SALVAGO RAGGI, Giuseppe Maria

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 89 (2017)

SALVAGO RAGGI, Giuseppe Maria

Olindo De Napoli

– Nacque come Giuseppe Maria Salvago a Genova il 17 maggio 1866 da Paris Maria e da Violante Raggi. A ricordo della madre, morta nel 1867, nel gennaio del 1881 ottenne dal ministero di Grazia e giustizia di aggiungere il suo cognome.

Entrambi i rami della famiglia erano ascritti alla nobiltà col titolo di marchesi. Con l'unificazione italiana il ramo paterno si era sostanzialmente 'piemontesizzato', divenendo fedele al sovrano e allo Stato unitario. Paris Maria era un possidente di orientamento cattolico-liberale, fu deputato nella X legislatura e fondò a Genova, nel 1863, gli Annali Cattolici che sarebbero proseguiti come Rivista Universale, il cui sottotitolo era Cattolici col Papa - Liberali con lo Statuto. Nel 1875 fu tra i fondatori della Scuola di scienze sociali di Firenze (poi Istituto Cesare Alfieri). Il suo cattolicesimo liberale lo aveva portato a pronunciarsi apertamente contro il potere temporale della Chiesa. Questa cultura familiare (ma la nonna materna era una cattolica reazionaria adusa alle udienze col papa e in lutto dopo l'annessione di Roma) fu probabilmente l'impronta più forte nella formazione di Giuseppe. Significativo anche che un suo cugino fosse il cardinale Giacomo Della Chiesa, divenuto nel 1914 papa Benedetto XV.

Nella formazione di Salvago Raggi vi fu la suggestione per l'Africa e l'Oriente, alimentata dalla lettura di romanzi e di libri di viaggio. Il giovane si recò a Firenze a studiare presso quell'Istituto Cesare Alfieri che era votato alla formazione della classe dirigente e in particolare della diplomazia. Firenze fu l'occasione di frequentare l'alta società: ospite fisso del marchese Carlo Alfieri di Sostegno, nel suo salotto fu introdotto alla conoscenza di Ruggero Bonghi, Pasquale Villari, il marchese Emilio Visconti-Venosta.

Il 29 maggio 1887 conseguì la laurea e l'anno successivo fu il primo dei non ammessi al concorso per la carriera diplomatica, esito che contestò attribuendolo ai favoritismi dovuti alla gestione del ministero da parte di Francesco Crispi.

Il padre gli offrì, allora, un lungo viaggio in Oriente per allontanarlo da un ambiente dove lo si descriveva come «facinoroso», secondo le sue memorie scritte negli anni Trenta (Memorie dell'ambasciatore…, 1968, p. 242). Quel viaggio lo portò in Egitto, in Palestina e in Asia minore e gli fece incontrare una personalità come Heinrich Schliemann, che gli raccontò delle campagne archeologiche in Asia Minore. Lo sfortunato concorso fu dunque occasione di una grande esperienza di formazione che gli rievocò le letture dei libri di viaggio della giovinezza.

Salvago Raggi vinse infine il concorso, anche per la somma pagata a un non precisato intermediatore, e iniziò la carriera diplomatica il 19 gennaio 1889, quando fu nominato volontario per gli impieghi di prima categoria. Fu addetto all'ambasciata a Madrid, poi a San Pietroburgo e a Berlino. Il 29 ottobre 1891 sposò a Vado (oggi Vado Ligure) la marchesa Camilla Pallavicino. Alla fine di ottobre 1892 fu trasferito a Istanbul, dove era ambasciatore Luigi Collobiano: una delle sedi diplomatiche più rilevanti, per via della questione d'oriente.

Il primo incarico di rilievo fu però al Cairo. Nominato segretario di legazione di seconda classe, fu destinato alla capitale egiziana nell'aprile del 1895.

L'Egitto rappresentava un osservatorio privilegiato sulla politica coloniale delle potenze europee. Lì conobbe sir Evelyn Baring lord Cromer, il potente console generale in Egitto che influenzava la politica del Khedive; si trovò davanti agli scenari della guerra mahdista e del contrasto tra britannici e francesi per il finanziamento della missione britannica in Sudan. Nel luglio del 1895 divenne reggente dell'agenzia diplomatica al Cairo con annesso il consolato. L'agenzia italiana al Cairo era anche al centro delle operazioni che muovevano truppe verso la colonia Eritrea in preparazione di quella che sarebbe stata la disastrosa guerra italo-etiopica, per la quale Salvago Raggi si trovò nel ruolo delicato di gestire le forniture. Secondo quanto egli scrisse, sia la gestione degli affari dall'Eritrea sia la vita della colonia italiana al Cairo erano totalmente condizionate dalla massoneria, «che metteva il naso dappertutto» (Memorie dell'ambasciatore…, 1968, p. 310).

Il 27 aprile 1897 fu destinato come ministro residente a Pechino. Fin dai suoi rapporti del 1898, pur non essendo contrario a un'espansione in Oriente, sconsigliò «una politica d'avventura» in Cina, a causa dell'impreparazione italiana (Giuseppe Salvago Raggi…, 1977, p. 19). Di altro segno furono le decisioni prese da Roma, che premeva per l'ottenimento della baia di San Mun. La vicenda risultò un insuccesso per l'Italia. Secondo le sue memorie, il diplomatico in effetti sabotò l'indirizzo governativo, in quanto «contrariamente alle istruzioni ministeriali» non iniziò mai il negoziato su San Mun (Memorie dell'ambasciatore…, 1968, p. 350). Questo non fu, come si vedrà, l'unico sabotaggio di cui egli fu artefice.

Durante la rivolta dei boxer del 1900, la famiglia Salvago Raggi fu stretta nell'assedio alle ambasciate e fu data per morta dalla stampa italiana. Dopo la liberazione delle legazioni, il diplomatico fu nominato plenipotenziario per il trattato di pace con la Cina (13 dicembre 1900). In seguito alle trattative tra la Cina e gli altri paesi europei e su sua iniziativa, il ministero degli Esteri autorizzò l'occupazione da parte italiana di quella che sarebbe diventata la concessione di Tientsin.

Poco dopo Salvago Raggi fu assegnato come console generale al Cairo. Nel 1906 fu incaricato di reggere il consolato in Zanzibar e gli furono affidate le funzioni di commissario del Benadir. Al Cairo osservò il progressivo deteriorarsi delle relazioni tra lord Cromer e il Khedive e l'accrescersi del potere del primo, che a suo dire si comportava anche pubblicamente come «organizzatore dell'Egitto», così «dimenticando la sua posizione di Agente diplomatico» (Giuseppe Salvago Raggi…, 1977, p. 65).

Il 24 gennaio 1907 fu nominato governatore della colonia Eritrea, succedendo a Ferdinando Martini, il primo civile ad aver ricoperto quella carica. Si è scritto che Salvago Raggi reppresentava «un'Italia più ardita di quella dell'immediato dopo-Adua» (Labanca, 2002, p. 103), anche perché riarmò un capo tigrino ribelle al potere imperiale etiopico.

Dal punto di vista della politica religiosa, Salvago Raggi applicò un indirizzo filo-cattolico, arrivando a ordinare la chiusura delle scuole della missione evangelica svedese, ordine poi bloccato da Martini, divenuto nel marzo del 1914 ministro delle Colonie. In un memorandum del 1913 il governatore lamentava e illustrava le eccessive pretese dei musulmani e la loro tendenza a sfruttare la magnanimità del governo coloniale e illustrava la necessità di limitare le missioni non cattoliche.

Nel campo dei lavori pubblici, nel 1911 Salvago Raggi ottenne il completamento della ferrovia Massaua-Asmara e iniziò la costruzione dell'acquedotto di Massaua. Fu scettico sui piani di colonizzazione agricola da parte di emigrati italiani, e restituì agli eritrei una buona parte delle terre che erano state indemaniate. Promosse una riforma dello stato giuridico del personale (settembre 1909) per la quale si istituì un sistema basato sul concorso pubblico. Si occupò anche di fornire attraverso l'educazione scolastica la formazione di un personale amministrativo subalterno, fondando scuole professionali e per interpreti.

Quello che più fece discutere dell'azione coloniale di Salvago Raggi fu la politica in materia di amministrazione della giustizia: il nuovo governatore boicottò infatti l'entrata in vigore della codificazione coloniale che era stata elaborata sotto Martini. Egli trovò l'espediente di far emanare il decreto reale che promulgava i nuovi codici con l'aggiunta di una norma secondo la quale essi sarebbero entrati in vigore solo una volta tradotti in arabo e tigrino; a quel punto gli bastò non provvedere alle traduzioni. Promosse poi un nuovo ordinamento giudiziario (r.d. n. 325 del 2 luglio 1908) che sottrasse completamente la giustizia verso gli indigeni alla magistratura ordinaria, per affidarla ai funzionari amministrativi non togati.

Si trattava di un'estrema semplificazione, destinata a destare forti polemiche in colonia, ispirata all'idea che davanti ai sudditi coloniali la giustizia dovesse essere rapida ma anche espressione del potere di governo. Irritato dalla creazione a Roma di un ministero delle Colonie, che secondo lui rappresentava la tendenza della politica romana a lasciare poco spazio di manovra agli amministratori coloniali sul campo, pensò alle dimissioni da governatore fin dal 1912.

Nel 1915 morì la moglie Camilla e, quasi cinquantenne, Salvago Raggi decise di arruolarsi nella Grande guerra. Era stato neutralista ma, come scrisse nelle memorie, «se si era potuta desiderare la neutralità fino alla vigilia, non era più possibile esitare, dopo che Sua Maestà aveva dichiarato la guerra» (Memorie dell'ambasciatore…, 1968, p. 504). Si recò al fronte, nella valle del Cadore e poi sull'Isonzo. Nel marzo del 1916 fu promosso capitano, ma nel giugno Sidney Sonnino volle inviarlo nuovamente al Cairo perché seguisse la delicata questione della spartizione dell'Impero ottomano. Fu poi inviato come ambasciatore a Parigi, dove lavorò per gli accordi di San Giovanni di Moriana, che stabilivano l'equilibrio degli interessi in Medio Oriente con Francia e Regno Unito. Al termine della conferenza, in disaccordo con la politica di Sonnino, si dimise dalla carriera diplomatica.

Il primo gennaio 1918 fu nominato senatore e il 20 aprile sposò a Castelnuovo di Porto Giuseppina Menotti. Al termine della guerra svolse due incarichi diplomatici rilevanti, quello di delegato alla Conferenza di pace di Parigi e nel 1921 quello di delegato nella Commissione delle riparazioni.

Ebbe un atteggiamento scettico verso le istituzioni parlamentari e fu uno dei tanti liberali che fiancheggiarono il fascismo, per la sua personale avversione verso la politica dell'Italia giolittiana. Scrisse che la classe politica non aveva «nessuna preoccupazione degli interessi reali del servizio», ma «desiderio di meschini scandalucci», «vanità ed egoismo» (Memorie dell'ambasciatore…, 1968, p. 449).

Espresse anche riserve verso il fascismo per la sua ambiguità verso la monarchia, pur avendo all'inizio fama di simpatizzante, tanto che all'inizio dell'ottobre 1922 circolò la voce della sua nomina come ministro degli Esteri nel nuovo governo. Incontrò Benito Mussolini subito dopo il conferimento dell'incarico governativo e in un paio di sessioni serrate gli illustrò i vari aspetti della questione delle riparazioni. Al termine dei colloqui gli augurò di riuscire a fare molto e di non finire come «l'allievo stregone che sapeva far scaturire le acque ma non conosceva le parole magiche per calmarle» (Memorie dell'ambasciatore…, 1968, p. 588): da liberale conservatore sperava, dunque, che il Mussolini agitatore politico sapesse trasformarsi in un restauratore dell'ordine tradizionale.

Salvago Raggi svolse scarsa attività pubblica durante il regime fascista. Nel 1925 votò a favore della legge contro le società segrete, la quale era concepita per impedire l'azione della massoneria, cosa non sorprendente visto che era un acceso anti-massone; nel 1928 si espresse a favore della riforma della rappresentanza politica voluta da Alfredo Rocco, che aboliva il pluralismo politico; nel 1929 votò a favore del Concordato lateranense, da lui giudicato uno degli atti più positivi compiuti dal fascismo; nel dicembre del 1935 si espresse contro le sanzioni per la guerra contro l'Etiopia e partecipò, nella XXX legislatura, alle Commissioni Esteri e Africa Italiana.

Nell'ottobre del 1945 subì il processo di epurazione dal Senato. La relazione che il presidente del Senato Pietro Tomasi della Torretta nell'ottobre del 1945 inviò all'Alta corte per le sanzioni contro il fascismo sottolineava che Salvago Raggi non era mai stato iscritto al Partito nazionale fascista (PNF) nonostante numerose pressioni e che anzi aveva «col suo atteggiamento mantenuto una costante ed assoluta indipendenza dal fascismo» (Roma, Archivio centrale dello Stato, Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo 1944-1948, Titolo IX,  f. 352). In una lettera allo stesso Salvago Raggi, Tomasi della Torretta esplicitò che il senatore aveva avuto «un atteggiamento di aperta e dichiarata opposizione» al regime (lettera di Tomasi della Torretta a Salvago Raggi del 27 ottobre 1945, in Archivio storico del Senato del Regno, f. Salvago Raggi).

Sembra peraltro che il diplomatico genovese fosse stato uno dei nove senatori a votare contro le leggi razziali. A ogni modo, nella difesa presentata nel 1945 all'Alta corte di giustizia non si fece cenno a questo che sarebbe apparso un sicuro merito. La memoria difensiva insisteva piuttosto sul reiterato rifiuto a prendere la tessera del PNF; sull'aver declinato più volte offerte di incarichi e collaborazioni; sull'estraniamento dalla vita parlamentare; sul rifiuto della nomina nel collegio arbitrale per l'incidente di Ual Ual; infine, sull'aiuto fornito alla lotta partigiana, attestato da alcuni documenti. L'espressione di dissenso più nota che l'anziano senatore esibì fu l'aver presenziato alle sedute inaugurali del Senato delle ultime legislature indossando, da solo con Guglielmo Imperiali, il tradizionale abito di cerimonia e non la divisa fascista. Il 19 dicembre 1945 arrivò l'ordinanza di rigetto della richiesta di decadenza da senatore.

Alcuni appunti in possesso della famiglia attesterebbero la disillusione di Salvago Raggi rispetto al fascismo. Aveva apprezzato l'abbandono degli eccessi della retorica democratica e l'aver stabilito un «governo forte», ma criticava aspramente la degradazione della vita politica e lo «sfrenato principio di autorità» che il regime aveva affermato (Perfetti, 2011, p. 13). Pesantissime critiche rivolse all'operato di Pietro Badoglio, il cui governo fu per lui il primo a violare lo Statuto abolendo la Camera (intanto diventata Camera dei fasci e delle corporazioni) e che aveva causato il disastro dell'impreparazione seguente all'armistizio. Nel suo giudizio il re, invece, era per lo più assolto soprattutto perché «giudicare un re non è compito dei sudditi» (Perfetti, 2011, p. 14).

Di certo, nella diarchia fascismo-monarchia il diplomatico genovese propendeva per la monarchia. Anche il rifiuto di iscriversi al PNF e la presenza alle sedute di inaugurazione del Senato senza divisa fascista è da intendersi soprattutto come una segno di fedeltà alla monarchia, più che come gesto di antifascismo militante.

Negli ultimi anni Salvago Raggi visse appartato dalla vita politica e probabilmente fu anche personalmente isolato, come attesta l'incipit delle memorie:  «solo e nutrendo un unico desiderio, quello di restar solo» (Memorie dell'ambasciatore…, 1968, p. 211).

Salvago Raggi morì nella sua casa di Molare il 28 febbraio 1946, poco prima del voto sul referendum che sancì l'abbandono di quell'istituzione alla quale tanto si sentiva fedele, la monarchia.

Da alcuni scritti della nipote Camilla, è noto che l'anziano senatore, uomo con alle spalle una vita avventurosa e piena di responsabilità politiche, parlava poco della sua carriera. In più, ebbe un rapporto burrascoso col figlio Paris, colpevole della relazione con una donna separata (C. Salvago Raggi, 2018, p. 65).

Alla sua morte, la nipote Camilla spedì a Torretta la copia di una sua lettera del 7 agosto 1928 diretta al presidente del Senato, in cui era scritto: «La prego, Eccellenza, di non pronunciare alcuna parola di commemorazione in Senato per annunciare la mia morte» (Roma, Archivio storico del Senato del Regno, f. Salvago Raggi).

Fonti e Bibl.: Per l'Archivio della famiglia Salvago Raggi si veda Quaderni del Centro di studi e documentazione di Storia Economica «Archivio Doria», II, L'Archivio Salvago Raggi. Registri contabili e filze di documenti, Genova 2004; altre fonti in Roma, Archivio storico del Senato del Regno (f. Salvago Raggi); Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei ministri, Consulta araldica; Ministero dell'Interno, Direzione generale di Pubblica Sicurezza; Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo 1944-1948); Archivio storico diplomatico del Ministero degli affari esteri, Ministero dell'Africa Italiana, Personale, Serie VII; Memorie dell'ambasciatore Giuseppe Salvago Raggi, in appendice a G. Licata, Notabili della terza Italia, Roma 1968; Lettere dall'Oriente, Genova 1992; Ambasciatore del re: memorie di un diplomatico dell'Italia liberale, con Prefazione di F. Perfetti, Firenze 2011.

G. Borsa, Italia e Cina nel secolo XIX, Milano 1961; C. Salvago Raggi, Dopo di me, Milano 1967; Giuseppe Salvago Raggi, a cura del Ministero degli Affari Esteri, Servizio storico e documentazione, Roma 1977; C. Marongiu Buonaiuti, Politica e religioni nel colonialismo italiano, 1882-1941, Milano 1982; La formazione della diplomazia nazionale (1861-1915). Repertorio bio-bibliografico dei funzionari del Ministero degli Affari Esteri, Roma 1987; A. Aquarone, Dopo Adua: politica e amministrazione coloniale, Roma 1989; Id., I problemi dell'Italia unita: dal Risorgimento a Giolitti, Firenze 1989; N. Labanca, Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana, Bologna 2002; L. Martone, Giustizia coloniale: modelli e prassi penale per i sudditi d'Africa dall'età giolittiana al fascismo, Napoli 2002; I. Rosoni, La Colonia Eritrea. La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), Macerata 2006; M. Zaccaria, «Tu hai venduto la giustizia in Colonia». Avvocati, giudici e coloni nell’Eritrea di G. S. R., 1907-1915, in Africa, 2006, n. 3-4, pp. 317-395; K.J. Lundström, Kenisha: the roots and development of the Evangelical Church of Eritrea (ECE), 1866-1935, Trenton 2011; S.A. Smith, Imperial designs: Italians in China, 1900-1947, Madison 2012; C. Salvago Raggi, La nonna era bellissima, Genova 2015; Ead., Le cose intorno, Genova 2018.

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