FELICE III, santo

Enciclopedia dei Papi (2000)

FELICE III, santo

Rajko Bratož

Appartenente alla potente famiglia aristocratica degli Anici, nacque con ogni probabilità a Roma, nella prima metà del sec. V, da Felice, il presbitero che per incarico di papa Leone aveva sovrinteso ai lavori di restauro della basilica di S. Paolo fuori le Mura e che morì nel 471.

La "gens Anicia", convertitasi al cristianesimo al più tardi intorno alla metà del sec. IV, ebbe da allora sino alla fine del sec. VI una parte importantissima nella storia di Roma e dell'Impero, con numerose personalità insigni nella vita pubblica e in quella della cultura, tra cui Olibrio, che fu console nel 464 e imperatore nel 471. Non sarebbe appartenuto invece alla "gens Anicia" Gregorio I Magno, malgrado una consolidata tradizione (v. Gregorio I, santo).

Abbracciata la vita ecclesiastica, F. ne percorse gli ordini all'interno del clero romano; era diacono quando scomparve il papa Simplicio (10 marzo 483), in un periodo particolarmente difficile per l'Italia e l'Urbe.

Erano infatti gli anni immediatamente successivi al colpo di Stato, che aveva portato alla deposizione di Romolo Augustolo ed alla presa di potere, in Ravenna, di Odoacre (476), durante i quali la Chiesa di Roma aveva dovuto destreggiarsi, nei suoi rapporti col potere temporale, in un difficile giuoco di equilibrio fra il "rex gentium", padrone di fatto dell'Italia, e l'augusto Zenone, rimasto in linea teorica l'unico sovrano dell'Impero sia in Oriente sia in Occidente. Ciascuna delle due autorità - quella di Ravenna e quella di Costantinopoli - aveva suoi partigiani in Roma e attraverso di essi cercava di influire, per il proprio vantaggio, sugli eventi della città e della stessa penisola. D'altro canto, sul piano religioso-dottrinale le relazioni tra la Sede apostolica e Costantinopoli si erano fatte assai tese proprio in quello stesso periodo, sullo scorcio del pontificato di Simplicio, a causa della controversia monofisita, e questo peggioramento aveva avuto ripercussioni negative, nella stessa Roma, sui rapporti di forza tra i gruppi di potere e di pressione locali.

In tale clima di tensione e di antagonismo tra una fazione filobizantina ed una favorevole al governo di Ravenna cominciarono a Roma, non appena peggiorò lo stato di salute di Simplicio, i maneggi in vista dell'elezione del nuovo pontefice. Dopo la scomparsa del papa giunse nell'Urbe la più alta carica dell'amministrazione civile in Italia, il "patricius" e "praefectus praetorio" Cecina Mavorzio Basilio Decio, l'esponente più ragguardevole della aristocratica famiglia romana dei Decii ("gens Caecina Decia"). Questi, intervenuto in forza di una delle ultime disposizioni di Simplicio all'assemblea dei rappresentanti del clero e dei senatori romani tenutasi il 13 marzo 483 "in mausoleo, quod est apud beatissimum Petrum apostolum", nella sua qualità di prefetto del pretorio e, insieme, di "agens vices praecellentissimi regis Odovacris" (Acta synhodi a. DII) fece approvare dai convenuti un decreto che vietava - pena l'anatema - l'alienazione di beni ecclesiastici da parte di chi, allora e in futuro, fosse stato eletto papa, e sanciva la nullità di eventuali impegni in proposito presi per iscritto dall'eletto. Tale misura può intendersi - alla luce degli avvenimenti successivi - come rivolta contro il candidato della fazione filobizantina, il quale evidentemente aveva cercato di accaparrarsi voti con la promessa di donazioni tratte dal patrimonio della Chiesa di Roma. Basilio Decio, infatti, riuscì a far quindi eleggere papa il diacono F., la persona che Simplicio aveva auspicato come proprio successore e che era, almeno in via indiretta, il candidato dello stesso Odoacre. L'appena ordinato pontefice si inserì subito nel gioco dei rapporti, allora già tesi, fra il "rex gentium" e Bisanzio, perseguendo nei confronti di quest'ultima una politica di ferma intransigenza a proposito della questione monofisita.

Onde giungere ad una pacificazione all'interno della Chiesa costantinopolitana, divisa tra i fedeli all'ortodossia cattolica ed i monofisiti, l'imperatore Zenone aveva promulgato nel 482, su consiglio del patriarca di Costantinopoli Acacio, il cosiddetto Henotikon: una formula di fede, che era un compromesso tra le tesi cattoliche e quelle monofisite. Essa poteva sembrare a prima vista accettabile per ambo le parti ma in realtà invalidava le decisioni del concilio di Calcedonia. Che l'imperatore fosse su posizioni filomonofisite era stato del resto di lì a poco dimostrato dall'ascesa di un monofisita, Pietro (III) Mongo, sulla importante cattedra patriarcale di Alessandria, ascesa imposta nel dicembre di quello stesso anno 482 da Zenone e da Acacio, i quali avevano - ad onta delle proteste del papa Simplicio - deposto il patriarca Giovanni (I) Talaia, fedele all'ortodossia cattolica: questi era stato in seguito costretto ad abbandonare la capitale e a cercare rifugio a Roma.

F. controbatté con tempestività e decisione. Subito dopo la sua elezione inviò infatti a Costantinopoli una delegazione: ne facevano parte Vitale, vescovo di Truentum (La Civita, nel Piceno), e Miseno, vescovo di Cuma. Essi dovevano consegnare all'imperatore delle lettere, intese come contributo del nuovo papa in vista di una normalizzazione dei rapporti tra la Sede apostolica, l'Impero e la Chiesa costantinopolitana.

Nella prima, un'ampia lettera indirizzata a Zenone, il papa esordiva informando l'imperatore - prassi fino a quel momento mai usata - della propria elezione e lo esortava a seguire, in campo religioso, i predecessori Marciano e Leone. F. quindi illustrava i pericoli insiti nel monofisismo, descriveva le condizioni scandalose in cui versava la Chiesa alessandrina e si appellava al sovrano perché destituisse Pietro Mongo, contribuendo in tale modo alla riunione di Alessandria con la Chiesa universale. Nella seconda missiva, andata perduta, F. si rivolgeva all'imperatore esortandolo ad intervenire in difesa dei cattolici dell'Africa settentrionale, vittime delle persecuzioni dei Vandali, che avevano costituito un loro Regno in quella regione. In una terza lettera, indirizzata ad Acacio, il papa ricordava al patriarca l'obbligo di osservare le decisioni del concilio di Calcedonia e ne sottolineava l'influenza sull'imperatore. Gli rimproverava quindi la posizione assunta in occasione dei recenti fatti di Alessandria, quando era prevalsa la parte monofisita. Per quanto redatta in termini affatto decisi - F. redarguiva aspramente il patriarca e gli chiedeva di prendere una chiara posizione nei confronti dei problemi chiave - quest'ultima lettera non significò ancora rottura fra Roma e Costantinopoli, sebbene risulti evidente, sia dal contenuto sia dal tono generale di essa, che tale rottura non era paventata dal papa.

Prima dell'arrivo dei legati papali a Costantinopoli giunsero a Roma monaci cattolici del monastero di Acemeti. Essi recavano due lettere per il papa: una di Cirillo, il priore del monastero, e degli archimandriti della capitale dell'Impero, nei cui pressi il monastero si trovava; l'altra dei vescovi e del clero cattolici d'Egitto, che si erano rifugiati a Bisanzio per sfuggire alla violenza dei monofisiti. Le due lettere contenevano una serie di lagnanze nei confronti di Pietro Mongo, che - vi si diceva - aveva usurpato la sede di Alessandria e perseguitava quanti rimanevano fedeli all'ortodossia cattolica. Esse contenevano inoltre la preghiera, rivolta al papa, di intervenire contro Acacio, primo complice e alleato di Pietro Mongo. F., del resto ottimamente informato da Giovanni (I) Talaia, esule a Roma, circa i fatti di Alessandria e la parte che vi aveva avuto Acacio, reagì con prontezza. Inviò immediatamente ai suoi legati in Costantinopoli - per mezzo del "defensor Ecclesiae" Felice, il quale poi si sarebbe dovuto unire ad essi - due nuove lettere. Nella prima, destinata ad Acacio, il papa invitava quest'ultimo a venire a Roma per chiarire, in un sinodo di vescovi ("apud beatum Petrum [...] in conventu fratrum et coepiscoporum": cfr. Epistolae Romanorum Pontificum genuinae, pp. 239 s.), la propria posizione nei confronti dei fatti di Alessandria. Nella seconda, indirizzata a Zenone, comunicava a quest'ultimo di aver convocato a Roma il patriarca Acacio a causa delle scandalose vicende e delle critiche condizioni della Chiesa di Alessandria, che significavano un totale sconvolgimento dei risultati del concilio di Calcedonia. Ai suoi legati F. aveva inoltre ordinato di consultarsi con l'archimandrita Cirillo prima di ogni intervento; aveva inviato al riguardo un altro "commonitorium", di cui non si conosce il contenuto. I legati papali non riuscirono nel loro compito, anzi, rinunziarono a presentare le energiche richieste del papa. Così accettarono di assistere ad una messa solenne officiata da Acacio e quando questi, leggendo i dittici, inserì il nome di Pietro Mongo tra quelli dei vescovi in comunione con la Chiesa costantinopolitana, non solo non protestarono ma in seguito fecero anch'essi pubblicamente, leggendo i dittici, il nome del patriarca eretico, mostrando così di riconoscere la sua ortodossia. Per questo loro comportamento furono denunciati al papa dai monaci acemeti.

Il monaco Simeone, inviato di Cirillo a Roma, accusò infatti Vitale e Miseno di aver apertamente riconosciuto l'ortodossia di Pietro Mongo, ricordandolo nella lettura dei dittici, e di non essersi mai consultati, durante tutto il loro soggiorno nella capitale, con i locali esponenti dell'ortodossia cattolica. Il presbitero Silvano, che aveva accompagnato Vitale e Miseno a Costantinopoli, confermò tali lagnanze. Le fonti comunque non spiegano in modo sufficientemente chiaro i motivi del cambiamento di opinione dei legati e la loro rinunzia di fatto ad adempiere alla missione loro affidata. Possiamo soltanto supporre che Vitale e Miseno vi si fossero associati o perché costretti dalla minaccia di violenze fisiche - "in custodiam sunt redacti, chartis sublatis" (Liberati archidiaconi Breviarium 18, col. 1028) - o perché adescati da lusinghe e promesse di Acacio - "praemiisque corruperis" (Epistolae Romanorum Pontificum genuinae, p. 245) -, o perché non erano riusciti a contattare la parte fedele all'ortodossia cattolica (specie i monaci acemeti). Prima che Miseno e Vitale facessero ritorno a Roma, il patriarca e l'imperatore consegnarono loro lettere per il papa. Il contenuto della missiva imperiale ci è noto solo in parte. Aveva un tono conciliativo e l'imperatore assicurava, tra l'altro, che sia lui che la Chiesa orientale si sarebbero attenuti alle decisioni del concilio di Calcedonia.

F. non attese, per agire, il rientro dei suoi legati. Il 28 luglio 484 convocò a Roma un sinodo, che si riunì lo stesso giorno ed al quale intervennero settantasette vescovi italici. La principale decisione di tale assemblea fu la scomunica del patriarca di Costantinopoli Acacio per l'appoggio costante fornito agli eretici, per il contributo essenziale da lui dato all'ascesa dell'eretico Pietro Mongo sulla cattedra di Alessandria, per il suo comportamento nei confronti dei legati papali Vitale e Miseno da lui dapprima trattati con violenza e poi corrotti, per il rifiuto, infine, di ricevere in udienza il "defensor Ecclesiae" Felice. La scomunica era a vita e coinvolgeva chiunque avesse intrattenuto col patriarca scomunicato rapporti di ogni sorta, come risulta dalla lettera (cfr. ibid., p. 247) con cui F. notificò ad Acacio il durissimo provvedimento e come si desume anche da altre fonti. Pure Vitale e Miseno furono colpiti dalla medesima sanzione.

In una lettera all'imperatore, inviata alcuni giorni più tardi, il 1° agosto 484, il papa informava Zenone della scomunica inflitta al patriarca, colpevole - così scriveva F. - di aver aiutato l'eretico Pietro Mongo a insediarsi nella sede patriarcale di Alessandria nascondendosi dietro l'autorità dell'imperatore. F. esortava poi il sovrano a piegarsi, per quanto riguardava la religione, al magistero della Chiesa e a dare esecuzione alla scomunica. In apertura di lettera, inoltre, il papa elevava proteste per il trattamento inflitto in Costantinopoli ai suoi legati. A Vitale e Miseno - affermava - non era stata concessa libertà di movimento; erano stati privati delle credenziali e costretti a riconoscere come ortodossi gli eretici. Si trattava dunque di una lettera oltre modo chiara, recisa nel tono come mai prima nella corrispondenza con gli imperatori: una lettera che di per sé rappresentava un duro colpo all'idea del cesaropapismo. Con un'altra lettera il papa informò i vescovi dell'Egitto, della Tebaide, della Libia e della Pentapoli della scomunica perpetua lanciata contro Pietro Mongo. Con una terza lettera F. comunicò al clero e ai laici di Costantinopoli la dura sanzione inflitta ad Acacio e li esortò ad adeguarvisi. Scrisse anche ai monaci e al clero orientale d'Egitto e di Bitinia, ordinando loro di interrompere ogni rapporto con Pietro Mongo e con i suoi seguaci.

La pubblicazione della scomunica di Acacio a Costantinopoli, anche per il modo con cui avvenne, provocò disordini nella capitale e suscitò resistenze tra gli stessi fedeli dell'ortodossia cattolica.

I dispacci relativi ai provvedimenti presi dal sinodo romano del 484 furono portati a Costantinopoli, per volontà di F., da un chierico, il "defensor Ecclesiae" Tuto, il quale, giunto nella capitale a dispetto delle difficoltà incontrate (nello stretto di Abido gli venne tesa un'imboscata alla quale scampò fortunosamente), riuscì a farli pervenire ai destinatari e a mettersi in contatto con i monaci acemeti. Alcuni di questi ultimi, desiderando dare la più ampia pubblicità alla scomunica di Acacio, per eccesso di zelo non esitarono a rendere noto, nel corso di una solenne funzione presieduta dallo stesso Acacio, il contenuto delle lettere giunte da Roma. Ciò provocò un'immediata e violenta reazione da parte dei fedeli del patriarca: dei temerari monaci acemeti, diversi furono uccisi sul posto, altri furono arrestati e rinchiusi in prigione. D'altro canto la scomunica di Acacio non trovò unanime consenso nemmeno tra coloro che si opponevano alla politica religiosa del patriarca. Infatti, come risulta da una lettera di F. dell'anno successivo, dopo questi avvenimenti due archimandriti di comunità fedeli all'ortodossia calcedoniana, Rufo e Talasio, scrissero al papa per informarlo circa le difficoltà che incontravano nel far accettare dai loro monaci i provvedimenti sinodali, e gli fecero contestualmente pervenire copia di una lettera, scritta da Tuto durante il suo soggiorno nella capitale, dal cui tenore si traeva - a loro parere - che anche il "defensor Ecclesiae" aveva finito con l'allinearsi sulle posizioni di Acacio.

La spaccatura si approfondì ulteriormente quando ad Antiochia, la terza sede patriarcale d'Oriente, tra la fine del 484 e gli inizi del 485 venne deposto il vescovo Calandione, fedele all'ortodossia calcedonese, sostituito, con l'aiuto di Acacio, dal monofisita Pietro Fullone, il quale, come già alcuni anni prima aveva fatto ad Alessandria Pietro Mongo, prese a perseguitare il clero cattolico. L'aggravarsi della situazione indusse F. a convocare a Roma un nuovo sinodo per l'autunno successivo. Il 5 ottobre 485 sotto la presidenza del pontefice quarantatré vescovi si riunirono "apud beatum Petrum" ed esaminarono il problema del conflitto religioso con Bisanzio alla luce degli ultimi sviluppi, specialmente in relazione con i recenti avvenimenti di Antiochia. Fu presa una sola decisione: si confermò la scomunica di Acacio, di Pietro Mongo, di Pietro Fullone e dei loro seguaci e sostenitori.

A conclusione dei lavori F. fece approvare dai padri sinodali un documento da inviare ai presbiteri ed agli archimandriti di Costantinopoli e della Bitinia nel quale, dopo aver ricostruito la storia della controversia a partire dall'insediamento di Pietro Mongo sulla cattedra di Alessandria sino all'avvento di Pietro Fullone su quella di Antiochia, si comunicava la conferma della condanna dei tre patriarchi orientali e dei loro fautori. In una lettera a parte, inviata verso la fine di quello stesso anno 485, F. comunicava a Rufo, a Talasio, ai presbiteri, agli archimandriti ed agli altri monaci della capitale e della Bitinia di aver scomunicato anche Tuto, per essersi lasciato corrompere, ed ordinava di espellere dalle loro comunità tutti coloro che, per scelta personale o per timore, erano passati dalla parte di Acacio. Dopo queste, fino al 490 non si sono conservate altre lettere pontificie: dal 486 al 489, dunque, non abbiamo fonti sicure circa la politica di F. nei confronti delle Chiese d'Oriente. Le due lettere dirette a Pietro Fullone, così come l'altra indirizzata a Zenone, che la tradizione manoscritta attribuisce a F. e che sono state edite sotto il nome di quel papa (P.L., LVIII, coll. 903-22), sono infatti apocrife (cfr. Epistolae Romanorum Pontificum genuinae, pp. 19-21, 284).

Nei primi anni del suo pontificato F. dovette pure occuparsi delle difficoltà della Chiesa d'Occidente. Nel 483, tornando in Spagna dopo un prolungato soggiorno in Italia, il senatore Terenziano portò una lettera del papa per il vescovo di Siviglia Zenone. In essa F. esprimeva il suo vivo apprezzamento per l'opera svolta dal presule nel difficile momento che stava attraversando il suo paese a causa della durezza della occupazione sueba. "Inter mundi turbines gubernator Ecclesiae praecipuus" (ibid., p. 242), così il papa definiva Zenone cui raccomandava Terenziano con parole piene di lode e di fiducia. Le persecuzioni di cui erano fatti oggetto i cattolici nel Regno vandalico in Africa settentrionale ed i rapporti con i cattolici che, piegatisi alle pressioni degli invasori germanici, si erano convertiti all'arianesimo costituirono un altro problema con cui F. dovette misurarsi all'indomani della sua elezione.

Già agli inizi del 484, infatti, egli si rivolgeva per lettera all'imperatore Zenone, scongiurandolo di intervenire presso la corte vandalica per far revocare le misure oppressive e discriminatorie nei confronti dei cattolici da quella decretate. In effetti l'imperatore inviò in Africa, a questo scopo, una missione, di cui fu capo un alto dignitario dell'amministrazione bizantina, Uranio. Essa fallì il suo obiettivo. Il re Unerico non solo non si curò delle sollecitazioni che gli venivano dal governo di Costantinopoli, ma intensificò la persecuzione: a causa delle violenze e della paura, in gran numero i cattolici - laici ed ecclesiastici - si convertirono, in quell'anno e nel successivo, all'arianesimo. La persecuzione ebbe fine solo quando, morto Unerico (23 dicembre 484), il nipote di questo, Guntamundo, fu riconosciuto re dei Vandali.

Tornata la pace religiosa, la Chiesa africana e il papa si trovarono a dover affrontare e risolvere un nuovo delicato problema: quello dei rapporti con i "lapsi", i cattolici che, per paura, si erano macchiati di apostasia. Per definire la comune linea di condotta, che le autorità ecclesiastiche avrebbero dovuto tenere nei confronti dei "lapsi" che avessero chiesto di essere riammessi nella comunità dei cattolici, F. convocò a Roma un sinodo, che fu celebrato sotto la sua presidenza "in basilica Constantiniana" il 13 marzo 487 e nel corso del quale il papa, di fronte a quarantadue vescovi, per lo più italiani (solo quattro venivano dall'Africa), espose il proprio punto di vista sull'argomento.

Oltremodo severi furono i decreti sinodali nei confronti degli apostati pentiti. Essi prescrivevano infatti la penitenza perpetua per quanti fossero stati - prima dell'atto di abiura - vescovi, presbiteri e diaconi: solo in punto di morte, dunque, essi sarebbero stati ammessi alla comunione della Chiesa ed ai sacramenti. Per i chierici che avevano ricevuto gli ordini minori, per i monaci e per i laici, i padri sinodali stabilirono che dovessero rimanere per tre anni "inter audientes", per sette "inter poenitentes" e che solo dopo altri due anni potessero essere riammessi ai sacramenti ed alla comunione della Chiesa cattolica. Molto più miti furono le pene previste per i minorenni. I decreti sinodali furono immediatamente trasmessi in Africa per mezzo dei vescovi locali che avevano partecipato al sinodo. Più tardi furono comunicati anche alle altre Chiese d'Occidente: in una lettera del 15 marzo 488, indirizzata "universis episcopis per diversas provincias constitutis", il papa ribadiva le decisioni del sinodo di Roma dell'anno precedente (P.L., LVIII, coll. 924-27). Purtroppo nessuna fonte coeva riferisce come essi furono applicati in Africa sino alla fine del pontificato di Felice.

F. si mantenne fedele alla linea di ferma intransigenza nella difesa dell'ortodossia anche nell'ultimo periodo del suo pontificato, quando il governo di Ravenna e lo stesso Senato di Roma, prima, e le autorità religiose e civili di Costantinopoli, poi, dettero il via a nuove iniziative nell'intento di giungere ad un riavvicinamento che consentisse di sanare la frattura tra Oriente e Occidente.

Dopo la conclusione vittoriosa della guerra contro i Rugi, sollevatigli contro dall'imperatore Zenone (seconda metà del 487-488), Odoacre, nella speranza di scongiurare la minaccia rappresentata dai Goti di Teodorico, i quali si erano mossi dalle loro sedi nella Mesia Inferiore, sul basso Danubio, per venire a conquistare l'Italia col tacito consenso dello stesso Zenone, tentò un passo estremo per migliorare i suoi rapporti con Bisanzio, fattisi assai tesi anche per motivi d'ordine religioso (in occasione della controversia monofisita il "rex gentium" aveva appoggiato apertamente la Sede apostolica). Nel marzo del 489 inviò nella capitale dell'Impero un'ambasceria, che riferisse a Zenone della liberazione del Norico e gli consegnasse una parte del bottino di guerra. Essa doveva inoltre cercare di comporre - a dimostrazione della buona volontà del governo di Ravenna - il conflitto religioso, trattando con Acacio. La guidava un illustre esponente di una famiglia dell'aristocrazia senatoria romana, il "magister officiorum" Andromaco, "consiliarius" dello stesso Odoacre.

Andromaco, ricevuto l'incarico, si incontrò con F. per consultarlo. Il papa, in quella occasione, si rifiutò di scrivere ad Acacio: lo fece, nel suo interesse, il Senato di Roma. Infatti, quando lasciò l'Italia, Andromaco, oltre ai donativi, portava con sé una lettera del "rex gentium" per l'imperatore ed un messaggio del Senato per Acacio. La missione fallì il suo obiettivo. Giunto a Costantinopoli, Andromaco consegnò all'imperatore i doni e la lettera di Odoacre; ad Acacio la missiva del Senato. Tuttavia né lo scritto né i doni del "rex gentium" né le parole del "magister officiorum" valsero a distogliere Zenone dalla linea avversa al governo di Ravenna da lui assunta. Quanto ad Acacio, questi, affatto ligio alla politica imperiale, non rispose nemmeno all'indirizzo del Senato di Roma. Quando Andromaco rientrò in Italia e si conobbe l'esito della sua missione, critiche nei confronti della politica perseguita dal papa furono mosse dallo stesso Senato di Roma: per confutarle, F. compose e rese di pubblica ragione uno scritto su Acacio conservato in versione frammentaria nel De evitanda communione Acacii. La situazione sembrò mutare, sul piano religioso, con la morte di Acacio (28 novembre 489) e con l'assunzione di Fravita al soglio patriarcale di Costantinopoli (fine novembre 489-marzo 490). Il nuovo patriarca, infatti, se cercò da un lato di riallacciare i rapporti con Roma inviando al papa una legazione, di cui fecero parte gli archimandriti ortodossi di Costantinopoli Rufo, Ilario e Talasio, e numerosi monaci, dall'altro scrisse a Pietro Mongo di voler conservare i legami con lui e non col papa. La fine dello scisma era auspicata anche in una lettera che l'imperatore Zenone inviò allora a F., ed in un'altra, indirizzata al papa dal vescovo di Salonicco Andrea. Di tali proposte di riappacificazione F. prese atto con soddisfazione. Fece tuttavia rilevare agli inviati di Fravita che non poteva aderirvi se prima le autorità ecclesiastiche di Costantinopoli non avessero accettato di ottemperare ad alcune condizioni pregiudiziali: quella di allontanare Pietro Mongo dalla cattedra di Alessandria e quella di cancellare i nomi dello stesso Pietro Mongo e di Acacio dai dittici della Chiesa costantinopolitana. Poiché Rufo, Ilario e Talasio non gli poterono garantire che tali condizioni sarebbero state accolte ed eseguite - non avevano infatti ricevuto i poteri per concludere un accordo su queste basi - F. lasciò cadere la loro proposta e, poco dopo, inviò all'imperatore e a Fravita e - ma più tardi - allo stesso Talasio lettere nelle quali spiegava i motivi della sua presa di posizione e rinnovava i suoi ammonimenti.

Nella lettera a Zenone, che è dei primi del 490, il papa, dopo aver lodato il sovrano per aver innalzato alla cattedra costantinopolitana un arcivescovo ortodosso e dopo averlo informato circa i motivi del fallimento della missione inviatagli da Fravita, lo esortava a esaudire le richieste della Sede apostolica in vista della composizione dello scisma acaciano: ne sarebbe stato ricompensato in questa e nella vita a venire dal Cristo. Nella lettera a Fravita, che è pure dei primi del 490, F., dopo essersi congratulato col nuovo patriarca per il suo avvento e dopo aver elogiato la sua ortodossia, rinnovava, come unica condizione alla riconciliazione, la richiesta sia della condanna di Acacio e di Pietro Mongo sia della esclusione dei loro nomi dai dittici della Chiesa costantinopolitana. Il papa concludeva assicurando il suo interlocutore che la Chiesa di Roma non avrebbe preteso l'annullamento delle consacrazioni e dei battesimi amministrati da Acacio purché gli interessati accogliessero la fede cattolica. Nella lettera a Talasio, datata 1° maggio 490 e quindi posteriore sia alla morte di Fravita sia all'avvento di Eufemio, il papa esortava l'interlocutore, un fedelissimo dell'ortodossia romana, a vegliare perché i monaci da lui dipendenti non riallacciassero i rapporti con la Chiesa costantinopolitana prima della Sede apostolica: era il caso d'attendere, poiché la situazione generale era poco chiara e ancora sconosciuta la posizione dottrinale del nuovo patriarca costantinopolitano. Nella lettera di risposta al vescovo di Tessalonica Andrea, infine, F. lodava il desiderio da lui espresso di ritornare in seno alla Chiesa cattolica, ma, era necessario che tale desiderio trovasse riscontro in adeguati atti concreti.

Quando, dopo la morte di Fravita, uomo politicamente astuto e calcolatore, nella primavera del 490 divenne patriarca di Costantinopoli Eufemio, convinto cattolico e vicino ai circoli monastici della capitale, migliorarono anche le prospettive di una composizione dello scisma. Immediatamente Eufemio troncò i rapporti con Pietro Mongo (l'eretico patriarca di Alessandria morì il 29 ottobre dello stesso anno) e ne cancellò il nome dai dittici della sua Chiesa. Il 9 aprile 491 scomparve anche Zenone e gli succedette sul trono imperiale il "silentiarius" Anastasio. Questi, sebbene fosse personalmente favorevole alle dottrine monofisite, quando venne consacrato dal patriarca Eufemio depositò - fu il primo imperatore a farlo - un documento contenente la sua professione di fede ortodossa ed il suo solenne impegno a non violare i decreti del concilio di Calcedonia. Dopo la sua intronizzazione il nuovo sovrano si affrettò a comunicare ufficialmente al papa e al Senato di Roma la notizia del suo avvento: probabilmente in quel medesimo torno di tempo Eufemio indirizzò al pontefice una lettera, nella quale auspicava la ripresa dei buoni rapporti tra la sua Chiesa e quella romana. F. rispose all'imperatore con il consueto messaggio formale di felicitazioni; ad Eufemio, con un sostanziale rifiuto. Nella lettera che in quella occasione scrisse al patriarca di Costantinopoli, infatti, egli, dopo aver lodato la devozione e la fedeltà dimostrate dal suo interlocutore nei confronti dell'ortodossia cattolica, dichiarava di non poter consentire a riammettere nella comunione della Chiesa romana la Chiesa di Costantinopoli, dato che quest'ultima non aveva ancora provveduto a cancellare dai propri dittici dei defunti il nome degli eretici Acacio e Fravita.

Si perdeva così il momento più propizio ad una soluzione dello scisma. Più a causa della politica filomonofisita in seguito promossa da Anastasio I (questi negli anni successivi adottò una linea fortemente repressiva nei confronti dei vescovi fedeli all'ortodossia cattolica) che per la coerente e ferma presa di posizione dell'inflessibile papa F., lo scisma acaciano, prima grande rottura fra Roma e l'Oriente, perdurò fino all'estate del 518, quando salì sul trono imperiale il cattolico Giustino; le trattative per la riconciliazione con la Sede apostolica, da lui subito avviate, si conclusero infatti nella primavera del 519.

Poco si sa dei rapporti intercorsi tra la Chiesa romana e le altre Chiese occidentali negli ultimi anni del pontificato. Ciò è dovuto tanto alla circostanza che anche in quel periodo di tempo l'attenzione delle fonti note appare soprattutto rivolta ai nuovi sviluppi della questione monofisita, quanto al fatto che controversa è la datazione dei due soli documenti coevi relativi a vicende di Chiese occidentali sino a noi pervenuti. Si tratta di due lettere concernenti la lotta contro l'eresia pelagiana in Dalmazia, indirizzate al vescovo di Salona Onorio: la tradizione manoscritta che ce le ha conservate le attribuisce infatti all'immediato successore di F., papa Gelasio I, ma la prima di esse, la Licet inter varias, reca la data "V Kal. Aug., Fausto consule", che riporta al 28 luglio 490, quando era ancora papa F. (per la discussione su tale data, si veda R.S. Bagnall, in Consuls of the Later Roman Empire, Atlanta 1987, p. 515). Nella lettera Licet inter varias F., il cui nome non compare nel testo tramandato, riferiva di essere stato informato che alcuni vescovi della Dalmazia professavano l'eresia pelagiana; ricordava quindi ad Onorio che essa era stata più volte condannata dai papi e dagli imperatori; gli chiedeva con energia, infine, di mettere ordine nel clero locale. Alla risposta di Onorio, il quale gli aveva scritto di aver trovato esagerate le sue preoccupazioni e di considerare ingiusti i suoi rilievi e le sue accuse, che, affermava, si fondavano su informazioni incomplete, il papa replicò con la lettera Miramur dilectionem, in cui ribadì con forza il concetto che la Sede apostolica, avendo la responsabilità di tutte le Chiese locali, aveva anche il dovere di intervenire dovunque con la massima tempestività in caso di sospetta eresia, e corredò il suo scritto con un ampio trattato contro il pelagianesimo. Si è molto discusso sulla paternità delle due lettere: secondo l'ipotesi più probabile (che ha il pregio di dare ragione così dell'attribuzione a Gelasio I testimoniata dalle rubriche dei manoscritti, come della datazione al 490 contenuta nel tenore della Licet inter varias), esse furono redatte a nome e per mandato di F. proprio da Gelasio, quando era ancora diacono e svolgeva le mansioni di segretario di quel papa.

Del Liber pontificalis è la notizia che F. dispose la costruzio-ne di una chiesa votiva presso S. Lorenzo sulla via Tiburtina (p. 252), in onore di Agapito, diacono martirizzato con Sisto II e sepolto nel cimitero di Pretestato sulla via Appia. L'edificio faceva parte del complesso laurenziano, già potenziato con nuove costruzioni dai predecessori Ilaro e Simplicio, ma non se ne conosce l'esatta ubicazione. Dall'itinerario altomedievale Notitia ecclesiarum sembra che fosse situato su una collina, dopo la basilica di S. Lorenzo per chi si dirigeva verso Roma (Codice topografico della città di Roma, p. 82 e n. 4).

F. morì agli inizi del 492. L'anno è certo: lo registra, tra gli scrittori coevi, Vittore Tunnunense. Incerto è, invece, il giorno della morte: basandosi sulla data della sua assunzione al soglio pontificio (13 marzo 483) e sulla durata del suo pontificato riportata nel Liber pontificalis della Chiesa romana (otto anni, undici mesi, diciassette giorni), pone la morte di questo papa al 25 febbraio il Baronio, al 1° marzo (giorno in cui se ne celebra la memoria) il Duchesne.

Fu l'unico papa il cui corpo sia stato inumato nella basilica di S. Paolo fuori le Mura: ciò si spiega con la circostanza che là erano stati sepolti i corpi dei suoi avi e dei suoi stessi familiari (J.Ch. Picard, pp. 742-43). Furono sepolti infatti nella basilica ostiense la moglie, la nobildonna Petronia, morta nel 472, i figli Paola, "dulcis, benigna, gratiosa filia", morta nel 484, Gordiano, "dulcissimus puer", scomparso nel 485 e Emiliana, "sacra virgo", deceduta nel 489, ricordati in un'unica lapide (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, nr. 4964). L'iscrizione sepolcrale di F. è perduta. Anche il padre di F. ebbe il privilegio di essere sepolto nella basilica ostiense: ne è testimonianza il suo epitaffio, parzialmente mutilo (ibid., nr. 4958), in cui è esplicitamente ricordato il suo intervento per il risanamento della basilica ostiense, ricordata nella iscrizione come "veneranda culmina Pauli". Nella medesima basilica fu anche deposto il protodiacono della Sede apostolica Adeodato ("sedis apostolicae levites primus") che insieme a Felice padre condivise la responsabilità dei lavori di restauro (ibid., nr. 4926). L'uno e l'altro sono peraltro esplicitamente menzionati nell'iscrizione dedicatoria di Sisto III che ne ricorda con riconoscenza la devota e vigile attività ("fidelis atque pervigil labor") che consentì di restituire l'edificio al popolo di Dio (la "plebs sancta") e al culto consueto ("solita officia") del "beatus doctor mundi" (Paolo).

Tra i santi lo colloca il Martyrologium Romanum del 1583 in cui l'elogio di F. è stato redatto sulla scorta di due annotazioni di Gregorio Magno.

Fu il primo papa appartenente all'alta aristocrazia romana salito sul soglio di Pietro all'indomani della caduta dell'Impero Romano d'Occidente. Fu anche il primo papa che ritenne necessario comunicare la notizia della propria elezione all'imperatore bizantino. Con la sua politica ferma e decisa nei confronti sia del patriarca sia del sovrano di Costantinopoli F. fu pure, tra i pontefici romani, uno dei maggiori assertori del primato papale in campo ecclesiastico e religioso prima di Gelasio (quest'ultimo, del resto, fu suo segretario e, in tale qualità, influì fortemente sulle sue decisioni). F. fu papa di grande energia e di severi principi. Il primo grande scisma fra Roma e Costantinopoli, che si aprì durante il suo pontificato, fu il risultato di tensioni nei rapporti tra le due sedi patriarcali accumulatesi in epoche precedenti, e di problemi avuti in eredità: una frattura che egli, anche se avesse adottato una linea politica meno inflessibile e rigorosa, non avrebbe potuto impedire.

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