LORENZO Giustinian, santo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 66 (2006)

LORENZO Giustinian, santo

Giuseppe Del Torre

Figlio di Bernardo di Piero e di Querina di Nicolò Querini, nacque a Venezia probabilmente nel 1381 e fu battezzato con il nome di Giovanni; assunse il nome Lorenzo solo quando abbandonò lo stato secolare.

L. apparteneva al ramo di S. Moisè di una famiglia del patriziato di antica origine, che nei secoli XIV e XV occupò un posto di rilievo nella vita politica della città. Anche due fratelli di L. furono personalità di spicco nella Venezia del Quattrocento: Marco (m. 1438) fu rettore di alcuni tra i principali centri urbani della Terraferma; Leonardo fu uno dei protagonisti dell'umanesimo veneziano.

Poco si sa del periodo della formazione e di studio di L. fin verso i vent'anni quando, secondo le fonti agiografiche, avvenne la sua conversione. All'inizio del Quattrocento, probabilmente nel 1403, era già inserito e attivamente presente nel gruppo di chierici e laici attorno a Gabriele Condulmer, il futuro papa Eugenio IV, e ad Antonio Correr, tra i quali spiccava anche lo zio di L., Marino Querini. Molti di loro erano esponenti del patriziato veneziano che, rifiutando il secolo, si ispiravano a un ideale di vita comunitaria umile e povera sul modello apostolico. Dapprima si riunirono nel palazzo Correr sul Canal Grande, poi nel monastero di S. Nicolò del Lido e infine in quello di S. Giorgio in Alga, casa agostiniana eretta su un'isoletta della laguna, tenuta in commenda da uno dei confratelli, Ludovico Barbo. Nel 1404 il piccolo gruppo di religiosi, denominati anche celestini, fu riconosciuto da papa Bonifacio IX che dette l'assenso alla creazione della Congregazione dei canonici secolari di S. Giorgio in Alga.

I motivi che spinsero L. a una scelta così radicale non sono noti, ma è certo che erano in gran parte condivisi dai confratelli e che trovavano un'eco più ampia nei mutamenti che stavano verificandosi alla fine del Trecento nella società veneziana e in particolare a livello della sensibilità religiosa.

Soprattutto dopo la difficile crisi della guerra di Chioggia (1378-81) a Venezia avevano infatti avuto un diffuso seguito i gruppi di spiritualisti cateriniani, in particolare con la predicazione di Giovanni Dominici (Giovanni di Domenico Banchini) e di Tommaso di Antonio da Siena. Essi avevano svolto un ruolo fondamentale nella riforma osservante dei conventi domenicani della città ma, mediante la predicazione e l'opera di convincimento personale condotta attraverso la confessione e l'assistenza spirituale, avevano saputo guadagnarsi l'adesione di una parte importante della popolazione e anche di molti appartenenti al ceto di governo, tra cui il doge Antonio Venier. Gli ideali promossi da Giovanni Dominici trovarono una tale diffusione nella società veneziana da arrivare alla collisione con il potere politico in occasione della processione dei Bianchi, organizzata nel 1399, che portò il Consiglio dei dieci a bandire Giovanni Dominici dai domini veneziani.

I canonici alghensi, e tra questi L., maturarono la loro scelta in un clima fortemente influenzato dalla vicenda di Giovanni Dominici, rispetto al quale però si distinsero nettamente, ispirandosi a un ideale di vita le cui regole erano fondate, da un lato, sulla vita comune ispirata all'umiltà, al disprezzo del mondo, al digiuno e alla preghiera, dall'altro, su una prospettiva di assoluto rispetto degli assetti sociali e di allineamento alle linee del governo sul piano politico.

I celestini fornirono dunque un contribuito non trascurabile al consolidamento veneziano nelle province della Terraferma che proprio nel primo decennio del Quattrocento entrarono a far parte dei domini della Repubblica. La diffusione degli ideali dei canonici alghensi sembra infatti accompagnare l'espansione veneziana, consolidatasi tra il 1404 e il 1405 con l'acquisto di Vicenza, Verona e Padova - cui si affiancava Treviso, già controllata da una sessantina d'anni -, prendendo piede in monasteri delle città controllate da Venezia, come S. Giovanni Decollato di Padova, S. Agostino di Vicenza, e poi, nel corso del Quattrocento, S. Giacomo di Monselice, S. Giorgio in Braida di Verona, S. Pietro in Oliveto di Brescia e altri. L'esperienza di S. Giorgio in Alga fu il punto di partenza della riforma osservante dell'Ordine benedettino, che prese avvio da S. Giustina di Padova su iniziativa di L. Barbo, già priore di S. Giorgio, il quale diede vita a quel movimento di riforma, sancito nel 1419 dalla costituzione De unitate, che si diffuse nelle province venete e in Italia. In quell'ambito maturò inoltre la consapevolezza della necessità della riforma della Chiesa secolare, che si concretò nell'azione di vescovi come L. Barbo a Treviso, F. Malipiero a Verona e dello stesso L. a Venezia.

La Congregazione giocò quindi un ruolo importante nella storia religiosa di Venezia e delle diocesi della Terraferma, tanto da essere indicata dalla storiografia come la culla di una sorta di "Chiesa veneta", fortemente marcata dall'influenza della Dominante; essa non fu quindi caratterizzata esclusivamente dalla presenza pervasiva di patrizi veneziani tra i titolari di sedi episcopali e di buona parte dei benefici più lucrosi delle diocesi delle terre suddite, ma anche da una spinta alla riforma delle strutture ecclesiastiche regolari e secolari destinata a lasciare tracce in profondità.

Il successo dei celestini deve molto al fatto che essi riuscirono, fin dal 1406, a portare le loro istanze di riforma fino ai massimi vertici della Chiesa, soprattutto grazie all'elezione pontificia di uno dei loro fondatori, Angelo Correr, divenuto papa nel 1406 con il nome di Gregorio XII. Egli portò con sé a Roma Antonio Correr e Gabriele Condulmer, suoi nipoti ben presto creati cardinali, dando così inizio a una "dinastia" di papi veneziani che continuò con l'ascesa al soglio pontificio del Condulmer e giunse a compimento nel 1464 con il papato del nipote di quest'ultimo, Pietro Barbo (Paolo II).

Con la partenza per Roma del papa e dei nipoti, L. divenne ben presto la figura di riferimento nella comunità dei canonici: dopo essere stato a S. Giovanni decollato di Padova (1406) e a S. Agostino di Vicenza (1407), nel 1409, in seguito al trasferimento di L. Barbo da S. Giorgio in Alga a S. Giustina di Padova, L. fu eletto priore della casa madre, carica di durata annuale cui fu chiamato ancora nel 1413, nel 1418 e nel 1421, in alternanza con quella del convento vicentino e di altri della Terraferma. Infine, quando nel 1424 la Congregazione raggiunse dimensioni tali da richiedere per il suo governo la presenza di una figura di raccordo tra le molte case che ormai vi aderivano, egli fu designato superiore generale, carica a cui fu chiamato di nuovo nel 1427, nel 1429 e nel 1431.

Il suo prestigio gli veniva senza dubbio da una scelta di vita ispirata all'assoluta povertà e alla castità, rivolta interamente alla preghiera e alla riflessione sulla Scrittura. Per molti versi tale scelta era assai più radicalmente aliena dal contatto con il secolo rispetto a quella di illustri confratelli come Angelo e Antonio Correr o G. Condulmer, che pur restando fedeli agli ideali della Congregazione, puntando alle massime dignità della Chiesa accettarono comunque un compromesso con la mondanità che li portò tra l'altro a cumulare un buon numero di benefici ecclesiastici. L. invece rifuggì da ogni carica esterna all'Ordine, e per questo cercò di evitare la nomina al vescovado di Castello. In particolare, fu sempre evidente la sua volontà di rimanere estraneo a ogni sia pur lontano contatto con il sistema beneficiale, che costituiva invece la struttura portante della Chiesa e che, anche negli ambienti vicini alle istanze riformatrici, era quasi sempre considerato un mezzo indispensabile per garantire le risorse indispensabili al mantenimento degli ecclesiastici. Solo così è possibile spiegare, per esempio, il fatto che il nome di L. sia assente dagli elenchi dei chierici che concorrevano alle probae per i benefici ecclesiastici vacanti nei domini veneziani, nei quali risultano a più riprese Antonio Correr, L. Barbo e altri protagonisti del movimento riformatore. L. si dedicò invece totalmente al governo delle singole comunità solo esercitando l'ufficio di priore di queste, e con l'unico scopo di consentire la vita delle comunità accettò di occuparsi dell'amministrazione delle rendite beneficiali. Fu proprio questo l'ambito in cui L. seppe conquistarsi tra i confratelli la stima e la venerazione che ne fecero la guida della Congregazione: sotto la sua guida la casa di S. Agostino di Vicenza e poi molte altre divennero non solo centri di spiritualità e di forte vita comunitaria dei canonici, ma anche centri di una rinnovata presenza pastorale che richiamò dal territorio circostante i fedeli delusi dalla pochezza delle istituzioni parrocchiali, cui i canonici si sostituirono spesso nella cura animarum. Uno dei segni distintivi del modello alghense, e in questo l'influsso laurenziano risultò determinante, fu proprio quello di coniugare il distacco dal secolo e la vita comunitaria ispirata a principî fortemente ascetico-spirituali con un'attenzione costante alla cura delle anime dei territori circostanti le comunità.

I fondamenti teologico-spirituali dell'azione di L. sono condensati in un corpus di opere composte tra il 1419 e il 1455. Basati su una preparazione culturale in gran parte di natura autodidatta, caratterizzata da una profonda conoscenza della Scrittura e dei Padri della Chiesa, i suoi testi sono privi di grande originalità, ma ripercorrono fedelmente le tappe della sua formazione e della vita nella Congregazione, offrendo nel contempo un modello di fede e spiritualità tutto volto alla perfezione, rivolto ai confratelli ma più in generale a tutti i cristiani.

La prima delle sue opere, il Lignum vitae (1419), richiamando l'immagine dell'età dell'oro della Chiesa delle origini, mette in evidenza il ruolo che l'"albero della vita", costituito dal timor di Dio, la cui radice è la fede e i cui frutti sono le virtù (continenza, prudenza, giustizia, carità, pazienza, obbedienza, speranza, perseveranza, povertà, sobrietà, umiltà, orazione), deve svolgere come punto di riferimento non solo per chi conduce vita monastica, in particolare per i celestini, ma per tutti gli uomini. Esso può essere inteso allo stesso tempo come un'allegoria della vita di L. e delle origini della Congregazione. I quattro trattatelli scritti tra il 1425 e il 1426, De disciplina et perfectione monasticae conversationis, De contemptu mundi, De vita solitaria e De spirituali et casto Verbi animaeque connubio e i due lunghi trattati Fasciculus amoris e De triumphali agone mediatoris Christi che insieme con il De compunctione et complanctu christianae perfectionis sono di poco posteriori, contribuiscono da un lato a definire il primato della vita monastica e dall'altro ad affermare la necessità di una rinascita, quasi una rifondazione, della Chiesa secondo i principî della Scrittura e i canoni della Chiesa delle origini, dopo aver messo in evidenza i pericoli della mondanità, e lo stato di profonda crisi e decadenza che le stesse strutture ecclesiastiche attraversavano anche dopo la conclusione del Grande Scisma.

Dopo l'apertura del concilio di Basilea (1431) la vita di L. subì un profondo cambiamento con la nomina a vescovo di Castello (11 maggio 1433).

Eugenio IV, ex confratello, lo chiamava al difficile compito di reggere una diocesi che comprendeva quasi l'intera città di Venezia e che, seppure non molto estesa, annoverava una settantina di parrocchie e circa 90.000 anime, oltre a un gran numero di strutture ecclesiastiche secolari e regolari. Si trattava inoltre della capitale di un grande Stato territoriale, della sede delle massime magistrature repubblicane, la cui volontà di mantenere indipendenti le strutture della Chiesa locale dal controllo della Curia romana era ormai da secoli una caratteristica consolidata.

L. tentò in ogni modo di rifiutare l'incarico, che lo obbligava, ormai più che cinquantenne, ad abbandonare la Congregazione e a impegnarsi in un ambito completamente diverso, molto lontano dagli ideali di vita di preghiera e di ascesi per i quali si sentiva più portato.

Nonostante la riluttanza ad accettare la carica, una volta preso possesso della diocesi L. si impegnò a fondo nel suo nuovo compito, muovendosi in sintonia con le direttive che il papa aveva dato a lui come ad altri vescovi nominati in quegli anni, volte a restaurare l'autorità episcopale attraverso una presenza costante nel governo vescovile.

Oltre ad amministrare con attenzione e oculatezza, convocò subito un sinodo diocesano, provvedendo anche a far stendere una raccolta di vecchie e nuove disposizioni relative alla disciplina ecclesiastica (Synodicon, 1438), e riuscì a sottoporre, almeno in parte, al controllo dell'autorità ecclesiastica le nove congregazioni nelle quali era raccolto tutto il clero della città. I loro rappresentanti si rivolsero infatti in almeno due occasioni (1433 e 1438) a L. per un arbitrato sulle loro controversie, dando modo al vescovo di stabilire una più precisa struttura di governo e di rappresentanza. Dedicò particolare cura al clero della cattedrale di S. Pietro, che era afflitto dalla scarsità di risorse economiche a causa dell'esiguità delle prebende capitolari, istituendo e dotando un collegio di dodici chierici poveri da istruire nella grammatica e nel canto per poter assolvere al culto nella chiesa; accanto a questo fondò sei nuovi benefici del rango di sottocanonicati, i cui titolari, che avevano obbligo di residenza, dovevano subentrare ai canonici in caso di morte o di trasferimento. Insieme con le norme più strette che, oltre a obbligare tutti alla residenza, vietavano ai canonici di essere titolari di altri benefici, questi provvedimenti dovevano contribuire a creare una carriera interna al clero della cattedrale addetto al culto divino che fino ad allora non aveva avuto luogo. Munito della delega apostolica, intervenne poi nelle molte comunità monastiche di Venezia (S. Daniele, S. Maria della Celestia, Corpus Domini, S. Croce della Giudecca) restaurando la disciplina.

Dell'intensa azione pastorale di L., i cui dettagli attendono ancora una ricerca approfondita, fece le spese la produzione letteraria che si limitò nel corso dei vent'anni di episcopato a soli quattro scritti.

Il primo (De institutione et regimine prelatorum), composto appena dopo la nomina, esprime una visione pastorale del suo episcopato; gli altri tre (De oboedientia, De humilitate, De perfectione gradibus), composti tra il 1451 e il 1455, offrono un'immagine assai diversa. Attribuendo infatti un'importanza del tutto nuova al ruolo delle istituzioni e della gerarchia, questi testi modificano radicalmente l'ecclesiologia delle opere laurenziane precedenti il 1433, rivalutando alla luce dell'esperienza del governo della diocesi il ruolo dell'autorità e in particolare di quella del vescovo, del papa e del diritto canonico, nella vita della comunità ecclesiale.

La fine dell'esperienza mistico-contemplativa, sia pur fortemente nutrita di una prospettiva pastorale, di S. Giorgio in Alga e le responsabilità di governo concreto della diocesi nel quale L. si impegnò a fondo, lo portarono a riconsiderare solo l'importanza dell'autorità nella vita ecclesiale e del rapporto con le istituzioni ecclesiali. Nell'ultimo periodo della sua vita egli si avviò così ad assumere agli occhi della società veneziana quelle caratteristiche che ne avrebbero, dopo la morte, facilitato e al tempo stesso, paradossalmente, ostacolato il processo di canonizzazione. Pastore ascetico e alieno dalla mondanità, in odore di santità già dall'epidemia di peste del 1447 che lo vide protagonista nell'aiuto alla popolazione, ma definito "omni sanctimonia ornatissimum" addirittura in una lettera del Consiglio dei dieci al papa nel 1454, egli rappresentava agli occhi del potere politico uno dei mediatori più importanti con Eugenio IV, che Venezia appoggiò contro il concilio di Basilea.

L. divenne inoltre il primo patriarca di Venezia nel 1451, quando Nicolò V abolì il patriarcato di Grado e il vescovado di Castello facendoli confluire nella nuova dignità patriarcale cui assegnò attributi metropolitici nei confronti delle altre diocesi del Dogado (Torcello, Chioggia, Caorle, Iesolo). Quanto L. fosse vicino alla sensibilità politica dei massimi organi di governo della Repubblica apparve comunque chiaro nel 1453 quando, insieme con un altro arcivescovo e futuro santo, Antonino Pierozzi da Firenze, fu mediatore delle trattative che portarono, l'anno successivo, alla pace di Lodi.

L. morì a Venezia l'8 genn. 1456 e fu sepolto nella cattedrale di S. Pietro di Castello.

Il culto laurenziano, già presente in nuce negli ultimi anni di vita, si diffuse ben presto in città, come attestano le raffigurazioni celebrative subito commissionate ai Bellini dal patriarcato di Venezia e dalla Congregazione di S. Giorgio in Alga, e fu alimentato anche dall'orientarsi della devozione popolare verso L. come santo contro la peste (dalle epidemie del 1476 e del 1480). Il governo veneziano assunse ben presto l'iniziativa di appoggiare la canonizzazione di quello che era considerato un santo "di Stato", tanto che nel 1472 ottenne dal papa l'avvio del processo di beatificazione. Anche la stesura della Vita beati Laurentii Iustiniani Venetiarum protopatriarchae (Venetiis, per Jacobum de Rubeis, 1475) del nipote Bernardo Giustinian, figlio di Leonardo, edita nel 1475 (L. Hain, Repertorium bibliographicum, 9478; cfr. anche Bibliotheca hagiographica Latina, 4749), faceva parte di una complessa manovra politico-diplomatica, volta a ottenerne la santificazione. Proprio la forte connotazione politica ostacolò un rapido accoglimento della candidatura, che subì le conseguenze dei rapporti sempre difficili tra Venezia e la Sede apostolica: solo nel 1524 Clemente VII riconobbe a L. il titolo di beato, mentre per la canonizzazione si dovette attendere che un veneziano salisse, dopo più di due secoli, sul soglio di Pietro: fu Alessandro VIII Ottoboni a concludere il processo nel 1690.

Opere edite. La prima opera a stampa di L. fu Institutiones vite monastice (Brescia 1502, A. Britannico, cfr. anche Hain, 9477, dove è segnalato un volgarizzamento). L'Opera omnia di L. fu pubblicata presso lo stesso editore, a Brescia nel 1506, per iniziativa del generale di S. Giorgio in Alga, ma in seguito ebbe circolazione soprattutto Oltralpe, come dimostrano i luoghi delle successive edizioni cinquecentesche e seicentesche: Parigi 1524, Basilea 1560, Lione 1569, Venezia 1606, Colonia 1616, Lione 1628, Colonia 1675. Solo nel XVIII secolo, dopo la canonizzazione, l'interesse per gli scritti giustinianei tornò a concentrarsi a Venezia, con le edizioni del 1721 e del 1751. Quest'ultima, la più corretta, è stata riproposta in edizione anastatica nel 1982 (Firenze) in occasione delle celebrazioni del sesto centenario della nascita.

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