PUFENDORF, Samuel

Enciclopedia Italiana (1935)

PUFENDORF, Samuel

Fausto Nicolini

Pubblicista, giurista e storico, nato a Flohe presso Chemnitz (Sassonia) l'8 gennaio 1632, morto a Berlino il 25 ottobre 1694. Studiò teologia protestante e diritto a Lipsia e nel 1657 filosofia a Jena, ove, sotto la guida del matematico E. Weigel, divenne fervido seguace del cartesianismo e del metodo geometrico trasferito alle scienze morali. Nel 1658, per mezzo del suo fratello maggiore Isaia (morto nel 1689), giurista, pubblicista e diplomatico non privo di valore, ottenne il posto di precettore presso il barone Coyet, ambasciatore svedese in Danimarca. Sennonché, giunto appena a Copenaghen, la guerra scoppiata fra i due paesi gli valse otto mesi di prigionia, che pose a profitto per meditare, mercé reminiscenze di Grozio, del Hobbes e del Cumberland, sulle origini della società umana: argomento di taluni Elementa iurisprudentiae universalis che, redatti con perfetto metodo geometrico, pubblicò nel 1660 a L'Aia, ove s'era ritirato dopo la liberazione dal carcere. L'Elettore Palatino, a cui erano dedicati, lo chiamò nel 1661 a una cattedra di diritto naturale e delle genti, istituita a Heidelberg apposta per lui; e colà, divenuto ben presto famoso a causa delle sue affollatissime lezioni, compose il De statu Imperii Germanici, pubblicato nel 1667 a Parigi con la falsa data di Ginevra e con lo pseudonimo di Severino Monzambano da Verona. L'opera suscitò tal vespaio a Vienna e nelle cancellerie dei principi territoriali tedeschi, tutte acerbamente criticate, che l'autore credé prudente accettare un invito di Carlo XI di Svezia e andare a insegnare diritto naturale e delle genti nell'università di Lund. Due anni dopo dava alla luce, in otto libri, l'opera sua capitale, il De iure naturali et gentium (Lund 1672), che, più volte ristampato, tradotto in tedesco, in inglese, in francese (dal Barbeyrac) e in italiano (a cura di G. B. Almisi, voll. 4, Venezia 1757-9), e riassunto dall'autore medesimo nel De officio hom inis et civis iuxta legem naturalem (Lund 1673), anch'esso più volte ristampato e tradotto (in italiano da Michele Grandi, Venezia 1761-7), ebbe ripercussione immensa, dando luogo ad aspri attacchi, segnatamente di natura religiosa, da parte di Cr. Beckmann, di J. Schwarz e di altri, ai quali il P. rispose con una dozzina di opuscoli, tra cui quello intitolato Eris Scandica (Francoforte 1686). Nel frattempo, veniva chiamato, quale consigliere di stato e storiografo regio, a Stoccolma, ove, tra altri scritti, componeva una Historische und politische Beschreibung der geistlichen Monarchie des Papstes (Amburgo 1679; trad. lat., Francoforte 1688); una Einleitung zur Geschichte der vornehmsten europäischen Staaten (Francoforte 1682, più volte ristampato e tradotto in latino e in francese); una Georgii Castriotae Scanderbeg historia (Stade 1684); e, opera di ben altra mole e redatta in gran parte su documenti di archivio, i Commentaria de rebus Suecicis ab expeditione Gustavi Adolphi vsque ad abdicationem Christinae (Utrecht 1686). Fu chiamato nel 1686 a Berlino da Federico Guglielmo di Hohenzollern col grado di consigliere aulico, poi promosso consigliere intimo e assessore, e nel 1694 nominato barone dalla corte di Stoccolma, ove per altro non tornò più; la morte gl'impedì di veder terminata la stampa del De rebus gestis Frederici Wilhelmi electoris Brandeburgici (Berlino 1695) e del De rebus gestis Caroli Gustavi Sueciae regis (Norimberga 1695). Notevoli fra le altre opere postume, le Epistolae amoebeae Pufendorfii et Groningii de commercais pacatorum ad belligerantes, inserite nella Bibliotheca universalis librorum iuridicorum di Groninga (Amburgo 1703); la Dissertatio de foederibus inter Sueciam et Galliam (L'Aia 1708, trad. in francese); le Politische Betrachtungen der geistlichen Monarchie des Stuhls zu Rom (Halle 1714); il De rebus gestis Frederici III electoris, postea regis, commentariorum libri III (Berlino 1784).

Scrittore prolifico ma arido, e ingegno disciplinato e metodico ma poco originale, il P. dové gran parte della sua fortuna scientifica all'avere sviluppato con maggiore sistematicità, e senza troppi veli, principî formulati già dai giusnaturalisti che lo avevano preceduto, e in particolar modo dal tanto più geniale Grozio, rendendo per tal modo ancora più chiare le tendenze borghesi, laiche, anticlericali, materialistiche, empiristiche, antistoriche, immanentistiche della scuola. Perciò il suo De iure naturali et gentium, sebbene violentemente attaccato da teologi e conservatori, ebbe grande risonanza negli stati più progrediti d'Europa, i quali, usciti dal feudalesimo e dalle guerre di religione, si davano una nuova coscienza, precisamente laica e borghese. Non si esagererebbe se si affermasse che quel libro fu, per i borghesi colti della fine del Seicento e del principio del Settecento, non troppo meno che, per le classi operaie dell'Ottocento, il Manifesto dei comunisti. "Diritto naturale" in lui, ancora più chiaramente che nei suoi predecessori, significa non solo "diritto non soprannaturale" (da che il taglio netto fra ragione e religione, fonti di cognizione di ordine diverso), ma anche un alcunché di comune agli individui delle varie nazioni, ed è quindi quasi motto d'ordine per riunire, in certi desiderî, speranze e lotte comuni, le borghesie dei varî paesi. Il che fa anche vedere quanto segnatamente nel P., nonostante il suo cartesianismo e il suo metodo geometrico, il giusnaturalismo sia moto pratico, in cui l'interesse filosofico ha parte subordinata e ufficio sussidiario; e quanto la sua etica, nonostante l'astratto e intellettualistico moralismo a cui è ispirata e le polemiche antihobbesiane di cui è materiata, pencoli verso l'utilitarismo.

In Italia il bisogno di divulgare i libri del P. non si sentì prima della seconda metà del Settecento. Ma già dal 1720 al 1744 essi trovavano un sistematico e tenace confutatore in Giambattista Vico, il quale, pure elargendo al Grozio, al Selden e al P. la lode d'essere i "tre principi del diritto naturale", e pur confessando d'aver tolto soprattutto dal terzo l'ipotesi dei bestioni primitivi, al cui oscuro istinto di conservazione si sarebbe dovuta, in ultima analisi, la civiltà, aveva notato il difetto capitale dell'opera pufendorfiana, in cui sono impliciti tutti gli altri: quella totale mancanza di senso storico, che nei continuatori, soprattutto francesi, di quell'indirizzo (v. rousseau) diverrà sempre più accentuata.

Bibl.: Oltre ai saggi del Droygen in Abhandlungen, 1876, e del Treitschke negli Histor. u. politisch Aufsätze, IV, 1897, si veda la monografia di P. Meyer, S. P., Grimma 1894. Per i rapporti del Vico con lui, Scienza nuova prima e Scienza nuova seconda, ed. Nicolini, indice dei nomi; B. Croce, La filosofia di G. B. Vico (3ª ed., Bari 1932), capitoli 6°, 7° e 9°; E. Wolf, Grotius, P., Thomasius, Tubinga 1927; H. Welzel, Die kulturphilosoph. Grundlagen der Naturrechtslehre S. P.s, in Deut. Vierteljahrschrift f. Literaturwiss. u. Geistegesch., IX (1931); P. Hazard, La crise de la conscience européenne 16899-1715, Parigi 1935, pp. 54-56.