ANSELMO d'Aosta, Santo

Enciclopedia Italiana (1929)

ANSELMO d'Aosta, Santo

Enrico Rosa

Arcivescovo di Canterbury e dottore della Chiesa.

La vita. - Nacque in Aosta sul finire del 1033 o sul principio del 1034 di nobile famiglia, che si volle poi anche imparentata con i Savoia, come si volle desumere dalla lettera che egli, già arcivescovo di Canterbury, scriveva al suo "riverito e carissimo signore Umberto conte e marchese", che fu Umberto II detto "il Rinforzato" (Ep., III, 65). All'educazione della pia madre Ermemberga corrispose con costumi "che lo facevano amare da tutti in gran maniera", come scrive il suo primo biografo e contemporaneo Eadmero; e messo poi agli studî "vi profittò in poco tempo grandemente". A quindici anni, ammalatosi, voleva farsi monaco; ma non fu accettato per timore del padre. Riavuta la sanità, rinunziò al proposito, e, trascurando anche gli studî, si lasciò andare alle frivolezze dei giovani. Quando poi, ventenne, mortagli la madre, si vide preso in avversione dal padre Gondolfo, passato dalla vita prodiga del signorotto medievale a una severità eccessiva e poi alla vita monastica, A. abbandonò la casa paterna, nonostante l'affetto, che pure conservò sempre vivissimo, verso l'unica sorella Richera, verso i due zii materni, Lamberto e Forceraldo, e i cugini Aimondo, Folcerado, Raimondo, e il piccolo Pietro, ai quali scrisse poi lettere tenerissime e da monaco e da vescovo.

Valicate le Alpi, andò per un triennio percorrendo la Borgogna, fra il Rodano e il Reno; indi la Francia, con le sue città principali: Parigi, Reims, Orléans; infine la Normandia, fermandosi poi in Avranches, già centro di buoni studî. Quivi, strettosi in amicizia con il giovine conte Ugo, ebbe notizia d'un altro italiano, Lanfranco di Pavia, che, abbandonato il secolo, insegnava nella recente e già celebre abbazia di Bec, fondata dal nobile guerriero e allora abate Erluino. Il nobile valdostano cerca di lui; "conosciutane la rara sapienza, si sottomette al suo magistero e in poco gli diviene familiare più di tutti gli altri discepoli"; finché, tempratosi notte e giorno l'animo allo studio e alla contemplazione, il corpo alle veglie, al freddo e all'astinenza, delibera di abbracciare anch'egli la vita del maestro in quello stesso monastero. E, dopo mature consultazioni, confortatovi da Maurillo, arcivescovo di Rouen, già abate di Santa Maria in Firenze, l'abbracciò infatti, ventisettenne ed erede delle grandi ricchezze del padre, mortogli allora (1060).

Appena tre anni dopo, fu eletto a succedere quale priore al maestro Lanfranco passato a Caën; indi, nel 1078, in qualità di abate al defunto fondatore Erluino. Le più belle doti di mente e di cuore egli dimostrò, sia nel governo della numerosa e svariatissima comunità del monastero, sia nell'insegnamento e nell'educazione della scelta schiera dei discepoli, religiosi e secolari, che accorrevano a lui, sia nell'attività di scrittore ascetico, teologico e filosofico. Quindi i suoi scritti furono fino da allora ricercatissimi, come ricaviamo dalla testimonianza del contemporaneo Olderico Vitale, monaco di Ouche in Normandia (Historia ecclesiastica, parte II, IV, cap. 16), il quale tesse pure grandi elogi di Anselmo e del monastero di Bec da lui governato.

Nel 1093, passato in Inghilterra per fondare un monastero, A. vi fu a forza trattenuto dal clero e dal popolo, e indi costretto da Guglielmo il Rosso a succedere nella sede di Canterbury, vacante da quattro anni, a Lanfranco. "Era ciò, deplorava egli piangendo, aggiogare una vecchia e mite pecorella a un toro indomito", quale appunto si mostrava allora più che mai il Rosso, oppressore del popolo non meno che della Clhiesa. E cominciarono ben presto i dissidî, non solo per la questione delle investiture e per la libertà della Chiesa, che era, secondo A., "la cosa più amata da Dio in questo mondo", ma per il pericolo dello scisma a cui propendeva Guglielmo. Il dissidio si acuì nella memoranda assemblea di Rockingham nel marzo 1095; poi in quella di Windsor nel 1097; infine fu causa del primo esilio volontario di A., che venne a consultare in Roma il pontefice Urbano II. Accolto dal papa con ogni amorevolezza, prese parte al concilio di Bari nel 1098, trattandovi con altrettanta forza di ragione quanta di eloquenza le questioni di fede e di disciplina, particolarmente quelle mosse dai Greci con sottili sofismi. L'anno seguente assisté in Roma ad un altro concilio di 150 vescovi, dove si rinnovarono i decreti di Piacenza e di Clermont contro la simonia, il concubinato del clero e l'investitura laica.

Tornato in Francia e appresavi la morte di Urbano II, avvenuta il 29 luglio 1099, e quella del re Guglielmo seguita il 2 agosto del 1100, si affrettò alla sua sede in Inghilterra. Il suo ritorno fu un vero trionfo, seguito da molteplici frutti di bene per quei popoli e per il nuovo loro re Enrico, soprannominato il "bel chierico" per il suo amore alle lettere.

Ma anche Enrico non tardò a romperla con l'arcivescovo, costringendolo, nel 1103, a riprendere la via dell'esilio per un nuovo ricorso a Roma. Seguirono molteplici tentativi di conciliazione e anche qualche simulato accordo del re; ma l'esule non poté rientrare in Inghilterra se non verso il settembre 1106.

In quel triennio che sopravvisse, raccolse frutti consolanti della sua pacifica vittoria, finché spirò santamente, come era vissuto, all'alba del mercoledì santo, il 21 aprile del 1109, a 76 anni di età.

La scuola. - Anselmo non fu solamente un santo monaco e un grande vescovo; ma anche un amoroso educatore, pieno di buon senso, unito ad una penetrazione psicologica e delicatezza pedagogica meravigliose in quel secolo di pieno Medioevo. Tale ci appare, ad es., da ciò che narra Eadmero della sua recisa avversione ai metodi allora vigenti dei castighi corporali, e del suo insegnamento e della sua scuola; ma meglio ancora dalle lettere e dai suoi scritti che ne sono l'eco, come dall'uso preferito in essi di dialogizzare, d'illuminare il discorso con briose discussioni, di chiarire le dottrine astratte con similitudini e vivaci pitture, di cui il suo discepolo Eadmero compose anche un libro che ha tratti graziosissimi (Liber de S. Anselmi similitudinibus).

Con un misto di soavità e di forza, come reggeva i sudditi, così educava i giovani, che egli soleva paragonare alla "cera temprata del duro e del tenero, in modo da prendere fedelmente intera e nitida l'impronta del sigillo"; se ne guadagnava la confidenza a segno che tutti l'amavano e gli si aprivano - dice Eadmero, che fu tra essi - come "a madre dolcissima"; li premuniva dall'ozio, dalle ciarle e dagli altri vizî dell'età coi più opportuni e talvolta pittoreschi insegnamenti, che egli sapeva cogliere anche dai casi più ordinarî e dai fatti più umili della vita, come dalla vista di un uccellino, di una lepre, di una pianta, ecc.; onde il suo moraleggiare non aveva nulla di affettato, né di gravoso, e il suo educare procedeva sempre per via di ragione e di bontà, col segreto di tutto ottenere facendosi amare. Così tutta una schiera di amici affezionatissimi, più che discepoli, vediamo passarci innanzi nell'epistolario di Anselmo, e parecchi tra essi divenuti poi molto autorevoli e benemeriti, in Inghilterra segnatamente, dove era facile il passaggio per la vicinanza e la dominazione normanna.

A. aveva continuato e perfezionato a Bec la scuola iniziatavi da Lanfranco, dandole un'impronta sua propria, secondo la buona formazione intellettuale, già da lui ricevuta sia nel trivio (grammatica, retorica e dialettica), sia nel quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica); giacché nell'uno e nell'altro, come scriveva Pietro Divense suo contemporaneo (monaco di Saint-Pierre-sur-Dive in Normandia), summos ipse brevi doctores aequiparavit. Faceva precedere la notizia delle regole grammaticali, come delle leggi universali del pensiero, e insieme la cognizione degli autori classici, l'interpretazione e l'analisi dei loro libri, la lettura e poi la ripetizione delle cose lette e udite - studio degli autori che si diceva "scienza del declinare", o semplicemente "declinazione" - e a questo congiunto l'esercizio dello stile, ma più nella prosa che nei versi, più "nello stile piano e ragionevole" che nel difficile, e "sempre, parlando in latino salvo che altrimenti costringa la necessità". Dopo questa prima e lunga formazione letteraria, egli avviava i giovani, richiamando specialmente quelli troppo perduti dietro gli autori profani, massime i poeti, verso gli studî più austeri, della Sacra Scrittura in ispecie, come di sé narra il celebre Guiberto di Nogent (De vita sua, I, 16), allora giovane monaco nell'abbazia di Flavigny presso Beauvais. Di più aiutava e consigliava i monaci nella trascrizione dei manoscritti, con i più saggi criterî, come "di non lasciare indietro i nomi greci e inusitati che vi sono", e generalmente di procedere in modo che tutto "fosse corretto con uno studio e una squisitezza tale da essere degno che si dica perfetto": perché, soggiungeva egli, "io preferisco di uno scritto scnosciuto e inusitato una sola parte intera, ma conforme a verità, che il tutto guasto da falsità" (Epist., I, 51). Favoriva del pari il prestito e lo scambio dei libri con grande generosità di cuore e larghezza di mente, di che non pochi esempî occorrono nel suo carteggio. Ora questi e altri tali fatti lo fecero, ben a ragione, annoverare tra i più benemeriti promotori della cultura nel suo secolo.

Ma tale egli fu soprattutto come filosofo e teologo, aprendo una nuova via alla scienza cattolica, da cui doveva sorgere la cosiddetta Scolastica. Era una nuova via di metodo e di sintesi, con giusto equilibrio tra i due estremi, degli sprezzatori di Aristotele e della "dialettica" da una parte, e dei "dialettici ereticali", com'egli li chiama, dall'altra, cioè di quelli che "discorrevano con incauta leggerezza per i rigiri molteplici dei sofismi" anche sulle cose divine.

Se ai primi propendeva per rigidità teologica e austerità ascetica il suo stesso maestro Lanfranco, ben più pericolosamente primeggiava fra i secondi un "certo chierico di Francia", Roscelino di Compiègne; il quale portava nella teologia, acuendole sempre più, le discussioni allora insorgenti tra le due opposte scuole del nominalismo e del realismo esagerato. Dalle esorbitanze di ambedue le scuole si tenne lontano A., quantunque non trattasse mai di proposito la questione degli universali e ricorresse anche qualche volta a formule di un realismo in apparenza esagerato. Per queste anche recentemente J.-B. Kors (La justice primitive et le péché originel d'après S. Thomas, Kain 1922, II, p. 30) ammise contro l'opinione comune, difesa anche dal Grabmann (Geschichte der schol. Methode, I, p. 308) che per A. "l'universale formale non è una forma logica, ma una realtà; una medesima natura reale unica che si trova in tutti gl'individui, e l'individuazione non divide già la natura, ma separa le persone"; questa opinione è smentita da molte prove (cfr. Civiltà Cattolica, 1926, 1, p. 412 segg.), le quali dimostrano come, nel concetto universale di A., la natura si divide negl'individui giusta il loro numero in più nature come sostanze realmente divise e distinte per l'aggiunta delle proprietà personali (collectionem proprietatum): le quali non sono espresse nel concetto generale di natura: onde la persona contiene e la natura e la collectionem proprietatum: l'individuazione quindi divide e natura e persona; onde la natura comune è universale solo nella mente e non nella realtà. Così A. tiene il giusto mezzo tra i due estremi dei nominali e degli ultrareali, con quel moderato realismo, che fu poi con più precisione chiarito, come altri punti, da S. Tommaso d'Aquino.

Lo stesso equilibrio dottrinale è l'ispirazione e il fondo di tutta la scuola anselmiana, non ostante qualche incertezza di termini, l'arditezza di qualche opinione e l'originalità della sua speculazione filosofica, che sembrò sgomentare qualche volta il maestro Lanfranco. Anselmo voleva usata la filosofia a intento non solo polemico, ma anche apologetico e positivo; la ratio fidei, secondo lui, deve servire bensì "a confutare l'insipienza e a fiaccare la durezza dei non credenti"; ma più anche a nutrire e a confortare nella fede i già credenti. E quanto ai primi, egli diceva bene che "la nostra fede si vuole difendere per via di ragione", ma non già nel senso che si dovesse discutere la profondità dei suoi misteri, bensì dimostrare la ragionevolezza del credere e quindi l'irragionevolezza, e conseguentemente la colpa, del non credere; ossia, come egli diceva, si deve "mostrare ad essi con la ragione quanto essi ci disprezzino contro ragione". Così è circoscritto il campo della filosofia a quelli che ora chiamiamo "preamboli della fede", e implicitamente è differenziato da quello proprio della teologia, sebbene questo termine non ricorra negli scritti di S. Anselmo.

Alla teologia infatti - quale metodo e sistema dottrinale, proprio della scuola - appartiene l'applicazione della filosofia ai dati della fede, a profitto di chi già crede, cioè quel lavorio della ragione susseguente alla fede che A. chiama intellectus fidei, ed è insinuato nel celebre motto: Credo ut intelligam. Perché egli insegna: "Come il retto ordine richiede che noi crediamo le profondità della fede cristiana, prima che presumiamo discuterle con la ragione, così pare a me negligenza, se, dopo che siano confermati nella fede, non ci studiamo d'intendere ciò che crediamo" (De fide Trinitatis, praef.). A questo proposito, anzi, osserva che tra la fede presente e la visione futura, propria dei beati comprensori, "è di mezzo l'intelligenza che possiamo avere in questa vita, e quanto più alcuno in essa profitta, tanto più si accosta alla visione alla quale tutti aneliamo".

Gli scritti. - Questi capisaldi della scuola d'A. troviamo sparsi nei suoi scritti, anche in parecchie lettere, che sono piuttosto opuscoli dottrinali, o risposte a consultazioni di dogma, di morale, di disciplina ecclesiastica e simili. Di questi scritti diamo ora un cenno sommario.

Il primo scritto, come sembra, in ordine di tempo, ha il titolo curioso De grammatica, ed è un dialogo tra il maestro e il discepolo che si stende per 21 capitoletti, prendendo occasione dal termine "grammatico" per un sottile esercizio pratico di argomentazione; questione, in sostanza, di logica formale, quale introduzione alla dialettica e avviamento allo studio delle categorie di Aristotele.

Assai più importanti seguirono altre due opere quasi ad un tempo, compiendosi a vicenda, e perciò ripubblicate poi unitamente. Nell'una, col titolo di Monologium o Soliloquio, l'autore, parlando seco stesso, cioè meditando, si studia d'investigare col ragionamento - senza ricorso esplicito all'autorità della Scrittura sacra o dei Padri della Chiesa, ma senza mai scostarsi dalla loro dottrina - l'essenza e gli attributi divini. L'opera - quale "esempio di meditare sulla ragione della fede", che era il primo suo titolo - destò dapprima qualche ansietà in Lanfranco e in altri contemporanei, come cosa troppo nuova e personale, se non vicina a un certo razionalismo; ma fu poi generalmente meglio interpretata e bene accolta: sunto di teodicea profondo e preciso, da cui attinse largamente S. Bonaventura, come dimostrò anche recentemente il Van de Woestyne, in Antonianum, I (1926), pp. 6 segg., 180 segg.

L'altra opera, intitolata Proslogium e comparsa dapprima senza nome di autore, doveva essere il compimento del Monologium, investigando l'esistenza e l'essenza di Dio nelle sue relazioni con le nostre idee e coi moti del cuore, onde l'anima credente cerca d'intendere ciò che crede: fides quaerens intellectum - massime contro le apparenti antinomie che la nostra imperfetta concezione mette in Dio. Essa contiene anche il famoso argomento anselmiano dell'esistenza di Dio, dedotto dal concetto stesso che se ne ha, come di un essere del quale non si può concepire maggiore: Aliquid quo nihil maius cogitari possit. Ora un essere tale è necessario che esista in effetto e non solo nel pensiero; perché, se non esistesse realmente, ma nel pensiero solo, è evidente che non sarebbe un essere di cui non si possa concepire il maggiore. Dalla esistenza dunque del concetto parve tratta la conclusione della esistenza reale, e sotto questo rispetto l'argomento non fu ammesso da S. Tommaso per la confusione che sembra introdurre fra l'ordine reale e l'ordine ideale, quasi con un'implicita "petizione di principio". Ma, se la premessa intende supporre la possibilità dell'essere necessario, quale è certamente quello descritto da S. Anselmo, - possibilità che gli stessi atei non osano quasi mai negare per il naturale concetto che ne hanno - è logico conchiuderne l'esistenza reale; perché nell'ente necessario dalla possibilità all'esistenza è legittima l'illazione. In questo senso non la intese il monaco Gaunilone dell'abbazia di Marmoûtier, che sotto il titolo di Liber pro insipiente indirizzò i suoi dubbî ad A., quasi parlando a nome dell'ateo "insipiente"; e A. gli rispose con un Liber apologeticus, nella maniera più cortese, illustrando brevemente e ribadendo il suo argomento: il quale ha dato poi luogo a vive discussioni e ad un'ampia letteratura fino ai nostri giorni (v. ontologico, argomento).

Un'altra opera - di cui i germi si trovano già nel Monologium - è il De fide Trinitatis et de Incarnatione Verbi, dedicata a Urbano II, e destinata a confutare l'errore di Roscelino contro l'unità di natura o essenza nella Trinità divina; per cui, diceva, se le tre Persone sono una stessa cosa, anche il Padre e lo Spirito Santo si sono incarnati col Figlio. S. Anselmo, distinguendo fra natura e persona, fra assoluto e relativo, mostra il sofisma di Roscelino anche secondo le leggi della sua dialettica, e spiega come la distinzione di persone, unita all'identità della natura o essenza di Dio, basta perché si abbia a dire che il Verbo solo, cioè la seconda Persona, si è incarnato, e non il Padre né lo Spirito Santo, essendosi compita l'incarnazione in unità di persona, non di natura. Di che aggiunge altresì le ragioni di convenienza: perché, cioè, s'incarnasse il Verbo, anziché il Padre o lo Spirito Santo.

Una quinta opera tratta esplicitamente dello Spirito Santo, di cui appena aveva potuto far cenno nell'opera precedente, ed è intitolata De processione Spiritus Sancti contra Graecos. In essa, dando compimento alla dottrina precedente sulla Trinità, intende dimostrare, sull'autorità dei Greci e dei Latini, la necessità di ammettere che lo Spirito Santo procede, non solamente dal Padre, ma dal Figlio; onde hanno torto i Greci, sofisticando contro i Latini per l'aggiunta da questi fatta nel Simbolo della parola Filioque.

Connesse tra loro e in forma dialogica, tra maestro e discepolo, sono tre opere teologiche, "appartenenti allo studio della Santa Scrittura" secondo le parole di A. stesso. L'una, De veritate, cerca che cosa è e dove trovasi la verità, e come differisca dagli oggetti; e - pur toccando della verità di enunciazione, o verità logica, e della verità morale, che è rectitudo voluntatis - insiste soprattutto nella verità ontologica, che definisce rectitudo sola mente perceptibilis, conchiudendo ad una suprema verità sussistente: onde si parla della verità di una cosa, in quanto la cosa è conforme a questa verità prima. È questa, in sostanza, la dottrina che poi S. Tommaso in forma più chiara e più precisa ha insegnata nelle sue Quaestiones disputatae de veritate e nella Summa theologica, aggiuntevi opportune distinzioni tra la verità creata e l'increata e una più nitida nozione della verità stessa, in quanto logica e in quanto oggettiva.

L'altro trattato, che si connette al precedente, è De libero arbitrio, dove l'autore, senza distinguere cosi precisamente il libero dal volontario, considera soprattutto la libertà dell'arbitrio in ordine all'atto morale, non quasi abbia per suo elemento la facoltà di peccare, ma come potestà di serbare la rettitudine della volontà per la rettitudine stessa"; onde conviene anche a Dio, come all'uomo in ogni suo stato.

A quest'ultima questione si riferisce pure quella trattata nel terzo opuscolo, De casu diaboli, dove l'autore spiega come per il libero arbitrio e quindi per colpa propria il diavolo abbia peccato, non avendo avuto da Dio il dono della perseveranza, ricevuto dagli angeli buoni.

In forma di dialogo parimente è un'altra opera, a cui la precedente dava occasione, cioè il motivo dell'Incarnazione: Cur Deus homo, compiuta fra "la grande tribolazione del suo primo esilio", a Selavia (ora Liberi) presso Capua. Il santo procede in essa per ragione, non per autorità, rivolgendosi nel primo libro agl'infedeli, risponde alle loro obiezioni, e mostrando come non si può dare salute fuori di Cristo, e combattendo l'opinione, o piuttosto la terminologia, di chi supponeva che il prezzo dell'uomo redento si dovesse pagare al demonio, anziché a Dio, quasi che il demonio potesse vantare qualsiasi diritto sull'uomo, come di vincitore sul vinto. S. Anselmo dimostra come il peccato, essendo offesa di Dio, non possa avere piena espiazione se non per una soddisfazione infinita, mentre era conveniente che Dio né perdonasse all'uomo senza degna soddisfazione, né lo abbandonasse senza perdono. Ora una tale soddisfazione infinita non poteva venire né da Dio, che non può espiare e soddisfare, né dall'uomo o da altra creatura che è necessariamente finita. Conveniva dunque che venisse da un redentore, che, quale uomo, potesse riparare la natura umana e, quale Dio, porgere una soddisfazione infinita: dunque da un Uomo-Dio.

In questa dottrina tuttavia non si afferma la necessità assoluta dell'Incarnazione - come alcuni hanno creduto, anche recentemente - ma la convenienza somma, conforme alla dottrina della Chiesa, con ragioni semplici non meno che profonde.

Un altro trattato spiega un punto che nel precedente si era rimesso ad altra discussione, vale a dire il non aver Cristo potuto contrarre il peccato originale: De conceptu virginali et de originali peccato. A. vi spiega come Cristo sfuggî alla legge del peccato di origine, perché nato per opera dello Spirito Santo da una Vergine, e in questa occasione tratta del peccato stesso e della sua trasmissione. Con molte spiegazioni profonde, accettate poi da S. Tommaso, vi è pure qualche punto non del tutto chiarito, partieolarmente sull'effetto del battesimo, derivato dalla nozione, ancora in lui alquanto vaga, circa la natura della elevazione soprannaturale e della giustizia originale.

Questioni non meno difficili sono le tre discusse nel trattato De concordia praescientiae et praedestinationis necnon gratiae Dei cum libero arbitrio. In quest'opuscolo, A. accorda la libertà umana con la prescienza, la predestinazione e l'efficacia della grazia divina; e segue S. Agostino, ma nella dottrina da lui spiegata in difesa del libero arbitrio contro i manichei e i priscillianisti, piuttosto che nella forma acuita di rivendicazione della grazia e della predestinazione divina, contro i pelagiani e i semipelagiani.

Soggette a discussioni restano le meditazioni e le preghiere, Meditationes et orationes, recentemente edite in francese (Maredsous 1923) con uno studio critico di A. Wilmart, che ne ritiene per anselmiane una ventina solamente, tra cui è notevole soprattutto quella sulla redenzione umana ricordata esplicitamente dal biografo Eadmero (cfr. Civ. catt., 1926, 11, p. 150: S. Anselmo di Aosta e un problema di critica letteraria). La sintesi di tutte queste "orazioni speculative", o contemplative, viene dal santo stesso espressa nel "gustar per amore ciò che si gusta per cognizione, sentire per affetto ciò che si sente per intelletto". Esse hanno talvolta l'ampiezza e l'andamento di trattatelli od opuscoli: era del resto nell'indole di A. congiungere la contemplazione alla pratica.

Lo stesso fu già osservato quanto all'epistolario di A., di cui è bene accertata l'autenticità. Nella edizione del Gerberon e poi del Migne esso comprende quattro libri di lettere da lui scritte o a lui dirette, che sono la miglior fonte, benché finora poco studiata, della sua vita. Oltre quelle di risposta a dubbî o quesiti di varia specie, la più parte sono di conversazione o direzione religiosa, di consolazione spirituale o anche di affari correnti, e alcune anche semplici biglietti di saluto, cordiali e talvolta vivacissimi, che mostrano un cuore aperto ai più nobili e teneri affetti dell'amicizia.

Per tutti questi scritti, ma più ancora per l'efficacia della sua vita, del suo insegnamento, del suo governo, monastico prima e poi episcopale, il "Dottore Augustano" primeggia nella storia ecclesiastica del Medioevo, sia quanto alla scienza, tra i precursori della scolastica, sia quanto alla santità e alle benemerenze religiose, tra i monaci e pastori della Chiesa più insigni.

Così, in occasione dell'ottavo centenario della sua morte (1909), Pio X lo volle onorato con particolari festeggiamenti, e con l'enciclica del 21 aprile 1909, Communium rerum, esaltò in lui singolarmente il difensore acerrimo della dottrina e dei diritti della Chiesa, esemplare di santità non meno che di dottrina. La città di Aosta eresse alla sua memoria un monumento, opera non ispregevole della scuola del Bistolfi.

Edizioni: Le opere, oltre che nelle antiche edizioni, sono raccolte in Patrol. Lat., CLVIII e CLIX.

Bibl.: Eadmero, S. Anselmi vita, in Bolland., Acta Sanctorum, 21 aprile; Acta Apostolicae Sedis, I (1909); E. Rosa, S. Anselmo di Aosta, Firenze 1909 (adattamento franc. Parigi 1929); Ragey, Histoire de S. Anselme, Parigi 1890; Montalembert, S. Anselme, in Correspondant, VII (1844), pp. 145, 186, 289 e 315, spesse volte ripubblicato; Moines d'Occident, Parigi 1877, VII, pp. 174-317; Ch. de Remusat, S. Anselme, Parigi 1853; Croset Mouchet, Histoire de S. Anselme, Parigi 1859; G. W. Church, St. Anselm, Londra 1870; M. Rule, Life and times of St. Anselm, Londra 1883, voll. 2. Vedi pure J. Bainvel, in Dictionnaire de théologie catholique, Parigi 1909, I, ii, s. v., con accurata bibl. e più ampiamente U. Chevalier, Répertoire des sources historiques du Moyen-Âge, Biobibliographie, Parigi 1905. - Per la bibl. più recente, vedi Ph. Schmitz, Bulletin d'histoire bénédictine, che viene pubblicando la Revue bénédictine, Maredsous, 1927 segg., e F. Ueberweg, Gründriss der Geschichte der Philosohpie, II, 11ª ed., Berlino 1928, pp. 698-700. Inoltre C. Ottaviano, S. Anselmo, Opere filosofiche, Lanciano 1929; A. Levasti, S. Anselmo, Bari 1929.

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