MANFREDI, Saturnino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 68 (2007)

MANFREDI, Saturnino (Nino)

Stefania Chiocchini

Nacque a Castro dei Volsci, in Ciociaria, il 22 marzo 1921 da Romeo e Antonina Porfili, in una famiglia di origine contadina. Il padre, arruolato in Pubblica Sicurezza, dove raggiunse il grado di maresciallo, nei primi anni Trenta fu trasferito a Roma.

Il M. trascorse l'infanzia nel popolare quartiere di S. Giovanni, compiendo gli studi come semiconvittore del collegio S. Maria: si rivelò uno studente svogliato e soprattutto insofferente della disciplina tanto che concluse l'iter scolastico come privatista.

Per accontentare la famiglia nel 1941 si iscrisse a giurisprudenza, ma sin dagli ultimi anni della scuola, esordendo nel teatrino della parrocchia della Natività in via Gallia, aveva dimostrato interesse e una innata propensione per il palcoscenico.

Con il fratello minore Dante, dopo l'8 sett. 1943, per evitare l'arruolamento si nascose per qualche tempo in Ciociaria; rientrato a Roma nel '44 riprese gli studi universitari, ma contemporaneamente si iscrisse all'Accademia nazionale di arte drammatica, dove si dimostrò allievo attento e motivato, dando prova della costanza e del perfezionismo che lo avrebbero accompagnato durante tutta la carriera.

Nell'ottobre 1945 si laureò in diritto penale (con una votazione di 93 su 110), senza mai esercitare la professione, e nel giugno 1947 si diplomò all'Accademia. Già varie volte sulla scena per i saggi annuali e quello finale (fra l'altro in Goldoni, con La famiglia dell'antiquario, come Arlecchino, e Il ventaglio, ma anche nel ruolo en titre del Woyzeck di G. Büchner), divenne professionista nell'autunno 1947 nella compagnia di Evi Maltagliati, con V. Gassman primo attore, affiancato da T. Buazzelli.

Importanti, nel periodo che il M. dedicò principalmente alla prosa, furono gli anni (dal 1949 al 1952) trascorsi al Piccolo Teatro della città di Roma, diretto da O. Costa - professore del M. all'Accademia e che egli considerò suo maestro - regista colto e raffinato, interessato a un repertorio che comprendeva anche autori moderni (M. Bontempelli, J. Anouilh, U. Betti, J. Giraudoux), uso a curare nei propri attori non solo la "parola", ma anche la mimica e la funzione espressiva del corpo.

Il M., bruno, magro con un volto piacente dai lineamenti regolari, secondo le classiche categorie teatrali si qualificò "attor giovane brillante". Inizialmente in ruoli minori, poi anche come protagonista (Liliom, in La leggenda di Liliom di F. Molnár, Roma, Piccolo Teatro, 6 giugno 1950) o coprotagonista (Bill Pfeifer, in Scontro nella notte, di C. Odets, a fianco di Anna Proclemer e Buazzelli, ibid., teatro delle Arti, 20 apr. 1951), cominciò a essere notato, a ricevere le prime segnalazioni della critica che talvolta gli riconobbe doti di comunicatività e di simpatia, ma che, in molti casi, lo trovò ancora acerbo, rigido.

Di fatto il M., durante il suo lungo e accuratissimo apprendistato - frequentò anche un corso per reimpostare la voce -, aveva preso atto, oltreché di una sua indubbia vocazione al comico o quanto meno alla commedia, di un'autentica insofferenza alle limitazioni imposte dal testo scritto e quindi al teatro di "parola" tout court; del suo bisogno di stabilire un rapporto più immediato e diretto con il pubblico attraverso spazi di improvvisazione; di una spiccata tendenza all'uso dell'espressività mimica sulla linea di attori come C. Chaplin e B. Keaton, per cui aveva grande ammirazione. Nel 1952, la partecipazione a tre atti unici di Eduardo De Filippo (Amicizia; I morti non fanno paura; Il successo del giorno; Roma, ridotto del teatro Eliseo, 10 marzo), per la regia dell'autore, sciolse, in senso affermativo, l'ultimo dubbio circa la liceità della sua propensione a scivolare nel dialetto, come veicolo congeniale e più immediato alla comicità leggera, sorniona, che fin da allora gli era naturale.

Mosso dal convincimento che i suoi talenti non venissero valorizzati dal percorso attoriale fino ad allora intrapreso, nel 1952 il M. ricominciò da capo, praticando sulla propria recitazione un lavoro di revisione e di destrutturazione. Abbandonata la prosa, punto di riferimento e di partenza divenne l'attività che egli aveva svolto, fin dal 1948, nel varietà radiofonico, come interprete, e qualche volta autore, di sketch comici con colleghi quali P. Ferrari, P. Panelli, E. Pandolfi, G. Bonagura e dove, azzeccando alcune macchiette (per esempio "il sor Tacito", "Albertino, povero cocco"), aveva raggiunto una certa notorietà. Pensò anche di darsi al circo, per potenziare al massimo le sue doti mimiche; ripiegò invece sul teatro di rivista, accettando la scrittura dell'impresario E. Gigante nella compagnia delle sorelle Nava (Tre per tre Nava, regia di M. Marchesi, Roma, teatro Sistina, settembre 1953). Contemporaneamente sviluppò un'intensa attività di doppiatore nella cooperativa che faceva capo ad A.G. Majano e F. Rossi ed entrò stabilmente nel piccolo gruppo di attori e registi che avevano iniziato a lavorare a Milano nella televisione sperimentale. Nella rivista proseguì con Festival, nella compagnia di Wanda Osiris con Pandolfi e A. Lionello (Milano, teatro Nuovo, 14 ott. 1954) e Gli Italiani sono fatti così, compagnia di Billi e Riva (ibid., teatro Lirico, 6 marzo 1957).

Sulla base di tali esperienze il M. venne pian piano definendo una sua particolare declinazione della comicità: implicita, allusiva, spesso arricchita da una vena di scetticismo, sfogava infine nella battuta fulminante basata sull'"umore candido e insieme sfrontato del ciociaro"; il tutto in un'accezione estremamente misurata, mai mattatoriale, tuttavia ben definita e quindi capace di imporsi e di farsi apprezzare e ricordare dal pubblico.

In quegli stessi anni si era aggiunta alle altre l'esperienza, poi prevalente, del cinema. Anche qui il M. arrivò al registro comico per gradi, partendo dal mélo musical-sentimentale in chiave napoletana (Monastero di S. Chiara, di M. Sequi, 1949; Simme 'e Napule paisà, di D. Gambino; Anema e core, di M. Mattoli, 1952), passando poi alla commedia sentimental-popolare e al bozzetto di costume venato di umorismo, secondo alcune delle vie che dalla radice neorealista dell'immediato dopoguerra portarono alla commedia all'italiana.

Il primo film di rilievo fu Gli innamorati di M. Bolognini (1956), dove il M. interpretò il ruolo (in questo caso il barbiere Otello) che, con le variazioni del caso, fu quello da lui più frequentato nella prima parte della carriera cinematografica: il giovanotto, piccolo borghese o popolano, generalmente bonario ma con un fondo di sana furbizia, innamorato spesso sfortunato, il quale, quasi sempre come spalla del protagonista, riesce a far ridere ironizzando sugli altri e su se stesso, talvolta con franca comicità, talvolta con un sospetto di malinconia. Così, per esempio, in Guardia, ladro e cameriera di Steno (S. Vanzina, 1958), e in Camping (1958), prima regia di F. Zeffirelli.

Nel 1958, dopo aver partecipato ad altre pellicole, il M. raggiunse sullo schermo se non il successo pieno quanto meno una piena visibilità con Venezia, la luna e tu, di D. Risi, in cui è Toni, invano innamorato di Marisa Allasio, fidanzata del gondoliere, il più celebre A. Sordi, al quale il M. riuscì in varie occasioni a rubare la scena. Il 1958 fu anche l'anno della sua consacrazione nel teatro di rivista. Ottenuto il nome in ditta insieme con Panelli e Delia Scala, il 24 ottobre debuttò al Sistina di Roma in Un trapezio per Lisistrata, di Garinei e Giovannini.

Nella gradevolissima e vivace rivisitazione, in chiave di commedia musicale, dello sciopero delle mogli narrato nella Lisistrata di Aristofane, il M. tracciò con "sorniona e allusiva eleganza" (M. Morandini, in La Notte: cfr. Bernardini, p. 213) il ruolo di Euro, pigro, patetico, opportunista, per carattere e circostanze neutrale fra i contendenti Panelli e M. Carotenuto.

Il successo fu tale che i tre protagonisti transitarono direttamente nel "salotto buono" della televisione nazionale, con la conduzione del programma di varietà per eccellenza di quegli anni, la Canzonissima 1959, con la regia di A. Falqui.

Per questa edizione, a tutt'oggi considerata uno fra i migliori varietà "storici" della televisione italiana, il M. creò il notissimo personaggio del "barista di Ceccano" che concludeva ogni volta il suo numero con il celebre "fusse che fusse la vorta bbona", divenuto una sorta di tormentone nazionale.

A conclusione di questa serie positiva, che gli aveva dato ampia notorietà, il M., al cinema, indovinò il ruolo del meccanico "Piede amaro", uno dei personaggi più umani e meno caricaturali di L'audace colpo dei soliti ignoti di N. Loy (1959), seguito, forse non pienamente riuscito ma tuttavia valido e di successo, del film di M. Monicelli. Il M. ebbe poi l'intelligenza di non chiudersi nella macchietta del manipolatore di battute di stampo ciociaro. Avendo firmato, per il 1960, un ottimo contratto con D. De Laurentiis lo rescisse entro un anno, sospettando che il produttore, lungi dal volerlo valorizzare, mirasse più che altro a gestirlo e controllarlo a vantaggio di Sordi, che pure aveva in scuderia.

In effetti, con De Laurentiis girò due film di una certa dignità ma sicuramente non tali da garantirgli un'autentica crescita artistica (Crimen, di M. Camerini [1960] e Il carabiniere a cavallo, di C. Lizzani [1961]).

Accettò, invece, due pellicole meno "facili", che inserivano nell'abituale filone comico notazioni e riflessioni più approfondite su tare e difetti della società italiana (A cavallo della tigre, di L. Comencini [1961] e Anni ruggenti, di L. Zampa [1962]).

Nonostante non fossero grandi successi, i due film permisero al M. un'evoluzione del suo personaggio che - tanto nei panni del pover'uomo Giacinto Rossi, evaso suo malgrado dal carcere, che vi torna per far ottenere alla famiglia in miseria la taglia che può garantirle la sopravvivenza; quanto in quello del giovane assicuratore Omero, scambiato per un importante gerarca nell'Italia fascista e amaramente deluso dal regime in cui aveva creduto -, alternava alle gags più prevedibili un'ironia amara sino a sfiorare il dramma e arricchiva la recitazione di tonalità surreali, affidate soprattutto alla mimica.

E interamente affidata alla mimica fu l'interpretazione del "soldatino" nell'episodio L'avventura di un soldato, ispirato a una novella di I. Calvino (nel film L'amore difficile, 1962), di cui il M. curò anche regia e sceneggiatura (coadiuvato da E. Scola e altri).

L'episodio, pressoché muto - un soldato, durante un viaggio in treno, capita seduto vicino a una prosperosa vedovella e i due, senza dirsi una parola e contrastati e ostacolati dalle normali evenienze del viaggio, riescono finalmente a fare l'amore, lasciandosi, sempre in silenzio, quando uno dei due scende -, ebbe ottimi riscontri dalla critica che si rifece, per l'interpretazione del M., a Keaton, e J. Tati, e dove "il finale del "rapido", che scorre davanti all'obbiettivo e cancella inesorabilmente la vita, è un'immagine degna di Chaplin e di nessun altro" (M. Soldati, in Il Giorno: cfr. Bernardini, p. 69).

Nel contempo il M. faceva la sua ultima apparizione nel teatro di rivista raccogliendo un successo clamoroso con il Rugantino, di Garinei e Giovannini, P. Festa Campanile e M. Franciosa (Roma, teatro Sistina, 15 dic. 1962, replicato per un anno e portato in tournée, nel 1964, a New York e Buenos Aires, con Lea Massari, Bice Valori e A. Fabrizi), in cui, nel ruolo en titre, rese alla perfezione la debordante malizia del "tipo" romano, generoso, borioso e un po' vigliacco, inalberando, sulla sua "faccia di gomma", una "smorfia burattinesca fra ambigua e sfottente" (R. De Monticelli, in Il Giorno: cfr. Bernardini, p. 215).

Oramai unanimemente considerato fra i migliori interpreti del cinema italiano, il M., puntigliosamente, in qualche caso con sconfinamenti petulanti in ambiti non di sua stretta competenza (non ebbe buon carattere e non fu molto amato nel suo ambiente), continuò a "limare" il personaggio che si era ritagliato, arricchendolo di sfumature, rendendolo, in paragone con altri famosi interpreti della sua generazione, più sottile, meno immediatamente riconoscibile. Allontanandosi progressivamente dalla comicità più diretta, si dimostrò capace di rappresentare, e di stigmatizzare, ridendo o sorridendo, alcuni tipici difetti dell'italiano medio, ma, secondo un tratto caratteriale anch'esso molto italiano, raramente volle accettare personaggi totalmente privi di umana simpatia o rinunciare a strizzare l'occhio al pubblico, tanto da forzare, in alcuni casi, il ruolo affidatogli, scadendo nel patetico. Privilegiò, e talvolta eccelse, nei mezzi caratteri, ma forse non giunse mai alla tragicità, cui probabilmente aspirava, che solo i grandi comici riescono a esprimere.

Dagli anni Sessanta lavorò con alcuni fra i migliori registi italiani del momento, come protagonista o comprimario, spesso in film a episodi, partecipando in molte occasioni anche alle sceneggiature.

Fu, per esempio, con A. Pietrangeli (La parmigiana, 1963; Io la conoscevo bene, 1965), il piccolo approfittatore amato dalle donne e sempre pronto a tradirle; un marito qualche volta sui generis, qualche volta fedifrago, spesso migliore di quel che non appaia: con G. Puccini (episodio:  E vissero felici, in I cuori infranti, 1963); F. Rossi (episodio: Scandaloso, in Alta infedeltà, 1964; eccezionale come marito, perplesso, sospettoso e poi geloso nei confronti della moglie stagionatella che crede insidiata da un vicino di ombrellone il quale, invece, è innamorato di lui); D. Risi (episodio: La telefonata, in Le bambole, 1965). Proprio Risi seppe meglio di altri utilizzarlo riportandolo a una comicità meno problematica ma non per questo meno coinvolgente (Operazione S. Gennaro, 1966); sottile (Straziami ma di baci saziami, 1968, tutto giocato su un lessico tratto dalle canzonette: "Manfredi è la buffoneria nella sobrietà. Il suo personaggio è evidente, definito ma lui gli aggiunge continuamente delle sfumature, degli accenni, un'umanità che fa appello a volte all'emozione" [J. Siclier, in Le Monde: cfr. Bernardini, p. 107]); in grado di offrirgli l'opportunità di un esercizio di bravura degno di Fregoli (Vedo nudo, 1969, sette episodi tutti interpretati dal M.).

Nel 1972 tornò nuovamente alla regia, con ottimi risultati e anche riscontro al botteghino, dando una grande prova d'attore, nel racconto pulito ed essenziale, quasi frugale, di Per grazia ricevuta (al fianco di Delia Boccardo e L. Stander), storia di Benedetto Parisi che vede tutta la sua vita drammaticamente influenzata dall'essere stato, da bambino, "miracolato", salvandosi da una rovinosa caduta.

Il tema di fondo, affrontato in forma di santino popolare, di raccontino "antidevoto", è quello del rapporto di un'anima semplice con una religiosità divenuta bigottismo, superstizione, fobia sessuale; nella circostanza al M. riuscì il vero miracolo - che gli valse il premio per la migliore opera prima al XXIV Festival di Cannes e due Nastri d'argento - di riuscire a trattare un argomento così delicato e difficile restando "la maschera popolare che le masse [(] si aspettavano da lui, [(] in un clima tutto diverso" (F. Sacchi, in Epoca: cfr. Bernardini, p. 123) senza cadere nella banalità o in un'eccessiva naïveté, fuori luogo in un contesto socio-politico carico "di assai diversi fermenti, ribellioni, rivolte, contraddizioni" (P. Bianchi, in Il Giorno: ibid.).

Dopo il 1972 l'attività cinematografica del M. cominciò a diradare, alternando pellicole commerciali - in cui si affaccia la "maniera", sia pure su standard professionali di tutto rispetto - a prove ancora importanti, soprattutto quando ebbe occasione di incontrare registi capaci di guidarlo e controllarlo.

Significativi in questa fase - dopo il perfetto Geppetto del Pinocchio di Comencini (1971) e il Girolimoni di D. Damiani (1972) - Pane e cioccolata di F. Brusati (1974) in cui, salve restando le qualità sia dell'attore sia del regista, si ottiene "una specie di match nullo fra Manfredi e Brusati: nella prima parte prevale Manfredi e abbiamo una commedia all'italiana con non poche citazioni chapliniane. Nella seconda prevale Brusati e abbiamo un film d'autore, di tipo espressionista" (A. Moravia, in L'Espresso: cfr. Bernardini, p. 138).

Importante fu il rapporto con Scola, che il M. conosceva, come sceneggiatore, dagli inizi della carriera e con cui fornì, fra le molte, almeno due ottime prove: il portantino Antonio di C'eravamo tanto amati (1974); e soprattutto, "mostruosamente gigantesco" (L. Codelli, in Positif: ibid., p. 148) e in controtendenza rispetto ai suoi ruoli abituali, uno dei pochi personaggi veramente negativi da lui interpretati, l'orribile vecchio patriarca Giacinto, che governa con ferocia la sua altrettanto orribile famiglia in Brutti, sporchi e cattivi (1976). Infine la "serie storica" di ambiente romano diretta da L. Magni - Nell'anno del Signore (1969), In nome del papa re (1977), In nome del popolo sovrano (1990), nel ruolo di fianco di Ciceruacchio - regista che, tuttavia, parve piuttosto assecondare che limitare una certa ripetitività e fissità della maschera, l'ironia corrivamente bonaria, in cui il M. tendeva lentamente a scivolare. Da ricordarsi ancora la malinconica figura del venditore ambulante clandestino in Café-express, di Loy (1979) nonché la sua terza regia con Nudo di donna (1981), di fatto un insuccesso, in cui il M., protagonista, era intervenuto sulla regia solo per rimpiazzare Lattuada, che si era autoprotestato proprio per incompatibilità con il Manfredi.

Il progressivo rallentamento dell'attività del M. si trasformò, dal 1982 al 1986, in una lunga pausa con l'unica eccezione delle pubblicità televisive che il M. da molti anni praticava e che continuò a realizzare per varie ditte (conosciutissima quella per una nota marca di caffè).

Di fatto il M., apparentemente il più duttile, il più versatile e meno dirompente dei quattro moschettieri della commedia all'italiana (con Sordi, Gassman e U. Tognazzi), si rivelò il più legato al "genere", in quanto gli rendeva possibile restare entro i limiti, da lui voluti e definiti, di una certa tipologia espressiva: senza mai diventare maschera, fu più "personaggio" che attore e più facilmente entrò in crisi insieme con il genere cui era legato.

Nell'86, dopo una serie di progetti, portati avanti e poi abbandonati, talvolta già in fase operativa, riprese l'attività cinematografica, ma prevalentemente in partecipazioni a pellicole di amici, come Magni, o di giovani esordienti, o in appoggio ai figli, due dei quali si erano dedicati allo spettacolo (Roberta, attrice, e Luca, regista: nati, come la terzogenita Giovanna, dal matrimonio, contratto nel 1955, con l'indossatrice Erminia Ferrari). Alla fine degli anni Ottanta tornò invece a lavorare con una certa continuità in teatro, con suoi testi e sua regia (Gente di facili costumi, con Pamela Villoresi [Milano, 17 genn. 1988]; Viva gli sposi, con Giovanna Ralli [Roma, Eliseo, 9 genn. 1990]; Parole d'amore parole, con Fioretta Mari e G. Guidi [Milano, teatro Carcano, 29 dic. 1992]), ottenendo sempre un sostanziale riconoscimento dal pubblico, che vedeva reiterato, in panni più attuali, il suo vecchio "tipo" di filosofo sorridente e amaro, ma infine di buona, anzi ottima pasta; da parte della critica ebbe apprezzamenti generici e un po' "alla memoria", con alcune decise stroncature. L'ultima attività del M. fu dedicata alla televisione, in particolare al serial, che nulla aggiunge tuttavia alla sua carriera.

A Un commissario a Roma (1992: regia e ideazione di L. Manfredi), in nove puntate, trasmesse tra il 21 febbraio e il 25 apr. 1993, fecero seguito le due serie di Linda e il brigadiere (per la regia di G. Lazotti), trasmesse la prima in otto puntate nella primavera del 1997 e la seconda in cinque, dal novembre 1998, tutte sul primo canale nazionale.

Il M. morì a Roma il 4 giugno 2004.

Fonti e Bibl.: Sul M., citato in tutte le principali storie del cinema italiano, poco è stato scritto a livello monografico; per una filmografia completa e un'esaustiva e precisa raccolta di dati biografici si veda A. Bernardini, Nino M. (Roma 1999), con ricco repertorio di recensioni giornalistiche.

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