 1954, pp. 321-33.

10. SS. Marcellino e Pietro sulla via Labicana. - Al di sopra della catacomba dei SS. Marcellino e Pietro (ad duas lauros) nella quale i due loculi sovrapposti dei martiri furono isolati e inclusi entro un'abside scavata nella roccia, probabilmente nel IV sec. (cfr. S. Lorenzo fuori le mura), nei confini di un nuovo muro di recinzione si estendono le rovine di una basilica con àbside e deambulatorio e sorgono i ruderi del mausoleo in cui fu deposta Elena, madre di Costantino, e di altri mausolei minori, fra cui quello di S. Tiburzio. Il recinto risulta preesistente alla basilica ed è probabile che sull'area sorgessero già prima altre costruzioni. Della basilica esistono oggi soltanto i muri di fondazione, che risultano composti di frammenti in parte tolti a tombe di equites singulares e a mausolei più antichi (II sec.). La basilica era lunga 65 m (220 piedi romani) ed era larga 29 (100 piedi romani) compresi i muri esterni. Era preceduta da un nartece largo 22 piedi (per cui la lunghezza totale dell'interno era di 200 piedi romani). Era divisa in tre navate (rapporto 1/2 : 1) da pilastri e poiché lo spessore dei muri di fondazione della navata centrale è circa due volte quello dei muri esterni, la navata centrale doveva essere più alta delle laterali. La serie dei pilastri continuava ad E formando il giro dell'abside, dietro il quale, in proseguimento delle navatelle, girava il deambulatorio, come in altre basiliche funerarie romane. Secondo la pianta pubblicata dal Bosio, nel muro esterno del deambulatorio si sarebbe trovata un'apertura, circostanza che ha fatto pensare che il deambulatorio fosse aperto anche verso l'esterno (cfr. S. Lorenzo). Con asse leggermente divergente da quello della basilica, addossato al nartece di questa, sorge il mausoleo, forse in origine costruito per lo stesso Costantino (come fa pensare anche il sarcofago di porfido con soggetti militari, ora nei Musei Vaticani); edificio a pianta circolare, la cui muratura è divisa all'interno da otto nicchie alternatamente circolari e rettangolari, coperto da cupola costruita con tubi fittili (donde il nome di Tor Pignattara). La basilica e il mausoleo sono certamente anteriori al 326. La basilica si data circa il 310-320; il mausoleo circa il 324-25. Forse i doni di Elena al mausoleo di famiglia hanno fatto sorgere la convinzione che Elena fosse qui sepolta. Il recinto può risalire al 305 (subito dopo la persecuzione di Diocleziano) o al 310-312 (ultimi anni di Massenzio); se non ai primi anni di Costantino.

Bibl.: F. W. Deichmann-A. Tschira, in Jahrbuch, LXXII, 1957, p. 44 ss.; R. Krautheimer, in Cahires Archéol., XI, 1960, p. 15 s.; id., Corpus, II, II, Città del Vaticano 1962, p. 191 ss.

(C. Bertelli)

1. S. Agnese e S. Costanza. - Il complesso di edifici di S. Agnese occupa una zona delimitata dalla via Nomentana, a O, da una collina, a N, da un dirupo a E. Nell'area si intrecciano le gallerie sotterranee di un cimitero cristiano, il cimitero, appunto, di S. Agnese, che attraversano anche la Nomentana e proseguono sotto la collina a N. A S-O sorge un mausoleo imperiale (S. Costanza), mentre sul dirupo a O si affaccia sostenuta da imponenti muri di sostruzione, l'abside di una grande basilica con deambulatorio, divisa non si sa se da pilastri in tre navate che si prolungano o da colonne a E. A ridosso della collina, a una quota di varî metri inferiore agli altri edifici, sorge una piccola basilica, in origine quasi inglobata nella roccia della collina, come la S. Lorenzo di Pelagio. E basilica a matronei, con mura in opera mista, fortemente bizantineggiante, benché costruita da maestranze romane (cfr. S. Lorenzo). Si data al pontificato di Onorio (625-35, mosaico). L'abside della basilica del VII sec. include un'altra abside costruita su un asse alquanto divergente, che al Bacci e al Krautheimer (1937) sembrò la traccia di una memoria o basilica preesistente e che oggi è considerata piuttosto (Krautheimer 1960, Matthiae) un muro di rinforzo dell'abside onoriana. Altri muri, del IV sec., nella stessa zona absidale, dimostrano però con certezza l'esistenza di una memoria, anche se la ricostruzione che ne è stata tentata necessita di una revisione. Varî tagli nella roccia furono praticati perché la memoria, e in seguito la chiesa, sorgessero sul luogo in cui era stata deposta la martire. Una scala collegava la memoria alla basilica più grande, rendendo ancora più stretta l'analogia del complesso di S. Agnese con quello di S. Lorenzo. Della maggiore basilica, un tempo ritenuta un recinto funerario, si conserva assai poco: all'inizio della curva dell'abside i muri laterali della navata centrale presentano una sporgenza (in contrasto con la corsa ininterrotta delle mura di SS. Pietro e Marcellino); forse esisteva un atrio. Il carattere delle mura superstiti conferma la data, 337, in cui, secondo le fonti, Costantina, figlia di Costantino, avrebbe fatto erigere la basilica. Diverse ipotesi ha fatto sorgere l'avanzo di una costruzione centrale nella basilica, un recinto largo circa 7 m e lungo circa 14 terminante in un abside innestata in una parete di fondo. Non si tratta certamente di una costruzione ipetrale (la tomba della santa si trovava, come si è visto, alquanto distante dalla grande basilica), né può trattarsi di un mausoleo costruito all'interno della basilica. Il mausoleo imperiale (S. Costanza) fu invece costruito in funzione della grande basilica, sul suo asse longitudinale, in un secondo tempo. Probabilmente realizzato fra il 337 e il 354, era destinato a Costantina figlia più anziana di Costantino Magno (cui si attribuisce nel Liber Pontificalis e negli Atti di S. Agnese la fondazione). Secondo alcuni studiosi avrebbe servito in un secondo periodo da battistero della chiesa di S. Agnese; è menzionato per la prima volta come chiesa di S. Costanza dal Liber Pontificalis nell'865. Si accede alla rotonda del mausoleo, che era circondato all'esterno da un portico, attraverso un nartece con due absidi laterali. L'interno è suddiviso da un anello di 12 colonne sormontate da pezzi di epistilio che servono da imposta fra colonna ed arco, e perciò consiste di un centro con alto tamburo coronato dalla cupola, e di un ambulacro anulare più basso coperto con una vòlta a botte, salvo davanti alla grande nicchia di fondo, dove si eleva sopra l'ambulacro una torre quadrata con finestre. Nel grosso muro di circonferenza sono incavate, fra 11 più piccole, 4 grandi nicchie negli assi dell'edificio, rettangolari quella dell'entrata e l'opposta, che conteneva presumibilmente il sarcofago di Costantina, rotonde le laterali. Alle grandi nicchie corrispondono nel colonnato arcate più larghe e più alte, dimodoché appaia iscritta la croce nel cerchio. Dei musaici che coprivano tutte le vòlte e anche la cupola sono conservati soltanto quelli della vòlta dell'ambulacro e delle grandi nicchie laterali. Anche le tarsie marmoree del tamburo sono state distrutte durante i restauri del 1620. I musaici dell'ambulacro su fondo bianco, per la maggior parte ornamentale, sono divisi in 11 pannelli; quelli sopra le grandi nicchie laterali mostrano scene di vendemmia che in parte corrispondono all'ornato del grande sarcofago di porfido oggi conservato nei Musei Vaticani. Nelle grandi nicchie laterali sono rappresentate la traditio legis e la consegna delle chiavi a S. Pietro. I musaici della cupola e della torre sono in parte noti da disegni del sec. XV: la cupola aveva in basso un paesaggio marittimo nel quale pescavano e andavano in barca alcuni putti; sopra si elevavano 12 candelabri formati da figure femminili e foglie d'acanto; essi incorniciavano due zone di 12 scene raffiguranti storie del Vecchio e del Nuovo Testamento. Nella torre davanti alla nicchia di fondo era rappresentata forse la Gerusalemme celeste. Il mausoleo rappresenta nella storia dell'architettura una tappa molto importante: è il primo esempio conservato di un edificio centrale con ambulacro interno, un tipo architettonico che avrà una vasta diffusione nel periodo successivo, fino ai tempi moderni. I musaici testimoniano in modo significativo il periodo di transizione, dall'arte pagana a quella cristiana, nell'ambito dell'arte sepolcrale, giustificando l'appellativo di "tempio di Bacco" dato all'edificio nel Rinascimento. Insolita l'iconografia di alcune scene antico-testamentarie nella cupola (v. pag. 166).

Bibl.: J. Wilpert, Die röm. Mosaiken u. Malereien, Friburgo 1916, I, p. 272 ss. (con bibl. precedente); C. Cecchelli, S. Agnese f. l. m. e S. C., Roma s. a. (Le chiese di Roma illustrate, 25-6); F. W. Deichmann, S. A. f. l. m. u. die byz. Frage in der... Archit. Roms, in Byz. Zeit., XLI, 1941, p. 70 ss.; M. Stettler, Zur Rekonstruktion von S. C., in Röm. Mitt., LVIII, 1943, p. 76 ss.; E. Sjöqvist, in Opuscula Archaeologica, IV, 1946, p. 135 ss.; F. W. Deichmann, Die Lage d. Konstantin-Basilika d. Hl. Agnes a. d. via Nomentana, in Riv. Arch. Crist., XXII, 1946, p. i ss.; id., Frühchristliche Kirchen in Rom, Basilea 1948, p. 25 ss.; K. Lehmann, Sta. Costanza, in Art. Bull., XXXVII, 1955, pp. 193-196; Sta. Costanza: An Addendum, ibid., p. 291; R. Krautheimer, in Cahires Arch., 1960, p. 15 ss. Tutta la bibl. fino al 2937 in R. Krautheimer, Corpus, I, i F. W. Deichmann-A. Tschira, in Jahrbuch, LXXII, 1957, p. 4 ss.; R. Krautheimer, in Cahiers Arch., II, 1960; G. Matthiae, Chiese, Bologna 1962, pp. 47-48.

(F. W. Deichmann - C. Bertelli)

12. SS. Giovanni e Paolo (Titulus Byzantis). - Nel 362 i SS. Giovanni e Paolo erano martirizzati nella loro casa al Clivus Scauri. Già tra il 366 e il 384 il papa Damaso componeva un'epigrafe in loro onore, della quale forse è stato rinvenuto un frammento nella stessa casa dei martiri. Circa il 410 aveva inizio la costruzione di una basilica, sopra la casa, compiuta sotto Leone I (440-461). Il titolo è noto da un'iscrizione del 401 e dalle firme al sinodo del 499.

La chiesa occupa parte di un'insula romana delimitata dal Clivus Scauri a S, forse ad E da un vicolo che sboccava sul divo, mentre ad O si apriva un largo da cui si partiva la strada che proseguiva lungo il podium Claudii. Un vicolo interno - oppure uno stretto cortile - tagliava l'insula in due triangoli, determinando la disposizione interna degli edifici, risalenti al I e al II sec. e in parte trasformati nel III: una casa ad appartamenti e botteghe, alta tre piani, un edificio con uno stabilimento termale, nel quale si è conservato un notevole affresco con le divinità marine (tardo II sec. d. C.), altri appartamenti e botteghe. Caratteristici i sei archi di sostegno che scavalcano il Clivus Scauri, in gran parte restaurati nel Medioevo; da disegni e stampe del XVI sec. risulta che esisteva un secondo ordine di archi al di sopra di questi, del quale infatti resta qualche traccia.

I primi segni di una probabile presenza cristiana nell'insula sono alcuni affreschi del IV sec. (orante e filosofo) in un vano dietro una delle botteghe nella parte occidentale dell'insula, cui alcuni accorgimenti - la costruzione di un muro di divisione in modo di ricavare una specie di anticamera - davano il carattere intimo e riservato di un oratorio. Altri affreschi nella stessa casa dimostrano che una parte importante di essa non era più adibita a botteghe. Poco tempo dopo l'istituzione dell'oratorio, il vicolo interno, o cortile, fu coperto, ottenendo una confessione, che doveva elevarsi sino al primo piano della casa. Al piano superiore della confessione le pareti, in cui si aprono fenestellae, furono coperte di interessanti affreschi, rappresentanti il martirio dei due santi e un clamidato in orazione davanti al quale si flettono due figure più piccole; dal pianterreno un pozzo sale sino quasi al pavimento della basilica odierna, ove si trovava un altare del VI sec. e ove forse un altare era esistito sin dalla costruzione della confessione. Fu allora modificato uno scalone monumentale che conduceva al piano superiore della confessione e quindi saliva consentendo l'accesso a una vasta sala ottenuta al primo piano demolendo il pavimento fra il primo e il secondo piano e di cui non conosciamo esattamente l'estensione. Doveva trattarsi di una sala di assemblea cui si contrapponevano varie stanze minori in cui si possono immaginare gli uffici del titulus. Successivamente si volle erigere una vera e propria chiesa al posto del titolo domestico. Una prima costruzione, in opera mista, iniziata sfruttando le strutture esistenti, rimase incompiuta. La basilica del V sec., in laterizi, alterata all'interno, ma ben conservata all'esterno, recentemente restaurato, incorporava anch'essa le mura già esistenti, alzandosi al di sopra delle strutture romane con il suo cleristorio aperto da tredici finestre sormontate da oculi, mentre la facciata si apriva in alto in una luminosa pentafora spartita da colonne e in basso in una serie di arcate. Le iscrizioni tramandate dalle sillogi attestano l'esistenza di mosaici o di affreschi. L'abside aveva intarsi marmorei con un motivo di "colonnette" all'altezza del fregio. Si suppone l'esistenza di un nartece. La nuova basilica si distinse dalla prima, rimasta interrotta, perché rese oscure le navatelle concentrando tutta la luce nella navata centrale, resa luminosissima; anche nell'abside furono aperte finestre, ma in numero pari, in modo, cioè, che l'asse cadesse sul muro e non su una finestra; lo sviluppo in altezza della navata centrale fu anch'esso un fatto nuovo.

Il complesso è di grande importanza perché ci offre l'unico caso in cui sia possibile studiare lo sviluppo di un titulus domestico, consentendoci anche di individuare il rapporto fra la sala di riunione e la confessione, in un senso che congiunge la nostra costruzione alle cripte delle catacombe e insieme a quelle che saranno le cripte nelle chiese dell'alto Medioevo; nello stesso tempo è di grande interesse l'occasione di studiare il cambiamento stilistico occorso fra la prima e la seconda fase della basilica del V secolo.

Bibl.: A. Bosio, Roma Sott., Roma 1632, p. 586; P. Rondinini, De Sanctis martyribus Johanne et Paulo eorumque basilica, Roma 1707; A. Budrioli, De' SS. Giovanni e Paolo, ristretto storico, Roma 1728, p. 35 ss.; L. Duchesne, in Mél. Ec. Franç., VII, 1887, p. 218 ss.; Chr. Hülsen, in Röm. Mitt., IV, 1889, p. 261 ss.; VI, 1891, p. 107 ss.; Germano di S. Stanislao, La Casa Celimontana dei SS. Martiri G. e P., Roma 1894; R. Lanciani, in Brit. and Amer. Soc., III sess., 1901-02, p. 163 ss.; O. Marucchi, in Nuovo Bull. Arch. Crist., VII, 1901, p. 175 ss.; XV, 1909, p. 144 ss.; XXI, 1915, p. 62 ss.; Germano di S. Stanislao, La Memoria dei SS. G. e P., Roma 1907; J. Wilpert, Malereien und Mosaiken, Friburgo in Br. 1917, IV, p. 631 ss.; K. M. Swoboda, Römische und romanische Paläste, Vienna 1924, p. 254 ss.; S. Ortolani, SS. Giovanni e Paolo, Roma 1925; Chr. Hülsen, Chiese, Firenze 1927, p. 277 ss.; R. Krautheimer, The Beginnings of Early Christian Architecture, in Review of Religion, III, 1939, p. 127 ss.; Armellini-Cecchelli, Chiese, I, Roma 1942, p. 617 ss., II, p. 1314 ss.; G. Ballerio, in Palladio, VI, 1942, p. 81 ss.; A. M. Colini, Storia e topografia del Celio, in Mem. Pont. Accad. Rom. Arch., VII, 1944, pp. 164 ss.; 182 ss.; A. Prandi, in Riv. Arch. Crist., XVI, 1950, p. 244; id., in Atti del I Congr. Naz. di Arch. Crist., Siracusa 1950, Roma 1952, pp. 233-36; R. Krautheimer, Corpus, I, IV, Città del Vaticano 1952, p. 265 ss.; A. Prandi, SS. Giovanni e Paolo, Roma 1953; G. Matthiae, Chiese, Bologna 1962, v. indice.

13. S. Stefano Rotondo. - Costruita da papa Simplicio (468-83), notevolmente alterata da successivi restauri. Intorno al vano centrale, circolare (diametro 22 m) si svolgeva una "navatella" anulare, separata da 22 colonne con capitelli ionici (tutti scolpiti appositamente per l'edificio), sorreggenti un architrave; anche la parete esterna della "navatella" era a giorno, con colonne dai capitelli ionici che reggevano archi. In corrispondenza degli assi ortogonale e trasversale la serie delle colonne con capitelli ionici si interrompeva per dar luogo a quattro trifore divise da colonne con capitelli compositi ed abachi (anche questi elementi appositamente scolpiti; sono visibili le lettere greche che numerano i capitelli), che introducevano a quattro cappelle cuneiformi che, sporgendo dal circuito della "navatella", davano un aspetto cruciforme alla pianta dell'edificio. I muri di fondo delle cappelle proseguivano nel muro circolare che circoscriveva il perimetro di tutto il complesso; tra il colonnato della navatella e le pareti radiali delle cappelle si determinavano così dei settori di cerchio, spazi che risultano collegati con l'esterno e con le stesse cappelle e che erano divisi longitudinalmente da un muro, ora crollato. L'esame delle aperture sui muri radiali delle cappelle dimostra che le due zone in cui era tagliato ciascun settore rispondevano a funzioni diverse; il muro della navatella, al di sopra del colonnato, presenta dei tubi fittili che furono interpretati come l'attacco di una vòlta. È dunque probabile che una zona di ciascun settore fosse scoperta, e l'altra protetta da un tetto. Contro la tesi che supponeva che la zona coperta fosse quella più interna, in corrispondenza dei tubi fittili già notati, il Corbett ha invece proposto che fosse coperto l'anello più esterno, mentre il settore più interno sarebbe stato un cortile scoperto. Il sistema di fognatura scavato appunto in uno dei settori interni, sembrerebbe dare ragione a tale tesi, che tuttavia lascia senza risposta l'interrogativo della fascia di tubi fittili. L'una o l'altra soluzione avrebbero avuto grandi conseguenze sulla distribuzione degli spazi e su quella della luce all'interno del monumento, che nel variare delle luci e delle ombre, nelle complesse prospettive e in alcuni particolari tecnici rivela chiara l'influenza bizantina - il Krautheimer ha convincentemente argomentato la sua derivazione "iconografica" dall'Anastasis di Gerusalemme -, pur collegandosi alla tradizione romana di S. Maria Maggiore e delle fabbriche sistine in alcuni particolari, come le lesene che spartivano il tamburo centrale, documentate da un disegno del XV secolo. Secondo un'interessante ipotesi di W. F. Deichmann, al di sopra delle 22 finestre del tamburo centrale si sarebbe impostata una calotta in camera a canna, di grande significato per l'organizzazione dello spazio interno.

Bibl.: H. Hübsch, Die altchristlichen Kirchen, Carlsruhe 1863, p. 35 ss.; Chr. Hülsen, Chiese, Firenze 1927, p. 484, n. 92; R. Krautheimer, S. Stefano Rotondo e la chiesa del S. Sepolcro a Gerusalemme, in Riv. Arch. Crist., XII, 1935, pp. 51-102, con bibl.; Armellini-Cecchelli, Chiese, Roma 1942, I, p. 497, II, indice; A. M. Colini, Storia e topografia del Celio nell'antichità, in Mem. Pont. Acc. Rom. Arch., VII, 1944, pp. 245-253, con bibl.; F. W. Deichmann, Die Eindeckung von S. Stefano Rotondo, in Misc. G. Belvederi, Roma 1955, p. 43 ss.; S. Corbtt, S. Stefano Rotondo, in Riv. Arch. Crist., XXXVI, 1960, pp. 249-261; R. Krautheimer, The Architecture of Sixtus III, in De artibus Opuscula XL in Honour of E. Panofsky, a cura di M. Meiss, New York 1961, p. 291 ss.

14. S. Clemente. - Sotto la chiesa attuale, eretta nel 1128, il P. Mullooly scoprì nel 1865 la basilica antica, assai più ampia, che era stata utilizzata come sostegno della costruzione superiore. La stessa sovrapposizione di edifici si era già verificata per la basilica più antica, sorta sopra costruzioni romane, le quali, a loro volta, presentavano ugualmente una disposizione su più strati. La navata della basilica paleocristiana riposa sul vasto pianoterra di un edificio pubblico, databile fra la fine del sec. I d. C. e l'inizio del II, delimitato da un muro in blocchi di tufo e con cornice di travertino, sul quale si basa il muro esterno destro della basilica; l'abside della medesima supera invece uno stretto vicolo che separava l'edificio descritto da una casa privata, della metà del I sec., e taglia il muro perimetrale di questa ultima all'altezza del primo piano; verso la metà del III sec. il cortile interno della casa privata fu convertito in un mitreo (v. mithra e mitrei). Circa il terzo venticinquennio del III sec. anche l'edificio più antico ebbe il piano superiore demolito e un nuovo edificio fu costruito sopra la parte inferiore rimanente, usata come fondamenta. Non risulta che in questa nuova costruzione esistessero muri divisori (l'unico eventuale muro divisorio è dubbio), ma sono superstiti resti di pilastri che dividono longitudinalmente in tre navate l'unica vasta sala. Aperture nei fianchi mettevano la sala direttamente in comunicazione con l'esterno.

In seguito questa casa del III sec. fu trasformata nella attuale basilica inferiore mediante l'aggiunta dell'abside, la chiusura di alcune aperture che mettevano in comunicazione con l'esterno (molte rimasero aperte sino al XII sec.), la costruzione del nartece, infine dividendola in tre navate, i cui muri furono sostenuti da archi su colonne. Per ottenere il presbiterio, fu necessario demolire il muro dell'edificio del III sec., di cui furono conservati soltanto due brevi tratti con funzione di pilastri per sorreggere una vòlta a botte al di sopra del vicolo tra le due case già descritte che sosteneva in questo punto la chiesa soprastante; infine il muro della casa confinante divenne il nuovo muro dell'ambiente così ingrandito. In questo muro venne ad aprirsi l'abside; accanto ad essa, sul lato destro, sempre invadendo la casa del III sec., fu costruito ancora un piccolo ambiente, di cui è difficile precisare la funzione liturgica (sacristia?).

Bibl.: G. B. De Rossi, Prime origini della basilica di S. Clemente, in Bull. Arch. Crist., 1863, pp. 9 ss.; 25 ss.; 39; 89 s; 1864, p. i ss.; R. Mullooly, The Church of S. Clemente, Roma 1869 (2° ed. 1873); G. B. De Rossi, I monumenti scoperti sotto la bas. di S. Clemente, in Bull. Arch. Crist., 1870, pp. 125-68; 1874, p. 41 ss.; 1875, p. 54; 1884-85, pp. 13; 132; 188-89; pp. 38; 159; L. Duchesne, Notes sur la topographie de Rome, in Mél. Arch. et Hist., VII, 1887, p. 221; R. Lanciani, Storia degli scavi, III, Roma 1907, p. 152; J. Wilpert, Malerei und Mosaiken, II, Friburgo in Br. 1917, p. 515 ss.; J. F. Kirsch, Titelkirchen, Pasterborn 1918, p. 36 ss.; Chr. Hülsen, Chiese, Firenze 1927, p. 238; A. Junyent, La primitiva basilica di S. Clemente, in Riv. Arch. Crist., 1928, p. 231 ss.; id., in Analecta Tarraconensia, 1929, p. 321 ss.; C. Cecchelli, S. Clemente, Roma 1930; A. Junyent, Il titolo di S. Clemente, Città del Vaticano-Roma 1932 (rec.: Koethe, in Gnomon, 1934, p. 556; R. Vielliard, in Riv. Arch. Crist., 1933, p. 15 ss.); R. Krautheimer, Corpus, I, II, Città del Vaticano 1935, p. 118 ss.; F. R. Garrison, Studies in History of Medieval Italian Painting, I, i, Firenze 1953, p. i ss.; II, 4, 1956, p. 171 ss. (con la bibl. precedente relativa alle pitture).

15. S. Maria in Cosmedin. - Una loggia del IV sec., probabilmente da identificarsi con la statio annonae, sorretta da eleganti colonne scanalate, con capitelli corinzî, decorata di stucchi, fu trasformata nella sala di una diaconia chiudendo le aperture ed erigendo all'interno due muri, forse sorretti da pilastri, che al piano superiore si aprivano con ampie finestre, formando così una galleria ("matroneo") che si affacciava sull'ambiente centrale. È possibile che i corridoi che venivano a risultare ai lati della sala centrale fossero divisi in varie cellette, oppure che essi proseguissero ininterrotti, costituendo così le navatelle a fianco di una navata centrale. Nell'ipotesi, il tipo di edificio che ne sarebbe risultato avrebbe avuto strette somiglianze con le basiliche dell'Egeo del V-VI sec., e poiché varî indizî consiglierebbero una data intorno al 550, avremmo qui il primo esempio a R. di questo tipo di edificio bizantino più tardi chiaramente esemplato dalla basilica pelagiana di S. Lorenzo fuori le mura. Anziché ad un'importazione bizantina diretta, alcuni elementi farebbero pensare al mondo bizantino dell'Italia meridionale (Krautheimer).

Bibl.: R. Krautheimer, Corpus, II, III, Città del Vaticano 1962, p. 277 ss.

16. S. Maria Antiqua. - Una parte del Palazzo imperiale, costruita in età antonina, fra il Palatino e la grande struttura laterizia variamente identificata come il tempio o come la libreria di Augusto, fu convertita in chiesa e in diaconia dopo la metà del sec. VI. L'edificio constava di un grande cortile con alte mura di laterizi in cui si aprivano nicchie, in un successivo cortile interno con impluvium circondato da un quadriportico, infine, sempre sullo stesso asse, di un tablinum con due camere minori ai lati. Subito al di là della porta d'ingresso era il passaggio a una rampa che saliva al Palatino. La destinazione più probabile dell'edificio è infatti quella di un ingresso al Palatino dal Foro, con funzioni rappresentative. La trasformazione in chiesa dell'edificio - che richiese minimi accorgimenti, con la trasformazione del cortile interno in navata e del quadriportico in nartice, navatelle e bema e con lo scavo di un'abside nel muro terminale del tablinum - cade al di là dei limiti cronologici dell'Enciclopedia (sotto una colonna fu rinvenuta una moneta di Giustino II). Tuttavia i primi segni di una dedica cristiana dell'edificio, che possono essere interpretati piuttosto come una consacrazione di questo ingresso al Palatino, possono essere datati ancora nel terzo decennio del VI secolo. Si tratta di un affresco di Maria Regina cui angeli offrono corone. La testa conservata di uno degli angeli ha affinità strettissime con un affresco nella catacomba di Ponziano. Gli strati successivi di affreschi dovuti in massima parte a pittori greci sono di grande importanza per la conoscenza dell'arte bizantina prima e durante l'iconoclasmo e sono un celebre esempio della continuità della tradizione ellenistica nell'arte dell'Impero d'Oriente.

Bibl.: R. Krautheimer, Corpus, II, III, Città del Vaticano 1962, p. 249 ss. (con bibl.).

17. S. Prassede. - Ricordata per la prima volta nel 489; nel 499 tra le chiese titolari firmatarie del sinodo. Interamente riedificata da Pasquale I (817-824), restano tuttavia tracce significative della basilica paleocristiana e dell'insula in cui essa sorgeva. Sono conservate due campate della navata centrale, con colonne e capitelli compositi, mentre un frammento di vòlta, ritrovato negli scavi e ritenuto parte della calotta absidale, farebbe supporre un orientamento opposto a quello attuale, come farebbero ritenere anche altri indizî. Eventualmente il diametro dell'abside sarebbe stato di m 12.

Bibl.: B. Davanzati, Notizie al pellegrino... di S. Prassede, Roma 1725; A. De Waal, Der Titulus Praxedis, in Röm. Quart., 1905, p. 169 ss.; Chr. Hülsen, Chiese, Firenze 1927, p. 423, n. 23; J. P. Kirsch, Titelkirchen, Paderborn 1918, pp. 52-54; Armellini-Cecchelli, Chiese, Roma 1942, II, pp. 296-418; G. De Angelis d'Ossat, Sul creduto quadriportico della basilica di S. Prassede, in Palladio, I-II, 1952, p. 32 ss.; B. M. Apollonj Ghetti, Santa Prassede, Roma s. d.

18. S. Pudenziana. - Un'iscrizione del 384 ricorda un lector de Pudentiana; le iscrizioni nella basilica ricordano la sistemazione dovuta al presbitero Ilicio Massimo Leopardo sotto papa Siricio (384-402). Scavi e ricerche furono condotti nel 1870-94 e nel 1928-30. Si rinvennero pavimenti musivi repubblicani e sopra questi una casa a due piani del 130 d. C. circa; sempre nel II sec. la casa fu incorporata nelle fondazioni di una costruzione termale, tagliata dalle gallerie dei muri di sostruzione del nuovo edificio. Nelle terme si vollero identificare le terme di Novato e Timoteo, figli di Pudente, personaggio del quale si era impadronita la leggenda, attribuendogli il merito di avere, insieme con le figlie Prassede e Pudenziana, ospitato nella sua casa S. Pietro. Sino al XVI sec. esisteva accanto alla chiesa un oratorio di S. Pietro. Nella chiesa si conserva ancora una tavola di legno, che si dice essere frammento di una antica mensa lignea (naturalmente attribuita a S. Pietro), che non è stata mai oggetto di ricognizione scientifica. Secondo gli Atti di Giustino, nel 150 un titolo domestico era stabilito prope ad balneum Timotinum. La basilica attuale è ricavata in una delle sale termali, che però aveva già subito modifiche prima della trasformazione in chiesa (chiusura della grande vasca centrale). Era una sala voltata, che finiva sui due lati corti ad esedra; delle due esedre, quella posta verso l'ingresso della nuova chiesa fu demolita, e la sala fu contemporaneamente ampliata con l'addizione di due campate (nell'VIII sec. secondo il Petrignani; nel IV secondo il Krautheimer). Nell'esedra del muro di fondo furono chiuse alcune finestre che invadevano la calotta e che erano allo stesso livello di gallerie sostenute da pilastri che circondavano tutta l'aula, e che è incerto se fossero conservate come matronei - la chiusura delle finestre poste allo stesso livello farebbe ritenere di no - e il catino della nuova abside fu coperto da uno dei più magnifici mosaici di quest'età. Dodici colonne dividevano la sala in tre navate.

Bibl.: B. Davanzati, Divozione a S. Pudenziana, Roma 1713 e 1731; id., Notizie storiche di S. Pudenziana, Roma 1725; G. B. De Rossi, in Bull. di Arch. Crist., V, 1867, pp. 49-58; A. Pellegrini, in Bull. Ist. di Corr. Arch., 1870, pp. 161-66; cfr. id., I musaici cristiani, Roma 1899, asc. 13-14; J. Wilpert, Die röm. Mos. u. Malereien, Friburgo 1916, p. 1066 ss. J. P. Kirsch, Die römischen Titelkirchen, Paderbon 1918, pp. 61-67; M. van Berchem - E. Clouzot, Les mosaïques chrétiennes, Ginevra 1924, pp. 63-66; Ch. Hülsen, Chiese, Firenze 1927, pp. 425-26; J. P. Kirsch, I santuari domestici dei martiri, SS. Pudenziana e Prassede, in Rend. Pont. Accad. Arch., II, 1923-24, pp. 34-36; A. Petrignani, La basilica di S. Pud. in Roma secondo gli scavi recentemente eseguiti, Città del Vaticano 1934; cfr. recens. di R. Krautheimer, in Riv. Arch. Crist., XII, 1935, pp. 184-86; A. Ferrua, La chiesa di S. Pudenziana, in Civ. Catt., IV, 1936, pp. 494-99; G. Matthiae, Il mosaico romano di S. Pudenziana, in Boll. d'Arte, s. III, XXXI, 1937-9, pp. 418-25; Armellini-Cecchelli, Chiese, Roma 1942, I, pp. 240-45; II, pp. 1420-22; A. Ferrua, I monum. eretici di Roma (recens. a C. Cecchelli), in Civ. Catt., 17 giugno 1944; R. U. Montini, Santa Pudenziana, Roma s. d.

19. S. Pietro in Vincoli (Titulus Apostolorum). - Il nome attuale deriva dal culto delle reliquie delle catene di S. Pietro, note dal 419 circa, che una tradizione risalente al sec. VII connetterebbe con un miracolo avvenuto sotto Eudossia moglie di Valentiniano III. Un'iscrizione di Sisto III, conservata in sillogi medievali, ricorda la ricostruzione della chiesa e la sua dedica agli apostoli Pietro e Paolo, ad opera di Filippo, delegato romano al concilio di Efeso (431), e con il concorso di Teodosio II e di Eudocia con la figlia Eudossia; la data della ricostruzione si pone così al 440 circa. Gli scavi hanno messo in luce le fasi anteriori al V secolo.

Sopra case repubblicane, nella zona oggi occupata dalla navata della basilica, sorgeva un edificio di cui restano tre bracci di un criptoportico, che chiudevano un'area con vasche e giardini. Nel III sec. la sala maggiore dell'edificio fu ampliata a spese dell'area a giardini (cortile), sulla quale si trovò a sporgere con un ambiente quadrato aperto in trifore sui tre lati liberi. In un secondo tempo al vano aggiunto fu innestata una abside, posta sull'asse longitudinale della sala. Si otteneva così un'aula absidata di vaste dimensioni (m 10,50 × 34,18), della quale non è provata, ma certamenteneanche da escludere, la destinazione cultuale, benché lo sviluppo di quest'ambiente relativamente isolato (cfr. S. Crisogono) presenti tutte le caratteristiche desiderabili per il sorgere e il successivo svilupparsi di una domus ecclesiae. È incerto se i lati lunghi fossero aperti da arcate per tutta la loro estensione - come nel tratto sporgente sul cortile -; una trifora si apriva sul lato opposto all'abside e metteva forse in comunicazione l'aula con il resto della casa, sinché fu chiusa con la costruzione di un lungo podio.

Nella zona dell'attuale transetto gli scavi hanno messo in luce altri edifici, diversamente orientati, che condizionarono la costruzione dell'abside della prima chiesa, che risultò così deviata rispetto all'asse della navata, sorta invece sfruttando l'edificio del III secolo. Era una basilica a tre navate, priva di transetto, con la facciata aperta in una pentafora sormontata da finestre forse circolari. Il Matthiae attribuisce al IV sec. questa prima basilica, di cui in seguito il presbitero Filippo utilizzò la facciata e forse i muri perimetrali. La nuova chiesa fu dotata di transetto, probabilmente in relazione al culto delle catene di S. Pietro; anzi il transetto assunse una forma nuova per R., poiché i muri della navata proseguirono sino al muro di fondo, isolando le due ali estreme ("transetto tripartito"). Esistono tuttora i grandi pilastri che sostenevano i due muri divisori. Non soltanto nel transetto, ma in tutta la navata i muri divisori furono ricostruiti interamente nel V sec., adottando un intercolumnio più ampio del precedente - le basi al livello inferiore non coincidono con quelle del V sec. -, con l'impiego di colonne scanalate con capitelli dorici e basi; la nuova abside, per esigenze costruttive, risultò anch'essa su un asse inclinato rispetto a quello della navata.

Bibl.: Tutta la bibl. in G. Matthiae, S. Pietro in Vincoli, Roma, s. d. (1061); sul transetto tripartito, la cui esistenza è negata dal Matthiae, v. R. Krautheimer, in Proceedings of the Amer. Philological Society, LXXXIV, 1941, p. 353 ss.

20. S. Sisto Vecchio. - È ricordata negli Atti del Concilio del 499. Interrata per notevole altezza, sono visibili quasi tutte le colonne della navata centrale, con capitelli corinzi del V sec. e archi e l'abside circolare. Non è stata pubblicata alcuna relazione degli scavi condotti nel 1950 circa.

Bibl.: Chr. Hülsen, Le Chiese, Firenze 1927, p. 471, n. 65.

21. SS. Quattro Coronati. - La basilica sorge su una sommità del Celio: Caeliolus o Caeliocolus; l'abside, rivolta a O, scende con le sue sostruzioni fino al piede della collina. Scarsi gli avanzi romani rinvenuti nell'area della basilica. Il Duchesne propose di identificare la chiesa con il titulus Aemilianae, ricordato nel Concilio del 499 e probabilmente sostituito da titolo di Quattuor Coronatorum nelle firme del Concilio del 595, benché i due nomi continuassero ad aver corso anche in seguito. La basilica subì importanti restauri sotto Onorio I (625-38), Leone IV (847-55), Pasquale II (1110). Il rinvenimento di alcuni ruderi nell'area vicina (forse un oratorio?) avevano fatto ritenere che la basilica attuale non sorgesse sul luogo di quella più antica, supposta più a valle. Secondo l'Apollonj Ghetti, i muri esterni della basilica attuale, tranne quello a N, sarebbero invece gli stessi della prima costruzione, e risalirebbero al sec. IV. Tali muri corrispondevano in origine a quelli della navata centrale, entro la quale, soppresse le antiche navatelle, Pasquale II ricavò nel XII sec. una basilica più piccola, a tre navate, conservando l'unica vasta abside antica e trasformando in atrio le prime sei campate della navata primitiva. È certamente un fatto insolito, e che suscita qualche dubbio, la misura relativamente piccola delle finestre nella muratura attribuita al IV secolo. Scavi condotti intorno al 1960 hanno messo in luce tratti del pavimento antico, del IV sec., a circa un metro al disotto del piano attuale.

Bibl.: A. Muñoz, Il restauro della chiesa e del chiostro dei SS. Quattro Coronati, Roma 1914 (con bibl. precedente); Chr. Hülsen, Chiese, Firenze 1927 (ivi bibl.); A. M. Colini, Storia e topografia del Celio nell'antichità, in Mem. Pont. Acc. Rom. Arch., 1944; B. M. Apollonj Ghetti, I SS. Quattro Coronati, Roma 1964.

22. S. Balbina (Titulus Tigridae). - Non è certa l'identificazione proposta con il Titulus Tigridae, menzionato nel 499. La basilica attuale, restaurata nel 1923, è un'aula absidata di m 24,18 (82 piedi romani) × 14,67 (58 piedi), nelle cui pareti lunghe si aprono sei nicchie alternatamente curve e rettangolari. L'esame della muratura consente una datazione tra il 350 e il 370 a. C. Sembra probabile l'ipotesi (Krautheimer) che si tratti di basilica privata trasformata in chiesa, forse nel V sec. inoltrato. Nell'abside appariva la figura del Redentore in mosaico (Crescimbeni, Ugonio). Occupava in parte, a un livello superiore di quattro metri, l'area della Domus Cilonis, donata da Settimio Severo al prefetto L. Fabio Cilone. In via di ipotesi si può ammettere una fase immediatamente precedente l'attuale con pilastri più robusti fra le nicchie.

Bibl.: R. Krautheimer, Corpus, I, Città del Vaticano 1937, p. 84 ss.; G. Matthiae, Chiese, Bologna 1962, v. Indice.

23. S. Sabina. - Gli scavi, condotti nel 1855-57, nel 1914-19, nel 1936-39 hanno rivelato un edificio termale del III sec., rinnovato nel IV, sotto il portico, una domus del III-IV sec., risistemata lussuosamente nel IV, la cui ala orientale è una sala lunga quanto è larga la chiesa, due santuarî del IV sec. a. C., con una cella preceduta da una tettoia su due colonne e fiancheggiata da un portico di età sillana, nel quale si è riconosciuta (Lanciani) la porticus Libertatis, mentre la cella sarebbe stata il tempio di Giove Libero, infine una casa del III secolo. Come tutta la zona anche gli edifici descritti subirono danni nel 410, durante il sacco di Alarico. La grande iscrizione musiva dedicatoria, nella facciata interna della basilica, attribuisce la costruzione a Pietro d'Illiria, sotto il pontificato di Celestino I (422-432); è probabile che fosse stata iniziata poco prima; secondo il Liber Pontificalis sarebbe terminata sotto Sisto III. Nelle mura risultano reimpiegati, ove se ne è presentata l'opportunità, le costruzioni preesistenti, ma tutto l'edificio segue un disegno rigoroso, applicando con precisione un modulo prescelto. I capitelli corinzî e le colonne (24, di cui 21 monolitiche) sono stati appositamente scolpiti. Sopra i capitelli riposano direttamente gli archi - leggermente superiori al semicerchio - ornati nella fronte da tarsie marmoree, in cui si è voluta riconoscere la rappresentazione di insignia militari (Darsy). Ampie finestre illuminavano la navata centrale, chiuse da griglie il cui modello può risalire piuttosto al IX sec. - cfr. S. Prassede -, anziché al V. Una pentafora, originariamente divisa da colonne, anziché da pilastri - cfr. SS. Giovanni e Paolo - si apre nella facciata. Un quadriportico si estendeva davanti alla basilica: ne resta una colonna, del V sec., tuttora in situ; il battistero sorgeva nell'attuale piazza di fianco alla chiesa. Oltre ai mosaici, di cui soltanto quello di facciata è superstite, vanto della basilica è la porta di cipresso intagliata, uno dei monumenti più celebri e discussi dell'arte paleocristiana. È probabile che anche alcuni degli stipiti delle porte risalgano al V sec., accanto a frammenti tolti alla domus del III. È incerto se in origine nell'abside si aprissero, come oggi, tre finestre, che alcuni vorrebbero fossero state piuttosto archi di accesso ad una costruzione sorgente su un monticello sbancato da Sisto V nel XVI secolo. È stato anche proposto che la domus esistente sotto la basilica fosse stata già domus ecclesiae (titolo) prima della costruzione di Pietro d'Illiria.

Bibl.: F. Darsy, S. Sabina, Roma s. d. (1061); ivi tutta la bibl. precedente.

24. S. Giorgio in Velabro. - L'appellativo della chiesa appare gia in un iscrizione del 461-82; essa è registrata nell'Itinerario Salisburgense (620-40). I restauri del 1924-25 hanno talmente alterato l'architettura e sono stati così poco documentati da non permettere con sicurezza l'identificazione di strutture anteriori all'attuale, del sec. IX.

Bibl.: R. Krautheimer, Corpus, I, IV, Città del Vaticano 1937, p. 242 ss.; ivi anche bibl. precedente.

25. SS. Apostoli. - Chiesa fondata da Pelagio I fra il 555 e il 564, completata da Giovanni 111 (560-567). Notevolmente alterata nei sec. XV e XVIII. Aveva coro triconco impostato su un avancorpo a tre navate. Esiste ancora l'abside destra, in tutto o in parte ricostruita nel XV sec., sotto cui è stato scoperto nel 1959 un sarcofago di porfido, che sembrerebbe stato ricavato nel Medioevo da una colonna romana.

Altri resti della basilica paleocristiana sono variamente utilizzati nella attuale. Notevole l'icnografia antica, di chiara ispirazione bizantina (Betlemme, Der Sohag, Denderah), caratteristica di questo momento a Roma.

Bibl.: Tutta la bibl. in E. Zocca, SS. Apostoli, Roma 1962.

26. S. Agata dei Goti. - Chiesa ariana. Il mosaico absidale, distrutto, era dedicato da Ricimero, console fra il 462 e il 470. Circa il 542, era conciliata al culto cattolico. Basilica a tre navate divise da colonne e abside con tre finestre, senza transetto. Le misure dimostrano chiaramente l'adozione del passo bizantino - anziché del romano - e la proporzione fra navata e navatella è vicina agli schemi ravennati.

Bibl.: R. Krautheimer, Corpus, I, I, Città del Vaticano 1937, p. 2 ss. (ivi la bibl. precedente).

27. S. Anastasia. - Secondo l'iscrizione nell'abside, perduta, già Damaso (366-84) aveva decorato di pitture la chiesa. Nel 499 è tra i Tituli. Situata ai piedi del Palatino verso il Circo Massimo, è l'unica chiesa titolare nell'area vicina al Palazzo, ciò che ha fatto congetturare su una fondazione di Anastasia, figlia di Costantino; ipotesi non fondata.

Profondamente modificata nel XVIII sec., ne sono state ricostruite le fasi più antiche. La prima presenta una chiesa ad una sola navata, con transetto ed abside circolare: pianta unica in R., ma che ha riscontri nell'Asia Minore, in Dalmazia e altrove, benché, a differenza di quelle chiese, questa romana non fosse coperta a vòlta, ma a travi e il transetto, al modo romano, facesse tutt'uno con la navata, anziché essere concepito come due ali aggiunte al corpo dell'edificio. Il Krautheimer pensa perciò ad una costruzione parallela a quelle dell'Asia Minore, ma indipendente, che si inserisce nella grande varietà di schemi ricercati a R. nel sec. IV.

Bibl.: Ph. B. Whitehead, in Amer. Journ. Arch., 1928, p. 405 ss.; A. Junyent, in Riv. Arch. Crist., 1930, p. 41 ss.; R. Krautheimer, Corpus, I, I, Città del Vaticano 1937, p. 43 ss.; G. Matthiae, Chiese, Bologna 1962, v. Indice.

28. S. Lorenzo in Lucina. - Scarsi avanzi della chiesa paleocristiana (432-40) e di un edificio pubblico romano incorporato entro mura posteriori consentono soltanto una ricostruzione parziale ed ipotetica.

Bibl.: R. Krautheimer, Corpus, I, II, Città del Vaticano 1962, p. 154 ss. (con la bibl. precedente).

29. S. Cecilia. - È menzionata in un'epigrafe del 379-464 e nel Martyrologium Hieronymianum (inizio del V secolo).

Sotto la basilica attuale, del IX sec., il Crostarosa scavò i resti di un gruppo di costruzioni romane, databili dalla metà del I sec. a. C. al III d. C., cui seguono due fasi del IV sec., l'ultima della quale può essere in rapporto con la destinazione ecclesiastica di una parte degli edifici, benché non sia possibile, come indicava il Crostarosa, riconoscere alcun avanzo della basilica del V secolo.

Bibl.: R. Krautheimer, Corpus, I, II, Città del Vaticano 1937, p. 95 ss.

30. S. Martino ai Monti (Titulus Aequitii). - Sotto la chiesa attuale (del IX sec.) e l'annesso convento (XIII sec. e oltre) esiste un complesso del III sec. da alcuni autori ritenuto un esempio di domus ecclesiae anteriore alla base della chiesa. Contro tale ipotesi sta la notizia del Liber Pontificalis che attribuisce al tempo di Silvestro (314-325) la fondazione del titolo che, anche se si fosse installato nell'edificio indicato, avrebbe riutilizzato una costruzione già esistente. È stato posto in dubbio che il complesso del III sec. avesse quei caratteri di isolamento che ne raccomandassero l'uso come luogo di culto: il vasto ambiente che è al centro della costruzione, diviso da pilastri in due navate, fiancheggiato da altri ambienti minori e in cui si dovrebbe riconoscere l'unico luogo adatto per le assemblee della comunità, dà infatti direttamente sulla strada. Tuttavia è assai singolare che a simiglianza di quanto avvenne nei SS. Giovanni e Paolo, quando sullo scorcio del V sec. il papa Simmaco innalzò una nuova basilica, risparmiò l'antico complesso edilizio e convertì la vasta sala, con i suoi ambienti collaterali, nella confessione della nuova basilica. Appunto in uno degli ambienti minori in una nicchia si conserva un mosaico con effigie papale (Silvestro?), giustamente attribuita a Simmaco (498-514), che nel titolo di Equizio e di Silvestro si era dovuto rifugiare per un certo periodo. Anche alcune transenne di finestre debbono risalire a questo periodo, così come una carattenstica lampada votiva d'argento (canistrum). Per il resto, la basilica ricostruita dai papi del IX sec. ha quasi del tutto cancellato quella più antica.

Bibl.: G. A. Filippini, Ristretto di tutto quello che appartiene all'antichità e veneratione dei SS. Silvestro, e Martino ai Monti, Roma 1639; J. P. Kirsch, Titelkirchen, Paderborn 1918, pp. 41-45; P. Kehr, Italia Pontificia, Roma-Berlino 1906, I, p. 45; J. Wilpert, Malereien und Mosaiken, Friburgo in Br., I, 1915, pp. 323-337; Chr. Hülsen, Chiese, Firenze 1927, pp. 382-83; R. Vielliard, Les titres romains et les deux éditions du Liber Pontificalis, in Riv. Arch. Crist., V, 1928, pp. 83-103; id., Les origines du titre de Saint-Martin-aux-Monts à Rome, Città del Vaticano-Roma 1931 (ivi tutta la bibl. precedente); Armellini-Cecchelli, Chiese, Roma 1942, I; H. Leclercq, in Dict. Arch. Chrét., XIV, 2, cc. 2950-53, s. v. Rome; G. Matthiae, Chiese, Bologna 1962, v. indice.

31. S. Prisca. - Il titolo è ricordato per la prima volta un'iscrizione del presbitero Adeodato, non anteriore al V sec., conservata nel chiostro di S. Paolo fuori le mura. Sotto la chiesa attuale gli scavi hanno messo in luce una casa traianea (per il van Essen abitazione dello stesso Traiano; ambienti con vòlte dipinte sono stati trovati nel 1958 sul lato opposto della via di S. Prisca). Un'altra fase risale allo scorcio del II sec.: piccoli ambienti con decorazioni non necessariamente cristiane di età severiana. Nei pressi si installò un grandioso mitreo (v. mithra e mitrei). La basilica attuale, profondamente trasformata, risale al V sec.; la sua abside si impostò sull'area della casa mitraica (v. mithra). Il Cecchelli dà notizia di un oratorio medievale scavato davanti alla chiesa.

Bibl.: I. P. Kirsch, Titelkirchen, Paderborn 1918, pp. 101-104; Chr. Hülsen, Chiese, Firenze 1927, p. 424, n. 24, con precedente bibl.; Armellini-Cecchelli, Chiese, Roma 1942, pp. 705 e 1420 (con bibl.).

32. SS. Cosma e Damiano. - La trasformazione in chiesa del complesso di edifici più antichi (v. Forma Urbis) avvenne nel 526-30 e consistette soltanto nella decorazione musiva dell'abside: uno dei supremi capolavori del secolo. La costruzione aveva infatti assunto la forma attuale nella prima metà del IV sec., con l'erezione dell'heroon del figlio di Massenzio (310), la chiusura dell'arco severiano ove è l'attuale facciata, la sopraelevazione in laterizi dei muri perimetrali, con l'apertura di finestre, la sistemazione di una nuova copertura. Le tarsie che rivestivano le pareti dell'aula, distrutte nel XVII sec., allorché essa fu tagliata a metà nell'altezza, note dai disegni di Pirro Ligorio, avrebbero così preceduto di poco quelle, anch'esse note da disegni, di S. Costanza (v. s. Agnese).

Bibl.: R. Krautheimer, Corpus, I, III, Città del Vaticano 1937 ss., con tutta la bibl. precedente; F. Castagnoli-L. Cozza, L'angolo meridionale del Foro della Pace, in Bull. Comm. Arch. Com. Roma, I-IV, 1959, p. 119 ss.

33. S. Giovanni a Porta Latina. - La basilica è ricordata nella prima versione (683) del Sacramentarium Gelasianum. Il Krautheimer ha accertato una fase antica, di cui restano fino ad un certo livello i muri in opera mista, databile circa il 500 d. C., e una fase successiva, del XII sec., che si sovrappone a questa rispettando sostanzialmente la pianta primitiva. Il Matthiae ha ricostruito una fase intermedia, da lui riferita al sec. VIII, responsabile di quasi tutte le strutture attuali. Sono assai stretti i rapporti con l'architettura bizantina - anche l'unità di misura impiegata è il piede bizantino, non il romano -; notevoli l'abside poligonale, l'avancorpo, i pastophoroi, il muro terminale continuo che comprende l'avancoro e i due pastophoroi. L'abside poligonale a tre lati - anziché quattro - presenta più affinità con Bisanzio (S. Giovanni di Stoudion) che con Ravenna.

Bibl.: Tutta la bibl. in R. Krautheimer, Corpus, I, IV, Città del Vaticano 1937, p. 301 ss.; G. Matthiae, S. Giovanni a P. L., Roma s. d.

34. S. Marco. - Sotto la chiesa attuale, del IX sec., e con successive alterazioni, sono state scavate due fasi precedenti delle quali la prima rientra nei termini cronologici qui contemplati. La chiesa più antica, fondata dal papa Marco nel 336, è interessante perché attesta per la prima volta l'applicazione dello schema basilicale a una chiesa parrocchiale; notevole il pavimento in opus sectile.

Bibl.: Tutta la bibl. in R. Krautheimer, Corpus, II, II, Città del Vaticano 1962, p. 216 ss.

35. S. Crisogono. - Della basilica paleocristiana, i cui ruderi sono stati scavati sotto l'attuale chiesa - romanica - sono ricostruibili tre fasi. La più antica consiste in una semplice aula irregolare, lunga 120 piedi (65 m), priva di divisioni interne. La sala era fiancheggiata da due portici sui lati lunghi, uno dei lati corti si apriva in tre porte ad arco, di cui la centrale sensibilmente maggiore delle altre; il muro di fondo era chiuso. Gli ingressi non davano direttamente sulla strada, piuttosto lontana dall'edificio che doveva invece affacciarsi su cortili interni, conservando così il carattere di sala riservata e silenziosa. La muratura di questa prima costruzione è identica alle parti più antiche della basilica di Massenzio, e si data perciò circa il 310. Lo schema dell'edificio, e specialmente la sua facciata, ricordano la basilica civile di Giunio Basso (v.), mentre l'assenza dell'abside accomunerebbe S. Crisogono a chiese del IV sec. dell'Alto Adriatico e del Norico, se si potesse veramente dimostrare la sua destinazione chiesastica, sin dalle origini, anche se ben presto fu adattata al culto.

Non molto tempo dopo l'aula fu divisa da recinzioni in muratura in due parti disuguali - più ampia quella verso l'ingresso, destinata alla comunità - e furono aperte tre porte in uno dei muri lunghi. La funzione delle tre porte laterali rimane oscura, anche se altre chiese a R. presentano nella stessa epoca questo tipo di aperture laterali (S. Clemente, S. Croce, S. Pietro in Vincoli). Circa la metà, o nella seconda metà, del V sec. il muro di fondo fu demolito e la chiesa prolungata; all'ingresso fu ricavato un nartece diviso dall'unica navata da due pilastri e da almeno quattro colonne. Un'abside a ferro di cavallo, più elevata della navata, fu aggiunta all'edificio ed inclusa fra due vani rettangolari asimmetrici che a tutta prima potrebbero ricordare i pastophoroi delle chiese orientali; in realtà, avevano funzione diversa da quelli, poiché mentre a quello di destra si accedeva dalla navata, e doveva funzionare come sacrestia, quello di sinistra era accessibile soltanto dall'esterno e doveva essere con ogni probabilità il battistero. Tuttavia anche la forma dell' abside sembra rivelare qualche ricordo orientale. Anche la fase del V sec. fu successivamente modificata, ma in età che cade ormai al di fuori dei nostri limiti cronologici.

Bibl.: M. Mesnard, La basil. du S. C. à Rome, Roma 1935; R. Krautheimer, Corpus, I, III, Cittè del Vaticano 1937 (con la bibl. precedente); Armellini-Cecchelli, Chiese, Roma 1942, pp. 847 e 1241 (con bibl.); G. Matthiae, Chiese, Bologna 1962, v. indice.

36. Battisteri. - Il Liber Pontificalis, nella vita di Silvestro, ricorda il battistero lateranense fra le fondazioni costantiniane, descrivendone la ricca suppellettile: aveva il fonte di porfido ricoperto d'argento, in mezzo al quale si levava una colonna di porfido sormontata da una lampada; ai bordi erano un agnello d'oro e sette cervi d'argento che versavano acqua e il gruppo del Battista che battezzava Cristo. Con la fondazione costantiniana furono identificati i resti di un muro perimetrale circolare cui, in una seconda fase, erano stati addossati i basamenti di probabili pilastri, con la funzione, apparentemente, di sorreggere una cupola. Sisto III (432-440) ricostruì il battistero in forma ottagonale. Ilaro (461-468) aggiunse al nucleo originario gli oratorî di S. Giovanni Battista (ne resta la porta di bronzo, inquadrata da due colonne porfiretiche), di S. Giovanni Evangelista (resta il mosaico della vòlta), di S. Croce (noto da disegni del XVI sec.; era ricco di stucchi e di tarsie). Scavi in corso (1964) hanno rivelato ambienti e situazioni nuovi, che avranno un peso determinante nell'interpretazione dell'edificio.

Il secondo fonte paleocristiano noto a R. è quello presso S. Marcello al Corso: in latenzî, rivestito internamente di marmi, ha all'esterno forma di esagono con gli angoli troncati, all'interno di esagono con un lobo ad ogni angolo. La data è incerta, fra il VI e il IX secolo. Al VI sec. appartiene il battistero scavato nelle catacombe di Ponziano.

Bibl.: Per il battistero lateranense, oltre alla bibl. citata a proposito della basilica del Salvatore, v. G. B. Giovenale, Il battistero costantiniano nelle recenti indagini, Roma 1929; A. Tschira, Die ursprüngliche Gestalt des Baptisteriums an der Laterans-Basilika, in Röm. Mitt., 1942, p. 116 ss.; F. W. Deichmann, Frühchr. Kirchen, Bsilea 1948, p. 18 ss. e passim; per il fonte di S. Marcello: A. Muñoz, in Boll. d'Arte, VI, 1912, p. 383 ss.; id., in Not. Scavi, 1912, p. 337; R. Krautheimer, Corpus, II, Città del Vaticano 1962, p. 211 ss.

Bibl.: generale sulle chiese di R.: O. Panvinio, De praecipuis Urbis Romae sanctioribusque basilicis quas septem ecclesias vulgo vocant liber, Roma 1570; Fra Santi (Solinori), Le cose meravigliose dell'alma città di Roma... rappresentate in disegno da G. Francino, Venezia 1588; P. Ugonio, Historia delle stationi di Roma che si celebrano la quadragesima, Roma 1588; O. Panciroli, I tesori nascosti dell'alma città di Roma, Roma 1625; A. Bosio, Roma Sotterranea, opera postuma nella quale si tratta de' sacri cimiterii, Roma 1632 (2a ed., ivi 1650); F. Martinelli, Roma ex ethnica sacra sanctorum Petri et Pauli apostolica praedicatione profuso sanguine... publicae venerationi exposita, Roma 1653; I. Ciampinus (G. Ciampini), Vetera Monimenta in quibus praecipue musiva opera, Sacrarum, Profanarumque Aedium structura... illustrantur, I, Roma 1690, II, Roma 1699; id., De sacris aedificiis a Constantino Magno constructis Synopsis historica, Roma 1693 (2a d., ivi 1747); G. Fontana, Raccolta delle migliori chiese di Roma e suburbane, Roma 1855; G. B. De Rossi, Inscriptiones Christiane Urbis Romae septimo saeculo antiquiores, Roma 1857-61; H. Hübsch, Die altchristlichen Kirchen nach den älteren Beschreibungen, Karlsruhe 1862-63; G. B. De Rossi, Roma sotterranea cristiana, Roma 1864-77; L. Duchesne, Le Liber Pontificalis, Parigi 1886-92; id., Notes sur la topographie de Rom au moyen-âge, in Mél. Arch. et Hist., VI, 1886, pp. 25-37; VII, 1887, pp. 217-243, 387-413; IX, 1889, pp. 340-62; X, 1890, pp. 126-149, 225-550; XXII, 1902, pp. 3-22; 385-428; XXXIV, 1914, pp. 307-356; XXV, 1915, pp. 3-13; id., Les titres presbiteriaux, in Mél. Art et Hist. Ec. Franç. à Rome, Roma 1887, p. 217 ss.; R. Lanciani, L'Itinerario di Einsiedeln e l'ordine di Benedetto Canonico, in Mon. Lincei, I, 1891, c. 437 ss.; id., Pagan and Christian Rome, Londra 1892; G. B. De Rossi, Musaici cristiani e saggi dei pavimenti delle chiese di Roma anteriori al sec. XV, Roma 1899; H. Grisar, Analecta Romana. Dissertazioni, testi, monumenti dell'arte riguardanti principalmente la storia di Roma e dei Papi nel medio evo, I, Roma 1899; R. Lanciani, Storia degli Scavi di Roma, Roma 1902-12; P. F. Kehr, Regesta Pontificum Romanorum, in Italia Pontificia, I, Roma-Berlino 1906; A. L. Frothingham, The Monuments of Christian Rome from Constantine to the Renaissance, New York 1908; O. (H.) Marucchi, Elements d'archéologie chrétienne, III, Basiliques et églises de Rome, 2a ed., Roma 1909; J. Wilpert, Die römischen Mosaiken und Malereien der kirchl. Bauten v. IV. bis XIII. Jhdt., Friburgo in Brisgovia 1917; J. P. Kirsch, Die römischen Titelkirchen im Altertum, Studien z. Geschichte u. Kultur d. Altertums, IX, (1-2), Padeborn 1918; R. Lanciani, Wandering through Ancient Roman Churches, Boston-New York 1924; F. Lanzoni, I titoli presbiteriali di Roma antica nella storia e nella leggenda, in Riv. Arch. Crist., I, 1925, p. i ss.; Chr. Hülsen, Le chiese di Roma nel Medio Evo, Firenze 1927; E. Mâle, Rome et ses vieiles églises, Parigi 1930 (varie edizioni); P. Styger, Die römischen Katakomben. Archaeologische Forschungen über den Ursprung und die Bedeutung der altchristlichen Grabstätten, Berlino 1933; id., Römische Martyrergrüfte, Berlino 1935; R. Kautzsch, Kapitell-studien, Berlino-Lipsia 1436, specie p. 236 ss.; G. P. Kirsch, Il transetto nella basilica cristiana antica, in Scritti in onore di B. Nogara, Città del Vaticano 1937, p. 209 ss. (specie p. 211 ss.); R. Krautheimer, Corpus basilicarum christianarum Romae, Le basiliche cristiane antiche di Roma (sec. IV-IX), Città del Vaticano 1937 ss.; R. Valentini-G. Zucchetti, Codice topografico della città di Roma, Roma 1940-54; F. W. Deichmann, S. Agnese f. l. m. und die byz. Frage in der frühchr. Architektur Roms, in Byz. Zeitschr., XLI, 1941, p. 70 ss.; R. Vielliard, Recherches sur les origines de la Rome chrétienne, Macon 1941; M. Armellini, Le chiese di Roma, Roma 1891, nuova ediz. a cura di C. Cecchelli, Roma 1943; E. M. Apollonj-Ghetti, G. De Angelis-D'Ossat, A. Ferrua, C. Venanzi, Le strutture murarie delle chiese paleocristiane di Roma, in Riv. Arch. Crist., Roma 1945, p. 3 ss.; F. W. Deichmann, Frühchristliche Kirchen in Rom, Basilea 1948; P. W. Perkins, Constantine and the Origins of the Christian Basilica, in Pap. of the Brit. Sch. at Rome, Roma 1954, p. 89 ss.; G. Matthiae, Basiliche paleocrist. con ingresso a polifora, in Boll. d'Arte, XLII, 1957, p. 107 ss.; R. Krautheimer, Mensa, Coemeterium. Martyrium, in Cahiers Arch., 1960, p. 15 ss.

Sulle piante di R., interessanti anche per lo studio delle chiese, v. ora.: P. A. Frutaz, Le piante di Roma, Roma 1961, da usarsi però con le cautele suggerite da Thelen, in Art Bulletin, 1963.

(C. Bertelli)

MUSEI E GALLERIE DI ANTICHITÀ. (Per i musei Pontifici v. Vaticano).

I. - M u s e i C o m u n a l i. - 1. Musei Capitolini. - I Musei Capitolini si possono considerare fondati nel 1471 quando Sisto IV donò al Popolo Romano un gruppo di sculture bronzee, già conservate al Laterano, tra cui la celebre Lupa e lo Spinario.

Essendo l'unica raccolta pubblica esistente a R., la collezione capitolina si accrebbe notevolmente nel sec. XVI e particolarmente nel 1566 quando Pio V, nel fervore della Controriforma, destinò al Campidoglio tutte le statue antiche che adornavano il Teatro di Belvedere e il Casino di Pio IV al Vaticano. Particolarmente notevoli furono gli incrementi nel corso del sec. XVIII durante il quale furono acquistate la collezione del card. Alessandro Albani (1739), la Venere capitolina (1752), i Centauri di Villa Adriana, il Mosaico delle Colombe (1765), il Gallo morente.

Poste inizialmente a decorazione del Palazzo dei Conservatori, le sculture ebbero nel sec. XVII una sede propria nel palazzo del museo che fu compiuto e inaugurato da Clemente XII nel 1734.

Con la fondazione in Vaticano del Museo Pio Clementino (1772), resasi necessaria a causa della mancanza di spazio in Campidoglio, il museo Capitolino perdette la sua importanza e le sculture trovate negli scavi di R. e dello Stato Pontificio, furono destinate alla nuova grande raccolta romana.

Solo dopo il 1870, a seguito dei grandi lavori per i nuovi quartieri di R. una preziosa serie di sculture fu sistemata a cura della Commissione Archeologica Municipale nel palazzo dei Conservatori (Museo del Palazzo dei Conservatori) ed ivi trovarono posto, accanto alla Pinacoteca Capitolina e alla Protomoteca, anche la collezione di vasi greci ed etruschi donata da Augusto Castellani, l'Antiquarium e il Medagliere.

Il museo si accrebbe inoltre nel 1925 di una nuova ala (Museo Nuovo Capitolino) nei locali dell'ex Palazzo Caffarelli ove furono raccolte le sculture rinvenute dopo il 1870 e fino ai nostri giorni, nel 1950 del Braccio Nuovo con opere d'arte di più recente rinvenimento e infine nel 1957 di una Raccolta Lapidaria.

I Musei Capitolini constano, oltre che della Pinacoteca e della Protomoteca (v.), di quattro parti: 1) Museo Capitolino propriamente detto ordinato nel "Palazzo Nuovo" e comprendente anche la Sezione egizia, quella dei Culti orientali, e una parte della raccolta epigrafica. Mantiene in gran parte nella disposizione del materiale, il carattere di una raccolta del sec. XVIII.

2) Museo del Palazzo dei Conservatori: ordinato con criterî in parte cronologici (Sale Arcaiche), parte topografici (Sale Orti Lamiani e Mecenaziani), oppure secondo la qualità del materiale (Sale Castellani, Sala dei Bronzi, Sale Cristiane).

3) Appartamento dei Conservatori: conserva fin dalle origini alcune sculture bronzee e qualche marmo della più antica collezione capitolina.

4) Museo Nuovo: ordinato con criterî rigidamente cr0nologici.

5) Braccio Nuovo: ordinato come sopra, salvo qualche adattamento alle necessità dell'ambiente.

Nei Musei Capitolini l'arte greca è documentata da scarsi originali, e soprattutto da copie di età romana.

La scultura arcaica è rappresentata dalla delicata stele di giovinetta, originale di arte ionica della fine del sec. VI, dal cosiddetto Auriga dell'Esquilino (da originale della prima metà del sec. V), dalla replica della Hestia Giustiniani, da due copie del tipo identificato con la Sosandra di Kalamis; a queste statue si sono recentemente aggiunti la bella replica dell'Aristogitone del gruppo dei Tirannicidi e l'Apollo saettante dal tempio di Apollo Sosiano.

Del periodo della massima fioritura dell'arte greca del V sec. si possono ricordare le due Amazzoni (una di Policleto con testa del tipo di Kresilas, l'altra di Kresilas), il Discobolo di Naukydes, una replica del Diadumeno di Policleto, una statua di Apollo del tipo di quella di Kassel, alcune teste (testa di stratega, Anacreonte, Perseo, ecc.).

Meglio documentata la scultura del IV sec.: all'arte di Prassitele si richiamano la testa di Dioniso, la bellissima replica del Satiro in riposo, l'Apollo Liceo e la replica del Dioniso barbato; a quella di Skopas l'Erade coronato di pioppo e due repliche del Pothos recentemente scoperte; infine i caratteri dell'arte lisippea si ritrovano nell'Eros che tende l'arco, nella statua bronzea di Ercole del Foro Boario, nel cavallo bronzeo, nell'Ercole combattente dell'Esquilino.

Sono di questo periodo il cosiddetto Eschilo, il Lisia, una bella testa di "Alessandro Helios". Naturalmente, data l'origine romana delle opere che compongono la raccolta, particolarmente documentata è l'arte ellenistica, specialmente affermata dai collezionisti romani. Appartengono a questo periodo alcune sculture celebri: i due Centauri di bigio morato da Villa Adriana, opere di copisti della scuola di Afrodisiade, il Fauno di rosso antico, una splendida testa di centauro di arte pergamena, una replica del Marsia appeso, un Vecchio pastore e una Vecchia contadina, la squisita replica della Polimnia, il gruppo di Amore e Psyche, la Fanciulla che difende una colomba insidiata da una serpe, una replica del Fanciullo con l'oca di Boethos, la Vecchia ebbra, di Mirone di Tebe, e soprattutto i due pezzi più famosi della raccolta capitolina: la Venere e il Gallo morente. Assai ricca è anche la serie di ritratti di questo periodo ai quali appartengono quelli di Omero, l'Erma doppia di Epicuro e Metrodoro e la statua di un anonimo filosofo che è probabilmente opera originale. Tra i rilievi paesistici si ricordano quelli di Perseo e Andromeda e quello di Endimione.

Prodotti dai neoattici dell'indirizzo classicheggiante dell'arte del I sec. a. C. sono il Rhytòn di Pontios, la Venere Esquilina e il cosiddetto Spinarzo.

L'arte etrusca è rappresentata in Campidoglio da poche opere, ma del più alto interesse; la Lupa attribuita alla scuola veiente del VI-V sec. a. C., il cosiddetto Bruto, mirabile ritratto bronzeo del III-II sec. a. C., una rara statuetta fittile da Cerveteri del VII sec. a. C.

Ricchissima è la documentazione relativa all'arte romana specie per quanto riguarda la serie dei ritratti. I musei possiedono alcuni rilievi storici provenienti da archi trionfali e monumenti pubblici: parti del fregio interno del tempio di Apollo Sosiano e di quello di Venere Genitrice, rilievi da un monumento in onore di Marco Aurelio, due di età adrianea poi reimpiegati nell'Arco di Portogallo, uno di età antoniniana da un arco già in via di Pietra, i rilievi con Province e trofei della cella dell'Hadrianeum.

Vi sono anche alcuni sarcofagi tra i più belli esistenti: quello di Vigna Amendola con combattimento tra Romani e Galati, quello con corteo dionisiaco, quello con l'infanzia di Dioniso e infine quello colossale detto di Alessandro Severo, opera di officina attica della seconda metà del III secolo.

Tra i ritratti si ricordano il cosiddetto Bruto Barberini, la statua colossale di Cesare (ora nel Palazzo Senatorio), la testa di Agrippina maggiore, Plotina, Faustina minore, Domiziano, Corbulone, il grande busto di Commodo-Ercole, e molti ritratti di imperatori del II, III e IV sec., uno squisito ritratto di dama dell'età dei Flavi, due statue di magistrati del IV sec., la testa colossale di Costantino (resto dell'acrolito della Basilica Costantiniana) e quella bronzea di Costanzo II.

Di particolare interesse anche le collezioni dei monumenti relativi ai culti orientali (gruppo di sculture dal Dolocenum dell'Aventino, Are del Sol Sanctissimus e della Vestale Claudia, rilievo del Gallus della Magna Mater ecc.), quella dei monumenti egizî (sculture di età saitica e di imitazione romana provenienti in gran parte dall'Iseo del Campo Marzio); quella dei monumenti cristiani (statuetta del Buon Pastore, rilievo di Thecla, alcuni sarcofagi, iscrizioni); la collezione dei vasi (vaso firmato da Aristonothos, idria ceretana, anfora di Nikosthenes, anfore tirreniche, ecc.); quella epigrafica (Fasti Consolari e Trionfali, Lex Regia, Elogio di Duilio, urna di Agrippina Maggiore, Senatus Consultus de Asclepiade, ecc.); il Medagliere (aurei della Collezione Albani-Campana e del cosiddetto Tesoro di via Alessandrina, Collezione Bignami di monete repubblicane, ecc.).

Vanno infine segnalati alcuni mosaici (tra cui quello finissimo delle Colombe da originale di Sosos di Pergamo), un frammento di pittura storica, della Tabula Iliaca, la Tensa dall'Esquilino adorna di rilievi in bronzo, del III sec. d. C., una lettiga e un letto da Amiterno, rari esemplari di mobili adorni di finissimi bronzi ageminati in argento.

Bibl.: H. S. Jones, A Catalogue of the Ancient Sculptures in the Municipal Collections of Rome - The Sculptures of the Museo Capitolino, Oxford 1912; W. Helbig - W. Amelung, Fuhrer3, Lipsia 1912, I, pp. 408-576; H. S. Johnes, The Sculptures of the Palazzo dei Conservatori, Oxford 1926; D. Mustilli, Il Museo Mussolini (Museo Nuovo Capitolino), Roma 1938; C. Pietrangeli, Musei Capitolini, I monumenti dei Culti Orientali, Roma 1951; S. Bosticco, Musei Capitolini, I monumenti egizi ed egittizzanti, Roma 1952; G. Q. Giglioli - V. Bianco, Corpus Vasorum Antiquorum. Italia, fasc. XXXVI, Musei Capitolini di Roma I, Roma 1963.

(C. Pietrangeli)

2. Museo Barracco. - La Collezione Barracco fu raccolta dal barone Giovanni Barracco (1829-1914) e da lui donata nel 1902 alla città di R. insieme con un edificio costruito successivamente per accoglierla. Demolito questo nel 1938, il Museo Barracco fu trasferito nel 1948 nella Farnesina dei Baullari, una graziosa costruzione del Rinascimento eretta nel 1523 da Antonio da Sangallo il Giovane per il prelato francese Tommaso Le Roy.

Il Museo Barracco, secondo l'intento del munifico donatore, doveva offrire al pubblico, per mezzo di una scelta di opere rappresentative, un panorama della storia della scultura dalle origini alla fine del mondo antico, non senza qualche excursus nelle altre arti figurative. Esso è stato riordinato nella nuova sede distribuendo più razionalmente il materiale nelle sale (arte assira, egizia, greca arcaica, greca del V e IV sec., ellenistica, etrusca, romana, ecc.).

La collezione egizia contiene alcuni pezzi di notevole interesse: tra gli altri il rilievo di Nofer (III dinastia), la sfinge della regina Hashepsowe dall'Iseo Campense (XVIII dinastia), una testa di sacerdote, scultura egizia di età romana, già ritenuta ritratto di Giulio Cesare. La sala dell'arte assira raccoglie un rilievo dal palazzo di Assurnasirpal a Nimrud (IX sec. a. C.) e un gruppo di rilievi dell'epoca di Sennacherib e Assurbanipal provenienti da Ninive (VII sec. a. C.).

L'arte greca è rappresentata da parecchi originali tra cui un frammento di stele sepolcrale attica della fine del VI sec. a. C., una testa di efebo assegnata ad un maestro della Grecia orientale tra la fine del VI e gli inizî del V sec. a. C., una statuetta di peplophòros, un gruppo di sculture cipriote (VI-V sec. a. C.), alcuni rilievi votivi e funerarî (notevoli tra gli altri quello dei Pitaisti, degl'inizî del sec. IV e uno arcaistico con ex voto alle Ninfe), due lèkythoi funerarie attiche, ecc.

Tra le repliche e copie di età romana una testa del Marsia mironiano, una statua di Hermes Kriophòros derivato da quello di Kalamis, teste del Doriforo e Diadumeno policletei; una dell'Apollo fidiaco del tipo di Kassel, una replica del Kyniskos di Policleto, una statuetta riproducente in scala ridotta l'Eracle di Policleto, una testa dell'Apollo Lykaios, un bel ritratto di Epicuro, una testa di ignoto greco del tempo di Demostene, una testa di Alessandro Magno (o Mithra?), ecc. Per l'arte etrusca alcuni esemplari di cippi chiusini e due notevoli teste funerarie appartenenti alla decorazione di tombe volsiniesi del III sec. a. C.

Per l'arte romana - scarsamente documentata - un bel ritratto di giovane degli inizî dell'Impero, da Pozzuoli, un grazioso ritratto di fanciullo giulio-claudio, una testa colossale di Marte-Quirino, un gruppo di stele palmirene.

L'arte medievale è esemplificata da due interessanti formelle romaniche dall'antico duomo di Sorrento (sec. XI).

Al museo sono annesse la biblioteca del barone Barracco e quella di Ludovico Pollak.

Bibl.: G. Barracco-W. Helbig, La collection Barracco, Monaco 1893; id., Nuova Serie, Roma 1907; G. Barracco-L. Pollak, Catalogo del Museo di scultura antica, Roma 1910; W. Helbig-W. Amelung, Führer, 1a, Lipsia 1912, pp. 604-628; 634; C. Pietrangeli, Museo Barracco, 3a ed., Roma 1963.

(C. Pietrangeli)

II. - M u s e i s t a t a l i. - 1. Museo Preistorico Luigi Pigorini. - Il Museo Preistorico-Etnografico Luigi Pigorini fu istituito con decreto reale il 29 luglio 1875 e inaugurato il 14 marzo dell'anno successivo. Esso occupa il terzo piano del palazzo dei Gesuiti, detto Collegio Romano, costruito dall'Ammannati sul finire del sec. XVI. Nello stesso palazzo è incorporata la chiesa di S. Ignazio.

In origine il museo era stato annesso a quello preesistente, detto Kircheriano dal nome del suo fondatore, il Padre Atanasio Kircher da Fulda, che aveva costituito una cospicua raccolta di antichità varie. Nel 1913 la raccolta Kircher fu divisa, e mentre le collezioni preistoriche e quelle etnografiche rimasero nel museo di nuova costituzione, quelle relative alla civiltà protostorica furono assegnate al Museo di Villa Giulia; il materiale classico e le antichità cristiane passarono al Museo delle Terme, e infine gli oggetti medievali accedettero al Museo di Palazzo Venezia.

Il Museo Preistorico, secondo il concetto del suo fondatore, doveva raccogliere in R. le testimonianze materiali di tutte le civiltà primitive fiorite in Italia, comparandole per quanto possibile alle coeve civiltà dei paesi stranieri. Entro ciascuna delle grandi divisioni, Paleolitico, Neolitico, Età del Bronzo, Età del Ferro, l'ordinamento era rigorosamente geografico, ma questo criterio non sarà più seguito, per far luogo a quello tipologico quando, prossimamente, l'intero museo sarà trasferito nella nuova sede del Palazzo delle Scienze all'E.U.R. Attualmente in questa nuova sede è già stato disposto tutto il materiale relativo alla preistoria e alla protostoria laziale: una sezione che rimarrà definitivamente nella presente sistemazione, dato che il museo si trova a Roma.

In questa, come nelle rimanenti collezioni che attendono la sistemazione nella nuova sede, tutte le epoche preistoriche, come abbiamo detto, sono rappresentate con esemplari provenienti da tutta l'Italia. Ricorderemo in particolare i materiali d'Età del Bronzo delle palafitte lombarde, del Lago Maggiore, di quello di Varese e di quello d'Iseo, e quelli delle terremare di Lombardia e dell'Emilia (Piacenza, Parma, Reggio, Modena e Bologna), con la caratteristica ceramica ad anse cornute, e gli oggetti in bronzo: asce, falcetti, frecce, pugnali, spade, lance e rasoi.

L'Età del Ferro è molto ben rappresentata dalle necropoli a incinerazione dell'Italia settentrionale, tra cui primeggiano quelle di Golasecca e di Este dai caratteristici ossuari, e quelle dell'Italia meridionale (Cuma, Torre del Mordillo, Locri). Per il rito dell'inumazione ricorderemo la splendida sepoltura femminile da Novilara (predio Servici), il cui scavo è stato recentemente sistemato nel museo, dove era stata depositata incompleta nel 1896 dal Brizio, e che è ricca di un corredo di circa cinquanta oggetti, tra vasi, bronzi, ornamenti d'osso e d'ambra.

Le collezioni estere comprendono antichità cretesi e micenee di Rodi e materiali da varie località dell'Europa e dell'Asia.

Ma naturalmente la collezione più imporante e più completa è quella laziale, che recentemente (1962) negli ampi e luminosi locali dell'E.U.R. ha trovato la sistemazione ideale, tanto che - come per Torre in Pietra - i materiali si sono potuti mostrare nel loro ambiente naturale. Di Torre in Pietra, infatti, non si sono esposte soltanto le splendide collezioni di amigdale, di manufatti musteriani, e i resti della fauna e della malacofauna locale, ma anche un calco riproducente esattamente una parte del paleosuolo su cui erano stanziati i paleoantropi pitecantropiani fabbricatori di amigdale. Così, nella parte dedicata al Circeo, oltre a un plastico del promontorio, è esposto il cerchio originale di pietre in cui fu trovato il cranio neandertaliano della Grotta Guattari. Inoltre è stato possibile mostrare con chiarezza, per quel che concerne l'Agro Pontino e il Circeo, accanto a quella musteriana, la caratteristica industria pontiniana, che in luogo della selce preferisce ciottoli per i suoi manufatti. Una, degna esposizione, ha trovato l'arte mobiliare della Grotta Polesini (Tivoli), con le belle incisioni su osso e su ciottolo, ed è stato pure possibile esporre una sezione stratigrafica originale di Valle Ottara (Rieti), che dal Mesolitico giunge all'età romana.

Anche le età dei metalli sono pienamente valorizzate, sia nell'esposizione degli oggetti, che nella ricostruzione della grande tomba eneolitica, a forno, di Ponte S. Pietro, detta della Vedova, nella quale sono due scheletri, uno maschile e uno femminile, accompagnati da un cospicuo corredo. Capolavori come le coppe e le fibule di Coste del Marano, il ricchissimo ripostiglio di asce e fibule bronzee di Ardea, sono esposti con il massimo rilievo.

La rassegna si conclude con una bella esposizione di ceramiche delle necropoli dei Colli Albani, e di tipici ossuari villanoviani di Barbarano, Cerveteri e Tarquinia, e di cinerarî vulcenti.

(P. C. Sestieri)

2. Museo Nazionale di Villa Giulia. - Le collezioni archeologiche del Museo Nazionale di Villa Giulia sono custodite nella antica villa suburbana di Papa Giulio III Del Monte, costruita in Valle Giulia tra il 1551 e il 1553.

Dell'impianto originale della villa e dei suoi annessi oggi si conserva soltanto l'edificio principale, dalla sobria facciata rettilinea che si apre all'interno in un ampio emiciclo, ed il complesso loggiato-ninfeo che la corte centrale, fiancheggiata da due muri modulati da pilastri e semicolonne, divide dal precedente. L'opera di varî maestri (Vignola per il corpo principale; l'Ammannati per il loggiato maggiore e, in collaborazione col Baronino, su disegno di Giorgio Vasari, per il ninfeo; Michelangelo per una generale consulenza sulle strutture e le linee essenziali del ninfeo) ha dato una singolare ricchezza di linguaggio architettonico al complesso, che ha il suo tratto stilistico più saliente nella successione di facciate rettilinee, che si risolvono all'interno in volumi curvilinei (come accade sia nel corpo principale, sia nell'insieme loggiato-ninfeo). Nel secolo scorso, venuto in proprietà dello Stato italiano, l'edificio venne, per così dire, racchiuso tra due corpi rettilinei aggiunti che, innestandosi alle estremità dell'emiciclo dietro la facciata principale, corrono poi, secondo l'asse maggiore della villa, all'esterno del muro di cinta della corte principale, delimitando due giardini minori. In questi corpi aggiunti, come all'interno della villa stessa, si susseguono oggi le sale di esposizione del museo.

Questo venne ufficialmente costituito nel 1889, essenzialmente come raccolta delle antichità preromane provenienti dai territori laziali compresi tra la riva destra del Tevere e il confine umbro-toscano, con particolare riferimento al territorio falisco. Successivamente esso si arricchiva dei trovamenti degli scavi regolari di Vulci, Cerveteri, Veio e - via via - delle altre località oggi comprese nella giurisdizione della Soprintendenza alle Antichità dell'Etruria meridionale, ricevendo inoltre importanti accessioni da collezioni private, tra le quali la Collezione Barberini (acquistata nel 1903) e la Castellani (donata nel 1919).

Nella sua fisionomia attuale (conseguente ad un ordinamento delle sale, concepito secondo criterî di arredamento molto nuovi, effettuato tra gli anni 1950 e 1960), il museo comprende una esposizione, distribuita topograficamente, dei materiali archeologici dai centri dell'Etruria meridionale propria, con l'eccezione di quelli tarquiniesi (destinati al Museo Nazionale di Tarquinia) e dei veienti (ancora da esporre in nuovo allestimento, se si eccettuano le grandi sculture fittili dal tempio di Portonaccio). Secondo lo stesso principio museografico sono esposti i materiali provenienti dal territorio falisco (Capena, Narce, Vignanello, Falerii Veteres, ecc.) e da quello sud-laziale (Tivoli, Segni, Satricum, Palestrina, ecc.), nonché - seppure isolati - gruppi di oggetti dal territorio umbro (Todi, Cagli, Terni, ecc.). L'esposizione è attualmente completata dallo Antiquarium, che comprende materiali da collezioni private e dall'ex Museo Kircheriano, e dalle ceramiche della Collezione Castellani.

Di fondamentale importanza per la conoscenza della civiltà artistica etrusco-meridionale, il museo, con le sue collezioni di materiali provenienti dalle aree circonvicine, risulta altrettanto importante per lo studio dei reciproci influssi tra i vari ambienti particolari, con una documentazione praticamente ininterrotta dal IX al I sec. a. C. Per l'ambiente propriamente etrusco, vanno ricordati in particolare i corredi delle necropoli vulcenti del IX-VIII sec. e di quelle ceretane di età orientalizzante ed arcaica, le citate sculture di Veio e i grandi sarcofagi fittili da Cerveteri (soprattutto quello, celeberrimo, "degli sposi"). Non meno importanti si mostrano le necropoli di età arcaica e classica di Falerii Veteres e - dallo stesso sito - i cospicui resti di rivestimenti architettonici, distribuiti tra il VI e il IV sec. a. C. A parte i famosi, notissimi corredi delle grandi tombe orientalizzanti Barberini e Bernardini da Palestrina - ora entrambe a Villa Giulia - l'importanza dei centri del Latium Vetus è sottolineata dai materiali di Satricum (in particolare la stipe più antica del tempio di Mater Matuta, del VII-VI sec. a. C.). L'Antiquarium, oltre a custodire come sua gemma l'òlpe Chigi, si segnala per l'ampia selezione di bronzi di officine etrusche ed italiche mentre la Collezione Castellani - esposta attualmente solo nella sua parte vascolare - (ma che comprende anche una importante serie di oreficerie, in corso di riordinamento) è soprattutto notevole per il panorama che offre della produzione delle maggiori scuole greche e di influsso greco in età arcaica e per la ricca esemplificazione di vasi attici a figure nere e figure rosse.

Bibl.: A. Della Seta, Catalogo del Museo di Villa Giulia, Roma 1918; P. Mingazzini, Vasi della Collezione Castellani, Roma 1930; Corpus Vasorum Antiquorum: Museo Nazionale di Villa Giulia, Fascicoli I-III (G. Q. Giglioli); R. Bartoccini-A. De Agostino, Museo Nazionale di Villa Giulia: Antiquarium e Collezione dei Vasi Castellani, Milano s. d. (1961); M. Moretti, Il Museo Nazionale di Villa Giulia, Roma 19632.

(G. Scichilone)

3. Museo Nazionale Romano. - Nell'anno 1889 lo Stato italiano provvide alla sistemazione del patrimonio archeologico della capitale con l'istituzione di un Museo Nazionale Romano, diviso in due sezioni, di cui l'una fu collocata nell'ex monastero dei Certosini attiguo a S. Maria degli Angeli, l'altra nella Villa Giulia (v. n. 2) presso la via Flaminia. Il carattere dei due musei si differenziò fin dall'inizio, poiché al primo furono destinate le opere d'arte e il materiale antiquario che si riferivano alla civiltà della Grecia e di Roma in età classica, mentre al secondo andarono le antichità del Lazio protostorico ed etrusco.

Il primo nucleo del Museo Nazionale Romano fu formato: da gran parte della collezione installata dal poligrafo gesuita A. Kircher nel palazzo del Collegio Romano, a cui si erano aggiunti, dopo che R. era venuta a far parte del Regno d'Italia (20 settembre 1870), i rinvenimenti avvenuti nella città e nella regione; dal materiale collocato nel Palazzo Salviati alla Lungara, dove era stato costituito il Museo Tiberino con gli importanti rinvenimenti dovuti ai lavori di regolamento e di arginatura del Tevere, fra cui il complesso del Giardino della Farnesina; infine da marmi raccolti nell'antiquario del Palatino. Nel 1901 il museo si accrebbe della insigne collezione formata dal cardinale Ludovico Ludovisi nel XVII sec., acquistata in quell'anno dallo Stato. Vi furono in seguito altri acquisti di minore entità, ma soprattutto la consistenza delle raccolte del Museo Nazionale Romano, in continuo aumento fino ai nostri giorni, ha rispecchiato le vicende territoriali della Soprintendenza alle Antichità, installata anch'essa nei locali dell'ex Certosa; e cioè il suo ampliamento oltre i confini del Lazio e la sua limitazione dovuta alla istituzione di nuove Soprintendenze e di nuovi musei (Musei del Foro Romano e Palatino, di Nemi, di Chieti, dell'Alto Medioevo). I locali della Certosa si rivelarono ben presto insufficienti. Nel 1911 undici aule delle Terme di Diocleziano, sorgenti fra S. Maria degli Angeli e il chiostro della Certosa, furono liberate dalle sovrastrutture e utilizzate per una Mostra Archeologica; quindi passarono a far parte del museo, insieme all'edificio del chiostro minore. Altri ambienti furono costruiti nel periodo fra le due gnerre mondiali e nell'ultimo dopoguerra, ma con risultati che sono da considerarsi tuttora provvisorî. L'ambientazione del Museo Nazionale Romano nella cornice imponente delle aule termali e in quella, non meno suggestiva, del grande chiostro rinascimentale (1565) con le abitazioni dei Certosini, ha creato un problema museografico, che potrà essere superato solo con un piano organico (ora allo studio) di liberazione di tutto il complesso antico e di costruzione di nuove strutture indipendenti; per ora solo una parte del materiale artistico-archeologico può essere esposta al pubblico. In considerazione di ciò, si farà cenno delle raccolte esistenti nel museo, senza tener conto di quanto è attualmente esposto.

Di eccezionale importanza è la raccolta delle opere d'arte greca, contenente sculture e rilievi, che dagli albori del V sec. a. C. si distribuiscono nel tempo fino alle ultime espressioni dell'ellenismo. Al V sec. appartengono alcuni preziosi originali (Testa Ludovisi, Rilievo di Velletri, Trono Ludovisi, Niobide degli Horti Sallustiani, Nereide del Palatino) e numerose copie di età romana, di cui talune celeberrime (come le due del Discobolo di Mirone, di Castel Porziano e Lancellotti) e altre, di qualità talvolta assai alta, che rappresentano l'ambiente artistico della Sicilia e della Magna Grecia, quello ionico-insulare, argivo, sicionio e attico, le opere o le tendenze che vanno sotto il nome di Kritios, di Paionios, di Kalamis, di Policleto, di Fidia e dei suoi continuatori. Dall'arte del IV sec. proviene minor numero di sculture in copie di età romana; fra queste particolarmente importante è il gruppo che rappresenta l'ambiente attico: l'Apollo d'Anzio, le copie di opere prassiteliche, come l'Afrotide di Gnido (in diverse redazioni), il Satiro che versa da bere, l'Atena tipo Arezzo. Alcune teste, da statue divine, eroiche o atletiche, discendono da originali scopadei o attici, o presentano caratteri misti delle scuole dominanti nel IV secolo. Per l'alta qualità e per il numero vanno segnalate le sculture appartenenti al periodo ellenistico. Sono rappresentate largamente le scuole di Pergamo e d'Asia Minore, oltre l'Attica fino ai rilievi neoclassici. Si citano qui solo i maggiori originali, come la Fanciulla d'Anzio, il Gallo che uccide la moglie e se stesso, l'Erinni Ludovisi, il Pugile in riposo e il cosiddetto Sovrano ellenistico; non mancano però opere la cui raffinatezza e freschezza di esecuzione lascia incerti (come il Giovane di Subiaco) se si tratti di copia.

Per quanto riguarda la scultura romana, di preminente importanza sono le collezioni dei ritratti e dei sarcofagi. Oltre ad alcune statue (fra cui giustamente famoso l'Augusto della via Labicana), busti, teste, stele funerarie, formano un complesso in cui sono presenti le diverse correnti e tradizioni artistiche della ritrattistica romana dal II sec. a. C. al V d. C. I ritratti degli imperatori o dei membri delle famiglie imperiali sono numerosi; la qualità è quasi sempre buona, talora molto elevata. Fra i sarcofagi sono notevoli alcuni esemplari del Il sec., con scene mitologiche e con scene di battaglia (sarcofago della via Tiburtina); al III sec. appartengono altri monumenti particolarmente importanti, come il grande sarcofago Ludovisi e quello detto del "funzionario dell'annona". Vi sono rappresentati varî tipi di origine italica, greca e asiatica. Un gruppo di sarcofagi cristiani a fregio si riferisce al IV secolo. Rari esemplari d'arte paleocristiana sono alcuni sarcofagi, la statuetta del Cristo seduto e il grande cratere già Canova. Alcuni rilievi storici o con scene di culto, altri di decorazione architettonica, urne e are cinerarie o sacrificali, capitelli e oggetti di vario uso arricchiscono il patrimonio dell'arte scultorea romana. A questa si deve aggiungere una serie di piccoli monumenti che testimoniano l'esistenza dei culti orientali in R., i cui adepti veneravano divinità di Siria, d'Asia Minore, d'Egitto.

L'antica arte italica della plastica fittile è rappresentata da monumenti della tarda Repubblica o degli inizî dell'Impero. Da luoghi di culto laziali provengono molti oggetti votivi, spesso parti del corpo umano, teste, busti e figure intere di divinità. Numerosa e importante è la serie delle cosiddette lastre Campana.

La collezione delle pitture è fra le più ricche e importanti; essa comprende il grande complesso della Casa della Farnesina (con gli elegantissimi stucchi delle vòlte), la sala del "giardino" della villa di Livia a Primaporta, il complesso del palazzo della stazione Termini (scoperto nel 1947), il colombario Pamphili e molte altre pitture minori, fra cui di particolare importanza il piccolo fregio con i miti della fondazione di Alba Longa e la tarda figura di R. in trono da un'aula lateranense. I mosaici sono numerosi e taluni di qualità molto alta. Oltre ai grandi mosaici pavimentali in bianco e nero con figure mitologiche, con scene agonali e gladiatorie, con ornati vegetali o geometrici, sono da annoverare mosaici a colori e, non meno raffinati, alcuni emblemata e frammenti musivi a figure.

Fra i prodotti delle cosiddette arti minori vanno ricordati i bronzetti d'arte italica e "greco-romana", alcune statuette "tipo Tanagra", i vetri, le ceramiche aretine e pseudo-aretine, le lucerne, gli oggetti di avorio, d'osso, di bronzo, appartenenti a suppellettile funeraria o d'uso comune. Infine va fatta menzione delle collezioni antiquarie, come fistule acquarie, pesi, bolli di mattone.

La raccolta epigrafica è vastissima e accoglie alcune importanti iscrizioni, come gli Acta dei Fratres Arvales, una tavola bronzea riferibile alla institutio alimentaria, i bicchieri argentei con l'itinerario da Cadice a Roma.

Il gabinetto numismatico è particolarmente ricco per la parte romana, formata da tesoretti, rinvenimenti varî, acquisti, fra cui primeggia la raccolta del grande collezionista Francesco Gnecchi. Fra i rari esemplari di medaglioni aurei tardi basti ricordare quello di Teodorico. Vi è annessa anche una collezione di gemme, tra le quali si trova la preziosa Gemma di Aspasios con l'immagine della testa dell'Atena Parthìnos di Fidia.

(B. M. Felletti Maj)

4. Museo Nazionale d'Arte Orientale. - Il Museo Nazionale d'Arte Orientale, costituito in base ad una convenzione stipulata in data 24 luglio 1957 tra il Ministero della Pubblica Istruzione e l'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente sotto la presidenza del prof. G. Tucci, è stato inaugurato il 6 giugno 1958.

L'area che interessa l'attività del museo abbraccia le regioni del Medio e dell'Estremo Oriente, comprese quindi tra l'Iran ed il Giappone, nelle loro manifestazioni d'arte dall'età pre-protostorica a quelle relativamente recenti. La sezione dedicata alla Persia pre-islamica presenta una esemplificazione abbastanza completa del materiale ceramico iranico protostorico. Fra esso: una coppa di Persepoli, forse della prima metà del III millennio a. C., vasi di Tepe Giyān e di Tepe Siyalk, a calice, a tripode, a forma di capride, vasi di terracotta grigia dall'Iran centrale; una serie notevole di bronzi del Luristan (asce da cerimonia, una maschera, morsi per cavalli, un "terminale" del tipo Gilgamesh bifronte, ecc.).

Quindi gruppi di oggetti di età achemènide, di età parthica (tra cui una testa femminile ed un piccolo busto maschile barbato, di marmo) e sassanide. Altri pezzi notevoli appartengono a periodi (dal IX al XVIII sec.) che non rientrano nei limiti di questa enciclopedia.

La collezione d'arte gandharica comprendente sculture di schisto, di stucco, oggetti di terracotta e varî, può essere certamente considerata la più ricca ed omogenea d'Europa. Solo in parte esposta, proviene per la quasi totalità dagli scavi dell'area sacra di Butkara I (Swat, Pakistan) condotti dalla Missione Archeologica Italiana.

Procedendo oltre incontriamo le sezioni d'arte indiana, tibetana e nepalese.

Di tradizione schiettamente indiana è anche un frammento marmoreo, tra i pochi esistenti, rinvenuto in Afghanistan, il cosiddetto marmo Scorretti, rappresentante Durga che abbatte il toro (sec. VIII? d. C.).

Nella sezione cinese compare un'urna protostorica di Pan Shan (2500 a. C. circa), una bella raccolta di bronzi Shang e Chou, vasi, statuette funerarie e due splendide lastre di terracotta con incisioni a stampo della dinastia Han.

Recente è la donazione della raccolta G. Auriti composta di piccoli bronzi (statuine, specchi, ecc.) estremo-orientali, alcuni dei quali datati al V sec. d. C., e della collezione del barone Takaharu Mitsui.

Un fondamentale apporto al museo è costituito dal materiale spettante all'Italia proveniente dagli scavi, che le Missioni Archeologiche dell'Is.M.E.O. sotto la guida del prof. G. Tucci stanno conducendo in Asia (in Pakistan dal 1956, in Afghanistan dal 1958, in Iran dal 1960).

Presso il museo infine sono istituiti un archivio fotografico che sviluppa, settore per settore, una documentazione di oggetti d'arte e di monumenti ed uno specializzato laboratorio di restauro (per pitture, bronzi, legni, stucchi, stoffe ecc.).

Bibl.: D. Faccenna, Il Museo Nazionale d'Arte Orientale (Musei e Gallerie d'Italia), n. 14, 1961; id., Sculptures from the Sacred Area of Butkara I (Swat Pakistan), in Reports and Memoirs, II, 2, Centro Studi e Scavi Archeologici in Asia, IsMEO, 1962. Notizie di acquisti: A. Giuganino, M. T. Lucidi, M. Taddei, in Boll. d'Arte, 1958 ss.

(D. Faccenna)

5. Museo dell'Alto Medioevo. - In fase di sistemazione nel Palazzo delle Scienze a Roma, E.U.R., si trova attualmente (1964) un museo nazionale, che avrà lo scopo di raccogliere suppellettile e oggetti dell'età altomedievale.

I confini cronologici del museo sono contenuti nel periodo che ha inizio con il disgregarsi dell'Impero Romano d'Occidente e si conclude con la formazione dello stato feudale carolingio-ottoniano; confini imposti da considerazioni storiche e artistiche, quali il dissolvimento della forma tardo-antica e l'affermazione del linguaggio essenzialmente pittorico, che ha il suo limite inferiore al sorgere dell'arte romanica,

Le collezioni documenteranno il complesso panorama di civiltà e di arte offerto dall'Italia nel quadro della tradizione tardo-antica, dei contatti e dei commerci con l'Impero bizantino e coi paesi del Mediterraneo orientale, nonché dell'introduzione dell'arte germanica, rappresentata soprattutto dagli oggetti di oreficeria dei Goti e dei Longobardi.

(B. M. Felletti Maj)

III. - GALLERIE E RACCOLTE VARIE. - 1. Galleria Borghese. - Il primo nucleo della Galleria Borghese si formò al principio del 1600 intorno alla collezione di pitture e di sculture del principe Camillo Borghese (divenuto papa Paolo V nel 1605), e del nipote cardinale Scipione Borghese. Nel 1613-16, appositamente per la raccolta, fu costruita la palazzina Borghese presso Porta Pinciana, opera dell'olandese Van Santen (Vasanzio), che ancor oggi ospita le collezioni. Il palazzo e il parco si svilupparono insieme alle raccolte i cui pezzi furono spesso cercati appositamente e disposti in armonia con la costruzione. L'eccezionale raccolta è quindi anche documento di una esperienza culturale e artistica fra le più notevoli.

Così come è ora, la palazzina risale però alla seconda metà del 1700, epoca in cui fu rinnovata da Marcantonio Borghese (che si giovò dell'opera dell'Asprucci), conservando in essa solo le opere di scultura (antica e moderna), mentre la galleria veniva ospitata nel palazzo Borghese. Le opere di scultura antica esistenti nella raccolta fino a questo momento vennero descritte da E. Q. Visconti (Sculture del Palazzo della Villa Borghese a Porta Pinciana, Roma 1796) e da A. Nibby (Monumenti scelti della Villa Borghese, Roma 1832), pubblicate quando, di fatto, la raccolta non esisteva più. Tra il 1801 e il 1809, infatti, la collezione fu dispersa e soprattutto privata della maggior parte delle sculture antiche (523 pezzi), vendute a Napoleone da Camillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte, e passate al Louvre. Nella vendita furono compresi non solo i pezzi della collezione, ma anche alcuni elementi della decorazione della facciata.

Dopo la caduta di Napoleone, riusciti vani i tentativi di riavere le opere ormai definitivamente al Louvre, Francesco Borghese incaricò l'architetto-archeologo L. Canina di ricostituire un nuovo museo con i pezzi rimasti nella villa o esistenti in altri possedimenti Borghese e con il frutto dei nuovi scavi di Montecalvo presso Rieti. Si riformò così una raccolta di antichità (che è quella esistente tuttora), indubbiamente meno insigne della precedente, che fu risistemata nella palazzina costruita per il primo museo. Dal 1891 la collezione di pitture fu riunita in questa stessa sede e dal 1902 tutto il complesso passò allo Stato italiano.

Il museo delle sculture occupa 11 stanze del pianterreno e comprende solo in parte opere d'arte classica, spesso anche restaurate e completate arbitrariamente.

Tra i pezzi più notevoli sono da segnalare, fra le sculture, due teste colossali femminili, Giunone e Iside (xxxv, xxxvii); una replica acefala della Parthènos fidiaca (viii) repliche della Venere Genitrice (lviii), della Venere Capitolina (c), del Meleagros di Skopas (xl), della testa della cosiddetta Aspasia (lxxxv); due repliche con varianti del Fanciullo che scherza con l'oca da originale di Boethos (lvi-cx); una testa femminile arcaica su corpo antico ma non pertinente (clxxx); una peplophòros di stile severo (ccxvi); una replica dell'Ermafrodito dormiente, molto restaurata (clxxvil), che sostituì quello ora al Louvre nella sala omonima; un ritratto del cosiddetto Menandro, su statua di togato (xlvi); una replica dello Pseudo-Seneca, varî ritratti di imperatori romani, un Fauno danzante da Montecalvo, restaurato erroneamente dal Thorwaldsen (ccxxv). Tra i rilievi vanno segnalati i tre frammenti di bassorilievo storico, murati nel vestibolo (xxv), facenti parte del grande fregio traianeo; un rilievo con Aiace che rapisce Cassandra (lxiv), della fine del V sec. a. C., proveniente dall'Italia meridionale; un rilievo sepolcrale romano di grandi dimensioni, con tre figure di togati e teste non pertinenti (ciic); una famosa base circolare con scene di sacrificio, importante per la identificazione di alcuni tipi statuari di divinità, databile, per i ludi di Cesare, a dopo il 46 a. C. (sotto la statua lxviii). Dei sarcofagi, notevoli i due lati di un sarcofago con Apollo e le Muse, del tipo asiatico, separati e inseriti simmetricamente nella parete (lxxv); i due lati, anch'essi usati come elementi decorativi simmetrici, di un sarcofago con le fatiche di Ercole, dell'età di Commodo (lxxxix); un sarcofago con thìasos marino e figure di stagioni sul coperchio; un frammento di sarcofago ovale con tre filosofi. Inoltre cinque frammenti di un grande mosaico della fine del III sec. sono inseriti nel pavimento dell'ingresso; rinvenuti dal Canina, a Torrenova, presso Tuscolo, rappresentano scene di venatio; nel pavimento della cosiddetta Sala Egizia sono inseriti emblemata di mosaici a colori, tra i quali interessante quello cosiddetto dei Salii, raffigurante una cerimonia religiosa davanti al simulacro di Marte.

Bibl.: D. Montelatici, Villa Borghese fuori Porta Pinciana, con gli ornamenti che si osservano nel di lei palazzo e con le figure delle statue più singolari, Roma 1700; F. Boyer, L'achats des antiques Borghèse par Napoléon, in Comptes rendus de l'Acad. des Inscr. et Bel. Lettres, 1937, p. 405 ss.; G. Q. Giglioli, Il Museo Borghese, in Capitolium, 1940, p. 753 ss.

Per alcuni pezzi singoli: J. Shapley, Another Sidamara Sarcophagus, in Art Bulletin, 1923, p. 61 ss. (per il sarcofago con Apollo e le Muse); C. Weichert, Römische Relief aus d. Zeit Caesars, in Festschrift P. Arndt, 1927 (per il rilievo Borghese); F. Cumont, L'adoration des Mages et l'art triomphal de Rome, in Memorie Pont. Accad. Archeol., vol. III, 1932-33, p. 81 ss. (su di un rilievo di villa Borghese); M. Pallottino, Il grande fregio di Traiano, Roma 1938, p. 17 ss. (sui frammenti di rilievo storico); M. Borda, Ritratto di Galba nel regio Museo Borghese, in Riv. Ist. Naz. Archeol. e St. d'Arte, 1942, p. 87 ss.; G. Masetzke, Rilievo funerario romano della Galleria Borghese, in Atti e Memorie Acc. Fiorentina La Colombaria, N. S., vol. I, 1943-46, p. 381; L. Rocchetti, Il mosaico con scene di arena al Museo Borghese, in Riv. Ist. Naz. Archeol. e St. d'Arte, XIX, 1961, p. 79 ss.

(Red.)

2. Galleria Nazionale d'Arte antica (Galleria Corsini). - La galleria d'arte antica è costituita dalla raccolta donata allo Stato nel 1883 dal principe Tommaso Corsini (ancora si denomina Galleria Corsini). La collezione traeva la sua origine da un importante gruppo di opere d'arte, in minima parte di epoca classica, raccolte dal cardinale Neri Corsini, nipote di Clemente XII, nell'omonimo palazzo di via della Lungara, oggi sede dell'Accademia dei Lincei. La collezione, già ingrandita dagli eredi fu, dopo la sua cessione allo Stato italiano nel 1883, arricchita con quadrerie di altre collezioni (Torlonia, Monte di Pietà, E. Hertz). Dal 1949 la collezione è divisa tra Palazzo Barberini (opere dal XII al XVI sec.) e palazzo Corsini, ma il materiale antico è rimasto nel palazzo della Lungara.

I pezzi più notevoli della collezione, per quel che riguarda l'arte classica, sono: la cosiddetta sedia Corsini, un trono marmoreo di stile arcaizzante che imita, nella forma, le sedie etrusche del VII sec. e, nella decorazione a due ordini di leggeri bassorilievi, di tipo orientalizzante, i varî monumenti del medesimo periodo; fu trovata nella costruzione della settecentesca cappella Corsini in S. Giovanni in Laterano; è databile tra la metà del IV e la metà del III sec. a. C., la tazza Corsini, uno sköphos in argento con raffigurazioni del giudizio di Oreste (v.), trovato nel 1759 presso Porto d'Anzio. Oltre ai due pezzi citati, si trovano, ad ornamento dell'atrio del palazzo quattro sarcofagi di cui tre (uno con tritoni e nereidi, uno con eroti che sostengono il ritratto del defunto e uno con le fatiche di Ercole) della fine del II e del III sec. d. C.; un quarto, di età post-gallienica, ha nel centro, entro una mandorla formata dalle strigilature, la figura del Buon Pastore; all'estremità destra e sinistra due gruppi, uno maschile e uno femminile, entrambi con una figura seduta attorniata da tre figure in piedi. Tra le erme, notevoli le copie della testa dell'Eracle di Skopas e dei ritratti di Tucidide e di Epicuro.

Bibl.: A. Bertini Calosso, L'ordinamento della Galleria nazionale romana nel Palazzo Barberini, Roma 1952; un elenco del materiale acquistato nel 1833 dallo Stato è in Atti Acc. Lincei, serie II, vol. III, 1882-83; in particolare per la tazza: A. Michaelis, Das Corsinische Silbergefaess, Lipsia 1859; J. Hafner, Iudicium Orestis, in 113. Winckelmannsprogramm, Berlino 1958, per la sedia: P. Ducati, La sedia Corsini, in Mon. Ant. Lincei, XXIV, 1917, c. 401 ss.

(Red.)

3. Villa Albani. - La collezione di Villa Albani è la più imponente raccolta privata di sculture antiche che si conosca per il numero e l'importanza delle opere che contiene. Da un secolo essa appartiene alla stessa famiglia, come il Museo Torlonia alla Lungara (e all'una e all'altro purtroppo, l'accesso, al pubblico ed agli studiosi è reso quasi impossibile da una concezione autoritaria, che pure già un uomo rusticitati proximus come Vipsanio Agrippa aveva ai suoi tempi superato, come ci dice Plinio, Nat. hist., xxxv, 26).

(Red.)

Le origini della raccolta risalgono al sec. XVIII e sono collegate con il nome del cardinale Alessandro Albani (1692-1779), nipote del papa Clemente XI, il quale fu preso sin dalla sua giovane età dalla passione del collezionista, dello scavatore e dell'antiquario.

La collezione del giovane Cardinale che già nel 1717 doveva essere alquanto notevole, si andava ampliando sempre più dagli abili acquisti e dagli scavi cospicui compiuti con l'assistenza di Francesco Bianchini, a Tivoli, Nettuno, Albano, Tuscolo, Palestrina, ecc. Anche la sua collezione di monete, ceduta in seguito al papa Benedetto XIV per la Biblioteca Vaticana, era considerata più importante di quella medicea, contando più di 370 esemplari, tutti in oro e argento, pubblicati da Rudolfino Venuti nel 1739. Nel 1728 però, il Cardinale giunto quasi alla rovina finanziaria fu costretto a cedere al Duca di Sassonia alcune sculture di maggior pregio (il cosiddetto Zeus di Dresda, la Niobe morente, la cosiddetta Venere di Dresda, replica di quella medicea, e altri pezzi), che l'acquistò, insieme alla quasi intera Collezione Chigi, per la creazione a Dresda di una galleria di opere antiche. Ma la vendita di pochi pezzi non fu sufficiente per coprire i debiti ingenti del Cardinale e nel 1733 egli entrò in trattative col papa Clemente XII, il quale si impossessò dell'intera raccolta per donarla al Comune di R.; i quattrocento pezzi acquistati dettero così inizio alla formazione del Museo Capitolino.

Appena conclusa la vendita però, il Cardinale, con slancio ancora maggiore, ricominciò a formare la seconda collezione, che ben presto superò la prima. L'apice della sua attività di collezionista fu raggiunto dopo il 1755 per il vigoroso impulso datogli dal Winckelmann (v.), giunto a R. dietro suo invito personale, il quale fu il suo più grande consigliere e il più autorevole giudice dei pezzi acquistati.

Anche la seconda raccolta fu formata con gli scavi eseguiti in varie località del Lazio e con gli acquisti fatti presso i collezionisti come Barberini, Cesi, Aldobrandini e Giustiniani (da quest'ultimo provengono la maggior parte dei busti degli imperatori romani, alcuni però di dubbia autenticità e talvolta di arbitraria identificazione). Ben presto il palazzo del Cardinale alle Quattro Fontane divenne troppo angusto per la raccolta ormai cospicua e che aumentava quasi quotidianamente. Nel 1746 fu iniziato il progetto della grandiosa villa sulla via Salaria, poi realizzata ed inaugurata solo il 16 ottobre 1762.

Costruita sul disegno dell'architetto Carlo Marchionni, ma eseguita sotto la diretta e attiva sorveglianza del Cardinale che ne curò e modificò la pianta generale con l'intento di rievocare il ricordo delle ville patrizie dell'antica Roma. Un giardino che circonda la villa si estende su sette ettari, di cui il progetto attribuito ad A. Nolli è disseminato di fontane, boschetti, di singoli padiglioni e tempietti, dove le colonne in varî marmi (in numero complessivo di 171) gli elementi architettonici, le sculture, ecc. tutti sono di marmi antichi.

Anche questa seconda collezione, creata e curata con tanta passione subì un violento colpo, quando dopo il 1798 ben 294 oggetti tra quadri, sculture, monete e libri furono deportati in Francia per completare il nuovo Museo Napoleonico di Parigi. Dopo il 1815, per intercessione del Canova le opere d'arte asportate ripresero il viaggio di ritorno per essere restituite ai legittimi proprietari. Ma il possessore della villa, che era allora il cardinale Francesco Albani, non si sentì di affrontare le ingenti spese di trasporto. Quasi tutte le opere asportate, salvo poche eccezioni, furono cedute al principe Ludovico di Baviera, che acquistava allora gli oggetti antichi per formare la sua Gliptoteca a Monaco. Quando nel 1839 si estinse la famiglia Albani col suo ultimo discendente maschile, don Filippo, la villa passò al conte Carlo di Castelbarco di Milano come dote della moglie Maria Antonietta Albani Litta. Fu in suo possesso per breve tempo e nel 1866 la villa insieme a tutti i suoi tesori fu acquistata dal principe Alessandro Torlonia, il quale compì i restauri ed alcuni spostamenti resi necessari per lo stato di abbandono nel quale si trovava la villa. Con l'aiuto di P. E. Visconti fu compilato il nuovo catalogo nel 1869, il quale non è altro che un aggiornamento dei due precedenti del Fea e del Morcelli, ma che ancora oggi serve quale unica guida per l'ingente raccolta.

La collocazione delle sculture a cui fanno da cornice i ricchi marmi colorati, le pitture e gli stucchi settecenteschi (il dipinto più notevole è quello della Galleria Il Parnaso, opera del pittore Raffaello Mengs, che ci riporta in pieno neoclassicismo), salvo alcune varianti, è ancora quella voluta dal Winckelmann e nella scelta delle opere si sente indubbiamente il gusto classicistico ed ecclettico del grande tedesco e del suo tempo. Vi è infatti una larga scelta, in copie di età romana, delle più note opere della antichità ellenica, mentre sono scarsi gli esemplari della scultura e della pittura romana.

Tra i pochi originali greci si può citare un rilievo frammentario in cui si pensa di riconoscere una delle metope del tempio di Nemesi a Ramnunte del V sec. a. C., attribuito ad Agorakritos, e il rilievo funerario di un guerriero (n. 985), ritrovato nel 1764 presso l'arco di Gallieno sull'Esquilino, considerato uno dei più notevoli rilievi sepolcrali di arte postfidiaca.

Prevalgono nella collezione le copie delle statue e dei rilievi di stile classico, come il cosiddetto Gapaneo (n. 20) la Kore o Saffo (n. 749) le Menadi (nn. 898, 899) il rilievo di Orfeo ed Euridice ecc. Tra le copie dell'arte del IV sec. si distingue la statuetta in bronzo dell'Apollo Sauròktonos di Prassitele (n. 952) preziosa soprattutto per il materiale analogo a quello originario. Numerose sono le opere d'arte neoattica, tra esse le due Cariatidi trovate nel 1761 sulla via Appia e provenienti come sembra, con altre tre, da un tempio eretto a Demetra da Erode Attico. Una di esse (n. 19) reca la firma degli artisti del II sec. d. C., Kriton e Nikolaos, conosciuti anche altrove. È da segnalare anche la statua di un giovane atleta (n. 906) con la firma di Stephanos, l'unica opera firmata tra quelle attribuite a questo discepolo di Pasiteles.

Tra le immagini di fliosofi greci, presenti in numero piuttosto limitato, si distinguono: l'erma nota sotto il nome di Arato e solo recentemente riconosciuta come quella di Crisippo (n. 610) e i ritratti di Isocrate (n. 951) e di Teofrasto (n. 1034) identificabili per l'iscrizione antica incisa sulla base.

Un nucleo notevole della raccolta (circa una ventina di esemplari) è formato dalle opere dell'arte arcaistica, (v. arcaistico, stile) che, non essendo ancora nel Settecento definita stilisticamente e inquadrata cronologicamente, attraeva forse per la singolarità degli effetti plastici ed ornamentali.

La parentela con il Duca di Modena, allora proprietario della Villa Adriana (v. adriana, villa) giovò notevolmente al Cardinale per venire in possesso di numerosi pezzi provenienti da questa vera miniera di scultura antica. Dal Canopo della villa proviene il celebre rilievo di Antinoo (994) acquistato nel 1735, scultura tanto ammirata dal Winckelmann, che la considerava come "la più bella perla" del museo. Dalla stessa località provengono anche numerose sculture in marmi colorati di stile egizio-romano, tra le quali un busto colossale di Serapide in basalto verde (n. 676) è l'opera più notevole. Tra i pochi esemplarî di pittura e mosaico della collezione, si distingue un quadretto musivo (663) proveniente da Sarsina col convito dei Sette Sapienti (v.) della Grecia, scena che, con quella simile del museo di Napoli, ha dato luogo a numerose discussioni nel tentativo di identificarne i singoli personaggi.

Monumenti considerati. - Rilievo di Ramnunte: E. Langlotz, in Scritti in onore di B. Nogara, Città del Vaticano 1937, pp. 225 ss. Ritratti. greci: K. Schefold, Die Bildnisse der antiken Dichter, Redner und Denker, Basilea 1943, pp. 98, 108, 146, 16o. Sculture di stile severo: G. Becatti, Problemi fidiaci, Firenze 1951, pp. 114, 135, 214; G. Caputo, Lo scultore del grande bassorilievo con la danza delle Menadi in Tolemaide di Cirenaica, Roma 1948, p. 15 s. Cariatidi e cistofore (Kriton): G. Becatti, Scavi di Ostia, vol. ii (Mitrei), Roma 1954, p. 33 s. Per le sculture neoattiche e arcaizzanti H. Fuchs, Die Vorbilder der neuattischen Reliefs, Berlino 1959, p. 207 (indice) con la bibliografia precedente.

Bibl.: La Villa: L. Callari, Le Ville di Roma, Roma 1934, p. 307 ss.; G. Brigante-Colonna, in Capitolium, VIII, 1932, p. 283 ss.; E. Amadei, Villa Albani, in Strenna dei Romanisti, 1958, p. 155 ss. La collezione: G. Raffei, Osservazioni sopra alcuni monumenti esistenti nella villa dell'Em. Sig. Cardinale Albani, Roma 1779; G. Marini, Iscrizioni antiche delle ville e dei palazzi Albani raccolte e pubblicate, Roma 1785; Morcelli-Fea-Visconti, Description de la Villa Albani, Roma 1869; W. Helbig, Führer3, Lipsia 1913, vol. II, nn. 1822-1934; C. Justi, Winckelmann und seine Zietgenossen2, Lipsia 1943, pp. 75, 100, 196 s.; J. J. Winckelmann, Storia dell'arte presso gli Antichi (ed. ital. aggiornata), Torino 1961. Si vedano inoltre le raccolte dell'Einzelaufnahmen e del Brunn-Bruckmann.

(R. Calza)

4. Museo Torlonia. - Situato in un vetusto edificio sulla Lungara (via Corsini) presso la Porta Settimiana, insieme con la Villa Albani (v.) costituisce la più grande raccolta di antichità ancora conservata in mani private. Il museo fu fondato nell'anno 1859 dal principe Alessandro Torlonia, affidando la sistemazione delle sculture a P. E. Visconti, che ne curò anche il catalogo. Se pure l'identificazione e l'autenticità stessa di alcune opere oggi possono essere discusse, il catalogo è prezioso giacché ne è l'unica testimonianza completa e fornisce i luoghi di provenienza dei singoli oggetti. Su divieto personale del principe, però, al Visconti non fu concesso indicare i restauri, spesso arbitrarî e sbagliati, in parte indicati in seguito dal Beundorf. La sistemazione delle sculture rimane ancora tale e quale le ha disposte il Visconti e il museo, in deplorevole stato di conservazione, è quasi inaccessibile al pubblico e agli studiosi.

La raccolta che attualmente contiene più di 620 pezzi antichi, si è formata in parte per acquisti e in parte (159 pezzi) proviene dagli scavi fatti dal principe Giovanni e dal figlio Alessandro nelle numerose tenute del Lazio di proprietà della famiglia. Il primo nucleo della collezione indipendente da quella esistente già a Villa Albani, era stato composto dal principe Giovanni Torlonia, quando nel 1810 egli acquistò in blocco (116 oggetti) ciò che era rimasto della famosa Collezione Giustiniani, famiglia di origine veneziana che, grazie ai rapporti e alle proprietà che aveva nelle isole greche, ebbe la possibilità di acquistare numerosi originali di arte greca. Tra i pezzi più notevoli sono da segnalare la cosiddetta Hestia Giustiniani (n. 490) piuttosto Demetra o Hera copia da un originale in bronzo di scuola peloponnesiaca, intorno al 460 a. C. del quale la stessa collezione possiede anche una copia in dimensioni ridotte (488); una testa muliebre, erroneamente segnata dal Visconti come quella di Cibele (81) e che secondo il Benndoff sarebbe copia della Antiochia di Eutychides; una testa ritenuta solitamente di Eutidemo re della Battriana (v. vol. iii, fig. 667), uno dei capolavori della ritrattistica ellenistica, intorno al 200 a. C. (recentemente trasportato nella Villa Albani) e numerosi ritratti imperiali romani. All'acquisto della Collezione Giustiniani, se ne aggiunsero altri, dai Caetani-Ruspoli, Cesarini, Cavaceppi, Vitali e Albacini; i tre ultimi scultori, restauratori ed antiquari, ai quali si devono alcuni restauri arbitrari ed errati e forse anche qualche falso.

Nel 1825 la raccolta Torlonia fu arricchita dagli scavi fatti dal principe Giovanni, sotto la direzione di A. Nibby, nel circo di Massenzio sulla via Appia Antica. A questi scavi si deve una delle più notevoli sculture del museo, la statua muliebre seduta, forse tombale, con cane sotto il sedile, la cosiddetta Olimpia (77) derivazione neoattica da un originale del V sec. a. C. (testa moderna eseguita dal Leibnitz, allievo del Thorwaldsen). Dallo stesso scavo provengono alcune teste e ritratti tardo-antichi (nn. 613, 614). Dopo la morte del padre (1828) il principe Alessandro continuò ad arricchire la collezione con gli scavi fatti sulla via Labicana a Torpignattara, già Mausoleo di Elena madre di Costantino, da dove tra gli altri oggetti sono entrati nella raccolta il ritratto di Costanza, sorellastra di Costantino (617) e la cosiddetta Elena Fausta (614) che probabilmente rappresenta Eutropia, moglie di Massimiano Erculeo. Non poche sculture sono state ritrovate sulla via Appia Antica nei pressi del mausoleo di Cecilia Metella, nella Villa dei Quintili e alla Caffarella. Da quest'ultima località proviene la statua di Diadumeno (332), una delle copie meglio conservate dell'originale policleteo (ma la testa è restaurata con movimento sbagliato). Fanno parte del museo anche alcuni colossali sarcofagi, provenienti dalla Villa dei Quintili, tra i quali quello molto noto di Tullio Pullio Peregrino (424) con figure del defunto seduto tra le Muse e i filosofi, simbolica interpretazione dei Sette Savi, la cui datazione è ancora in discussione e al quale fa pendant un altro sarcofago trovato sulla via Ardeatina (395) considerato più antico, e tipologicamente affine al sarcofago di Acilia del Museo Nazionale Romano. La decisione di creare un nuovo museo, fu presa dal principe Alessandro dopo i grandi scavi eseguiti a Fiumicino, nella tenuta situata sul luogo dell'antico Porto (v. portus) negli anni 1856-60 sotto la direzione di P. E. Visconti. I 46 oggetti, tra statue, sarcofagi, ritratti e rilievi usciti da queste ricerche, non sono sempre di valore artistico rilevante, ma sono notevoli per la monumentalità di alcune statue, e spesso per perfetto stato di conservazione. Un'opera neoattica, forse ispirata a qualche pittura del IV sec. a. C., è il fusto triangolare di un grande candelabro (150) che si distingue per l'eleganza e la finezza della esecuzione. Molto noto è anche un rilievo, forse votivo (430), di età severiana con complessa figurazione del faro ostiense e delle statue che ornavano l'antico porto. Le iscrizioni ed alcuni oggetti cristiani ritrovati nello stesso scavo sono al Museo Lateranense.

Nel nuovo museo sono entrate anche alcune sculture già conservate alla Villa Albani, tra le quali il rilievo con figurazione di Teseo, Piritoo ed Eracle (377) noto in altre repliche, ma mal restaurato ed interpretato erroneamente dal Visconti come Eracle con i pomi delle Esperidi. Invece gli affreschi della Tomba François di Vulci un tempo in questo museo sono oggi nella Villa Albani.

Monumenti considerati. - Hestia: D. Mustilli, Museo Mussolini, Roma 1939, p. 121, 9, tav. 77. Olimpia: R. Calza, in Mem. Pontif. Accad., S. iii, vol. viii, 1955, p. 108 s., fig. 2. Ritratti di Torpignattara: B. M. Felletti Maj, in La Critica d'Arte, 1940, p. 83, n. 27. Ritratto di Porto: R. Calza, Scavi di Ostia, v, Roma 1964, indice. Sarcofagi con i filosofi: R. Bianchi Bandinelli, in Boll. d'Arte, xxxix, 1954, p. 200 s., fig. 2-3; N. Himmelmann-Wildschütz, in Festschrift Matz, 1962, p. 122. Candelabro di Porto: W. Fucks, Die Vorbilder der neuattischen Relief, Berlino 1959, p. 34, tav. 7. Rilievo con il porto di Ostia: M. Fasciato, in Mél. d'Arch. et d'Hist., lix, 1947, pp. 65-81. Rilievo di Teseo ed Eracle: M. Götze, in Röm. Mitt., liii, 1938, p. 207 5., tav. 35, 1.

Bibl.: P. E. Visconti, Catalogo del Museo Torlonia di Sculture Antiche, Roma 1883 (nuova ed. a cura di C. L. Visconti, Roma 1884); O. Benndorf, in Röm. Mitt., I, 1886, p. 112.

(R. Calza)