INNOCENZO I, santo

Enciclopedia dei Papi (2000)

Innocenzo I, santo

Alessandra Pollastri

Successe a papa Anastasio. Secondo il Liber pontificalis nacque ad Albano e il padre si chiamava, come lui, Innocenzo. Girolamo, invece, lo definisce "filius" di papa Anastasio (ep. 130, 16), ma tale figliolanza è stata intesa da alcuni in senso spirituale. Il suo pontificato durò quindici anni, dal 22 dicembre del 401 (secondo L. Duchesne, Le Liber pontificalis, I, pp. 219-20), o, meno probabilmente, del 402 (secondo E. Caspar, pp. 285, 600) al 417, anno della sua morte avvenuta il 12 marzo secondo il Martyrologium Hieronymianum, o il 28 luglio secondo il Liber pontificalis. Il suo ministero episcopale si svolse in un periodo assai critico per l'Impero romano, e cioè quando si verificò la discesa dei Goti in Italia, conclusasi con la presa e il saccheggio di Roma nel 410. Già nel 408 Alarico era giunto alle porte della città e l'anno successivo le aveva posto l'assedio, e in quella circostanza i pagani chiesero al "praefectus urbi" di poter celebrare solenni sacrifici alle loro divinità, cosa allora vietata dalla legge imperiale; il prefetto si consultò con I. e sembra che il papa abbia acconsentito alla celebrazione dei sacrifici a patto che le cerimonie si svolgessero in segreto (cfr. lo storico pagano Zosimo, Historia nova V, 41, 1-3; cfr. anche Sozomeno, Historia ecclesiastica IX, 6, il quale però, trattando del medesimo episodio, tace del ruolo di I. nella vicenda. Sulla questione cfr. E. Demougeot, À propos des interventions, pp. 23-38). I. si fece anche promotore di una iniziativa di pace nei confronti di Alarico ottenendo una tregua affinché egli potesse recarsi personalmente, insieme ad alcuni membri del Senato romano, a Ravenna, dove si era ritirato l'imperatore Onorio, per tentare di raggiungere un accordo tra il potere imperiale e l'esercito dei Goti. Ma le trattative non ottennero il risultato sperato, giacché, mentre esse erano ancora in corso, Saro, un visigoto che era al servizio di Onorio, diede l'assalto all'accampamento di Alarico e questi, per tutta risposta, attaccò Roma nell'agosto del 410 e la sottopose a saccheggio per tre giorni, risparmiando solo le basiliche di Pietro e Paolo. Il papa rientrò nella città soltanto nel 412 e alla sua morte fu sepolto, secondo il Liber pontificalis, nel cimitero di Ponziano sulla via Portuense, là dove era stato seppellito il suo predecessore Anastasio. Le sue spoglie furono in seguito traslate nella basilica romana dei SS. Martino e Silvestro, in data non definita. Di I. è stato conservato un interessante e copioso epistolario. Uno dei suoi primi atti fu quello di occuparsi della sede episcopale di Tessalonica, con la quale già i suoi predecessori, Damaso, Siricio e soprattutto Anastasio, avevano intrattenuto speciali relazioni nell'intento di sottrarla ai facilmente prevedibili tentativi di influenza da parte del vescovo di Costantinopoli dato l'inserimento amministrativo dell'Illirico orientale, nel V secolo, nell'Impero d'Oriente. È ad Anicio, vescovo di Tessalonica, che inviò quindi la prima lettera che di lui si possiede, comunicandogli la sua elezione avvenuta con unanime consenso e confermandogli le disposizioni prese dai suoi predecessori Damaso, Siricio e Anastasio nei confronti di quella sede alla quale riteneva dovessero essere comunicate tutte le questioni ecclesiastiche dell'Illirico (ep. 1, in P.L., XX, coll. 463-65; Collectio Thessalonicensis 4; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 285). Più esplicito sarà poi sulle relazioni con Tessalonica nell'epistola 13 (P.L., XX, coll. 515-17; Collectio Thessalonicensis 5; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 300) che invierà successivamente, nel 412, a Rufo, successore di Anicio: in questo testo I. fonda il vicariato papale di Tessalonica incaricando il vescovo di occuparsi in sua vece, in quanto "primates primus" (ep. 13, 3) tra i vescovi della regione, di tutte le questioni che potessero sorgere nelle Chiese della prefettura dell'Illirico e di operare egli stesso un discernimento tra quelle che avrebbe potuto risolvere personalmente e quelle che avesse ritenuto opportuno trasmettere al pontefice. La motivazione di tali direttive è individuata da I. negli esempi biblici costituiti dal comportamento di Mosè, degli apostoli e di Paolo: il primo, che aveva ricevuto da Dio l'incarico di liberare e governare il popolo d'Israele, seguendo il consiglio di Jetro affidò ad alcuni uomini dotati di capacità giuridica la soluzione delle controversie che sorgevano tra gli Israeliti e riservò a sé ciò che concerneva più direttamente il rapporto con Dio (cfr. Esodo 18, 19-22); gli apostoli delegarono ai discepoli la cura delle necessità materiali della comunità per dedicarsi alla evangelizzazione (cfr. Atti 6, 2-3); Paolo incaricò Tito e Timoteo di occuparsi, rispettivamente, di Creta (cfr. Tito 1, 5) e dell'Asia (cfr. 1 Timoteo 1, 3). È su tali basi e seguendo tali esempi che I. giustifica la sua decisione di delegare a Rufo la cura delle Chiese dell'Illirico, ritenute troppo distanti perché egli se ne possa occupare personalmente: il ministero di Rufo viene quindi interpretato come un'azione vicaria a nome del vescovo di Roma ("nostra vice": ep. 13, 3). L'attività politico-religiosa di I. fu caratterizzata dall'interesse ad elevare il prestigio della Sede romana e a farne valere l'autorità sia in Occidente sia in Oriente. Ne sono prova, ad esempio, oltre alla già citata azione nei confronti di Tessalonica, nell'ambito occidentale le lettere decretali inviate a Vittricio di Rouen (nel 404), ai vescovi riuniti in concilio a Toledo (forse nel 404), a Esuperio di Tolosa (nel 405), a Decenzio di Gubbio (nel 416). Nella lunga epistola indirizzata nel 404 a Vittricio, vescovo di Rouen (ep. 2, in P.L., XX, coll. 468-81; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 286), che si presenta come una risposta alla richiesta del collega di conoscere "Romanae ecclesiae normam atque auctoritatem", I. indica come debba regolarsi la vita dei cristiani di quella regione, da conformarsi a quella della Chiesa di Roma, inviando una vera e propria "regula" (ep. 2, 14, 17). Dopo aver ricordato che da Pietro ha avuto inizio in Cristo "et apostolatus et episcopatus" (ep. 2, 2), il papa espone in un succedersi di disposizioni di tono giuridico una serie di decreti che concernono i diritti dei metropoliti ("all'insaputa del vescovo metropolita nessuno osi procedere ad ordinazioni": ep. 2, 1, 3), le ordinazioni clericali, l'esigenza che nelle contese tra i chierici le "majores causae" siano deferite "ad sedem apostolicam" (ep. 2, 3, 6) dopo il giudizio del vescovo locale, oltre a questioni disciplinari riguardanti le vergini. I. fa ricorso alle disposizioni sinodali di Nicea e a testi scritturistici, per esempio soprattutto al Levitico e alle epistole pastorali, per confortare le disposizioni concernenti la continenza richiesta ai membri del clero. In questo scritto emerge la precisazione che qualsiasi controversia ecclesiastica risolta dai sinodi locali deve tuttavia attuarsi "senza pregiudizio della Chiesa di Roma, alla quale in tutte le cause deve essere riservata riverenza" (ep. 2, 3, 5). La lettera inviata a tutti i vescovi riuniti nel sinodo di Toledo (ep. 3, in P.L., XX, coll. 486-94; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 292), in risposta ad una loro richiesta di intervento, intende sostenere le disposizioni prese dal sinodo circa i problemi disciplinari e dottrinali che travagliavano la Chiesa spagnola (in particolare la riconciliazione dei priscillianisti pentiti) di cui I. era stato informato qualche tempo dopo il sinodo dal vescovo Ilario e dal presbitero Elpidio, come pure quelle riguardanti le ordinazioni clericali. Anche la lettera a Esuperio di Tolosa, datata 20 febbraio 405 (ep. 6, in P.L., XX, coll. 495-502; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 293), come quella a Vittricio, risulta essere una risposta ad alcuni quesiti su cui il vescovo della Gallia aveva consultato la Sede apostolica, comportamento che I. non manca di approvare. Tra i vari temi in essa trattati, concernenti prevalentemente la disciplina penitenziale, compare anche l'elenco dei libri biblici da accogliere nel canone e la condanna di altri testi attribuiti a Mattia, Giacomo il Minore, Pietro, Giovanni o Tommaso (ep. 6, 7, 13), condanna che è stata spiegata con l'esigenza di opporsi alla diffusione in Gallia del priscillianesimo che aveva divulgato i libri apocrifi: si tratta del primo canone biblico attestato a Roma dopo il documento edito dal Muratori. Di particolare interesse sotto l'aspetto della disciplina ecclesiastica e liturgica, ambito in cui I. mostra di voler imporre la prassi romana anche al di fuori della sua sede, è la lettera a Decenzio di Gubbio (ep. 25, in P.L., XX, coll. 551-61; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 311), città posta al confine con la zona sotto l'influenza milanese e pertanto di usi liturgici diversi. La lettera è datata 416 e Milano in quel tempo stava perdendo importanza sia perché dal 402 non vi risiedeva più l'imperatore d'Occidente trasferitosi a Ravenna (cfr. Ch. Pietri, II, p. 911) sia perché il suo prestigio ecclesiastico aveva perso vigore dopo che erano venuti a mancare i vescovi Ambrogio e poi Simpliciano (morto nel 400). La preoccupazione di uniformare integralmente gli "instituta ecclesiastica" secondo la tradizione ricevuta "dai santi apostoli" è affermata categoricamente da I. fin dall'esordio della lettera ove richiede che non abbia a verificarsi "nessuna diversità, nessuna varietà negli stessi ordini e consacrazioni", giacché se qualcuno ritiene di seguire "non quello che è stato tramandato, ma quello che a lui sarà sembrato" così da considerare possibile che "diverse cose possano essere o osservate o celebrate in località o Chiese diverse", ciò costituisce uno "scandalo" per i popoli che possono dedurre da tale situazione o che le Chiese siano in disaccordo o che tale discordanza sia stata introdotta "dagli apostoli o da uomini apostolici" (ep. 25, 1). Ma per I. la tradizione apostolica si identifica con quella che è stata trasmessa alla Chiesa romana da Pietro "principe degli apostoli" e che viene custodita fino al suo tempo e perciò deve essere osservata "da tutti", dichiarazione, questa, che viene espressa con una domanda retorica, cioè come un fatto che nessuno può negare. In particolare I. menziona le Chiese di tutta l'Italia, delle Gallie, delle provincie spagnole, dell'Africa e della Sicilia con le isole interposte, ritenendo che tutte siano state istituite da Pietro e dai suoi successori, deducendo tale osservazione da un argomento basato sul silenzio: non si trova in nessun luogo che qualche altro apostolo le abbia istituite. Ne consegue secondo I. l'esigenza per le Chiese menzionate di seguire le norme della Sede romana (ep. 25, 2). Le disposizioni emanate nell'epistola concernono in particolare: il momento dello scambio della pace nella celebrazione eucaristica (ep. 25, 1, 4); il canone della messa e l'uso di proclamare i nomi dei donatori delle offerte (ep. 25, 2, 5); il sacramento della confermazione che I. chiede sia amministrato unicamente dai vescovi "perché i presbiteri non hanno la pienezza dell'episcopato" (ep. 25, 3, 6), fondandosi sia sulla "consuetudine ecclesiastica", sia sul testo di Atti 8, 14-7 in cui si dice che Pietro e Giovanni trasmisero lo Spirito Santo a quanti erano già stati battezzati (ibid.); la possibilità per i presbiteri di battezzare con il crisma che deve essere però consacrato dal vescovo, facendo con esso il segno di croce ma non sulla fronte, gesto riservato al vescovo quando trasmette lo Spirito (ibid.); l'esigenza di digiunare il sabato in memoria della tristezza degli apostoli e dei discepoli che si nascosero per paura dei giudei nei due giorni intercorsi tra la passione e la risurrezione di Gesù, da cui si deduce che tra il Giovedì e il Sabato santo non si deve neppure celebrare l'eucaristia (ep. 25, 4, 7); il pane consacrato ("fermentum") da inviare la domenica ai presbiteri, riguardo al quale I. riferisce che si tratta di una norma vigente solo a Roma e quindi non trasferibile a Gubbio: esso è inviato, per mezzo degli accoliti, come segno di comunione col vescovo a quei presbiteri che per occuparsi del popolo loro affidato nelle singole chiese, poste tutte all'interno della città (i "tituli"), non possono celebrare con lui, mentre non deve essere inviato "per paroecias" e nei diversi cimiteri data la distanza e dato il fatto che i presbiteri lì impegnati hanno facoltà di consacrare essi stessi (ep. 25, 5, 8); gli esorcismi che devono essere autorizzati dal vescovo (ep. 25, 6, 9); la remissione dei peccati da darsi il giovedì prima di Pasqua secondo la consuetudine della Chiesa romana, a meno che non vi sia pericolo di morte, e il potere del presbitero di giudicare la gravità del peccato e il pentimento del singolo penitente (ep. 25, 7, 10); l'interpretazione di Giacomo 5, 24 concernente l'unzione degli infermi ad opera dei presbiteri, che I. ritiene possa essere amministrata anche da tutti i cristiani e a maggior ragione dai vescovi, ma con l'olio del crisma che deve essere consacrato dal vescovo (ep. 25, 8, 11). Nella conclusione dell'epistola I. rileva che la sua è una lettera di risposta alle richieste di Decenzio e sostiene l'origine della Chiesa di Gubbio da quella romana (ep. 25, 8, 12). I. si è adoperato per estendere la sua autorità anche in Oriente. È quanto traspare non solo nella fondazione del vicariato papale di Tessalonica ma anche nella sua presa di posizione a proposito della vicenda di Giovanni, detto poi Crisostomo. Questi era fortemente contrastato dal vescovo di Alessandria Teofilo, che lo osteggiava sin dal momento della sua elezione a patriarca di Costantinopoli, giacché avrebbe preferito porre su quella prestigiosa sede un suo candidato, il presbitero Isidoro, ma anche perché era deciso avversario delle dottrine di Origene, mentre il Crisostomo aveva accolto nella sua diocesi alcuni monaci egiziani esiliati da Teofilo per le loro tendenze favorevoli a Origene. Appoggiato dalla corte imperiale e soprattutto dalla imperatrice Eudossia, Teofilo aveva riunito un sinodo nella villa imperiale della Quercia, presso Calcedonia in Bitinia, che si pronunciò per la deposizione di Giovanni. Questi scrisse allora, nel 404, una lettera a papa I. (Clavis Patrum Graecorum, II, a cura di M. Geerard, Turnhout 1974, nr. 4402; cfr. anche Giovanni Crisostomo, in P.G., LII, coll. 529-36 e l'ep. 4 nell'epistolario di I.: P.L., XX, col. 494) per informarlo delle ingiustizie commesse nei suoi confronti e per pregarlo di intervenire in suo favore e questa lettera fu portata da una delegazione di quattro vescovi che si recarono a Roma per sostenere la causa del Crisostomo (cfr. Palladio, Dialogus 1, 170-77). Anche Teofilo inviò dei legati a Roma per ottenere la ratifica della condanna pronunciata dal sinodo della Quercia. Papa I. indirizzò un breve biglietto a Teofilo in cui dichiarava di non poter rompere la comunione con Giovanni senza che le accuse contro di lui fossero provate in giudizio ed esortava alla convocazione di un sinodo in cui la causa potesse essere discussa, richiamandosi ai canoni del concilio che egli definiva di Nicea nonostante si trattasse di quello di Serdica (ep. 5, in P.L., XX, coll. 493-96; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 288; cfr. Palladio, Dialogus 3, 22-33). I. fece pressione su Onorio, in visita a Roma nel 404 o 405, per indurlo a convocare un concilio e inviò anche all'imperatore Arcadio una delegazione di vescovi e presbiteri, tra cui il presbitero Bonifacio, futuro vescovo di Roma, latori delle proteste sue e di altri vescovi italiani e del rescritto dell'imperatore Onorio (ep. 9 tra quelle di I.) con la richiesta di un sinodo a Tessalonica (cfr. Palladio, Dialogus 3, 138-40): ma a questa ambasceria non fu nemmeno consentito l'ingresso nella città di Costantinopoli (cfr. ibid. 4, 1-109), a motivo della ostilità che caratterizzava in quegli anni i rapporti tra i due figli di Teodosio. Secondo Palladio (ibid. 3, 40-1) I. scrisse lettere di comunione al Crisostomo, ma di tale corrispondenza resta solo un'epistola, la 12, in cui il papa lo riconosce innocente, lo definisce "dottore e pastore di tanti popoli" e lo esorta alla pazienza richiamandogli i numerosi esempi di santi tribolati in vario modo, di cui si narra la storia nelle Sacre Scritture (ep. 12, in P.L., XX, col. 514; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 298). I. scrisse anche una lettera di consolazione al clero e al popolo di Costantinopoli, nel 404 o 405, esprimendo il proprio rifiuto di entrare in comunione col vescovo che era stato insediato al posto del Crisostomo e attestando di adoperarsi perché venisse convocato un concilio ecumenico (ep. 7, in P.L., XX, coll. 502-08; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 294): in tale contesto il papa rilevava che solo i canoni del concilio di Nicea andavano accolti mentre andavano respinti quelli aggiunti dagli eretici, ricordando che detti canoni aggiuntivi erano già stati ripudiati dai vescovi riuniti nel sinodo di Serdica. Il papa interruppe quindi i rapporti con alcuni vescovi orientali (Teofilo di Alessandria, Acacio di Berea, Attico di Costantinopoli, Porfirio e successivamente Alessandro di Antiochia) e la comunione poté essere ristabilita dallo stesso I. solo gradualmente. A questo proposito si hanno di I. alcune lettere databili intorno al 415: scrisse ad Alessandro di Antiochia dichiarandosi pronto alla riconciliazione purché la memoria del Crisostomo (morto in esilio nel 407) venisse riabilitata (ep. 19, in P.L., XX, coll. 540-42; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 305) e in seguito per dimostrare la propria gratitudine per una delegazione a lui inviata e chiedere un ulteriore rapporto epistolare (ep. 20, in P.L., XX, col. 543; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 306); a Massimiano vescovo, forse della Macedonia, sollecitato probabilmente da Attico di Costantinopoli ad intercedere in suo favore presso I., a proposito della riconciliazione con la sede costantinopolitana per la quale il papa riteneva non sussistessero ancora le condizioni, mancando una specifica richiesta in tal senso da parte di Attico (ep. 22, in P.L., XX, coll. 544-46; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 308); ad Acacio di Berea a cui I. prometteva che avrebbe accettato le sue lettere di comunione se avesse deposto ogni inimicizia nei confronti del Crisostomo (ep. 21, in P.L., XX, coll. 543-44; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 307); al presbitero Bonifacio, il futuro vescovo di Roma, che si trovava a Costantinopoli quale suo rappresentante, per comunicargli a quali condizioni avrebbe fatto pace con Alessandro di Antiochia e cioè a patto che il nome del Crisostomo fosse inserito sui dittici tra quelli dei vescovi defunti, e ciò forse per ribadire anche a quali condizioni avrebbe ristabilito la comunione con Attico (ep. 23, in P.L., XX, coll. 546-47; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 309); I. scriverà di nuovo ad Alessandro di Antiochia (ep. 24, in P.L., XX, coll. 547-51; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 310), ma per questioni di carattere disciplinare concernenti il divieto di creare due vescovi metropoliti in quelle regioni che fossero state divise in due per decreto imperiale e soprattutto la impossibilità di accogliere i chierici ariani nel loro ordine benché la Chiesa riconoscesse come valido il loro battesimo. Tutte queste lettere attestano l'influenza che I. intendeva esercitare anche sulle Chiese orientali, che d'altronde si rivolgevano talvolta esse stesse alla Sede romana: quella a Massimiano e la seconda ad Alessandro sono infatti epistole di risposta. Rapporti con l'Oriente sono attestati anche dalla corrispondenza con Girolamo: nel 416 il monaco di Betlemme aveva avvisato il vescovo di Cartagine Aurelio, e questi a sua volta aveva informato il papa, delle distruzioni e aggressioni verificatesi nei monasteri betlemiti. I. rispose con un breve biglietto ad Aurelio (ep. 33, in P.L., XX, col. 600; ep. 135 nell'epistolario di Girolamo; Collectio Avellana 44; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 327) a cui allegò una lettera di consolazione a Girolamo (ep. 34, in P.L., XX, coll. 600-01; Girolamo, ep. 136; Collectio Avellana 42; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 326) dove, pur rammaricandosi che il monaco di Betlemme non avesse menzionato esplicitamente i responsabili dei misfatti, gli assicurava l'aiuto della "autorità della sede apostolica" e comunicava di aver già inviato una epistola al vescovo di Gerusalemme, Giovanni. In tale lettera, che è pervenuta (ep. 35, in P.L., XX, coll. 601-02; Girolamo, ep. 137; Collectio Avellana 43; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 325), il papa accusava Giovanni di non aver sufficientemente vegliato sul suo gregge e lo invitava caldamente ad evitare che all'interno della sua giurisdizione si verificassero ancora situazioni quali quelle descritte da Girolamo, "ne ius ecclesiasticum de labefactatis causas eum, qui non defenderit, praestare conpellat". Di considerevole significato ed importanza è il fatto che I. volle far sentire tutto il peso della sua autorità in occasione della controversia pelagiana e nei rapporti con i vescovi africani. Mentre infatti nei confronti dell'Oriente egli non aveva la possibilità di far valere l'argomento esposto nella lettera a Decenzio, e cioè l'origine delle diverse Chiese occidentali da Pietro e quindi da Roma - e ciò nonostante che, quando scrisse ad Alessandro di Antiochia, pur rilevando il gran prestigio di quella sede in quanto fu la prima sede di Pietro, avesse sostenuto che Antiochia era inferiore a Roma perché a Roma Pietro era morto (cfr. ep. 24, 1, 1) -, nei confronti dell'Africa egli si sentì particolarmente autorizzato ad intervenire, anche perché fu sollecitato a farlo dagli stessi vescovi africani. Il monaco Pelagio e il suo discepolo Celestio avevano diffuso anche in Africa la loro concezione antropologica circa la possibilità dell'uomo di raggiungere l'"impeccantia" con le sole forze della propria natura dotata di libero arbitrio, limitando in tal modo la funzione della grazia divina, con tutte le conseguenze che ne derivavano circa il peccato d'origine e il problema del battesimo dei bambini. Entrambi furono condannati a Cartagine dal vescovo Aurelio nel 411 ma furono poi riabilitati in Palestina da vescovi orientali nel sinodo di Diospoli (Lidda) del 415, grazie, tra l'altro, al favore del vescovo di Gerusalemme Giovanni. La reazione delle Chiese africane si espresse nei concili di Milevi e di Cartagine del 416 ad opera soprattutto di Aurelio e di Agostino, che vi rinnovarono la condanna di Pelagio e di Celestio pronunciata nel 411. I due vescovi ritennero però opportuno chiedere anche al papa la conferma della condanna e resta un'ampia testimonianza della corrispondenza tra l'Africa e Roma in questo frangente. I padri del sinodo di Cartagine inviarono una lettera ad I. per denunciare la nuova eresia propagata da Pelagio e Celestio e chiedere un suo intervento (ep. 26 nell'epistolario di I., in P.L., XX, coll. 564-68; cfr. Agostino, ep. 175). Lo stesso fecero i padri conciliari di Milevi, tra i quali figura il nome di Agostino (ep. 27 nell'epistolario di I., in P.L., XX, coll. 568-71; cfr. Agostino, ep. 176). Agostino e altri quattro vescovi (Aurelio di Cartagine, Alipio di Tagaste, Evodio di Uzala e Possidio di Calama) si rivolsero ancora al papa per spiegargli, tramite una lettera lunga e dottrinalmente densa, in quale senso Pelagio a Diospoli professò di ammettere la grazia di Dio e per invitarlo o a chiamare a Roma Pelagio, onde interrogarlo attentamente sull'argomento, o a chiedergli una risposta epistolare. Essi affermavano di aver sentito dire che Pelagio aveva molti seguaci a Roma, dove aveva vissuto a lungo, e che alcuni di essi ritenevano di aver convinto anche il papa alle loro idee (cfr. Possidio, Vita 18, 2). I cinque vescovi inviarono ad I. il De natura di Pelagio e la confutazione che ne aveva fatto Agostino nel De natura et gratia, sottolineando i passi più significativi che mostravano come il monaco intendesse con "grazia" la natura con cui l'uomo è stato creato (ep. 28 nell'epistolario di I., in P.L., XX, coll. 571-82; cfr. Agostino, ep. 177). I cinque vescovi concludevano la lettera scusandosi per la sua lunghezza e presentando con deferenza la dottrina espressavi come un piccolo ruscello ("rivulus") a confronto con la larga sorgente ("fons") costituita da quella del papa, ma esprimendo anche il desiderio di sapere da lui "se anche il nostro corso d'acqua, sia pur modesto, provenga dalla stessa fonte dalla quale anche il tuo trae la sua abbondanza" (utrum etiam noster, licet exiguus, ex eodem quo etiam tuus abundans, emanet capite fluentorum) e di ricevere la sua approvazione per poter provare consolazione "dalla comune partecipazione all'unica grazia" (Agostino, ep. 177, 19). Il papa rispose il 27 gennaio del 417 con tre lettere indirizzate rispettivamente ai padri sinodali di Cartagine (ep. 29, in P.L., XX, coll. 582-88; cfr. Agostino, ep. 181; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 321), ai padri del sinodo di Milevi (ep. 30, in P.L., XX, coll. 588-93; cfr. Agostino, ep. 182; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 322) e ai cinque vescovi africani (ep. 31, in P.L., XX, coll. 593-97; cfr. Agostino, ep. 183; Collectio Avellana 41; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 323). Nella prima I. approvava innanzitutto il comportamento degli africani che avevano chiesto il parere della Chiesa di Roma ritenendo doveroso sottoporre la questione controversa al suo giudizio, mossi dal desiderio di seguire Pietro "dal quale lo stesso episcopato e tutta l'autorità di questo provengono" (ep. 29, 1). Ne traeva l'occasione per ribadire l'autorità della Sede apostolica anche sui concili locali, così da dire che nessuna questione potesse considerarsi definita prima di essere stata sottoposta al giudizio della Sede romana affinché fosse convalidato dalla sua autorità ogni pronunciamento delle singole Chiese; I. riprendeva l'immagine della fonte usata dagli africani, ma modificandola: non si tratta, come per gli africani, di un esiguo ruscello (il loro) e di una fonte abbondante (quella papale) che scaturiscono dalla medesima origine, ma dello sgorgare di tutte le acque (le singole Chiese) dalla loro sorgente nativa, e cioè dalla Sede apostolica, e dello spandersi della pura dottrina da essa emanante per le diverse regioni del mondo intero (ibid.). Seguiva la condanna della dottrina pelagiana ma anche l'augurio che gli eretici potessero riconoscere i loro errori ed essere nuovamente accolti nella Chiesa dai loro vescovi. Nella seconda lettera, rispondendo ai padri del concilio di Milevi, I. era ancora più esplicito circa l'esigenza per tutte le Chiese di rivolgersi, allorché sorgessero quesiti soprattutto di fede, alla Sede romana alla quale attribuiva, secondo l'espressione di 2 Corinzi 11, 28, quella "sollicitudine nei confronti di tutte le Chiese" che Paolo dichiarava di avvertire in sé. Egli rilevava che i vescovi conciliari, nel consultarlo, avevano seguito una antica consuetudine ("antiquae [...] regulae formam") che dichiarava essere stata osservata "sempre da tutto il mondo" e secondo la quale "dalla fonte apostolica" emanavano risposte a quanti richiedevano in tutte le province; il pensiero di I. veniva poi espresso con estrema chiarezza: "ritengo che tutti i nostri fratelli e colleghi vescovi debbano riferirsi a Pietro, cioè all'autore della loro carica e dignità" (ep. 30, 2). Per quanto concerneva la problematica in questione, I. decretava "con l'autorità del potere apostolico" (ep. 30, 6) che Pelagio e Celestio dovevano essere privati della comunione ecclesiastica, a meno che non tornassero alla sana dottrina, nel qual caso il papa prospettava la consueta prassi (ep. 30, 7), e cioè che fossero di nuovo accolti in seno alla Chiesa. Nella terza epistola, indirizzata ai cinque vescovi africani, I. entrava nel merito della questione toccando tutti i punti della lettera da essi inviatagli: oltre a ribadire la condanna della dottrina pelagiana, a dichiarare di non sapere se esistessero a Roma seguaci di Pelagio e ad augurarsi comunque il loro ravvedimento insieme a quello di Pelagio stesso, asseriva di non potersi pronunciare in merito al giudizio espresso a Diospoli su Pelagio perché dubitava che i verbali del consiglio fossero falsi (cfr. anche Agostino, ep. 179, 7) e non sapeva se Pelagio si fosse difeso con dei sotterfugi. Circa la convocazione del monaco eretico a Roma, il papa dichiarava di non ritenere opportuno farlo giacché spettava piuttosto a Pelagio presentarsi per essere assolto, nel caso fosse convinto in coscienza di non meritare la condanna, avendo ripudiato le sue precedenti osservazioni. In caso contrario certamente non si sarebbe presentato al giudizio papale neppure se fosse stato convocato per lettera. Ciò che il papa proponeva a Pelagio era di chiedere perdono del suo errore tramite una confessione scritta. I. infine comunicava di aver letto lo scritto dell'eretico inviatogli dagli africani, di condividere la loro disapprovazione e di non voler aggiungere altre testimonianze scritturistiche a favore della vera fede trattando con persone, i vescovi africani, che conoscevano la Scrittura nella sua interezza ed erano pienamente consenzienti con lui. In questa lettera I. non faceva alcun cenno all'autorità della Sede apostolica. Fu invece Agostino a metterla in rilievo e a ritenere risolta la questione pelagiana a seguito dell'intervento papale quando, in un sermone predicato a Cartagine il 23 settembre dello stesso 417, mettendo in guardia i fedeli dalle dottrine di Pelagio ed esortandoli a confutarle, rendeva noto che gli atti dei due concili africani che le avevano condannate erano stati inviati alla Sede apostolica ed erano stati già ricevuti in Africa i rescritti papali. La deduzione di Agostino era lapidaria: "La causa è finita: venga il tempo della fine dell'errore!" (Sermo 131, 10). Con Aurelio di Cartagine I. ebbe un rapporto epistolare concernente anche altre questioni o semplici saluti: si tratta dell'epistola 14 (P.L., XX, coll. 517-18; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 301) che riguarda la data della Pasqua del 414 e di due brevi biglietti di saluto costituiti dall'epistola 32 (P.L., XX, coll. 597-98; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 324) e dall'epistola 10, indirizzata anche ad Agostino (P.L., XX, coll. 511-14; cfr. Agostino, ep. 184; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 297). Sono infine da ricordare la breve lettera scritta da I. intorno al 413 alla nobildonna Giuliana, di cui loda la fede (ep. 15, in P.L., XX, coll. 518-19; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 302), e tre lettere rivolte ai vescovi dell'Illirico: l'epistola 16 a Marciano, vescovo di Naisso, scritta da Ravenna forse nel 409, in cui il papa lo esorta ad accogliere i presbiteri e i diaconi che siano stati ordinati da Bonoso (probabilmente di Serdica, che aveva contestato la verginità perpetua di Maria) prima della condanna, nel caso che rinneghino il loro errore, e affronta la situazione specifica del presbitero Germanio e del diacono Lupenzio, appellatisi a lui, chiedendo di accettarne la comunione senza ripeterne l'ordinazione (ep. 16, in P.L., XX, coll. 519-22; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 299); l'epistola 17 del 414 (P.L., XX, coll. 526-37; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 303) in cui I. si rivolge ai vescovi e ai diaconi della Macedonia, che riuniti in concilio richiedevano una sua sentenza, perché emanino disposizioni conformi alla legge della Chiesa romana circa il divieto dell'inserimento nel clero a chi abbia sposato una vedova o sia stato ordinato da eretici, spiegando con la "necessità della circostanza", e correggendola, la posizione assunta in passato da Anicio di Tessalonica che aveva accolto i chierici ordinati da Bonoso; la lettera di risposta a Rufo e ad altri vescovi della Macedonia, probabilmente del 413-414, circa la condanna comminata a due ecclesiastici cretesi, Bubalio e Tauriano, dai vescovi provinciali e rimessa in discussione dalla Sede apostolica (ep. 18, in P.L., XX, coll. 537-39; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 304). Altre lettere di I., di cui sembra assai difficile stabilire la datazione, concernono problemi disciplinari determinati da casi specifici: così ad esempio l'epistola 36 a Probo (P.L., XX, coll. 602-03; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 313), un "vir illustris" che chiedeva al papa come dovesse comportarsi un certo Fortunio risposatosi dopo che la moglie era stata condotta in schiavitù ma che poi gli era stata restituita, in cui I., contrariamente a quanto stabilito dalla legislazione imperiale, difese la validità e indissolubilità del primo matrimonio; l'epistola 37 in risposta a Felice vescovo di Nocera in Campania (P.L., XX, coll. 603-05; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 314) sulla normativa da seguire nelle ordinazioni clericali (in questo contesto I. trovava l'occasione per approvare l'iniziativa del collega che aveva ritenuto opportuno, in casi di dubbia soluzione, rivolgersi al papa "come al capo e al vertice dell'episcopato" perché la Sede apostolica, consultata, si pronunziasse in modo certo su materie dubbie [ep. 37, 1]); l'epistola 38 (P.L., XX, col. 605; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 315) a Massimo e Severo, vescovi "per Brutios", circa la necessità che fossero rimossi dall'ufficio sacerdotale quei presbiteri che durante il loro ministero avessero generato dei figli; l'epistola 39 (P.L., XX, col. 606; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 316) indirizzata a tre vescovi delle Puglie per ricordare i canoni di Nicea secondo cui quanti fossero sottoposti a penitenza andavano esclusi non solo dall'episcopato ma anche dai gradi più bassi dell'ordine clericale; l'epistola 40 a Florentino, vescovo di Tivoli (P.L., XX, coll. 606-07; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 317), per dirimere una questione di invadenza territoriale che tale vescovo aveva compiuto nei confronti della diocesi di un altro vescovo, Urso di Nomentum (Mentana), a sua insaputa. Si tratta, come si può ben vedere, di lettere concernenti la normale giurisdizione svolta da I. in Italia, ove emerge in particolare la preoccupazione per l'integrità morale e la continenza del clero: è questo un impegno che caratterizza anche le grandi epistole decretali come quella a Vittricio di Rouen, dove I. aveva disposto il divieto delle nozze per tutti gli ordini clericali e la continenza per i fedeli sposati che avessero voluto accedere allo stato clericale, come pure il divieto di ammissione al clero per chi avesse sposato una vedova o, vedovo, si fosse risposato (cfr. ep. 2, 4, 7-6, 9). Queste disposizioni sarebbero state ripetute in altre lettere (cfr. ep. 6, circa i diaconi e i presbiteri incontinenti). Ma un analogo rigore nella scelta del clero riguarda anche le professioni svolte prima di ricevere il battesimo: sono esclusi dall'ammissione agli ordini clericali i curiali (cfr. ep. 2, 12, 14), quanti abbiano servito nella "militia" dell'imperatore (cfr. ep. 2, 2, 4) o esercitato il sacerdozio pagano e i giudici delle cause criminali (cfr. ep. 3, 6, 9; ep. 37, 3, 5). Nella seconda redazione del Liber pontificalis si legge che I. si sarebbe occupato anche delle regole dei monasteri e delle posizioni anticattoliche, precisamente di ebrei, pagani e montanisti, oltre ad aver pronunciato la condanna di Pelagio e Celestio. L. Duchesne rileva però la mancanza di informazioni circa le regole monastiche, i pagani e gli ebrei, mentre per quanto concerne i montanisti ricorda una legge di Onorio contro i manichei, i frigi e i priscillianisti, emanata a Roma il 22 febbraio del 407 e quindi sotto il pontificato di I., che potrebbe aver avuto un ruolo attivo in proposito, e le notizie riportate circa i tertullianisti dal Praedestinatus 86 (opera anonima del V secolo oggi generalmente attribuita ad Arnobio il Giovane), e da Agostino, nel De haeresibus 86; inoltre per l'impegno antieretico in senso generale lo studioso ricorda l'epistola 41 indirizzata a Lorenzo, vescovo di Siena, in cui I. esorta il destinatario ad espellere dal territorio della sua giurisdizione i fotiniani (P.L., XX, coll. 607-08; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 318), e il fatto che lo storico Socrate attesti che I. tolse parecchie chiese ai novaziani (cfr. Socrate, Historia ecclesiastica VII, 9 e Le Liber pontificalis, I, p. 222 nn. 1-2). Il Liber pontificalis menziona anche l'impegno edilizio di I. espresso nella dedicazione della basilica dei martiri Gervasio e Protasio - l'odierna chiesa di S. Vitale situata lungo la via Nazionale a Roma -, che fu costituita come titulus e affidata a due presbiteri e a un diacono, per corrispondere alla devozione della illustre dama Vestina della quale ricorda le numerose offerte; menziona poi l'impegno di I. per il restauro della basilica di S. Agnese, che venne posta sotto il governo dei presbiteri del nuovo titulus di Vestina.

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