Śabda

Dizionario di filosofia (2009)

sabda


śabda

Termine sanscr. che indica il linguaggio sotto il profilo linguistico ed epistemologico, ossia in quanto mezzo di valida conoscenza (pramāṇa). Le scuole filosofiche indiane si dividono fra chi interpreta ś. (in quanto pramāṇa) come la testimonianza di un autore degno di fede (āptavacana) e chi lo interpreta come comunicazione linguistica prescindente da un autore (śāstra). In questo secondo caso, ś. di fatto coincide con il Veda, cui alcune scuole teiste (per es., il Viśiṣṭādvaita Vedānta) aggiungono i propri testi sacri. All’origine di tale direzione interpretativa è la riflessione della Mīmāṃsā, che riconosce a ś. un valore intrinseco, legato al suo naturale potere di evocare un significato, potere che può essere interrotto solo provvisoriamente dai dubbi legati al suo autore, umano e quindi fallibile in quanto umano. Il valore di śāstra, inoltre, viene da queste scuole limitato alla sfera dell’ultrasensibile. Śāstra diviene quindi il corrispettivo della percezione sensibile (pratyakṣa) e i loro campi di applicazione (ultrasensibile e sensibile) sono complementari e privi di ogni possibile sovrapposizione (➔ Mīmāṃsā). Tale complementarietà è accentuata dalla Mīmāṃsā dal riconoscere all’ultrasensibile una dimensione diversa dal sensibile, poiché, mentre il sensibile è per definizione presente, l’ultrasensibile è detto essere intrinsecamente futuro (così per Kumārila) o esistente soltanto in quanto ‘dover essere’ (così per Prabhākara). Ś. come āptavacana è invece accettato come mezzo di valida conoscenza distinto, da Nyāya, Sāṅkhya, Giainismo e alcune scuole buddiste (per es., lo Yogācāra), mentre è ricondotto a un caso di inferenza (anumāna) da Vaiśeṣika e Pramāṇavāda. Queste ultime considerano l’āptavacana un’inferenza perché per accettare una testimonianza linguistica è necessario – sostengono – passare per il tramite dell’affidabilità del suo autore. Si sostiene cioè che per passare da «Y dice che x» a «x» si debba utilizzare come probans (liṅga, ➔ anumāna) l’affidabilità di Y, ottenendo uno schema di questo tipo: x è vero, perché lo ha detto Y, il quale è affidabile, come si è dimostrato nel caso della sua frase z. Replica il Nyāya, principale sostenitore di āptavacana come mezzo di valida conoscenza distinto, che l’affidabilità è sì un criterio indispensabile per un āptavacana valido, ma non è possibile formulare un’inferenza corretta riguardo una testimonianza linguistica giacché per poter passare da una frase pronunciata al dato di fatto che esprime ci si troverebbe ad avere a che fare con due probans: l’affidabilità del parlante e la relazione fra un vocabolo e il suo significato. Per tutti i sostenitori di ś. come āptavacana, a ogni modo, non esiste una differenza radicale fra comunicazioni linguistiche ordinarie e testi sacri, giacché anche questi fondano la propria validità sul loro autore (Dio, Mahāvīra Jina o il Buddha). Ne consegue anche una non distinzione radicale fra l’ambito dell’una e dell’altra. Non a caso il Nyāya fonda la validità del Veda mostrandone l’affidabilità in ambiti ordinari, per es., la cura di veleni (contro i quali alcuni mantra vedici si dimostrano efficaci). Peculiare è infine la posizione della Prabhākara Mīmāmsā, che sostiene la validità del Veda per quanto riguarda l’ultrasensibile, mentre nega la validità autonoma delle comunicazioni linguistiche riguardanti l’esperienza ordinaria (loka), che considera casi di inferenza.

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