GIACOMO, Santo

Enciclopedia Italiana (1932)

GIACOMO, Santo

Silvio ROSADINI
Giampiero PUCCI

, Questo nome (gr. 'Ιάκωβος, lat. Iacōbus, equivalenti a 'Ιακώβ, Iacob, che però gli scrittori del Nuovo Testamento riservano a Giacobbe figlio d'Isacco e al padre di S. Giuseppe) è dato dallo stesso Nuovo Testamento a: 1. G. "il maggiore", figlio di Zebedeo e forse di Salomè (Matteo, XX, 20; XXVII, 56; Marco, XV, 40), apostolo e, col fratello Giovanni, uno dei discepoli prediletti di Gesù; fu fatto decapitare da Erode Agrippa, circa il 44 (cfr. Matteo, IV, 21; X, 2; Marco, I, 19; III, 17; XV, 40; Luca, V, 10; VI, 14; Aiti, XII, 1 segg.); è noto specie per il celebre santuario di Compostella, in Spagna, dove il suo corpo sarebbe stato trasferito (per l'iconografia, v. sotto); 2. G. apostolo, figlio di Alfeo (Matteo, X, 3; Marco, III, 18; Luca, VI, 15); 3. G. "fratello del Signore" (Matteo, XIII, 55; Marco, VI, 3); 4. G. figlio di Maria (Matteo, XXVIII, 56; Marco, XV, 40; XVI, 1; Luca, XXIV, 10).

Sull'identità o meno di questi tre ultimi personaggi si è discusso fin dall'antichità (favorevoli, Clemente Alessandrino, Origene, Eusebio, Girolamo; contrarî, Vittorino, Epifanio, Gregorio di Nissa); la chiesa greca e molti critici moderni distinguono G. di Alfeo e G. fratello del Signore; nella chiesa cattolica l'identità è stata riconosciuta esplicitamente dal Concilio di Trento (sess. XIV, De extr. unt., I, 1 e 3) soprattutto perché il secondo da S. Paolo (Galati, I, 19) è detto apostolo e deve essere quindi uno dei due personaggi di questo nome menzionati nelle liste degli apostoli (per queste e per il soprannome di Boanerges dato ai due figli di Zebedeo, v. apostolo, III, p. 708). G. "il minore" (Marco, XV, 40) è figlio di Maria, che alcuni identificano con Maria di Clopa (cfr. Giovanni, XIX, 25; Clopa e Alfeo sarebbero i due nomi dello stesso personaggio), altri con una sorella di Maria Vergine; sarebbe inoltre fratello di Giuda (v. giuda: Lettera di Giuda) se nella frase "Giuda di G." (Luca, VI, 16) sia da sottintendere "fratello" (altri vogliono intendere "padre", altri "figlioli" nei quali casi avremmo un quinto G:. d'altronde totalmente sconosciuto).

Di G. "fratello del Signore" una notizia di Clemente Alessandrino (in Eusebio, Hist. eccl., II, 1, 3) dice che dopo l'Ascensione di Cristo fu eletto vescovo della chiesa di Gerusalemme; gli Atti (XII, 17; XV, 13; XXI, 18) e S. Paolo (Gal., I, 19, ecc.) ci mostrano la posizione eminente che aveva in essa, e il secondo (I Corinzî, XV, 7) dice che egli godette di una speciale apparizione del Cristo risorto (ricordata anche dall'apocrifo Vangelo degli Ebrei). Altre notizie vengono da Giuseppe Flavio (Antiq. iud., XX, 9, 1) il quale - in un passo che alcuni (E. Schürer, T. Zahn) hanno ritenuto interpolato; ma l'interpolazione è solo nel testo citato da Origene - dice che nell'intervallo in cui Albino doveva succedere a P. Festo come procuratore (circa 62) il sommo sacerdote Anano II fece condannare e lapidare G.; racconto oggi preferito a quello di Egesippo (in Eusebio, Hist. eccl., II, 23), dal quale dipende Epifanio (Panar., haer. 78, 7) Secondo esso, G., soprannominato "il giusto" e rappresentato come uomo di vita pia, osservante della legge mosaica e di austerità ascetica, fu precipitato dal pinnacolo del tempio e poi finito a colpi di pietre e bastoni.

La lettera di Giacomo.

È, nel Nuovo Testamento, la prima delle sette "epistole cattoliche", che nell'ordine consueto seguono gli Ebrei e precedono la Apocalisse.

Le tentazioni e tribolazioni siano sopportate con gioia; così si consolida la pazienza e questa rende perfetti. Nessuno però attribuisca a Dio, autore di ogni bene, la sollecitazione dei proprî istinti al peccato (I, 1-18). Si pratichino le virtù, specialmente la misericordia verso gli orfani e le vedove; non si abbia disprezzo per i poveri, che Dio anzi elesse, e preferenza per i ricchi, i quali spesso ci traggono dinnanzi ai loro tribunali: "Chiunque abbia osservato tutta intera la legge, ma l'abbia offesa in una sola cosa, diviene reo di tutte" (II, 10); la fede senza le opere è morta e inerte (II, 17; 20; 26); infatti Abramo non dalla sola fede, ma dalla volontà di sacrificare Isacco venne giustificato, e Rahab (cfr. Giosuè, II; VI, 22 segg.) dall'ospitalità data agli esploratori d'Israele (I, 19-II, 26). Frenino specialmente la lingua; essa è un piccolo membro, ma da lei possono venire grandi beni e grandi mali. Del resto i mali vengono dallo smodato desiderio dei beni mondani; ma stoltezza è il confidare in essi, quando neppure il domani è in nostro potere (III, 1-IV, 17).

Le ricchezze grideranno contro i doviziosi, se questi defraudarono della giusta mercede gli operai, se oppressero i poveri; ma i poveri sopportino con pazienza, ché nel giorno del Signore, prossimo, riceveranno la loro ricompensa; imitino la pazienza dei profeti e di Giobbe (V, 1-11). In ogni occorrenza si rivolgano a Dio. Se qualcuno è ammalato, chiami i presbiteri della chiesa e questi preghino per lui ungendolo con olio nel nome del Signore; e la preghiera della fede salverà l'infermo e il Signore lo solleverà (o: "sveglierà": ἐγεσεῖ); e se anche abbia commesso dei peccati, gli sarà perdonato (V, 14 seg.: parole in cui la chiesa cattolica riconosce testimoniata l'istituzione del sacramento dell'Estrema Unzione). Confessino l'uno all'altro le loro colpe, e preghino reciprocamente per essere guariti. Procurino di ricondurre sulla retta strada gli erranti; chi a ciò riesce salva l'anima dalla morte (V, 12-20).

La lettera appare conosciuta da Clemente romano, Ignazio di Antiochia e dal Pastore di Erma; Clemente Alessandrino, secondo la testimonianza di Cassiodoro, la commentò, Origene la cita, come scrittura dell'apostolo G. (Patrol. Graeca, XIV, 989-990), così Dionigi, Cirillo Alessandrino, Epifanio e S. Atanasio. Eusebio sa che la maggioranza delle chiese accoglie la lettera, ma che taluna ha dei dubbî e perciò, in un altro passo, la colloca tra gli antilegumena (cfr. Hist. eccl., II, 23, 24; III, 25, 1). In Occidente non si può trarre nessuna conclusione dal silenzio del Canone muratoriano, mutilo; le prime testimonianze esplicite sulla canonicità e autenticità della lettera sono del sec. IV (Ilario di Poitiers, Ambrosiastro, Priscilliano) ma da questo tempo le chiese latine consuonano con la tradizione orientale e vi permangono. Erasmo e Lutero, le cui dottrine erano apertamente contraddette dalla lettera (I, 22; II, 10; 14-26; v. sopra) la respingono come apocrifa.

Fra i moderni, i critici razionalisti insistono ora specialmente su alcuni punti: grecità della lingua e dello stile, difficili a riscontrarsi in persona avvezza all'aramaico; carattere parenetico per cui non si tratterebbe di una vera lettera, ma di uno scritto polemico, redatto, si dice, soprattutto fondandosi sul versetto relativo ad Abramo, in risposta a S. Paolo; relazioni con alcuni scritti dell'età subapostolica: sicché dopo aver pensato come autore, a un giudeo (e conseguenti interpolazioni cristiane: Spitta, Massebieau), a un ebionita (Davidson), a un esseno (Bruckner), si ritiene ora generalmente da costoro opera di un cristiano (non Giacomo apostolo), favorevole alla corrente giudeo-cristiana, e redatta, all'ingrosso, tra l'80 e il 130. Gli autori cattolici rispondono che G. può essersi servito di uno scriba bene esperto nella lingua greca; egli stesso può aver voluto impedire una falsa interpretazione dei detti paolini; che gli accenni all'età subapostolica non sono affatto sicuri, e così sostengono tutti l'attribuzione tradizionale a Giacomo fratello del Signore (il figlio di Zebedeo è escluso, vista la data della sua morte), osservando inoltre che la lettera è pervasa da spirito cristiano, mostra predilezioni per precetti morali, reminiscenze di persone e fatti dell'Antico Testamento, come si aspetterebbero da un israelita credente in Gesù, quale sappiamo essere stato Giacomo "fratello del Signore". Posta l'origine della lettera da Giacomo, essa, dato lo stato di fede già evoluta e molto diffusa che vi si presuppone, non potrà essere stata scritta molto prima del 62. Non appare poi con chiarezza a chi essa sia stata indirizzata; si legge nel saluto iniziale "alle dodici tribù che vivono nella dispersione (diaspora)", e forse l'autore volle con tali parole designare i giudeo-cristiani viventi nelle varie chiese allora esistenti.

Iconografia di S. Giacomo apostolo.

Per l'arte, G. è esclusivamente l'apostolo, il figlio di Zebedeo cioè e fratello di Giovanni. Come tale G. rientra senza precisa individuazione in tutte le scene che l'arte ritrasse dai Vangeli. La sua "vocazione" insieme col fratello fu tema trattato più volte. La più antica rappresentazione di lui è nei mosaici (sec. VI) di S. Vitale e della cappella arcivescovile di Ravenna. Ha spesso in mano un libro, generico attributo degli apostoli. Ma dal sec. XIII in poi, in seguito all'eccezionale voga di cui godettero in ogni paese i pellegrinaggi a S. Giacomo di Compostella, lo si rappresenta piuttosto in abito da pellegrino, con bisaccia, bordone, fiasco e conchiglia, o con uno solo di questi attributi, quasi sempre il bordone. Così ad esempio in sculture di portali gotici, a Chartres, a Reims, e più tardi in Italia in dipinti del Perugino, di Andrea del Sarto, di Cosmè Tura. Talvolta lo si rappresenta anche con la spada, ricordo del suo martirio. L'arte illustrò le numerose leggende della sua vita e dei suoi miracoli in vetrate di Bourges, di Tours, di Chartres; nel dossale argenteo nel duomo di Pistoia in nove rilievi (1371), ecc., negli affreschi dell'Altichiero e del D'Avanzo in S. Antonio di Padova, dove, agli Eremitani, il Mantegna raffigurò pure in una mirabile serie di affreschi storie del Santo e il suo martirio. Particolare fortuna ebbe in molte incisioni e rilievi in legno nei paesi nordici, e in Italia fu trattata anche dallo Spagna e da Marco Palmezzano, la leggenda del giovane pellegrino mandato a morte come ladro dall'odio di un oste e di sua figlia e miracolosamente scampatone dal santo.

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