SATIRA

Enciclopedia Italiana (1936)

SATIRA (in relazione all'etimologia, da satur, l'esatta ortografia sarebbe satura; satyra è forma tarda dovuta al raffronto con σάτυρα; satira è forma grecanica)

Augusto MANCINI
Ferdinando NERI

Antichità classica. - Grecia. - Una vera e propria satira, quale l'ebbero i Latini (v. appresso), mancò in Grecia. Ma questo non toglie che scrittori satirici, se non di satira, si avessero, e che dei punti di contatto esistano non solo per la menippea varroniana, ma anche per la creazione luciliana, con forme di critica, specialmente del costume, che compaiono in Grecia col sec. III a. C. e non mancano, sotto qualche rispetto, di precedenti più antichi. È ovvio che si debba prescindere dagli elementi e motivi satirici che accoglie già l'epica nella sua estrema possibilità di vario contenuto, da quelli, altresì, che dànno talora ispirazione all'elegia e alla giambica, e si riflettono largamente, e in molteplice guisa, nella commedia: basti fermare l'attenzione sui silli (σίλλοι) e sulle diatribe (διατριβαί).

I silli (la parola significa "guerci, strambi") sono in sostanza considerati dai grammatici antichi come componimenti giambici (Ael., Var. hist., III, 40: τὸν σίλλον ψόγον λέγουσι μετὰ παιδιᾶς δυσαρέστου; Anecd. Ox., IV, 314,13: σίλλος ἐστὶ ποίημα λοιδορίαν κατά τινος περιέχον) e si debbono a Timone di Fliunte (prima metà del sec. III a. C.), detto tipicamente ὁ σιλλογράϕος, ma poco di preciso ne sappiamo, ove si eccettuino la composizione esametrica e l'intonazione giambico parodica. Come autore di σίλλοι è ricordato l'elegiaco Senofane, ma il titolo non è originario, e fu esteso ai suoi esametri di critica religiosa e filosofica successivamente e per effetto di Timone, sia per l'effettiva affinità di materia e di carattere, sia perché Senofane compariva come interlocutore nei componimenti di Timone: silli scriveva anche Bione di Boristene, più noto per i sermones a cui si richiama Orazio (Epist., II, 2, 60) e che erano in sostanza le διατριβαί, cioè le conversazioni, di cui si compiacquero particolarmente i cinici, la posizione negativa dei quali rispetto ai problemi filosofici li avvicinava all'atteggiamento e al tono satirico: da Bione e da Timone dipende Menippo di Gadara, che diede il suo nome al tipo di satira coltivato da Varrone e da Seneca. Bione, Telete, Timone scrissero in prosa, Menippo in prosa e in versi, ma recenti scoperte hanno rilevato la maggiore importanza di Fenice di Colofone (dell'ultimo quarto del sec. III a. C.), autore di diatribe metriche, in coliambi, che più si avvicinano alla satira latina.

Invece le forme, quali che siano, che ebbe la satira in Grecia non hanno rapporto col dramma satiresco, ciò che non esclude peraltro che nei drammi di Pitone, Licofrone, Sositeo si avessero elementi di vera satira personale e del costume: particolarmente interessante è il Menedemo di Licofrone, in quanto accogliendo elementi di satira filosofica possa rappresentare un punto di contatto fra il vecchio tronco scherzoso del dramma satiresco e il principio ispiratore delle diatribe. Certo quanto di espressione satirica accoglie la tradizione letteraria greca, dalla commedia media parodica ai silli e alle diatribe, confluisce nel maggiore scrittore satirico che abbia avuto la Grecia, ma che risente anche, con molta probabilità, della conoscenza dì scrittori latini, Luciano di Samosata.

Roma. - La tradizione erudita rappresentata da Quintiliano (Inst., X,1, 94-5) e da Diomede (Gramm. Lat., I, 485) distingue nettamente la satira luciliana da una forma, pur letteraria ma con caratteri proprî, di satira più antica, che si fa risalire a Ennio e Pacuvio. Diomede è il più esplicito: oltre la satira luciliana, ci dice che "olim carmen, quod ex variis poematibus constabat, satira vocabatur, quale scripserunt Pacuvius et Ennius". Quintiliano non ricorda per la forma di satira più antica che Terenzio Varrone, non Ennio né Pacuvio, ma affermando che questa forma di satira fiorì "etiam prius" e che aveva come caratteristica la "varietas carminum", mentre le Menippee di Varrone presentavano qualche cosa di più di questa varietà metrica, in quanto, è facile aggiungere, erano miste di poesia e di prosa, si riferisce implicitamente alla satira di Ennio e di Pacuvio. Non manca chi ritiene che l'origine di una satira letteraria si possa far risalire fino a Nevio, al quale si vogliono attribuire anche le prime togate, ma tutto su base troppo incerta e presenta grave difficoltà il silenzio della tradizione che associa a Ennio il sorgere della satira: probabilmente Ludus (Cic., De Sen., 6, 20) e Satura (Festo, p. 336 Linds.) sono in Nevio titoli di commedie e per Satura non si può escludere si trattasse di una commedia di genere, in cui il titolo può anche darsi (ma le ipotesi possibili sono tante) avesse press'a poco lo stesso valore del Saturion, titolo e nome di parassita ingordo plautino, e, forse, della Satura togata di Atta; più dubbia è la cosa per l'omonima Atellana di Pomponio, quantunque fra i titoli di atellane si trovino anche soggetti di genere, Parcus, Surdus.

La storia della satira comincia col multiforme Ennio, spirito singolarmente innovatore, ma della cui opera, per quanto attiene alla satira, non bisogna né esagerare né annullare il valore. Pur non avendone testimonianza precisa, non c'è ragione di non ammettere che dall'espressione per saturam Ennio abbia per primo introdotto con valore letterario la parola satura, sotto cui sembra raccogliesse poesie di vario argomento e di vario metro, non senza analogia, anche verbale, con gli ἄτακτα e i σύμμικτα ellenistici: ipotesi preferibile all'altra che egli intitolasse la sua raccolta poemata per saturam, così come Lucilio ci avrebbe dato sermones per saturam, e che l'introduzione in tal senso della parola satura si debba alla tradizione grammaticale. Comunque la satura ebbe fortuna solo per lo spirito nuovo che vi associò indissolubilmente Lucilio. La materia della satira di Ennio doveva essere svariatissima e in tanta varietà non sarà mancato anche qualche spunto propriamente satirico, ma Satura è ancora un titolo, non è sostanza e tanto meno caratteristica unità d'intenti e d'ispirazione. La parola si riferisce soprattutto alla varietas carminum, che appariva anche nell'ambito di uno stesso componimento: esametri dattilici, trochei, giambi, sotadei. Erano quattro libri. Ma non si deve credere, come spesso si ammette, che nelle Saturae fossero compresi tutti gli scritti minori, quali il Sota, il Protrepticus, gli Hedyphagetica, l'Epicharmus e l'Euhemerus, gli Epigrammata e persino l'Ambracia, che è da ritenere una pretesta: ma l'accertata polimetria dello Scipio induce invece a farlo includere fra le satire. Ed ha importanza il fatto che il nome si estendesse, nell'uso dei grammatici come appare dalle citazioni, dal significare la raccolta (come si dice, la satira-libro) ai singoli componimenti, cioè alla satira-carme. Perfetta è l'analogia del processo per cui da per saturam, si ha satura e saturae, e da κατὰ λεπτόν, catalepton si ebbe catalepta, inteso della silloge e dei singoli componimenti. Analogo processo in silva, che da ὕλη indica propriamente una materia senza ordine e senza elaborazione, res temere congestae (Quint., 10, 3, 17) poi opuscula, leves libelli e infine silva, specialmente al plurale, indica la raccolta e i singoli componimenti. Nulla sappiamo delle satire di marca enniana che sono attribuite a Pacuvio da Diomede (l. c.) e da Porfirione (ad Hor. Sat., I, 10, 46).

Creatore della satira intesa come forma d'arte che castigat ridendo mores e di cui è caratteristica la critica cosi delle persone, come delle cose, è Lucilio, che tolse il nome dei suoi trenta libri di satire da Ennio, ma per indicare piuttosto la molteplicità dell'argomento che la varietà dei metri: satira del costume, satira politica, filosofica, letteraria, con ricchezza caratteristica di aneddoti, con frequenza di attacchi personali, ciò che faceva rivivere in Lucilio lo spirito della ἀρχαία κωμῳδία, con cui fino da Orazio si ebbe a paragonarlo. Ma l'originalità di Lucilio è incontestabile, e se in lui è ovvio che compaiono qua e là, e fossero, s'intende, maggiori di quanto dai frammenti consti, anche le tracce della sua cultura ellenistica, bene a ragione Orazio lo fa "rudis et Graecis intacti carminis auctor" (I, 10, 65), né queste parole possono riferirsi ad altri che a lui. Pensare ad Ennio è assurdo, poiché la satira-nome di Ennio non ha un carattere proprio che consenta di dirla carmen, e il passo di Orazio è di una chiarezza che fa meraviglia non sia stata apprezzata da critici insigni. Orazio distingue la sua età dall'età precedente a cui appartiene Lucilio, il quale "fluit lutulentus" (v. 50), è anche "comis et urbanus", ed anche riguardo alla mancanza di lima, per cui da sé, se vissuto in altro tempo, "detereret sibi multa" (v. 69), si deve concedere che fu sempre più corretto, "limatior", giudicando in generale, "quam poetarum seniorum turba" (v. 67) e più ancora di quello che sarebbe stato da attendersi da uno che si produceva con un genere nuovo e per cui mancava l'esempio e il modello dei Greci (v. 65). L'affermazione della romanità della satira non si trova dunque per la prima volta in Quintiliano, ma compare, meno sentenziosa ma più meditata, in Orazio. Lucilio ne è l'inventore, ed a Lucilio anche si deve che la satira, polimetrica nei libri più antichi di lui, e riflettente così sotto un certo rispetto la satira enniana, assuma poi stabilmente l'esametro, che non abbandonerà più.

Che anche i satirici latini, così Ennio e quanti alla forma della sua satira si ricongiungono, come Lucilio con quelli che seguirono la sua traccia e perfezionarono la sua opera, accogliessero e facessero proprî elementi greci, non è dubbio, e i raffronti con le diatribe dei filosofi ellenistici, al tono delle quali si è talora avvicinato anche Orazio, sono suggestivi e pieni d'interesse. Ma la satira latina è tutt'altra cosa: essa aderisce strettamente alla vita reale e fugace del tempo, coglie in essa quanto, dalla morale alla politica e alla cultura, può essere criticato, ripreso, deriso; non manca, quando convenga, di fondamenti e riflessi filosofici; ma più che perseguire e sviluppare concezioni dottrinarie che troveranno in Grecia la loro migliore espressione in varie forme di parodia del mondo mitico, si compiace, appunto per questa sua aderenza alla realtà, di spunti di buon senso, della censura personale; di più essa è poesia, anzi è ormai poesia monometrica. L'esattezza di questa concezione, che ancora si tende a impugnare è dimostrata dal modo con cui gli stessi satirici latini sentirono la satira nei rapporti con la letteratura greca: il punto di contatto parve dato e con ragione dalla ἰαμβικὴ ἰδέα, non da altro: le satire possono anche essere dette Bionei sermones (Epist., II, 2, 60), ma questo fugace accenno non può essere messo a confronto con i passi in cui ampiamente e ripetutamente si afferma il rapporto di Lucilio, e di quanti risentono di lui, con la commedia antica. È tutta satira luciliana la satira di Orazio, di Persio, di Giovenale.

Parlando di coloro che dopo Lucilio, l'inventor, hanno coltivato la satira, Orazio (II, 10, 46) ricorda Varrone Atacino come non felice scrittore, ma a chi altri così alluda non sappiamo: forse a un L. Albucius di cui Varrone ricorda i libelli luciliano charactere, forse a Servio Nicanore (Suet., Gramm., 5), al liberto di Pompeo, Leneo (Suet., Gramm., 15), forse allo stesso varrone, che sappiamo avere scritto quattro libri di satire luciliane, distinte dalle Menippee. Incerta è invece l'attività come scrittore di satire del cesariano L. Trebonio (Cic., Fam., 12, 16, 3). Come scrittore di satire dell'età dei Flavî è ricordato Turno, forse anche un Giulio Rufo, contemporaneo di Giovenale, un Silio e un Manilio Vopisco: stanno fra il sec. IV e il V altri poeti satirici di cui conosciamo appena il nome: Lucillo, Secondino, Tetradio.

Si ricongiunge alla satira di Ennio M. Terenzio Varrone come autore delle satire Menippee; ma solo esteriormente in quanto esse presentano una miscela, e non più di soli metri, e non tanto di contenuto, ma di prosa e versi, l'una e gli altri inventati secondo il modello offerto dal cinico Menippo (sec. III), che Varrone ha però imitato, ma non riprodotto traducendo. Purtroppo non possiamo valutare debitamente il valore della creazione, più che dell'innovazione, varroniana dai pur notevoli frammenti che possediamo, ma è indubbia la varietà d'ispirazione e di atteggiamenti che offrivano le Menippee, in cui accanto all'impronta riflessa dai cinici, ma romanamente marcata, dello σπουδογέλοιον, si offriva una satira pungente, e talora d'intonazione luciliana, della società romana, non senza spunti direttamente personali. Satire Menippee, in quanto accolgano prosa e versi, e, come in Varrone, d'invenzione, si considerano la Apocolocyntosis di Seneca (nel cod. Sangall., Divi Claudi ἀποϑέωσις Annaei Senecae per saturam) e il Satiricon di Petronio, nonostante la sua caratteristica fisionomia ed economia.

Medioevo ed età moderna. - Nel Medioevo la vena satirica, dischiusa dalle acerbe lotte politiche e religiose, trova numerose espressioni nei ritmi latini, nelle epistole, nelle profezie; una singolare predilezione per la satira allegorica, che assume gli animali come tipi del carattere umano, si delinea con l'Ecbasis captivi (del sec. X), dove un monaco d'un convento lorenese si scaglia contro gli zelatori della riforma claustrale, e l'Ysengrinus (finito di comporre a Gand nel 1148), da cui procede il Roman de Renart (secoli XII-XIII) e si dirama nelle varie letterature europee, sino al Reynke de Vos (Reinecke Fuchs), della fine del Quattrocento.

La satira morale dell'una o dell'altra classe sociale, e sopra tutto del clero, appare di frequente nei canti goliardici, nel Priesterleben di Heinrich von Molk, nel Libro de buen amor dell'arciprete di Hita, nelle cantigas (portoghesi e spagnole) d'escarneo e de maldizer, nel Roman de la Rose, nelle poesie di Rutebeuf; mentre la satira politica, già diffusa nelle canzoni popolari, irrompe con accenti più nobili e fieri nei sirventesi provenzali (di Bertrando dal Bornio e dei maggiori trovatori), nelle liriche di Walter von der Vogelweide in Germania, di Guittone d'Arezzo e di Iacopone da Todi in Italia: dove lo stesso Dante, in più luoghi della Commedia, e il Petrarca, nelle grandi canzoni politiche e nei sonetti contro l'"avara Babilonia", l'improntano del loro genio e della loro passione. Tutta la poesia toscana del Trecento risuona del clamore delle fazioni, ed è notevole come Cino da Pistoia, nel 1331, nella canzone Deh quando rivedrò 'l dolce paese si valga dell'antica parola, chiamando la sua poesia "Satira mia canzon...". E già erano conosciuti e studiati i poeti satirici dell'età classica: il Boccaccio imitò Giovenale nel suo Corbaccio; indi gli umanisti si diedero a commentare Persio e Marziale; rinnovarono i temi più lubrici e violenti della satira latina (ciò che bastano a dimostrare il Filelfo e il Panormita); trassero anche da Luciano qualche ispirazione più arguta (e qui si distinsero, per la vivace mordacità del dialogo, serbata nella stessa veste classicheggiante, il Pontano e l'Alberti).

Fuori d' Italia si prolunga una tradizione medievale di allegorie grottesche, che colpiva le immaginazioni con le battute satiriche della danza macabra" (in cui la Morte scherniva i più alti dignitarî dello Stato e della Chiesa), con la rappresentazione dei diavoli quali tipi comici del vizio e del peccato, e soprattutto con un nuovo mito, ch'è proprio del Medioevo e ch'ebbe grande fortuna: quello della Follia, che in sé compendia e raffigura lo sfogo degl'impulsi irragionevoli, ma vitali, dello spirito umano: la "festa dei pazzi" si celebrava, con una strana libertà, nelle cattedrali, il giorno degl'Innocenti; e una speciale forma del teatro profano in Francia, la sotie, prese questo nome perché gli attori vestivano il costume dei sots, cioè dei "pazzi", a significare le manie e i capricci degli uomini. Il Narrenschiff (La nave degli stolti) dell'alsaziano Sebastiano Brant (1498) è anch'esso una rassegna satirica delle follie umane, ripresa con più fine ironia nella Stultitiae laus di Erasmo da Rotterdam (1511). Del Quattrocento spagnolo, oltre alla Danza de la Muerte, ci restano le Coplas del Provincial, Coplas de Mingo Revulgo e ¡Ay, Panadera!, satire morali e politiche, e in prosa, il Corbacho o Reprobación del amor mundano di Alfonso Martínez de Toledo.

La riforma, e le conseguenti lotte religiose, suscitarono una copiosa letteratura satirica: gli epigrammi di Clément Marot, più di un episodio del Rabelais, il Cymbalum mundi di Bonaventure Des Périers, i dialoghi e le rime di Ulrich von Hutten (ch'ebbe anche parte nella composizione delle Epistolae obscurorum virorum), le accese polemiche fra Thomas Murner (Vom dem grossen lutherischen Narren) e il Karsthaus: e specialmente in Germania, la satira pervade ogni scrittura del tempo, gli Schwänke e i Fastnachtspiele di Hans Sachs, le favole di Erasmus Alberus, ecc.; un ironista geniale, Johann Fischart, creava le ultime grandi satire religiose, piegando già, col rifacimento del Gargantua e del Pantagruel (Geschichtsklitterung), verso la considerazione umoristica dei costumi. In Francia, oltre alle Satyres chrestiennes di Pierre Viret, una vena ispirata di poesia si afferma, nei due campi opposti, con i Discours des misères de ce temps del Ronsard e Les Tragiques di Agrippa d'Aubigné. La Satire Ménippée, opera di varî autori, degli ultimi anni del Cinquecento, ha carattere e fini essenzialmente politici.

In Italia, la poesia satirica, che si era ben presto allacciata all'esempio dei classici con Antonio Vinciguerra, l'Ariosto, Pietro Nelli, Luigi Alamanni, Ercole Bentivoglio, proseguì per questa via, ora moraleggiante, ora burlesca, quasi in tutto estranea alle grandi questioni politiche e religiose: delle quali, i commenti più arditi e spontanei sono da cercare fra le "pasquinate". Il Lasca, l'Aretino, furono mordaci e violenti; estroso il Folengo nel Baldus, e oscuro nel Chaos del Triperuno; facile, ed ameno pittore del costume Cesare Caporali, a cui si deve un tipo di satira, che già s'intravvedeva nelle rime giocose del Berni, e che venne ripreso felicemente in Francia da Mathurin Régnier, l'artista avveduto di Macette e del Souper ridicule. I poeti satirici inglesi, abbandonata l'allegoria che domina ancora nella "moralità" dei "Tre stati" di David Lyndsay (1540), si dànno, con Th. Wyatt, George Gascoigne, John Donne, all'imitazione dei Latini e degl'Italiani; e sono particolarmente notevoli il Mother Hubbard's Tale dello Spenser, le satire di Thomas Nashe e di John Marston, il Virgidemiarum di Joseph Hall.

Tra la fine del Cinquecento e i primi anni del secolo successivo, la dissoluzione dell'ideale artistico del Rinascimento si avvera attraverso una visione nuova, di cui la massima espressione è data dal Cervantes nel Don Quijote: satira e poesia, ad un tempo, di quel tramonto, commisto di rimpianti per i sogni perduti e d'amore costante per l'umana realtà. Con mosse più triviali, il poema eroicomico asseconda in Italia, e poi in Francia, quell'opera di distruzione e di rinnovamento; mentre la satira del costume si prosegue con i Sermoni del Chiabrera, le Satire di Salvator Rosa, di Benedetto Menzini, Iacopo Soldani, Lodovico Adimari, Lodovico Sergardi (che le scrisse in latino, con lo pseudonimo di Quinto Dettano). Della Spagna, ricordiamo le satire rimate di Bartolomé Leonardo de Argensola e di Francisco de Quevedo, autore anche di prose satirico-morali (El alguacil alguacilado, El mundo por de dentro, ecc.). In Francia, dai numerosi saggi raccolti nel Cabinet satyrique e nel Parnasse des poètes satyriques si giunge alle satire oneste ed eleganti del Boileau; ma di una serietà e d'un calore ben più profondi s'avvivano le Lettres provinciales, lanciate dal Pascal contro la morale gesuitica, e talune commedie del Molière, come il Tartuffe e il Dom Juan, dov'è specialmente bollata l'ipocrisia; il La Fontaine riprende con ammirevole penetrazione psicologica i vecchi temi satirici inseparabili dalla favola. Dai contrasti morali e religiosi sorgono, in Inghilterra, le opere satiriche di John Dryden (Absalon and Achitophel, The Hind and the Panther) e di Samuel Butler (Hudibras). In Germania, J. Lauremberg, Joachim Rachel, il pastore luterano H. Schupp, il cappuccino Abraham a Santa Clara, si fanno giudici severi di quell'età, che il Grimmelshausen, con i romanzi simpliciani, ha, per così dire, potenziato epicamente nella sua stessa abiezione. E di tanto questa satira è popolaresca, e perfino plebea, d'altrettanto è dotta e austera quella di Andrea Griphius nelle sue commedie; mentre il teatro e il romanzo di Christian Reuter si orientano verso un realismo borghese.

La satira del costume prevale nel Settecento italiano, con i sermoni di Gasparo Gozzi, il vasto poema Cicerone di Gian Carlo Passeroni, il Giorno di Giuseppe Parini, le Satire dell'Alfieri: si delinea e si afferma nobilmente in questa poesia la nuova coscienza civile della nazione. La satira letteraria trova una forte espressione nella Frusta di Giuseppe Baretti, e dalle polemiche sul teatro veneziano trassero il loro primo motivo le Fiabe di Carlo Gozzi. In Francia, hanno maggiore risalto le Lettres persanes del Montesquieu (quadro satirico, sotto nomi orientali, della società parigina), Candide e gli altri racconti del Voltaire, Le neveu de Rameau del Diderot, le satire in versi e gli epigrammi di Gilbert, di Piron, di Ecouchard-Lebrun, i giambi di André Chénier. Dell'idea rivoluzionaria, che si svolge lungo tutto il secolo, risentono le varie forme letterarie, non esclusa la drammatica; e nel teatro appunto risuona, col Mariage de Figaro del Beaumarchais, il segnale di un assalto che stava per prorompere sulla piazza. Nella satira morale e civile produsse le sue migliori poesie lo spagnolo G. M. de Jovellanos; di José Gerardo de Hervas si ricorda la Sátim contra los malos escritores, di Leandro Fernández de Moratin La derrota de los perantes. Fra gli scrittori inglesi, Alexander Pope lasciò un modello di satira letteraria e morale con la Dunciad; Jonathan Swift sfogò la sua misantropia in discorsi e fantasie acri, e talora feroci, quali s'incontrano anche nei suoi popolari Gulliver's Travels; i libelli di Daniel De Foe (The Shortest Way with the Dissenters, The Secret Hystory of the White-Staff); la Rolliad, e l'Anti-Yacobin (cui collaborarono W. Gifford, C. Canning, J. Hookham Frere) riflettono le condizioni politiche del tempo: il grande poeta scozzese, Robert Burns, dimostrò il vigore più schietto, e la più rara finezza di spirito in Address to the Deil, Poor Mailie, ed altre pagine satiriche di carattere sociale. In Germania, la "Aufklärung" adduce una satira generica e moderata, in cui si distinguono il Liscow, il Rabener, lo Zachariä (col suo poema Der Renomiste, quadro fedele della rozza vita studentesca d'allora); a maggiore altezza artistica si leva la satira del Wieland negli Abderiten e quella del Lessing negli epigrammi e nelle favole. Si accentua la satira letteraria nel periodo dello "sturm und Drang", e il giovine Goethe si volge a un tempo contro la generazione del Wieland e contro i suoi troppo entusiastici compagni (Satyros), per assurgere più tardi alla satira del giudice classico, con lo Schiller, negli Xenien.

L'Ottocento, nel complesso, si rivela più costruttivo, e meno satirico: rara nei sommi poeti italiani del principio del secolo (del Foscolo, sotto il nome di Didimo Chierico, ci rimane l'Hypercalypsis; del Leopardi, i Paralipomeni della Batracomiomachia), la satira ha i suoi migliori interpreti nei poeti dialettali, il milanese Carlo Porta, il romano G. Gioacchino Belli, pittori geniali della vita popolare e borghese; e dalla natia Toscana Giuseppe Giusti derivò l'impulso alle sue rime di carattere altamente morale e nazionale.

Lo spirito del Risorgimento agita d'ire generose la poesia politica fino ai Giambi ed epodi di Giosue Carducci.

Fra i romantici europei, emergono, aggressivi ed amari, il Byron (satira letteraria: English Bards and Scotch Reviewers: e di più ampio significato spirituale, il Don Juan) e il Heine (Harzreise, Deutschland, Atta Troll e in quasi tutti i suoi scritti, irti, acuti, vibranti d'inestinguibile brio).

In Francia, la satira politica procede compagna delle rivoluzioni, dagli Iambes di Auguste Barbier agli Châtiments di Victor Hugo, fiera condanna morale del Secondo Impero; mentre una corrente più leggiera, a specchio, più che a rampogna, della vita parigina, si snoda con sorridente atticismo nel teatro, nel romanzo, nelle facili rime degli "chansonniers". L'umorismo inglese si fa più acerbo nella satira sociale di Bernard Shaw, più fantastico in quella di G. K. Chesterton, che assume per centro il problema religioso; mentre A. Holz, L. Thoma, Fr. Wedekind, in Germania, si scagliano contro la tirannia e le viltà del mondo "borghese", in una campagna che prosegue, pur violenta, con l'espressionismo di Heinrich Mann, dello Sternheim, di B. Brecht, ecc.

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