SACRAMENTI

Enciclopedia Italiana (1936)

SACRAMENTI

Marcel SIMON
Enrico ROSA

. È difficile dare di questo termine una definizione adeguata. Esso ebbe nella latinità una lunga storia, e acquistò un significato religioso specifico nel linguaggio dei cristiani; sicché ora possiamo considerarlo come termine specificamente cristiano nel suo significato usuale e preciso. Nella storia delle religioni, può essere applicato a oggetti diversissimi ed essere usato in sensi assai svariati. Per arrivare a una certa precisione, conviene probabilmente prendere le mosse dalla nozione cristiana e procedere per analogia. In tal modo potremo dire che il sacramento è un'operazione rituale, mediante cui i fedeli divengono partecipi di una vita soprannaturale e divina. Mentre gli altri atti del culto, p. es., il sacrificio, sono compiuti in onore della divinità, il sacramento è celebrato essenzialmente a beneficio dell'uomo. La comunicazione ch'esso stabilisce tra l'adoratore e il suo dio si opera senza intervento di uno sforzo positivo della volontà individuale, con un'operazione in qualche modo meccanica, o addirittura magica, per la sola virtù dei riti; essa suppone per contro la presenza di un elemento sensibile e ha necessità della partecipazione del corpo, che serve per così dire di canale a questa effusione di vita soprannaturale.

La nozione di sacramento, quale l'abbiamo così definita, non è di tutte le religioni. Essa, in particolare, manca nelle religioni con carattere poco ritualista e senza un vero sacerdozio (islamismo, confucianismo) e in quelle che, pur essendo ritualistiche e anche formalistiche, hanno però un carattere soprattutto sociale e utilitario, senza il misticismo, la preoccupazione della vita futura e della salvezza individuale (paganesimo ufficiale greco-romano). Messi da parte questi due tipi, converrà distinguere, per chiarezza, due grandi gruppi di religioni: uno, vastissimo ed eterogeneo, in cui la parola sacramento non si può applicare che a forme talvolta secondarie della vita cultuale, comprende il complesso delle religioni di tipo primitivo e alcune delle grandi religioni civili; l'altro, in cui la nozione di sacramento appare, nel suo senso più preciso, al centro stesso del culto, costituisce il gruppo uniforme dei misteri (v.).

Le aspersioni o unzioni rituali costituenti, per la forma e l'effetto loro, una specie di battesimo, si ritrovano nella maggior parte delle religioni. Così presso i Polinesiani il bambino, considerato come tabu al momento della nascita, dev'essere purificato per mezzo dell'acqua. La stessa costumanza si trova nel parsismo e nella religione dei Germani, ove è messa in relazione con l'imposizione del nome al bambino. Nell'animismo dei primitivi l'acqua rappresenta, oltre che un elemento purificatore, un ricettacolo di forze che mediante il contatto possono essere trasmesse all'uomo: presso gli Scandinavi un'aspersione rituale conferiva l'incolumità sul campo di battaglia. In altre religioni un "battesimo" di purificazione è amministrato non nella prima infanzia, ma al tempo della pubertà e allora diventa un rito d'iniziazione: mediante un'aspersione d'acqua lustrale il giovine indiano è elevato alla dignità di brahmano.

Più spesso ancora che in un battesimo, varie religioni attingono forza magica o vita soprannaturale in un pasto sacro. Nelle società primitive il totem è, in circostanze eccezionali, come guerre o epidemie, consumato dagli uomini del gruppo, i quali si assimilano così, con la sua sostanza, le virtù che esso contiene: il pasto è in tal caso un mezzo di conservazione sociale. Una sopravvivenza dei banchetti totemici appare nella pratica, frequente presso i Germani, di mangiare ritualmente carne di cavallo. In uno stadio ulteriore dell'evoluzione l'animale così mangiato non è più il totem del gruppo, bensì l'attributo o l'incarnazione di un dio, o il dio stesso. Presso gl'Indiani del Perù si sacrificavano al dio Sole i lama che gli sono sacri e si mangiava parte della loro carne. In mancanza di animali, si utilizza una raffigurazione del dio; gli Aztechi del Messico fabbricano, in certe solennità, un'immagine di pasta del loro dio che poi viene messo a morte in effigie; e la pasta è distribuita ai fedeli che se ne cibano. Spesso, anche, si attendono effetti magici da una bevanda: il soma della religione vedica, succo d'una pianta sacra e bevanda degli dei, conferisce agli uomini salute fisica, santità e scienza: esso fa di chi lo beve un uomo nuovo. Anche l'haoma mazdaico, che ne è l'equivalente, è un farmaco d'immortalità.

Ma il campo per eccellenza d'una concezione sacramentale del culto è quello dei misteri: la stessa parola μυστήριον è resa in latino con sacramentum (Tertulliano, De cor., 15, l'applica alle cerimonie mitriache). Colpiti dalla somiglianza di questi riti con quelli del cristianesimo, i Padri della Chiesa l'hanno spiegata come un'anticipata imitazione dei secondi, compiuta dai demonî.

L'idea comune ai diversi culti misterici è che l'atto rituale, il sacramento, stabilisce tra il fedele e il suo dio una relazione stretta, che talvolta arriva sino all'identificazione completa, e che costituisce per l'iniziato un'arra d'immortalità beata. A volte questi sacramenti preludono all'iniziazione, o ne segnano i varî gradi, a volte ne costituiscono il coronamento supremo. Alla prima categoria appartengono, nella maggior parte di questi culti, le abluzioni rituali, che hanno il compito di cancellare le macchie morali. Nel culto di Mithra esse assumono, secondo il grado d'iniziazione, il carattere di semplici aspersioni o d'un'immersione completa: in questa seconda forma, le ritroviamo nei misteri eleusini e nel culto d'Iside (Apul., Metamorph., XI). Alla stessa categoria appartengono altri due sacramenti mitriaci. Uno, detto confirmatio, imprime sul neofita, senza dubbio mediante un ferro scaldato al color rosso, un sigillo divino; l'altro consiste in un'unzione fatta sulla lingua con miele, cibo dei beati; preserva dal peccato e rende simili agli dei.

Ma l'assimilazione finale al dio salvatore è opera dei sacramenti superiori. Questi consistono generalmente nella riproduzione simbolica, a vantaggio dell'iniziato, di un episodio della vita del dio, concepito come principio e prototipo della salvezza: è precisamente questa ripetizione (benché il mito non sia che una spiegazione a posteriori di un rito preesistente) che conferisce al sacramento la sua efficacia. Anche qui, i sacramenti sono di due tipi principali: "battesimo" e pasto di comunione.

Il primo è rappresentato dal rito del taurobolio (talvolta anche del criobolio), proprio del culto di Attis. Consiste nel sacrificio di un toro (e, rispettivamente, di un ariete), il cui sangue ancora caldo è fatto scolare sulla fossa in cui è l'iniziando. Destinato dapprima a trasmettere al fedele l'energia vitale della vittima, esso prese in seguito un significato morale e mistico: purificava l'anima e le conferiva l'immortalità.

La vittima infatti rappresentava, nel primo di questi culti, il dio Attis, poi richiamato in vita: lo spirito del dio, comunicato dal sangue al mista, faceva di costui un secondo Attis, destinato anch'egli a una rinascita gloriosa. Il mito di Mithra rappresentava parimenti il dio (sempre raffigurato in questo modo) come autore della sacra tauroctonia; ma il sacrificio è creatore, perché dal sangue della vittima nascono tutti gli esseri viventi: Mithra è dunque colui che vivifica. È però anche possibile che Mithra sia stato in origine non l'autore, ma la vittima del sacrificio, o che l'antico dio solare si sia fuso con una divinità agraria, simbolo della vegetazione che, secondo lo schema abituale, muore e rinasce. Nell'uno come nell'altro caso, rinnovare il sacrificio del toro è acquistarsi la vita.

Il medesimo valore è connesso ai pasti di comunione, che sovente sono spiegati da miti del medesimo genere. Nei misteri di Dioniso si dilania e si mangia una vittima che rappresenta lo stesso dio, dilaniato dai Titani per poi rinascere immortale. In quelli di Demetra a Eleusi l'ingestione del κυκεών, bevanda mistica composta di prodotti della terra, assicura l'immortalità. Nel culto di Cibele l'iniziazione è completata da un pasto sacro, che consiste di cibo e bevanda, dopo di che il fedele può dire: "Ho mangiato dal τύμπανον, ho bevuto dal κύμβαλον, sono divenuto mista di Attis". Ma, ancora una volta, il senso e l'effetto di tale comunione appaiono nella maniera più chiara nel culto di Mithra. La comunione comporta in esso del pane e una bevanda, la quale in origine non è altro che l'haoma iranico, sostituito poi da vino allungato con acqua. Questo pasto, al quale sono ammessi i soli iniziati dei gradi superiori, commemora quello celebrato da Mithra con Sol; ma esso è più che una semplice imitazione; le piante da cui si ricavano il pane e il vino sono nate dal toro sacro (e, nei bassorilievi della tauroctonia spesso dalla ferita nasce una spiga); i fedeli dunque assimilano, in questa forma indiretta di teofagia, ancora una volta la sostanza del toro sacro, e con essa il principio di rinascita e di vita.

Un sistema sacramentale abbastanza simile, con forti contaminazioni cristiane, si trova ancora più tardi nella maggior parte delle sette gnostiche; tra i Mandei, i quali, col loro battesimo che fanno risalire a S. Giovanni, celebrano una comunione con pane e acqua; e nel manicheismo, il quale aggiunge a questi due riti una specie d'iniziazione con l'imposizione delle mani, che rimette i peccati (il consolamentum delle eresie medievali derivate dal manicheismo).

Bibl.: Articoli Baptism e Sacrament, in Hastings, Encyclopedia of Religion and Ethics, II e X, Edimburgo 1909-18; J. G. Frazer, Totemism, Londra 1910; A. Lang, Myth, ritual and religion, ivi 1899; R. Pettazzoni, I misteri, Bologna 1924; F. Cumont, Les religions orientales dans le paganisme romain, 2ª ed., Parigi 1930; id., Les mystères de Mithra, ivi 1913; A. Loisy, Les mystères païens et le mystère chrétien, 2ª ed., ivi 1930.

I sacramenti nella teologia cattolica.

Nel linguaggio ecclesiastico, come proprio termine teologico, sacramenti sono i "riti sacri istituiti da Gesù Cristo nella nuova legge, quali mezzi precipui di santificazione e di salvezza" (Codex Iuris Canonici, can. 731); sono, cioè, atti simbolici che significano la grazia - vita soprannaturale dell'anima - e insieme la conferiscono secondo l'effetto che il rito simboleggia. Essi hanno dunque un simbolismo che ferisce i sensi e richiama l'anima a un più recondito effetto in essi significato, e più ancora hanno un'efficacia o virtù produttiva di questo effetto medesimo che significano. Due elementi di fatto concorrono quindi, nella realtà del sacramento: l'uno come significato dal simbolo, l'altro come prodotto dal simbolo stesso, il quale non è mera raffigurazione o allusione, come gli effetti di altri simboli, e neppure semplice significazione o predicazione di una verità, quale insegnamento o incitamento di fede, ma è invisibile effettuazione di ciò che visibilmente significa, cioè elevazione soprannaturale (grazia). I due elementi contenuti già nell'insegnamento della Scrittura, della tradizione e dei Padri, tradotti in linguaggio filosofico dai susseguenti Dottori, specialmente dai teologi scolastici, ci dànno la seguente definizione del sacramento: "segno efficace della grazia", causativo cioè di ciò che significa: in altri termini "invisibilis gratiae forma visibilis", o più spiegatamente "segno sensibile, sacro, istituito permanentemente da Cristo per significare e conferire la grazia a chi debitamente lo riceve".

In questa definizione il doppio concetto filosofico, di segno e di causalità, non è dunque astrazione filosofica, ma espressione della realtà sacramentale.

E una tale espressione è pure la formula seguente che ne spiega la costituzione e la natura, facendo constare il rito sensibile del sacramento, come di materia e di forma, di cose e di parole. Esso è la traduzione, in termini filosofici, della formula agostiniana che fa risultare il sacramento come rito sensibile dall'unione del verbo all'elemento, cioè della parola alla cosa o rito esterno: "accedit verbum ad elementum et fit sacramentum". L'atto cioè esterno della lavanda, per esempio, o dell'unzione, resta per se indeterminato o meno significante, finché non venga fissato dalla formula, ossia integrato dalla parola che accompagna e specifica l'atto. Quindi l'uno tiene luogo della materia (indeterminato e potenziale) e l'altro della forma, che quasi attua e determina la materia; onde, in questo senso, si usa dire con termini espressivi e precisi, dedotti dalla filosofia scolastica, che "il sacramento consta di materia e di forma"; cioè di un elemento indeterminato e imperfetto, come è la materia, e di un altro perfettivo e significante, che è la forma. Con tale linguaggio spiega già il concilio di Firenze, sotto Eugenio IV, agli Armeni la dottrina dei sacramenti "in brevissima formula", come esso dice (Decretum pro Armenis, 22 novembre 1439). Ma la sintesi più comprensiva e definitiva del dogma sacramentario è data dai canoni della sessione VII (3 marzo 1547) del concilio di Trento, diretti contro gli errori dei novatori, dei protestanti in specie, e perciò del più indubitato valore dogmatico. Eccone i punti espressi con le parole definitrici dei canoni:

1. I sacramenti della nuova legge sono tutti istituiti da Gesù Cristo, e non sono né più né meno di sette; cioè, battesimo, confermazione, Eucaristia, penitenza, estrema unzione, ordine e matrimonio; e ognuno di questi sette è sacramento in vero e proprio senso. 2. Essi differiscono dai sacramenti dell'antica legge, e non per la sola diversità di cerimonie o di riti esterni, ma per intrinseca differenza, giacché quelli dell'antica legge non causavano la grazia, ma la figuravano solamente come futura, mediante la passione di Cristo. 3. Non sono tuttavia questi sette sacramenti tanto fra loro eguali che per nessuna ragione l'uno non sia di maggiore dignità dell'altro. 4. Nessuno però è superfluo; anzi tutti, generalmente, necessarî alla salvezza, quantunque non tutti siano necessarî a ciascuno; né senza di essi, o senza il desiderio di essi, gli uomini possono acquistare per la sola fede la grazia della giustificazione da Dio. 5. Né sono essi istituiti per fomentare solo o nutrire la fede. 6. Ma essi medesimi contengono la grazia che significano, e la conferiscono a quelli che non vi oppongono ostacolo, non essendo essi meri segni esterni della grazia e giustizia ricevuta mediante la fede, e neppure semplici distintivi della professione cristiana per cui discernere i fedeli dagl'infedeli. 7. Per essi la grazia è data non già solo qualche volta e ad alcuni, ma, per quanto è da Dio, sempre e a tutti, purché questi debitamente li ricevano. 8. La grazia è conferita ex opere operato, ossia per la loro efficacia intrinseca, mentre non basta la sola fede della promessa divina a conseguire la grazia. 9. In tre di essi sacramenti, cioè nel battesimo, nella confermazione e nell'ordine, viene impresso nell'anima un carattere, cioè un segno spirituale e indelebile, per cui essi non si possono iterare. 10. Non tutti i cristiani hanno potere di amministrare tutti i sacramenti. 11. Nei ministri poi, mentre fanno e conferiscono il sacramento, è richiesta l'intenzione almeno di fare ciò che fa la Chiesa. 12. Se il ministro fosse in peccato mortale, farebbe o conferirebbe tuttavia il sacramento, purché adempisse tutte le cose essenziali che spettano alla sua celebrazione e conferimento. 13. I riti dalla Chiesa cattolica ricevuti e approvati, che si sogliono usare nell'amministrazione solenne dei sacramenti, non si possono senza peccato né disprezzare né omettere ad arbitrio dai ministri, né mutare in altri nuovi da qualsiasi pastore delle chiese.

Tale è la sintesi definitiva della dottrina cattolica dei sacramenti in genere. Ma poiché la sintesi suppone l'analisi, e quindi un lavorio di riflessione mentale circa i singoli elementi che la compongono e circa la ragione e il modo della loro stessa composizione, non si poteva trovare così esplicita nelle solenni manifestazioni dottrinali dei primi secoli, come pretesero fra gli altri i protestanti contemporanei al concilio di Trento.

Ciò vale anzitutto per la questione del numero settenario dei sacramenti. Se esso non si trova esplicitamente menzionato nei primi secoli, ci è tuttavia bene accertato, sia teologicamente per la tradizione infallibile del magistero della Chiesa, sia storicamente per le testimonianze positive che ci mostrano la prassi della Chiesa stessa, nella quale si estrinseca e si esplica la sua dottrina, secondo il principio antico che "legem credendi lex statuit supplicandi": oltre l'argomento negativo, che non si dà memoria o indizio qualsiasi del fatto e del tempo di un'avvenuta innovazione; laddove questa dovrebbe risultare, in cosa massimamente di tanta importanza in sé stessa e di tanta conseguente risonanza nella pratica universale della Chiesa e nei suoi effetti. E un tale argomento prende nuova forza dal principio della "prescrizione", principio che già Tertulliano applicava da quel buon giurista che era anche in punti di minore importanza dottrinale contro gli eretici; ma tanto più deve valere in questo più principale e più comprensivo, che la Chiesa doveva custodire nel suo "deposito", affidatole da Cristo secondo la parola di S. Paolo a Timoteo (I Tim., VI, 20): "Depositum custodi".

I riti sacramentali erano quindi in uso e praticamente riconosciuti perciò dalla Chiesa come cosa sacra; anche il matrimonio, ad esempio, e l'unzione o preghiera fatta sugl'infermi, raccomandata da S. Giacomo Apostolo (v. estrema unzione; quantunque solo più tardi e a poco a poco ne fossero considerati con più attenzione o scientificamente studiati e raccolti insieme gli elementi dottrinali, che vi erano impliciti e supposti dalla prassi medesima della Chiesa. Tali, anzitutto, quelli che riguardano la natura propria dei riti, il raffronto tra di loro e la riunione, infine, di tutti insieme sotto una loro comune nozione, con la determinazione più netta, o piuttosto il riconoscimento più esplicito, di ciò che già era contenuto nella prassi ecclesiastica: la sintesi, cioè, del loro numero settenario.

Altri punti della sintesi dottrinale definita dal Tridentino, restando del pari accertati quanto alla sostanza della dottrina, dànno pur luogo a discussioni fra-i teologi fino ai tempi nostri, quanto alle loro particolari ragioni o spiegazioni. Così, intorno al punto della cosiddetta "grazia sacramentale", tutti si accordano nell'ammettere che oltre alla grazia abituale o santificante, conferita o aumentata nel rito sacramentale, si dia per ciascun sacramento una grazia speciale, una grazia cioè, che reca uno speciale effetto proprio di ciascuno dei sacramenti stessi in ordine al fine ad essi proprio, come nell'ordine e nel matrimonio sarà la grazia di portare i pesi e compiere i doveri del nuovo stato di vita.

Ma dissentono i teologi stessi circa la natura di questa grazia: altri la pongono in un aiuto "attuale", o piuttosto in una cotale esigenza di avere questo aiuto speciale al momento opportuno, secondo lo scopo del sacramento stesso. Altri la dicono invece un aiuto "abituale", ossia un abito virtuoso, lo stesso che la grazia santificante; il che suppone un aiuto permanente, o disposizione perfettiva nell'anima, contro gli assalti delle passioni o tentazioni al male.

Similmente tutti ammettono la "causalità" dei sacramenti e la derivano dai meriti del loro istitutore Gesù Cristo; ma altri la vogliono fisica, quantunque nel genere di causa strumentale, riguardando il rito sacro quasi uno strumento per cui Dio, causa principale, conferisce la grazia: altri attribuiscono loro una causalità morale, in quanto sono posti in nome di Cristo e perciò come azioni di Cristo stesso, dai meriti di lui impreziosite e per la divina istituzione esigenti il conferimento della grazia. Altri teologi, infine, tra i moderni, dietro il più celebre di essi, il Billot, hanno escogitato una terza forma di causalità, quasi intermedia tra la causa fisica e la morale, che essi chiamano "causalità intenzionale", e la deducono dalla ragione di segno (signum efficax gratiae) essenziale al rito sacramentale: segno appellante la cosa significata, cioè la grazia, a modo quasi di un titolo giuridico, acquisito dall'anima per l'investitura del rito stesso del sacramento.

Non c'è, invece, dissenso alcuno circa l'efficacia infallibile della causa, cioè il conferimento della grazia, quando non trovi in chi la riceve, obice od ostacolo, come sarebbe ogni volontaria adesione alla colpa (mortale), necessariamente esclusiva della grazia, che è amicizia di Dio. In questo senso si dice che i sacramenti, com'è definito, conferiscono la grazia ex se ossia, secondo la formula teologica della scolastica consacrata anche dalla definizione Tridentina ex opere operato, per la stessa attuazione del rito nella debita forma e nelle dovute condizioni: e la conferiscono, posta l'assenza dell'obice, anche senza niun merito, come nel peccatore, e sempre sopra il merito, come nel giusto (citra et ultra meritum). Ma la formula non importa, come hanno affermato alcuni protestanti e altri ignari di ogni teologia più elementare, che si debba escludere ogni cooperazione di chi riceve il sacramento: suppone anzi negli adulti, oltre l'assenza dell'obice, l'intenzione o volontà positiva di ricevere degnamente il sacramento, e richiama altresì il concorso di tutte le migliori disposizioni del fedele (opus operantis). Anzi a questo opus operantis, cioè alla personale preparazione del soggetto, va sempre proporzionato l'aumento della grazia, prodotto dal sacramento, sia della grazia abituale in genere sia di quella sacramentale in specie: l'una e l'altra, cioè, è tanto maggiore quanto meglio si trova preparato il soggetto, e disposto, per la grazia attuale, ad accoglierla e corrisponderle con fedeltà.

Lo stesso consenso dei teologi si ha circa il punto del "carattere sacramentale", proprio dei tre sacramenti che non si possono iterare: battesimo, confermazione e ordine sacro. Il fatto, ossia la veritȧ dell'esistenza di tale carattere, si deduce dall'autorità stessa che ci fa conoscere come questi sacramenti non si debbono e non si possono conferire più di una volta: ma dall'analisi più distinta della proprietà del carattere medesimo, impresso dai tre sacramenti, è poi meglio chiarita la ragione per cui i sacramenti che lo imprimono non dànno più luogo a reiterazione. Questo punto fu rilevato specialmente contro i donatisti che volevano reiterare il battesimo dato dai dissidenti, e rivendicato da S. Ambrogio e S. Agostino in particolare, fra i latini, in ciò seguaci degli orientali Crisostomo, Cirillo di Gerusalemme, Basilio, Gregorio di Nazianzo, ecc. Essi riconoscono, cioè, e allegano contro gli eretici l'effetto proprio distinto dalla grazia abituale, prodotto dal sacramento, come un sigillo santo, indelebile, comparandolo ora al carattere del soldato, ora all'impronta della cera, ora al marchio impresso nel gregge per riconoscerlo e simili, a significare con l'efficacia della metafora l'indelebile consacrazione prodotta dal rito sacramentale che ne proibiva la reiterazione.

Più contrastato fu lo svolgimento dogmatico circa la questione complessa e per lungo tempo discussa: se fosse necessaria alla validità del sacramento la fede e la probità nel ministro che lo conferisce. Essa era risolta negativamente dalla più antica tradizione della Chiesa, ma fu rimessa in dubbio, nella controversia africana dei ribattezzanti, da quei rigoristi che dichiaravano nulli, e perciò volevano reiterare, il battesimo e gli ordini sacri conferiti da chi avesse ceduto alla persecuzione: errore seguito poi dai donatisti. È noto che finanche S. Cipriano si dichiarò nella questione favorevole ai rigoristi e contrario alla sentenza e alla prassi dello stesso pontefice romano, S. Stefano; il quale aveva interdetto qualsiasi innovazione o velleità di ribattezzare quelli che fossero stati battezzati da dissidenti o scismatici, prescrivendo di attenersi fedelmente alla tradizione: "nihil innovetur nisi quod traditum est" (anno 254-257). La dottrina e la pratica tradizionale del papa fu poi abbracciata e difesa dalla stessa chiesa africana, da S. Agostino in particolare, il quale la oppose a quella degli eretici donatisti e la motivò con la profonda e costante sua argomentazione: che l'uomo ministro del sacramento non opera in nome e virtù propria, ma del divino istitutore, Cristo, essendo l'uomo causa meramente istrumentale nel conferire il sacramento stesso mentre Cristo ne è la causa principale. La qualità, dunque, del ministro non conta per la validità del sacramento da lui conferito: il che appare altresì confermato dagl'inconvenienti gravissimi che sorgerebbero dalla contraria sentenza, come dalle ansietà e incertezze che si potrebbero sempre avere sul valore del sacramento, ignorandosi le disposizioni interne di chi lo amministra.

Tutti nondimeno riconoscono essere necessario nel ministro, perché operi in nome e in virtù di Cristo, l'intenzione di fare ciò che fa la chiesa nell'usare quel rito sacramentale. E questa intenzione non basta che sia esterna, o apparente, come in chi simulasse il rito senza proporsi di adempierlo con serietà; ma deve essere anche interna, secondo la più comune sentenza dei teologi: deve cioè includere la volontà positiva del ministro stesso - se non di fare cosa sacra o causativa della grazia, secondo la fede e il sentimento della Chiesa - di compiere almeno con quell'atto quella qualsiasi cosa che i cristiani fanno e la Chiesa pratica in tale rito, anche se il ministro non abbia la fede cattolica. Così avviene, per esempio, da parte di quei protestanti luterani che intendono conferire il battesimo secondo la loro chiesa: ma se questo è identico al battesimo cattolico, battezzano infatti secondo la Chiesa cattolica validamente. E ciò è tanto più da notare e tener presente per il sacramento primo e il più necessario, che è il battesimo, e può, in caso di necessità, essere amministrato da chicchesia, chierico o laico, uomo o donna, qualunque fede egli abbia, purché intenda e sappia adempiere il rito e pronunciare parole sacramentali, volendo fare quel medesimo che fa la Chiesa.

La Chiesa non si arroga la facoltà o il potere di mutare la sostanza del sacramento. Vi è bensì questione, tuttora discussa e storicamente discutibile, se essa sia intervenuta, e in qual modo e con quale potere, nella pratica determinazione della materia e della forma dei sacramenti. Anche su tale questione parlano variamente i teologi. Alcuni, cioè, ammettono avere Cristo istituito i sacramenti immediatamente bensì, ma in un senso più largo, cioè in modo generico o indeterminato, lasciando poi alla Chiesa (agli Apostoli) una più particolare e precisa determinazione del rito: parecchi anzi direbbero questa un' istituzione mediata, perché compiuta e perfezionatasi mediante gli Apostoli. Altri sostengono invece che Cristo li istituì immediatamente, nel senso più stretto, cioè di una specificazione o determinazione anche speciale o individua del rito medesimo di ciascun sacramento. La controversia, già discussa fra gli antichi scolastici, fu molto più largamente trattata dai teologi positivi, dopo il Tridentino; e questi, fra i moderni massimamente, propendono per la sentenza più larga e storicamente più fondata, cioè che l'istituzione di Cristo sia bensì immediata quanto alla sostanza del sacramento, ma non quanto alle ultime determinazioni del rito (forma e materia sacramentale): e ciò per quanto concerne alcuni sacramenti, quale, ad es., l'ordine sacro, che è conferito in Oriente con la semplice imposizione delle mani del vescovo, mentre nella chiesa occidentale si aggiunge all'imposizione delle mani la consegna o "tradizione degli strumenti" sacri, a meglio significare la podestà ministeriale del sacrifizio. Ma fuori di ogni controversia sta il punto che i teologi e gli storici della Chiesa concordemente accertano, che, posta una volta la determinazione legittima, essa resta immutabile e la Chiesa tenacemente la mantiene, checché sia della questione teorica circa il potere di modificarla. In essa non entrano però i riti cerimoniali o accessorî, i quali possono variare secondo la maggiore o minore solennità della celebrazione del sacramento. Ma anche questi riti, stante la loro veneranda istituzione e antichità, onde sono "ricevuti e approvati dalla Chiesa cattolica" come definisce il Tridentino, è interdetto ai ministri e ai pastori altresì delle chiese particolari, di mutarli o trasandarli ad arbitrio nell'amministrazione solenne dei sacramenti.

Nello scioglimento dottrinale sopraccennato è notevole certamente il progresso della maggiore intelligenza, determinazione o chiarimento del dogma, che è il progresso del fedele nella fede: ma non vi è da riconoscere alcuna trasformazione o mutazione del dogma stesso, né una propria "evoluzione", che sia corruzione o deformazione della primitiva dottrina della Chiesa, come pretesero i protestanti nel sec. XVI. Essi negarono tutti i sacramenti, eccettuato (e non sempre) il battesimo: di cui del resto fu alterata in alcune confessioni protestantiche la formula, tanto da renderlo invalido o dubbio almeno, e quindi reiterabile sotto condizione, com'è obbligo di reiterarlo in tal caso con i reduci all'antica fede. La negazione della dottrina trasse quindi seco il sovvertimento del culto, interno ed esterno, anzi la totale distruzione dell'antica prassi cristiana che ne derivava. Il concilio di Trento perciò, mentre si oppose alle negazioni dottrinali con le sue definizioni (nella citata sessione dogmatica), si oppose altresì alle innovazioni sovvertitrici della prassi o disciplina sacramentaria con molteplici decreti di riforma pratica (nelle sezioni De Reformatione), a meglio determinarla e sradicare o prevenire gli abusi.

Meno aperto, ma non meno radicale, del protestantesimo fu il modernismo, nonostante l'apparenza dell'opposizione ai protestanti quale mostrò, ad es., A. Loisy verso A. Harnack, opponendogli il suo "evoluzionismo" sacramentario. Perciò discreditò come antistoriche le definizioni del Tridentino circa l'origine dei sacramenti, e derivò questa da una semplice interpretazione, provocata dalle circostanze o condizioni dei tempi, di qualche idea o intenzione di Cristo, e ripose il loro effetto in un semplice richiamo o ricordo della presenza sempre benefica al Creatore. Tali sono le proposizioni condannate dal decreto Lamentabili, del 3 luglio 1907, concernente i sacramenti in genere (prop. 32-41), a cui altre seguono (42-51) riguardanti i sacramenti in specie. Le stesse dottrine modernistiche circa i sacramenti si trovano più ampiamente spiegate e confutate nella susseguente enciclica Pascendi, dell'8 settembre 1907, insieme con l'immanentismo e l'evoluzionismo che le vorrebbe giustificare, essendo opposte alla storia e al concetto genuino dello svolgimento o progresso dogmatico della Chiesa.

Bibl.: Oltre gli Acta dei concilî citati, fiorentino e tridentino, cfr., per le definizioni ecclesiastiche: H. Denzinger-C. Bannwart, Enchiridion Symbolorum definitionum et declar. de rebus fidei et morum, Friburgo in B. 1928; per le testimonianze dei Padri e scrittori ecclesiastici, M. J. Rouët de Journel, Enchiridion Patristicum, Friburgo in B. 1911; per le trattazioni dei dottori e teologi, dopo San Tommaso (Summ. Theol., parte 3ª, quest. 50-55), v. San R. Bellarmino, Controversiae, De Sacramentis; e tra i moderni il Franzelin, il Billot, e in genere i teologi nei trattati De Sacramentis in genere.

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