SALVIANO

Enciclopedia Italiana (1936)

SALVIANO


Scrittore cristiano del sec. V. Nato nella Gallia settentrionale, probabilmente a Treviri, dovette ricevere un'eccellente educazione classica, dalla quale trasse quell'amore per la retorica e per il bello stile che si rivela chiaramente nelle sue opere. Sposata Palladia, figlia di un pagano, la convertì al cristianesimo e ne ebbe una figlia, Auspiciola. Dopo pochi anni di matrimonio i due decisero di darsi alla vita ascetica, e attuarono il loro proposito nonostante l'ostilità dei parenti. Probabilmente S. si ritirò a Lérins, quindi a Marsiglia: Gennadio attesta che S. era prete. Probabilmente visitò l'Africa. Morì in età assai avanzata.

Oltre a 9 lettere fra le quali, celebre, quella ai genitori della moglie per indurli ad accettare la decisione di darsi alla vita ascetica (la lettera manca peraltro di una vera emozione, e nella totale assenza di semplicità, come nella ricerca della citazione erudita, risente il temperamento retorico dell'autore), rimane di S. un opuscolo in 4 libri Adversus Avaritiam (o Ad Ecclesiam), nel quale egli esorta i fedeli a far dono, prima di morire, delle proprie sostanze alla Chiesa come mezzo per ottenere il perdono dalle proprie colpe. Ma l'opera più celebre di S., che gli ha garantito una fama superiore a quellà di ogni altro scrittore dell'epoca, è il De gubernatione Dei (o De praesenti iudicio) in 8 libri (l'ultimo incompiuto), da lui composti con tutta probabilità fra il 439 e il 451, quando Gallia, spagna e Africa erano oramai quasi completamente in potere dei barbari. La tesi del libro è estremamente semplice, pur nella sua paradossalità. Hanno torto coloro che di fronte alle presenti sciagure elevano la loro accusa contro la Provvidenza, giacché la Provvidenza, colpendo così duramente i Romani e favorendo i barbari, mostra di agire secondo giustizia, punendo i Romani per i loro vizî e per i loro delitti, premiando i barbari per le loro virtù. La maggior parte dell'opera di S. consiste quindi in una contrapposizione dei costumi dei Romani, da lui dipinti come la quintessenza di ogni turpitudine, a quelli dei barbari, che egli scusa nei pochi lati deplorevoli che ritrova in essi. "Oggi - afferma S. - si rinuncia volentieri a questo nome romano che pure è stato pagato così caro: non lo si vuole più portare, lo si disprezza, lo si detesta! Si può scorgere una prova più manifesta dell'iniquità di Roma?". Più che un'opera polemica, si sarebbe tentati di definire quella di S. come un'opera di bravura. Raramente la sua truculenta retorica, l'ingegnosità delle sue argomentazioni, la vividezza delle sue descrizioni rivelano una profonda sincerità di convinzione nella tesi sostenuta. Comunque, lo scritto ha un'importanza notevole: esso dimostra il profondo turbamento che accompagnò la caduta dell'impero di Roma, ed è un coraggioso tentativo per separare la causa del cristianesimo da quella della romanità ormai declinante e di facilitare l'avvicinamento delle popolazioni cristiane al nuovo ordine politico che si andava costituendo.

Ediz.: a cura di C. Halm, in Monumenta Germaniae Historica, Auctores antiquissimi, I,1, Berlino 1877; a cura di F. Pauly, in Corpus Scriptorum Latinorum, VIII, Vienna 1883.

G. Boissier, La fin du paganisme, 7ª ed., II, Parigi (1923), pp. 410-423; J. P. Waltzing, Tertullien et Salvien, in Mélanges de Borman, 1919, pp. 13-17.