FILIPPO Neri, santo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 47 (1997)

FILIPPO Neri, santo

Vittorio Frajese

Nacque a Firenze, nel quartiere di S. Pier Gattolini, il 21 luglio 1515, da ser Francesco di Filippo da Castelfranco e da Lucrezia da Mosciano.

Il padre esercitava il mestiere di notaio, arte non lucrosa ed intrapresa in tarda età, che tuttavia abilitava a tutte le magistrature cittadine. La madre, Lucrezia da Mosciano, era figlia di un falegname. F. la conobbe appena, perché ella morì alla nascita del quarto figlio, l'8 sett. 1520, quando F. aveva cinque anni. Nel complesso, la situazione familiare era disagiata ed aveva conosciuto un processo di decadenza dalla posizione cospicua occupata nel XIV secolo.

Tra il 1520 e il 1530 ser Francesco abitò nella parrocchia di S. Giorgio e F. frequentò il convento domenicano di S. Marco dove fu educato al culto di Girolamo Savonarola, per il quale mantenne una intensa devozione anche in seguito, e dove probabilmente fu aggregato alla fiorente Compagnia dei fanciulli della Purificazione. Frequentò poi le scuole comuni dove ebbe per maestro un certo Chimenti. Alla scuola, F. non apprese il greco, che non conobbe mai, e imparò poco latino. La sua adolescenza non presentò segni di una vocazione religiosa o di particolare pietà; al contrario, essa fu del tutto ordinaria, mentre il suo carattere manifestava quei tratti di cordialità unita a maniere naturali, ad una spensieratezza e ad un umore espansivo, che non lo abbandoneranno più.

F. lasciò Firenze forse verso la fine del 1532 e, partendo senza un soldo, si recò presso un lontano parente, Romolo, a San Germano (l'odierna Cassino), soggiornandovi poco tempo; quindi andò a Roma. È in questo periodo - e nella decisione di recarsi a Roma - che si colloca la sua conversione religiosa.

Intorno alle date di partenza da Firenze e di arrivo a Roma, esiste qualche discordanza tra le testimonianze. L'arrivo a Roma è da collocare nel 1533, mentre la data della partenza da Firenze è controversa. Secondo la deposizione della sorella Elisabetta al primo processo di canonizzazione, sarebbe da collocare tra il 1532 e il 1533, mentre, secondo la testimonianza recata da G. M. Brocchi, F. sarebbe partito da Firenze nel 1530, a quindici anni. Anche sulla durata del soggiorno a San Germano esistono testimonianze discordanti: secondo la sorella, F. vi sarebbe rimasto due anni; questa è pure l'opinione di G. Bacci, mentre secondo A. Gallonio F. vi sarebbe rimasto solo pochissimo tempo, addirittura qualche giorno.

La questione della data di partenza di F. da Firenze non è di poco conto poiché concerne il grado del suo legame con il fuoruscitismo repubblicano seguito al ritorno dei Medici a Firenze nel 1530. Infatti la famiglia di F. era di parte repubblicana e savonaroliana e uno spostamento della data di partenza di F. da Firenze al 1530 farebbe di lui un vero e proprio fuoruscito antimediceo. Connotazione che getterebbe una luce particolare sia sul suo assegnamento, in seguito, alla chiesa nazionale di S. Giovanni dei Fiorentini, cui faceva capo il fuoruscitismo antimediceo romano, sia sul suo ruolo filofrancese nella questione della assoluzione di Enrico IV.

A Roma, nel primo periodo F. abitò presso la dogana, sulla piazza S. Eustachio, dove il direttore, il fiorentino G. Del Caccia, gli concesse l'uso di una stanza, incaricandolo dell'educazione dei suoi due figli, Michele e Ippolito: una fune, tesa attraverso la stanza, serviva da armadio. In questo tempo F. seguì corsi di filosofia alla Sapienza e di teologia a S. Agostino avendo come maestri A. Ferri e C. Iacomelli. Ma non studiò molto; egli stesso avrebbe confidato poi a F. Zazzara "che haveva studiato poco et che non aveva potuto imparare perché attendeva alle orationi et altri esercizi spirituali" (Processo, I, p. 61): ai corsi del S. Agostino c'era un crocifisso che lo faceva piangere e sospirare. E venne il giorno in cui, per ragioni mistiche, si disfece dei libri.

La vocazione di F. insomma stava assumendo quel carattere insieme mistico e pratico, ascetico e attivo che ne costituì il tratto peculiare. Così, verso il 1536 F. scelse la vita che tutte le testimonianze designano concordemente come eremitica, termine con cui occorre intendere non tanto una vita solitaria quanto piuttosto girovaga e priva di ufficio istituzionalmente definito.

F. si mise a girare per Roma predicando i comandamenti di Dio e le buone opere. Per più di dieci anni, perlomeno fino al 1548, condusse una vita senza regole, fatta di peregrinazioni straordinarie, esercitando una predicazione senza mandato e un insegnamento senza ufficio. Non si trattava cioè di un eremitaggio meditativo. F. viveva tra la folla di città, errava gaiamente nelle strade, tra i lazzi e le battute. Quando si stancava della città, andava in campagna, faceva il "pellegrinaggio delle sette chiese", dormiva sotto il portico di una chiesa o dentro una grotta, come i sotterranei di S. Sebastiano, sulla via Appia, contigui alla basilica omonima; e sembra che scegliesse intenzionalmente la notte per allontanarsi dalla città. L'indirizzo caritativo e sociale della sua pietà si manifestava già in questo periodo inducendolo, tra l'altro, a passare per S. Giacomo degli Incurabili dove si improvvisò infermiere.

Nella sua missione F. manifestava una particolare attenzione verso i giovani. Due orafi, Sebastiano e Francesco, il secondo della bottega dei Torreggiani, furono tra i primi discepoli di questa generazione. Fu F. a convincere P. Crivelli a lasciare il banco dei Cavalcanti, dove si praticava l'usura: era infatti frequentatore dei peccatori più forti e pubblici "…usurarii, sodomiti et gran peccatori" (Processo, II, p. 336). Viceversa, prestò scarso interesse al mondo femminile, al "peccato" femminile, nei confronti del quale operò assai poco.

Si andava profilando in tal modo una missione spontanea ed ingenua, munita di segni carismatici ma priva di ufficio, laica e priva di ordinazione ecclesiastica, che il concilio in corso si adoperava appunto ad assorbire e disciplinare; così che assume un significato altamente emblematico la forte pressione esercitata su F. affinché prendesse gli ordini.

Nel 1548 F. fondò con P. Rosa la confraternita che prese il nome di Trinità dei Pellegrini. Dapprima dodici laici si riunivano attorno al Rosa per pregare in comune e ricevere l'eucarestia; poi, il 16 agosto, nel fervore delle feste dell'Assunta, il Rosa propose di erigere l'associazione privata in associazione canonica. Dapprincipio il loro fine si limitava al perfezionamento individuale, ma poi il cardinale F. Archinto li indusse ad aggiungere la pratica della carità proponendo di venire in aiuto dei poveri pellegrini. Questa attività era mossa da una motivazione teologica: nel povero accolto rivive Gesù. In questo periodo, precedente all'ordinazione presbiteriale, F. entrò in relazione con diverse iniziative caritative legate all'attività del Divino Amore. Divenne membro della Compagnia di S. Giacomo in Augusta addetta alla gestione dell'ospedale di S. Giacomo, detto degli Incurabili; ed entrò in relazione con la confraternita di S. Maria della Grazia incaricata del ricovero delle convertite.

Nei primi mesi del 1551 i contatti di F. con la Confraternita della Trinità dei Pellegrini scemarono a causa della sua preparazione al sacerdozio. F. si fece prete quasi per forza, per comando del suo confessore, quale era nel frattempo diventato il Rosa. Lo ordinò G. Lunel: nel marzo del 1551 gli conferì la tonsura, gli ordini minori e il suddiaconato in S. Tommaso in Parione; il 28 marzo, sabato santo, in S. Giovanni in Laterano, il diaconato e il 29 maggio il presbiteriato, di nuovo in S. Tommaso. Contemporaneamente F. prese alloggio presso S. Girolamo, dove rimase fino al 1583, anche dopo che l'oratorio fu spostato presso S. Giovanni dei Fiorentini, quando si trasferì presso S. Maria in Vallicella per espresso ordine del papa.

A S. Girolamo, ostello onorevole dovuto all'amicizia del Rosa e di F. Marsuppini, aveva sede l'Arciconfraternita della Carità. Questa era un centro di assistenza, una sorta di ufficio centrale della carità fondato attorno al 1518 dal cardinale Giulio de' Medici. Nel 1519 contava ottanta confratelli, tutti appartenenti alla Curia. Provvedeva ai funerali dei poveri, ma era volto soprattutto a soccorrere i poveri vergognosi e dotare le ragazze povere per mezzo di elemosine segrete. In seguito avrebbe provveduto alla visita delle prigioni, alla difesa degli accusati senza mezzi, alla liberazione dei detenuti per debiti e all'accelerazione del corso della giustizia. Cacciaguerra vi entrò il 13 ott. 1550, G. Bacci il 19 luglio 1552: tra le due date vi entrò Filippo.

I padri gerolamini portavano i capelli lunghi, vestivano una zimarra con le maniche lunghe fino a terra, sopra lo zucchetto un cappello a falde larghe simile a quello indossato dagli auditori di rota durante la cavalcata. La comunità gerolamina non imponeva alcun vincolo di soggezione: nessuna tavola comune e nessun superiore; ciascuno poteva operarvi a suo modo. In essa F. manifestò, nel primo periodo, un grande zelo nel "confessare".

L'oratorio nacque nell'alveo di S. Girolamo della Carità, muovendo da questo zelo verso i penitenti. F. faceva tornare i devoti al pomeriggio e li teneva con sé nella sua stanza: otto persone al massimo, più F. che di solito si poneva "steso sul letto". F. li esortava nei suoi accessi di "tremito", oppure dava loro la parola: si formò così il "ragionamento", colloquio sopra un tema edificante. Dapprincipio i discorsi dei fedeli erano liberi, privi di un argomento predeterminato, quindi, per dar materia regolare alle conversazioni venne introdotto l'uso della lettura, soprattutto del quarto Vangelo e delle opere di J. de Gerson. Quando la stanza di F. divenne insufficiente, il luogo degli incontri fu trasferito al piano superiore, la soffitta della chiesa. Tra il 1554 e il 1555 il nuovo locale prese il nome di "Oratorio".

Le riunioni, allargandosi, ebbero necessità di ricevere forma regolare; le conferenze divennero impossibili e comparvero i discorsi: F. obbligava ora l'uno ora l'altro a raccontare un episodio edificante. Nel frattempo, la riunione di preghiera notturna divenne quotidiana come quella pomeridiana. Quindi, tre volte alla settimana, il lunedì, il mercoledì e il venerdì, F. ripristinò l'usanza delle antiche confraternite italiane di disciplinarsi in comune. Infine, la domenica e i giorni di festa cominciarono le riunioni mattutine.

Un'ora avanti il giorno F. faceva orazione con i discepoli, confessava e si comunicava con loro. Eseguite queste devozioni, a partire dal 1553 circa, F. prese l'abitudine di inviare i giovani presso gli ospedali di S. Spirito della Consolazione e di S. Giovanni in Laterano a portare agli ammalati dolci, arance, ciambelle e marmellate; poi essi questuavano durante le funzioni per i loro malati con la borsa aperta e il capo scoperto, cosa considerata assai umiliante: ma F. voleva che le opere di carità costituissero il risultato e la sanzione delle pie pratiche.

Si delineava così sempre più precisamente il legame che univa l'impronta del suo carattere all'indirizzo della sua pietà. F. era vivace, allegro, espansivo, socievole e nello stesso tempo non era privo di una certa iracondia. Amava passeggiare e cominciò ad introdurre quella che avrebbe preso forma di una vera istituzione filippina: la passeggiata per Roma, accompagnato dai suoi discepoli, nel corso della quale amava visitare le botteghe, le più diverse, come quelle di orologi e di arte sacra, sostando con i bottegai a fare scherzi, dire frasi saporite, fare battute salaci. Aveva insomma un fare eccentrico ed estemporaneo. Ad esempio, si vestiva in maniera ridicola: le vesti alla rovescia, le scarpe bianche sotto la tonaca, la pelliccia di martora, che un devoto gli aveva regalato, ridicolmente posta sulle spalle. Ballava goffamente in pubblico, declamava versi epici in presenza di cardinali e prelati che di lì a poco avrebbero cominciato a frequentare la sua camera. Allo stesso tempo menava rimbrotti e schiaffi ai discepoli, nei momenti di irritazione.

Questo complesso di comportamenti, oltre che rispondere naturalmente al suo temperamento e alla sua natura, non ordinaria né sotto il profilo psicologico né sotto quello fisico, obbediva ad uno scopo morale consistente nella ricerca dell'umiltà. Si è parlato di "bassezza e semplicità cristiana", definizione pertinente purché si tenga presente che essa ubbidiva principalmente all'idea filippina del cristianesimo e al suo programma di formazione cristiana. Mediante le sue stravaganze F. cercava di farsi "disprezzare", cioè di giungere ad uno stato di completa indifferenza verso l'opinione del mondo. Egli esprimeva questa idea quando diceva che l'umiltà consiste non soltanto nel disprezzarsi, ma nell'accettare il disprezzo degli altri. In questa sua concezione dell'umiltà si condensava la sua sensibilità antintellettuale. In essa albergava un'idea della santità e della perfetta vita cristiana che racchiudeva un'intera teologia del cristianesimo. Per F. la radice della santità "sta in mortificare la razionale" (Processo, II, p. 26) ed egli soleva dire che tutto si riduce infine a due dita, cioè a mortificare il cervello. Con ciò occorre intendere una pratica volta a umiliare l'amor proprio e così giustificarsi. Si trattava, in altre parole, di una specifica risposta teologica, tra le più intense e le più originali della cultura cattolica, al problema della giustificazione posto a tema della Riforma.

Il gruppo dell'oratorio non godeva di una piena autonomia a S. Girolamo. All'inizio gli affiliati dell'oratorio si confondevano con quelli di B. Cacciaguerra, anzi, dapprincipio questi prevaleva su F. finché il rapporto lentamente si rovesciò e, attorno al 1558, l'oratorio divenne pienamente autonomo mentre il Cacciaguerra prendeva la via di una mistica individuale, limitandosi a governare alcune devote contemplative; di queste invece F. diffidava, come in genere diffidava delle visionarie e mostrava poco interesse per la confessione delle donne che di solito scansò e respinse, ad eccezione di Fiora Ragni.

Le seguaci del Cacciaguerra in effetti erano soprattutto eccitate al misticismo, mentre F. indirizzava le donne piuttosto ad un portamento naturale ed ordinario, volgendole verso la carità e le forme di pietà attiva. Nutriva inoltre grande diffidenza per visionari ed estatici come esposti soprattutto alle tentazioni del demonio. Di conseguenza, l'unione di queste due diffidenze, verso gli estatici e verso le donne, provocò la sua inesorabile e violentissima avversione per Orsola Benincasa, alla quale, nel 1582, per sette mesi inflisse prove rigorose volte a dimostrare che quanto si vedeva in lei di straordinario era opera del demonio. Ma, accanto a questi moventi, vi era pure, certamente, la diffidenza verso se stesso: egli proiettava cioè nella diffidenza verso l'origine degli stati estatici degli altri - caratteristici spesso del mondo femminile - il dubbio intorno alla natura dei propri.La sera, al suono dell'Ave Maria, F. prese a celebrare una riunione dove si meditava in silenzio per mezz'ora mentre un'altra mezz'ora era consacrata alla lettura e recita di preghiere.

Ma l'oratorio propriamente detto restò quello del pomeriggio, a un'ora che variava secondo le stagioni, e aveva preso forma di un'adunanza nella quale ciascuno parlava come dettava l'ispirazione, secondo il dono dello Spirito, con sermoni che presero forma di commenti a letture. I libri impiegati più frequentemente erano ora: Dionigi il Certosino, Climaco, Cassiano, Gerson, Riccardo di San Vittore, s. Caterina da Siena, il De contemptu mundi, un trattatello attribuito ad Innocenzo III, la Pharetia divini amoris di Serafino da Fermo, le vite dei santi, specialmente quelle dei padri della Chiesa, la Leggenda francescana, il Prato spirituale. Due erano particolarmente importanti: la Vita del b. Colombini di F. Belcari e i Cantici spirituali di Jacopone da Todi. L'idea delle letture era che l'entusiasmo e il fervore si attivassero parlando, donde l'uso sempre più frequente della "laude" dopo la lettura e il discorso.

L'avvento di Pio IV non mutò la vita e le forme di reclutamento dell'oratorio, protetto e favorito ora da Carlo Borromeo. Tra il 1562 e il 1563 i domenicani si avvicinarono molto all'oratorio, assumendo un modo di predicare simile a quello di Filippo. Nel 1563, durante il tempo del carnevale, che quell'anno non fu festeggiato, F. organizzò per la prima volta in grande stile il "pellegrinaggio alle sette chiese", riprendendo la pratica dei suoi anni di vagabondaggio.

Alla fine del 1563 o ai primi del 1564 gli fu proposta la carica di rettore di S. Giovanni dei Fiorentini. F. accettò soprattutto per collocarvi i suoi seguaci e tenerli così legati anche istituzionalmente. Il primo nucleo di S. Giovanni dei Fiorentini fu composto da C. Baronio, F. Bordini e A. Fedeli. La vita del convitto di S. Giovanni fu prefigurazione di quella della Congregazione dell'oratorio. I cappellani mettevano insieme gli stipendi ed insieme prendevano i pasti. Ciascuno a turno faceva la cucina e serviva a tavola. Nel 1565 entrarono in S. Giovanni B. Tarugi e A. Valli, entrambi laici, e il primo sembra avere steso le regole della comunità.

In questi anni l'oratorio assunse la sua forma definitiva: il "ragionamento sopra il libro", l'esortazione morale, i racconti di storia della Chiesa e di vite dei santi scandivano regolarmente l'indifferenziata conversazione iniziale. Si dava ad un fratello un libro da leggere, un libro, ad esempio, di vite di santi: da questo un altro prendeva occasione per un sermone, un terzo teneva un più "elaborato sermone", passando in rassegna esempi di santi tolti da autori approvati, insistendo sui temi della caducità della vita, della temibilità del giudizio finale, dell'atrocità dei tormenti. Un ultimo infine parafrasava la vita di un santo per l'utilità degli uditori. F. interveniva di solito al termine della conferenza dialogata. Il sermone morale era generalmente imparato a memoria e recitato da G. Fedeli e da A. Paravicino. Gli oratori parlavano seduti; il dialogo, che avveniva stando di fronte agli uditori, si svolgeva da un semplice banco sul quale anche F. sedeva. Altri occupavano a turno una sedia posta al centro su alcuni gradini: l'essenziale era bandire tutto quanto ricordasse la cattedra e la predicazione di chiesa. Solo alla fine si resero conto di aver riesumato la forma dell'antico presbyterium. Infine, dai convegni nella soffitta di F. emersero la lettura preliminare e la conversazione sul libro; i ragionamenti; i dialoghi; le preghiere e le laude.

Sotto Pio V l'oratorio non godette di favore, anzi fu decisamente osteggiato. Già nel 1558, durante gli ultimi mesi del pontificato di Paolo IV, mentre Michele Ghislieri era commissario generale dell'Inquisizione, venne proibito il "pellegrinaggio alle sette chiese". In quel caso, secondo quanto sappiamo dalla deposizione di S. Grazzini al processo di canonizzazione, l'ostilità proveniva dal cardinale di Spoleto, V. Rosario, il quale proibì di andare a passeggio in comitiva per la città. F. vietò allora ai suoi di accompagnarlo, ma sembra che quelli lo seguissero di lontano. La morte del Rosario, avvenuta il maggio successivo, allontanò per il momento il pericolo.

Esso si ripresentò naturalmente quando il Ghislieri fu elevato alla tiara.

L'oratorio fu sospettato allora come conciliabolo di eretici. I sospetti e le accuse si concentravano questa volta soprattutto sulle riunioni in privato, le prediche tenute da laici, i canti in volgare. L'attacco proveniva principalmente dai più ortodossi ambienti domenicani, come indica l'impostazione della difesa dell'oratorio contenuta nell'Apologia, redatta in quell'occasione, nella quale venivano invocati i precedenti di S. Marco e di S. Maria Novella in Firenze. L'Apologia non convinse la Curia la quale proibì la passeggiata di F. con i discepoli per le vie di Roma - che veniva sentita come un modo di "far setta" e attribuire a F. il ruolo di un capo cittadino - ed era sul punto, nel 1567, di decretare la chiusura dell'oratorio quando l'intervento risoluto di Carlo Borromeo scongiurò tale provvedimento estremo. Non cessò tuttavia l'avversione di Pio V e del suo ambiente, che si manifestò nell'iniziativa di far sorvegliare da due domenicani le prediche tenute da laici, tra i quali addirittura un ex rabbino, A. Dal Monte.

Il secondo attacco andò a segno tra il 1569 e il 1570. Le accuse erano di "ignoranza e presunzione degli oratori", concernevano cioè ancora il metodo di lasciar parlare ognuno di religione senza speciale preparazione. Anche superato questo episodio il contrasto non si sedò. Pio V sentiva una continuità tra il proprio regno e quello di Paolo IV, così che perseguitò gli accusatori dei Carafa e, tra l'altro, mandò al carnefice il fiscale A. Pallantieri, il quale era vicino a F. che se ne fece garante e pare lo abbia assistito nel momento della morte. Ma l'episodio più indicativo per cogliere la differenza di tono e di impostazione religiosa - e perfino teologica - tra F. e il papa è quello successivo: per equipaggiare le navi da inviare contro il Turco, Pio V fece sequestrare un certo numero di zingari e li fece rinchiudere in Tor di Nona per spedirli poi alla galera. Alcuni teologi criticarono l'atto abusivo: tra loro, oltre a F., A. Franceschi, P. Bernardini di Lucca, entrambi suoi intimi e confidenti.

Il pontificato di Gregorio XIII, il primo papa con il quale F. intrattenne contatti diretti, vide invece salire la stella di Filippo. La piccola comunità di S. Giovanni dei Fiorentini si ampliò e si depurò giungendo a comprendere solo reclute di Filippo. In tal modo essa divenne naturalmente Congregazione dell'oratorio senza che la bolla di istituzione canonica della Congregazione cambiasse in nulla la sua composizione e la sua regola di vita.

La comunità nel 1564 comprendeva sei preti; mentre nel 1567 comprendeva diciotto persone tra preti e laici. Al gruppo dei convittori si aggiunse il numero di coloro, perlopiù i penitenti di F., che chiedevano di essere ammessi, dietro pagamento, alla ricerca di una vita edificante. La supplica del 1578 per l'aumento delle spese di vitto fornisce il numero esatto dei membri della comunità per quell'anno: tredici più Filippo. Nel gennaio 1578 i membri della Congregazione erano trentatré.

A partire dall'insediamento di F. in S. Girolamo della Carità cominciano le testimonianze che definiscono la forma della sua vocazione e, uniti inscindibilmente ad essa, i sintomi della sua malattia.

F. cominciò a manifestare un forte "tremito". Presso il letto di morte di A. Corvino ebbe un tremito abbastanza intenso da scuotere leggermente il pavimento della casa. Lo stesso accadde con M. Fano, un peccatore che non si voleva emendare. Quando raggiungeva tale stadio, F. cominciava spesso a "lacrimare" e "singhiozzare". In questi stati di fervore, le testimonianze agiografiche e meravigliose del processo gli attribuirono delle "elevazioni".

Il fervore era causa di grandi "distrazioni". Mentre si vestiva, perdeva la nozione di ciò che stava facendo; si fermava con gli occhi fissi al cielo, il vestito in mano: senza un compagno che lo dicesse insieme con lui, non sarebbe arrivato in fondo all'uffizio. Durante la messa aveva delle amnesie complete. Dopo di essa, passava davanti alle persone senza riconoscerle: perfino l'udienza papale a stento lo induceva a ritornare in sé. Riferì al Gallonio: "io ero fuori di me quando sono entrato in camera di sua santità", così da giungere presso il papa senza accorgersene. Aveva fenomeni di "irrigidimento del corpo" con una diminuzione dell'attività sensoria che poteva giungere fino alla sospensione totale. Nel 1557 A. Fedeli rilevò in F., immerso nella preghiera, una immobilità statuaria. Mentre recitava l'ufficio con un compagno, F. rimaneva immobile come un cadavere: ci si poteva avvicinare a lui senza che vedesse e sentisse.

Un'estasi ben caratterizzata avvenne nel 1559, durante la controversia tra gesuiti e domenicani intorno alla censura di Savonarola. Il sacramento era esposto in una stanza del convento della Minerva. Un giorno F. fu colto da irrigidimento estatico dinanzi ad esso e rimase a lungo fuori dai sensi: al risveglio descrisse una visione del Cristo "come si vede nelle Pietà dei primitivi, dal mezzo in sù", in atto di benedire i fedeli.

Nel complesso dunque, F. mostrava i segni ben definiti di una forte epilessia. Egli si sforzava di mimetizzare i suoi stati e sembrava sentire vergogna dello spettacolo che offriva; opponeva resistenza agli stati che stavano per impossessarsi di lui, cercava di sfuggirli e li temeva. In questi casi cominciava a grattarsi il capo e a tirarsi la barba. Dallo sforzo di camuffare questi stati estatici nacque quello che suole chiamarsi l'atteggiamento "umoristico" di Filippo. Alla fine però l'"accesso divino" prevaleva sempre.

In questi stati F. si considerava posseduto dallo Spirito Santo, del quale era, di conseguenza, molto devoto. Ma F. si definiva anche un "infermo d'amore". Tale infermità era innanzitutto fisica. Aveva violentissime palpitazioni. Nei momenti di crisi gli appariva sul petto una tuberosità nella quale si propagava e si amplificava il movimento del ritmo cardiaco: lo constatò A. Cesalpino, che lo esaminò nel 1593, trovandolo di "petto molto estenuato" e "con un tumore a presso delle costole nel lato sinistro, vicino al cuore... e nel tempo della palpitazione si alzava e si abbassava ad uso di mantice". F. aveva in effetti una lesione organica: le due prime false costole erano staccate dalla cartilagine che le univa allo sterno; nel punto di rottura le estremità libere delle costole sporgevano esternamente in direzione della pelle. Era questa la tuberosità che partecipava ai moti del cuore. I tremori erano probabilmente l'effetto delle palpitazioni cardiache e queste a loro volta erano presumibilmente dovute ad un aneurisma. Esse risalivano al 1544; la prominenza del petto dovette presentarsi pressappoco nello stesso tempo.

Sembra che le palpitazioni si siano presentate contemporaneamente alle estasi e che insieme ad esse si manifestasse un calore insopportabile. Anche questi calori risalgono ad una data molto precoce, che F. attribuì al principio della sua conversione. Fu allora che vide un "globo di fuoco" entrargli nella gola e dilaniargli il petto. Egli attribuì questo calore alla presenza dello Spirito. Riteneva che questo spirito che portava nel petto si potesse comunicare agli altri: così ricorreva al contatto del suo petto per guarire malati o dissipare angosce e tentazioni. In tal modo placò le tentazioni di M. Vitelleschi e gli scrupoli di N. de' Neri. Aveva anche l'abitudine di stringersi al petto i penitenti al momento di assolverli ed era allora che l'abate P. P. Crescenzi sentiva il petto battergli fortemente.

Con T. Ricciardelli, il quale si lamentava di tentazioni che non riusciva a scacciare, F. si distese sopra di lui, petto contro petto. Quanti ricevettero la stretta affermarono che dava una dolcezza singolare.

Come la grande maggioranza dei suoi contemporanei F. non aveva fiducia nei medici. Aveva maggior fiducia nell'efficacia delle elemosine e delle reliquie: possedeva un reliquiario donatogli da Federico Borromeo contenente frammenti del legno della S. Croce e delle ossa dei martiri Pietro e Paolo. Per curare le proprie infermità usava tuttavia degli accorgimenti: seguiva una dieta, si asteneva dal vino e si sottoponeva a salassi, ritenendo di avere troppa abbondanza di sangue.

Fu poco dopo la sua ordinazione al sacerdozio che i Romani cominciarono ad attribuirgli il potere di guarire; e, più tardi, capacità profetiche. A questo proposito, le testimonianze raccolte nel corso del processo di canonizzazione offrono una documentazione vastissima dell'attività di F., del suo rapporto con la società cittadina ed insieme della vita, della sensibilità e delle credenze nella Roma cinquecentesca.

La prima guarigione di cui abbiamo notizia risale al 1554. Molto spesso il mezzo della guarigione era il comando: F. ordinò ad una donna di non ammalarsi senza il suo permesso, rinnovando efficacemente il divieto ogni volta che la donna cominciava a sentirsi male. In altri casi bastavano semplici parole di esortazione. Oppure F. toccava con la mano il malato. A volte lo abbracciava e a volte si sdraiava su di lui. In un caso di agonia andò di qua e di là con grande agitazione in tutto il corpo, poi soffiò in viso al morente. Ad una spiritata impose le mani. Alcuni pazzi furiosi si calmarono sentendo la sua voce. Eseguì un esorcismo su L. Cotta, stregata da otto anni quando prese F. per confessore nel 1592. Un caso di toccamento avvenne nella guarigione di Clemente VIII. Il papa riceveva F. anche nei giorni di gotta: F. avanzò piano e toccò la mano dolorante, che subito migliorò. Egli usò assai spesso reliquie, soprattutto con le partorienti: sacchetti di ossa di santi, oppure le pantofole di Pio V, che operavano meraviglie.

Durante tutto il periodo di formazione del piccolo gruppo di chierici regolari presso S. Giovanni dei Fiorentini, F. rimase invece appartato presso S. Girolamo della Carità. Vi soggiornò per più di un trentennio fino a che, nel 1583, ricevette da Gregorio XIII l'ordine di trasferirsi a S. Maria in Vallicella. Dal 1572 cominciarono le discussioni per il passaggio della comunità di preti riunita attorno a F. e residente in S. Giovanni dei Fiorentini al sodalizio formale. E la prima volta che appare il termine "oratorio" è in tre atti di petizione e di relativo conferimento di tre uffici vacabili, intestati a F. M. Tarugi, e un indulto, concessi l'uno e gli altri per vantaggio dell'oratorio dal cardinal datario M. Contarelli, con le date del marzo e del luglio 1574.

Si cominciava a cercare la sede da attribuire alla Congregazione. Nel 1574 F. rifiutò un'offerta dei Colonna, con i quali era a stretto contatto. Prese invece in considerazione prima S. Cecilia in Monte Giordano, che fu poi effettivamente compresa in Vallicella. Fu Gregorio XIII a designare la Vallicella. Vicina alla corte, la chiesa Nuova era molto frequentata dai suoi membri e costituiva elemento essenziale nel progetto della sua riforma morale. Il fatto solo di comparire in Vallicella bastava per essere classificati tra gli "spirituali". In tal modo i cortigiani divennero i frequentatori più numerosi della chiesa.

Il 15 luglio 1575, con la bolla Copiosusin misericordia, Gregorio XIII stabilì "una congregazione di preti e di chierici secolari chiamata Oratorio" e le attribuì la chiesa di S. Maria in Vallicella.

La Congregazione era atipica; normalmente le congregazioni esigevano voti, costituendo ordini e gruppi regolari. Viceversa quella di F. non mutò lo stato di prete del socio. L'oratorio era cioè un seminario di preti senza regola speciale: per essi la regola era costituita dal contatto diretto e vivo con F. e dalla frequenza del convitto. L'ufficio dell'oratorio consisteva essenzialmente nel trattare la parola di Dio in modo facile, piano, diverso dallo stile ordinario delle prediche cosicché, sebbene abbia poi introdotto i sacramenti e altri esercizi spirituali, tuttavia il suo tratto peculiare rimase annunciare il verbum Domini. Il ministero che F. aveva soprattutto a cuore era la cura dei malati negli ospedali; inoltre egli prese ad applicare i discepoli all'insegnamento del Catechismo ai fanciulli. Il memoriale del 1578 pose l'insegnamento della dottrina cristiana al centro delle opere della congregazione.

Tre preti, il Baronio, il Tarugi e G. A. Lucci presero residenza nella nuova chiesa della Vallicella nell'agosto 1576, prima che essa fosse aperta al culto: l'inaugurazione ufficiale avvenne nell'aprile del 1577 e la chiesa appena aperta al pubblico fu illustrata dalla predicazione del cappuccino spagnolo A. Lobo.

Nel 1578 la Congregazione era al completo alla Vallicella. La bolla di fondazione concedeva ampia facoltà di emettere statuti. I padri riuniti decretarono le leggi che regolavano il corpo comune. La prima assemblea si tenne il 15 marzo 1577; l'8 maggio F. fu eletto preposito della Congregazione da cinque padri incaricati di prendere i provvedimenti utili al bene generale: essi erano: B. Messia, A. Visconti, F. Bordini, il Tarugi e A. Talpa.

L'oratorio fu trasferito alla Vallicella nell'aprile 1577. Dapprincipio fu collocato in una sala di abitazione dei patres, poiesso fu tenuto nella chiesa stessa. La chiesa Nuova soggiaceva a S. Lorenzo in Damaso, cosa che imponeva alcuni servizi: si supplicò dunque Alessandro Farnese che, come vicecancelliere della Chiesa romana era abate di S. Lorenzo, di rinunciare alla sua giurisdizione; alla fine, dopo tre anni, fu redatto un motu proprio che sanciva l'affrancamento.

La prima manifestazione di una vita regolata della nuova Congregazione può essere considerata l'adunanza del 2 luglio 1580, che si chiamò già "congregazione generale", la quale nominò come rettore della casa F. M. Tarugi, estraendolo a sorte de consensu del preposito, che era F., e aggiungendolo ai quattro deputati precedentemente nominati. Essa inoltre registrò nel libro dei decreti le decisioni prese in comune sulla vita della Congregazione.

Nel 1581 i filippini posero mano alle loro costituzioni. F. chiese espressamente che nulla si stabilisse, riguardo alla Congregazione, senza che fosse chiesto il parere di tutti i suoi membri. Il preposito dei filippini non ebbe quasi, in effetti, poteri personali e gli si negò perfino qualunque segno esteriore di dignità. La relazione al cardinal G. Savelli, del principio del 1582, descrive le attività dell'oratorio: undici preti attendono alla confessione, uno è addetto alle oblate di Tor de' Specchi e uno scrive la storia ecclesiastica (Cistellini, S. F. N., p. 273).

Il primo cenno ad un lavoro ordinato di codificazione statutaria è del 10 maggio 1582. La prima redazione, condotta su un abbozzo steso dal Talpa e volto in latino dal Bordini fu completata nel 1583. Da allora fino alla definitiva approvazione del 1612, per quasi un trentennio, la Congregazione rielaborò questo testo originario. Ciò derivò dal fatto che i padri esitarono a lungo prima di farsi confermare le costituzioni e di porre termine, in tal modo, all'attività legislativa concessa dalla bolla istitutiva, mossi dal timore di legarsi le mani per sempre. Dopo la prima redazione del 1582-83, nel 1588 fu redatto da T. Bozio un nuovo testo che non ottenne l'approvazione pontificia, come era nei desideri dello stesso F., ma rimase sostanzialmente la regola ufficiale fino al 1612. Fu solo nel 1609, quattordici anni dopo la morte di F., che la Congregazione pose risolutamente all'ordine del giorno tale negozio, deputando a questo scopo, il 23 agosto, F. Bozio, G. Severani, P. Consolino e G. Giustiniani.

Nel frattempo furono prese a modello dai padri le costituzioni degli oblati, istituiti da Carlo Borromeo, a conferma dello stretto legame personale che si era istituito tra quest'ultimo e F. fin dal tempo di S. Girolamo della Carità. Su questo modello i membri della Congregazione introdussero un "giuramento di stabilità", ma non di obbedienza. Ancora adottarono la comunanza del possesso e la povertà dei singoli: comuni sarebbero stati vitto, abito, mobilia; si agì cioè come se fosse pronunciato il voto di povertà, ma questo non venne proferito espressamente. A fine febbraio 1583, infatti, si deliberò che si facesse voto semplice e giuramento di perseverare sempre nella Congregazione; e si deliberò che tutti vivessero in comune in omnibus, non solo per il vitto.

A queste deliberazioni si opposero F. Ricci e F. Bordini - i quali dichiararono di non volersi impegnare in nulla che non fosse approvato da F. - facendo osservare come l'idea iniziale della piccola comunità fosse di formare una congregazione di preti secolari mentre ora si stavano adottando in sostanza tutte le conseguenze dei tre voti monastici, erigendo così una comunità claustrale. Dal canto loro essi volevano invece mantenere la propria libertà "senza promissione veruna di voto o di giuramento" (Bordet, p. 314). Accettavano il disposto dei padri quanto all'abito e alla camera, non volevano invece prestare il giuramento di stabilità e volevano conservare la proprietà personale dei libri, di cui si serviranno continuamente: erano perciò contrari alla messa in comune di ogni cosa; richiedevano infine libertà di movimento per i negozi concernenti la loro vocazione. Dalla discussione che si svolse su questi problemi tra i padri risultò che F., dal canto suo, accettava il voto di stabilità soprattutto perché soffriva dello scarso numero dei membri e temeva che senza tale voto il loro numero sarebbe diminuito ulteriormente; invece il Bordini era contrario al voto di povertà e fu soprattutto su sua insistenza che fu ritirato l'articolo sulla comunione dei beni mobili. Infatti, fino a quel momento la maggior parte viveva del suo. L'opposizione del Bordini ebbe dunque un certo seguito: per comporre il dissenso, nella deliberazione del 7 marzo si introdusse l'inciso "lasciati liberi quelli che non vogliano, i quali possono vivere come ora vivono".

Così i capitoli da dodici si ridussero a quattro, relativi al preposito, ai quattro deputati, agli ufficiali inferiori ed infine alle regole, tra le quali caratteristiche quelle che vietavano di accettare benefici e prelature. Alla fine, nella redazione provvisoria del 1583, gli obblighi si riducevano ad assai poco ricalcando il modello di vita di un convitto di preti liberi. Ad essi si aggiungeranno le Raccolte di usanze della comunità. Nel 1588 si introdurrà la confessione settimanale, mentre nella redazione definitiva del 1612 si parla di tre confessioni alla settimana. Nel 1595 infine si accenna alla riunione per la colpa, due volte al mese, dove ognuno si accusava dei dispiaceri arrecati agli altri. Solo nel 1612 nella redazione approvata dal papa, si parla della "refettione" come obbligo. L'articolo della refezione stabiliva prima del pasto una lettura, poi che uno dei padri proponesse due dubbi: uno di Sacra Scrittura, l'altro di morale, intorno ai quali ognuno doveva esprimere la propria opinione, spettando al proponente di trarre le conclusioni. Dubbi, colpe, confessioni: gli obblighi di confessione non erano molti: la Congregazione non aveva come fine la santificazione di sé ma quella degli altri.

Mano a mano che si stabiliva e prendeva forma istituzionale presso S. Maria alla Vallicella, anche l'oratorio subiva un processo di codificazione e di inevitabile irrigidimento. Esso continuava a tenersi tutti i giorni di lavoro meno il sabato, due ore e mezza dopo la mensa. All'improvvisazione sul tema proposto dalla lettura iniziale erano succeduti da tempo i quattro sermoni preparati. Finché nel 1583 si registrò una certa decadenza e ripetitività; F. convocò allora i padri per "salvaguardare l'antica forma dell'oratorio". I sermoni si omologavano, languivano i contraddittori e i commenti, non vi era più chi parlasse mescolato agli uditori, ma tutti parlavano ormai da una sedia che dominava il pubblico per il tempo esattamente delimitato di mezz'ora ciascuno. Ora che il numero dei preti lo permetteva, essi soli prendevano la parola; venivano perfino esclusi i chierici di .altre congregazioni. Ampliandosi l'uditorio si alzava il sedile, seppure continuando a non pretendere di essere una cattedra. L'oratore infatti non si alzava, né metteva la cotta sopra la tonaca.

F. manteneva l'orientamento, che lo distingueva, di avversione verso la religione intellettualizzata, le dispute su questioni astratte, la sovrabbondante dottrina. Se l'oratore acquisiva teoria doveva però stare ben attento a dissimularla: F. dichiarava che se avesse discusso problemi astratti l'avrebbe tirato giù dalla cattedra senz'altro. Occorreva invece parlare in modo semplice e col cuore, cercando di commuovere; era vietata l'oratoria e il suo ornato mentre si ricercava la forma spoglia di Francesco d'Assisi. F. non parlava mai per via della sua facilità nel commuoversi; nel 1589, dopo una disgraziata esperienza, decise di imporsi il silenzio.

Alle sei del pomeriggio F., insieme ad altri padri, si recava in una sala dell'oratorio dove si pregava, per metà mentalmente e per metà ad alta voce. Il lunedì, il mercoledi e il venerdì, alla preghiera ad alta voce si sostituiva la disciplina; si spegnevano le luci, restava visibile solo il crocifisso dipinto sul vetro di una piccola lanterna, quindi qualcuno salmodiava in succinto la Passione.

Nel 1583, mentre i preti della Congregazione soggiornavano ormai da sei anni presso la Vallicella, già quasi terminata, F. viveva ancora presso S. Girolamo e anche dopo mantenne la disponibilità delle sue stanze, dove tornava di tempo in tempo: si ricongiunse con i suoi discepoli durante le feste di S. Cecilia, il 22 nov. 1583. Ma cercava di isolarsi quanto più poteva e anche riguardo al governo dell'Ordine, dopo la seduta del 28 novembre, nella quale partecipò al consiglio dei deputati della Congregazione, li lasciò deliberare per proprio conto.

Con l'uscita del primo tomo degli Annali, ilBaronio acquistò grande fama e una pensione da Sisto V; F. allora gli impose di pagare una retta dalla pensione alla Congregazione che lo ospitava. Nella dedica del tomo VIII il Baronio affermò che il vero autore degli Annali era F. e in effetti grande fu il suo ruolo di sollecitazione degli studi storici del Baronio. Tra i temi dei discorsi dell'oratorio, che dovevano avere sempre argomenti concreti, stavano infatti al primo posto le vite dei santi e gli eventi più significativi della storia della Chiesa. Fu F. ad affidare precipuamente al Baronio la storia della Chiesa come tema di predicazione; ma, avverso com'era all'erudizione e alle codificazioni dottrinarie, non fu lui, probabilmente, a spingerlo a scrivere: a questo lo indussero il Tarugi, il Talpa e G. Sirleto.

Tra il 1586 e il 1587 F. cominciò a invecchiare fortemente, rinsecchendo visibilmente. Era inappetente e debilitato, aveva forti infreddature seguite da febbre. Si trovava, come dice G. Fedeli, in uno stato di "continua indisposizione" (Bordet, p. 389). Non prendeva quasi cibo, al quale attribuiva le sue palpitazioni e il fuoco che gli bruciava il petto e la gola. Cosicché era risolutissimo a dimettersi dall'incarico di preposito della Congregazione, ma poi la decisione rientrò. Nel frattempo, la Congregazione cominciò ad acquistare molto peso nella vita cittadina e molti incarichi vennero affidati ai suoi membri. Finalmente, il 23 luglio 1593 venne eletto preposito il Baronio, avendo F. respinto ogni insistenza in proprio favore.

In questi ultimi anni di prestigio e di grande influenza della Congregazione guidata da F. nella vita romana e sulla stessa corte non sembra definito un orientamento politico dei suoi membri: se F. e il Baronio manifestarono tendenze filofrancesi, T. Bozio si fece rappresentante di un orientamento dottrinale nettamente ierocratico e di una politica filospagnola. Nel complesso si può dire, dunque, che la personale impronta di F. fu politicamente filofrancese, vicina agli ambienti più tolleranti e lontana dalle più radicali rivendicazioni di poteri temporali al pontefice.

Durante la sua missione a Roma, cominciata il 21 nov. 1593, l'ambasciatore di Enrico, L. Gonzaga, duca di Nevers, non potendo visitare i cardinali che ne avevano ricevuto espresso divieto, per guadagnarsi l'opinione romana si recò in primo luogo alla Vallicella. L'8 dicembre mattina era alla chiesa Nuova, dove gli avevano consigliato di visitare F., il Baronio e il Bozio. F. lo ricevette a letto e fu subito convinto della causa francese: pensò che Clemente VIII avrebbe potuto assolvere Enrico per un anno, dandogli modo di compiere quegli atti che dimostrassero con maggior certezza l'autenticità della sua conversione; questa prima risoluzione però non ebbe seguito a causa dell'arrivo, il 17 dicembre, dell'ambasciatore spagnolo duca di Sessa, A. Folch y Cardona, che presentò una relazione molto negativa sulla condotta di Enrico IV; quindi tre cardinali, F. Borromeo, A. Cusani e L. de Torres dissuasero F., in un primo momento, dal suo atteggiamento filofrancese; poi, però, pare che il Baronio e il Bozio - che nel frattempo sembra avesse cambiato posizione, passando dalla parte dei fautori dell'assoluzione - lo abbiano persuaso ad esporre al papa le ragioni favorevoli ad Enrico IV, cosa che effettivamente F. fece nell'udienza concessagli il 12 dicembre 1594.

Il 12 maggio 1595 cominciò l'attacco decisivo che lo portò alla morte. Si spense a Roma nella notte tra il 25 e il 26 maggio 1595. Fu canonizzato nel 1622.

La sua opera è stata recentemente rieditata per cura di A. Cistellini: S.F.N. Gli scritti e le massime, Brescia 1994.

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