PIANI, scala dei

Enciclopedia del Cinema (2004)

Piani, scala dei

Dario Tomasi

L'espressione scala dei piani indica le diverse possibilità di un'inquadratura di mostrare da una distanza variabile un determinato soggetto (personaggio, ambiente o oggetto che sia) e, conseguentemente, di conferirgli sullo schermo dimensioni anche molto diverse da quelle reali. Dal punto di vista delle riprese, questa distanza può essere determinata dalla posizione della macchina da presa ‒ più vicina o lontana al soggetto in questione ‒ o dal tipo di obiettivo usato. Gli obiettivi cortofocali o grandangoli (con una lunghezza focale sotto i 50 mm) producono un'immagine rimpicciolita e quindi più distanziata, mentre, al contrario, quelli lungofocali o teleobiettivi (superiori ai 50 mm) realizzano un'immagine ingrandita e quindi più ravvicinata. Gli obiettivi cosiddetti normali (50 mm) danno vita, a loro volta, a immagini che corrispondono al modo in cui le vedrebbe un occhio umano posto nella stessa posizione della macchina da presa.Per convenzione si è soliti far partire la s. dei p. dalle inquadrature più distanziate per arrivare a quelle più ravvicinate, secondo quest'ordine (fra parentesi si indicano le approssimative corrispondenze in lingua inglese e francese): campo lungo (very o extreme long shot / plan général), campo medio (long shot / plan d'ensemble), figura intera (full shot / plan moyen), piano americano (medium long shot / plan américain), mezza figura (medium shot / plan taille), mezzo primo piano (medium close up / plan rapproché), primo piano (close up / gros plan), primissimo piano (big o extreme close up / très gros plan), particolare o dettaglio (detail shot / insert).

Il campo lungo ‒ o lunghissimo ‒ abbraccia un'ampia porzione di spazio. La sua funzione è essenzialmente di tipo descrittivo, tesa a mostrare le caratteristiche di determinati ambienti. Quando figure umane vi sono presenti, esse sono subordinate al paesaggio: il loro compito è di contribuire alla definizione di un certo spazio. Talvolta, tuttavia, nel caso per es. di scene di masse in movimento ‒ come accade per la rappresentazione di battaglie e manifestazioni ‒ o di situazioni in cui la dinamicità di certi elementi profilmici implica l'uso di campi sufficientemente ampi per contenere il movimento rappresentato ‒ per es. una corsa in auto ‒ la funzione descrittiva può essere subordinata a quella narrativa. In questo caso anche l'agire dei personaggi ‒ per es. l'avanzare di un esercito contro un altro che arretra ‒ non è più semplicemente funzionale a una descrizione ambientale ma diventa un vero e proprio agente narrativo. In certi film, poi, il campo lungo, contenente una o più figure umane, può avere anche una chiara valenza espressiva e drammatica: nel suo dare immagine a un ambiente che predomina sui personaggi, può voler indicare una condizione di impotenza, solitudine, oppressione vissute per qualche ragione da questi ultimi. Da queste prime considerazioni appare importante evidenziare subito come non sia corretto attribuire a ogni singola figura della s. dei p., sia essa un campo lungo o un primo piano, significati univoci e validi una volta per tutti. Le valenze espressive di una singola inquadratura sono, infatti, sempre determinate, oltre che dalle sue peculiari caratteristiche, dal contesto in cui è inserita e dal progetto stilistico, narrativo e semantico del film di cui è parte. I campi lunghi tendono a trovarsi con una certa frequenza nelle scene iniziali e finali di un film, quando cioè la storia non si è ancora avviata o è, di fatto, già terminata. Nel primo caso assolvono il compito di avviare il processo di ingresso dello spettatore nella finzione, nel secondo di facilitarlo in quello di uscita. Per la stessa ragione, sebbene con minor frequenza, i campi lunghi tendono a trovarsi più facilmente all'inizio o alla fine di una sequenza piuttosto che in altre posizioni. Esistono certamente generi cinematografici che più di altri hanno fatto ricorso a questa particolare figura della scala dei piani. Uno di questi è il western che, fra i suoi intenti, ha indubbiamente anche quello di magnificare i vasti spazi del paesaggio americano oltre che celebrare un'epoca in cui il rapporto fra uomo e natura ‒ situazione che trova nel campo lungo un'adeguata forma di rappresentazione ‒ era certamente diverso da quello che caratterizza la società industriale. Anche il cinema americano on the road ha fatto frequentemente ricorso al campo lungo per sottolineare l'importanza del paesaggio in quanto tale, limitandosi, a volte, a sostituire alle immagini dei cavalli in corsa quelle delle automobili. È invece un altro ‒ a metà tra realtà e finzione ‒ lo spazio che viene celebrato dai campi lunghi del cinema di fantascienza, in particolare nella cosiddetta space opera. Qui lo spazio diventa quello, straordinario, del nostro o di altri sistemi solari. Il cinema di fantascienza può bene esemplificare le potenzialità descrittive e narrative del campo lungo, cui già si è fatto cenno. In un film come 2001: a space odyssey (1968; 2001: Odissea nello spazio) Stanley Kubrick affida perlopiù a tale figura un compito essenzialmente descrittivo, attraverso una nutrita serie di lunghi piani che interrompono quasi l'avanzare dell'intreccio e in cui l'occhio dello spettatore è invitato a percorrere in tutte le direzioni i misteri dello spazio astrale attraversato dal Discovery. Al contrario, in Star wars (1977; Guerre stellari) George Lucas affida ai campi lunghi il compito di rappresentare spettacolari scene di combattimenti spaziali fra le astronavi dell'Impero e quelle dei ribelli. Nel primo caso è la valenza descrittiva ad avere il sopravvento, nell'altro è, invece, quella narrativa. In questo secondo ambito è possibile inscrivere anche i campi lunghi dei film epici, mitologici, storici e di guerra ‒ contenenti scene di battaglia ‒ insieme con quelli del cosiddetto filone catastrofico: come mostrare King Kong o Godzilla che avanzano distruggendo i grattacieli di New York e seminando il panico fra l'inerme popolazione senza ricorrere ai campi lunghi?Il campo medio ristabilisce un equilibrio fra personaggio e ambiente; il primo viene a occupare uno spazio che si colloca all'incirca fra un terzo e una metà della verticale dell'inquadratura. Un campo medio offre in questo modo allo spettatore la possibilità di osservare con una certa precisione le caratteristiche peculiari della figura umana, o delle figure umane, presenti nel piano, così come le loro azioni individuali, senza dimenticare il peso dello spazio che le circonda. Fra le inquadrature della s. dei p., il campo medio è quella più vicina al punto di vista ideale dello spettatore teatrale (quello seduto al centro della sala in quarta o quinta fila) ed è il tipo di immagine che contrassegnava il cinema delle origini (la maggioranza dei film realizzati dai fratelli Lumière e da Georges Méliès, per es., era in campo medio).

Con il tipo di inquadratura successiva al campo medio si abbandona il termine di campo per sostituirlo con quello di figura. La figura intera è quel tipo di piano in cui il personaggio, che occupa uno spazio corrispondente all'incirca ai due terzi della verticale dell'inquadratura, comincia a predominare sull'ambiente, che si riduce a elemento di sfondo. L'essere e il fare del personaggio, o dei personaggi, diventano così l'elemento essenziale. La componente descrittiva della figura intera si sposta dalla rappresentazione dell'ambiente propria del campo lungo a quella di uno o più esseri umani: è il corpo dell'attore/personaggio nella sua globalità a catturare l'attenzione dello spettatore. Secondo la pregnanza e intensità del suo fare e/o dire l'aspetto narrativo può prevalere ‒ cosa che avviene con gran frequenza ‒ su quello descrittivo. Dopo il campo medio, la figura intera è il tipo di inquadratura più usato nell'ambito del cinema delle origini.Il predominio del personaggio sull'ambiente si accentua poi ulteriormente con le successive figure della s. dei p.: il piano americano (la figura umana dalle ginocchia in su: la definizione deriva dall'uso frequente che ne veniva fatto nei film western per avvicinarsi al personaggio tenendo in campo le fondine con le pistole), la mezza figura (dalla vita in su); il mezzo primo piano (dal petto in su); il primo piano (dalle spalle in su); il primissimo piano (solo l'ovale del volto). Talvolta con primo piano si intende anche l'inquadratura ravvicinata di un oggetto e con primissimo piano quella di una parte del volto o del corpo. Per distinguere tuttavia la diversa natura dei possibili oggetti di rappresentazione ‒ l'umano da ciò che invece umano non è ‒ si sono introdotte le definizioni di particolare (per le inquadrature che mostrano una parte del corpo o del volto umani) e di dettaglio o inserto (per i piani ravvicinati di un oggetto). I termini di dettaglio e inserto si differenziano fra loro non per la distanza della ripresa o le dimensioni dell'oggetto inquadrato, bensì perché con dettaglio si fa riferimento al tipo di inquadratura in sé e per sé mentre con inserto si sottolinea come questa inquadratura faccia parte di una successione di immagini più distanziate.Correlati alla s. dei p. ci sono poi altri tipi di inquadratura che, pur essendo definibili anch'essi, almeno in parte, sulla base della distanza, sono però essenzialmente caratterizzati da altri aspetti. La prima di queste inquadrature è il piano d'ambientazione. Si intende con tale definizione quel tipo di immagine sufficientemente ampia che, soprattutto nell'ambito del cinema classico o di quello che a esso si ispira, è solitamente usata per aprire una sequenza di un film. La sua funzione è prettamente informativa: mostrare cioè allo spettatore il luogo in cui si svolgerà la scena che è appena iniziata. L'esterno di un palazzo o l'interno di un bar sono due possibili esempi di piano d'ambientazione. Nella sua forma più pura il piano d'ambientazione è un'inquadratura esclusivamente descrittiva che introduce a un'azione ancora a venire. Il suo grado di tensione narrativa è pari a zero, giacché si costituisce come un momento di pausa nello sviluppo del racconto in funzione dell'avviarsi di quel crescendo narrativo che porterà poi al climax della sequenza. A volte il piano d'ambientazione può essere sostituito, con le stesse valenze informative, da un'inquadratura ravvicinata di un'insegna o una targa su cui è possibile leggere il nome dell'ente, istituzione o tipo di locale che occupa un certo luogo (per es. i ricorrenti piani ravvicinati sulla targa del Federal Bureau of Investigation).

Il campo totale è, invece, quel tipo di inquadratura che mostra nella sua globalità ‒ quella almeno che il cinema rende possibile attraverso un'inquadratura fissa ‒ l'interno di un determinato luogo e, di conseguenza, tutti i personaggi che lo occupano. Piano d'ambientazione e campo totale possono così anche coincidere. Tuttavia mentre la specificità del piano d'ambientazione è di identificare un luogo, quella del campo totale è di presentarci i personaggi che vi sono presenti. Sempre in relazione alla figure umane si definisce anche il piano d'insieme. Si tratta di un'inquadratura che come il campo totale raccoglie due o più personaggi, ma che a differenza di questo non si preoccupa di includere nel suo campo una vasta porzione d'ambiente, né deve per forza comprendervi tutti i personaggi che lo occupano. Il piano d'insieme può utilizzare anche inquadrature più ravvicinate della s. dei p., per es. la mezza figura, come molte volte avviene nel corso di una scena di conversazione quando le serie di immagini dei dialoganti ripresi uno per volta sono contenute e inframmezzate da piani a due, definiti appunto piani d'insieme.

Un aspetto importante della s. dei p., così come è stata sin qui definita, è che essa, nel passaggio del campo lungo al primo piano, finisce con l'attestare la centralità della figura umana, e quindi della categoria 'personaggio', nel processo della rappresentazione filmica. Ciò significa che la s. dei p. è stata storicamente pensata soprattutto in rapporto al cinema di finzione, al film narrativo classico, ossia quel tipo di cinema dominante che si organizza e struttura intorno ai personaggi, al loro dire, fare ed essere. In questo cinema, infatti, il personaggio non è solo al centro della finzione, ma è anche l'elemento intorno a cui, spesso, si definiscono gli stessi parametri di ogni singola immagine, fra cui, appunto, quello relativo alla distanza.

Nelle diverse figure che la compongono, la s. dei p. offre quindi al regista una serie di opzioni cui ricorrere per rappresentare una certa realtà profilmica. La morte dell'eroe, per es., potrà essere mostrata con un campo lungo o con un piano più ravvicinato e quella morte non sarà più così la stessa. Nel primo caso la si rappresenterà in modo più distanziato, freddo, dando maggiore importanza al contesto ambientale, invitando lo spettatore a un rapporto più staccato rispetto a essa. Nel secondo, invece, si metterà in risalto il gioco espressivo dell'attore, l'ambiente sarà ridotto a semplice sfondo e lo spettatore invitato a una maggiore immedesimazione (un regista potrà ricorrere a entrambe le soluzioni nel corso della stessa sequenza).

Su un livello più strettamente teorico va poi ricordato che la s. dei p. presenta non poche ambiguità. Ogni inquadratura di un film, infatti, può sia collocarsi fra due delle figure indicate (un personaggio inquadrato un po' sopra le ginocchia ma al di sotto della vita sarà in piano americano o in mezza figura?), sia presentare uno statuto duplice mostrando, per es., qualcosa in primo piano e qualcosa sullo sfondo in campo lungo (come accade in molte inquadrature in profondità di campo di Orson Welles); oppure, nel caso di una sovrimpressione o di inquadrature che contengono specchi o altre superfici riflettenti, giustapporre due immagini molto diverse fra loro per ciò che concerne distanza e dimensioni. In questi casi si ha a che fare con piani esplicitamente ambigui, la cui collocazione nella scala tradizionale potrà avvenire solo attraverso la scelta di un elemento profilmico (per es. quello in primo piano) a discapito di un altro (quello in campo lungo).Un altro aspetto teorico di notevole importanza è relativo al fatto che la s. dei p. più che il piano vero e proprio riguarda quelle possibili parti che lo compongono e che solitamente prendono il nome di quadri. Un piano, o inquadratura, è la rappresentazione di un certo spazio per un certo tempo. Esistono piani che rimangono identici, o quasi, a sé stessi per tutta la loro durata e piani che, invece, si modificano articolandosi in diversi quadri. Ciò può accadere sia attraverso l'uso di movimenti di macchina sia attraverso marcati spostamenti dei personaggi. Una carrellata in avanti, per es., può aprirsi con una figura intera di un personaggio e chiudersi con un suo primo piano (si tratta in questo caso di un piano a due quadri). Allo stesso modo, come accade alla fine di molti cortometraggi di Charlie Chaplin (ma anche nell'epilogo di Jules et Jim, 1962, Jules e Jim, di François Truffaut), un piano può mostrarci un personaggio che si allontana verso lo sfondo, passando da un'iniziale figura intera a un conclusivo campo lungo. È evidente che in casi come questi le singole figure della s. dei p. non possono essere rapportate al piano nella sua globalità, bensì alle sue singole parti, ai diversi quadri che lo articolano. Un'inquadratura dunque potrà aprirsi con un campo lungo e terminare con un particolare. Nonostante questi limiti, la s. dei p. con le sue distinzioni e la sua nomenclatura rimane comunque uno strumento assai utile per definire sul piano della distanza e delle dimensioni la natura delle diverse possibili inquadrature, oppure parti di inquadrature, di un film. Sarebbe davvero difficile rinunciarvi sia nella fase di realizzazione di un film sia in quella riguardante la sua descrizione e la sua analisi.

Il primo piano

Delle diverse figure che compongono la s. dei p., il primo piano ‒ nell'accezione ampia della definizione che comprende mezzo, primo e primissimo piano ‒ è indubbiamente quella che più ha occupato il dibattito dei teorici del cinema nel corso del 20° secolo. Il primo piano, attraverso la rappresentazione ravvicinata del volto umano, è una figura che crea indubbiamente uno straordinario rapporto di intimità fra spettatore e personaggio, facilitando i meccanismi di proiezione e identificazione del primo nel secondo. Un processo che, a partire dalle caratteristiche stesse del primo piano, è precluso al teatro. Fra le tante differenze che possono esistere fra la recitazione cinematografica e quella teatrale, c'è, fuor di ogni dubbio, che l'attore cinematografico è tenuto a recitare con il volto, molto più di quel che invece non sia tenuto a fare l'attore teatrale che non può, appunto, godere di primi piani e recita quindi con tutto il corpo. Il complesso meccanismo dello star system, il cui peso in questo scorcio di 21° sec. non sembra essere diminuito di molto rispetto ai grandi fasti degli anni Trenta del Novecento, non potrebbe probabilmente funzionare così bene se il primo piano cinematografico, nella sua funzione 'mitizzante', non fosse mai esistito. Ciò che il primo piano produce al cinema è una rappresentazione del personaggio che non lo limita più alla componente del fare, bensì gli attribuisce anche quella dell'essere. Per quanto l'essere di un personaggio cinematografico si costituisca come la risultante di tutta una serie di processi ‒ in cui giocano un ruolo significativo anche il suo agire, le sue parole e ciò che gli altri dicono di lui ‒ è indubbio che l'immagine ravvicinata del suo viso giochi al riguardo un ruolo essenziale. Il volto mostrato in un primo piano si configura infatti come una mappa di segni, una zona di frontiera tra il mondo esterno e quello interno, una superficie e un luogo fisico attraverso cui esprimere sentimenti, emozioni, stati d'animo da parte dell'attore che vengono poi letti, interpretati e fatti propri da parte dello spettatore. Il primo piano è il tentativo ‒ forse utopico ‒ del cinema di provare a definire l'interiorità di un personaggio senza l'ausilio della parola e della sua capacità di definizione, ma anche con tutto quel sottile gioco di sfumature, allusioni e fertili ambiguità di cui il segno iconico è portatore. L'uso del primo piano, inoltre, può presupporre tra regista e attore un certo rapporto, in cui il primo si mette in di-sparte per consegnare al secondo quasi l'intera responsabilità della resa drammatica di una determinata inquadratura. È l'attore che si assume qui il compito, attraverso l'espressività del proprio volto, di dare un senso a quella determinata immagine (anche se la sua contestualizzazione mediante il montaggio che colloca quell'inquadratura dentro una particolare successione di piani, con tutto ciò che ne risulta a livello espressivo e di significazione, è poi di nuovo compito del regista). Ne consegue che saranno quei cineasti che considerano l'attore uno dei materiali più importanti di cui si di-spone quando si realizza un film, anziché altri, a dar maggiore peso espressivo a un primo piano. I primi piani di Ingmar Bergman, per cui l'attore è il "bene più prezioso" cui un regista può fare affidamento, hanno probabilmente una valenza diversa di quelli di Alfred Hitchcock, per cui, invece, gli attori non sono altro che "bestiame": il che non significa che i primi piani del regista inglese siano privi d'interesse, ma semplicemente che si affidano meno all'espressività degli attori di quelli del suo collega svedese. Certo non tutti i primi piani si equivalgono, né sono per forza tutti indice di una complessa rete di significati. Nei prodotti realizzati per la televisione, per es., i primi piani sono spesso dettati dal fatto che le contenute dimensioni dello schermo televisivo male accolgono i campi più distanziati, mentre si trovano perfettamente a loro agio con quelli più ravvicinati. Non solo, ma i primi piani si annoverano fra le inquadrature più economiche che si possano girare, non implicando il ricorso ad allestimenti scenografici, ad ambienti naturali, a elaborati movimenti di macchina che talvolta possono risultare anche molto costosi. Nella fiction televisiva per es., i primi piani sono spesso una comprensibile necessità.I film delle origini erano, com'è noto, costituiti da un'unica inquadratura che si protraeva per l'intera durata di ogni singolo film. Si trattava per lo più di immagini che, nella s. dei p., verrebbero a collocarsi in quell'area che va dal campo medio alla figura intera. Piani, cioè, mediani: né troppo ravvicinati, né troppo distanziati dai soggetti principali dell'immagine. È però solo con l'avvento del montaggio dei primi film a più inquadrature realizzati fra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, che la s. dei p. come possibilità espressiva è effettivamente introdotta nella prassi cinematografica. In quest'ambito rilevante è il ruolo pionieristico assunto dal cineasta inglese George Albert Smith e da film come Grandma's reading glass (1900), As seen through a telescope (1901) e The sick kitten (1903), rifacimento di The little doctor (1901). Nel primo dei tre film una donna anziana e un ragazzino sono mostrati in piano d'insieme e mezza figura all'interno di una stanza. Il ragazzino prende una lente d'ingrandimento per osservare da vicino ciò che lo circonda: l'articolo di un giornale, il meccanismo di un orologio, un canarino in gabbia, l'occhio strabico della nonna ecc. Ogni volta che ciò accade il piano d'insieme si interrompe per dar vita a un dettaglio o particolare di ciò che di volta in volta il ragazzino osserva, secondo una struttura complessiva della scena che ha il seguente andamento: A (piano d'insieme) B1 (primo dettaglio o particolare) AB2AB3A e così via. Il secondo film, invece, è composto da tre semplici inquadrature: nella prima vediamo un uomo anziano in campo medio con un telescopio in mano e, sullo sfondo in campo lungo, un uomo e una donna che passeggiano. La donna a un certo punto si ferma per farsi allacciare una scarpa. L'uomo in campo medio punta il suo telescopio sulla donna. Una seconda inquadratura ci mostra maliziosamente, come 'visto attraverso un telescopio', il particolare del piede e del polpaccio della donna, insieme al dettaglio della scarpa che viene allacciata. L'inquadratura finale ci riporta al piano di partenza, con l'anziano voyeur che ripone il telescopio e l'altro uomo che gli si avvicina e lo colpisce con uno schiaffo per punirne l'indiscreto atteggiamento. Il terzo film, infine, ritorna a un interno con due personaggi, questa volta due bambini in piano americano che coccolano un gatto malato. Quando, per guarirlo, gli fanno bere da un cucchiaino una medicina, la macchina da presa stacca su un dettaglio del gatto stesso per ritornare poi all'inquadratura di partenza. Tre film, dunque, che costituiscono già un significativo esempio di come attraverso la s. dei p. il trattamento dello spazio venga subordinato a ben precise esigenze di narrazione e di rappresentazione.Sebbene il cinema europeo, prima, e quello americano, poi, iniziassero a sperimentare l'uso di piani fortemente ravvicinati, per tutto il primo decennio del 20° sec. la grande maggioranza delle inquadrature, che spesso finivano con il trattare un'intera scena, erano girate in campo medio o a figura intera. Davvero pochi erano gli stacchi su piani più ravvicinati. Quelli più usuali erano inserti su testi scritti, come lettere e missive, cosa che, per es., accade nel film Vitagraph Francesca da Rimini (1907) di William Ranous. Progressivamente, inoltre, iniziavano a farsi più frequenti le inquadrature più ravvicinate dei personaggi prima con il taglio dei piedi e poi con quello all'altezza dei fianchi (mezza figura), sebbene non mancassero all'epoca soluzioni più ardite come il ricorso a inquadrature che della figura umana mostravano solo i piedi (già in A view through an area window, 1901, di G.A. Smith; The story of the boots told, 1908, produzione Vitagraph e La storia di Lulù, 1909, produzione Ambrosio, quest'ultimo esclusivamente composto di dettagli e particolari di scarpe e piedi).

Secondo alcune indagini condotte dallo storico Barry Salt (Salt 1992, p. 92), nel 1911 su centotrenta film europei solo ventotto utilizzavano almeno una volta il raccordo in avanti (ovvero il passaggio da un'inquadratura più distanziata, per es. una figura intera, a una più ravvicinata, per es. una mezza figura). Nello stesso anno, negli Stati Uniti, lo facevano solo sedici film su centoventiquattro (fra questi due lavori di David Wark Griffith: The battle e The Lonedale operator). Nei due anni successivi la media crebbe relativamente (nel 1912 a usare un raccordo in avanti sono quaranta film americani su duecentosedici). Le cose, tuttavia, erano destinate rapidamente a cambiare. Lo confermano, per es., The avenging conscience (1914) di Griffith con il suo ampio numero di particolari di mani che si afferrano e piedi che battono, come mezzo per esprimere una certa tensione psicologica, e The whispering chorus (1918) di Cecil B. DeMille con la sua media di nove piani ravvicinati e inseriti ogni cento inquadrature. In quegli stessi anni si era sviluppata anche la tendenza ad aprire una scena con un piano ravvicinato per poi staccare o carrellare indietro su un piano d'insieme. In Europa registi e teorici come Louis Delluc e Jean Epstein furono aperti sostenitori dei piani ravvicinati, scelta che ebbe una notevole influenza in tutta la produzione legata alle avanguardie storiche. Sta di fatto che, negli Stati Uniti, già nella seconda metà degli anni Dieci, i cineasti erano soliti distinguere fra diversi tipi di inquadratura sulla base della loro distanza dal soggetto rappresentato e delle dimensioni di questo stesso soggetto, e, sebbene la definizione di ogni singolo tipo di piano fosse piuttosto discordante, si era giunti all'individuazione delle seguenti figure: bust o close up, American foreground, French foreground, long shot e distance shot. L'avventura della s. dei p. era a tutti gli effetti iniziata.

Più arduo sembra però il cammino del primo piano, inteso qui come immagine ravvicinata del volto umano. Se oggi questa figura appare come una delle più familiari fra quelle che compongono la s. dei p., così non era certamente cent'anni fa, quando il cinema era ancora costretto a fare i conti con la realtà della rappresentazione teatrale, da cui non era facile staccarsi in modo troppo risoluto. In teatro, come del resto nella realtà, il corpo umano mantiene costanti le sue proporzioni per l'intera durata dello spettacolo: ingrandire all'improvviso il volto di un attore e mostrarlo 'staccato' dal resto del corpo (teste tagliate era il modo in cui nei primi anni del secolo erano chiamati i primi piani) era qualcosa di davvero troppo estremo, decisamente poco conciliabile con le abitudini percettive e l''enciclopedia visiva' dello spettatore dell'epoca. Non è un caso che alcuni fra i primi e più noti esempi di immagini ingrandite e primi piani del volto umano appartengano a film apertamente straordinari, che violano esplicitamente le leggi delle realtà: film in cui queste immagini si presentano soprattutto come effetti speciali. Come a dire che solo nell'universo dell'impossibile queste teste tagliate hanno diritto di cittadinanza. Ciò, per es., è quel che accade in The big swallow (1901) di James Williamson, dove un uomo si avvicina minaccioso a un operatore fuori campo ‒ passando da una figura intera a un primo piano fino a un particolare della bocca ‒ per finire con l'inghiottirselo in un solo boccone. In L'homme à la tête de cautchouc (1902) di Georges Méliès, si vede lo stesso regista 'gonfiare' a dismisura la propria testa 'staccata' dal corpo e collocata dentro un caminetto che la mette in cornice, come si trattasse di un'inquadratura nell'inquadratura. Un altro caso esemplare della difficoltà e cautela con cui anche i registi più avveduti dei primi anni del secolo scorso si avvicinavano ai primi piani è rappresentato da The great train robbery (1903; L'assalto al treno) di Edwin S. Porter. Il film narra la storia di alcuni banditi valorosamente catturati da uno sceriffo e dai suoi uomini. Nelle gran parte delle copie esistenti, l'ultima inquadratura del film è una mezza figura del capo dei fuorilegge che, rivolto verso la macchina da presa, estrae la pistola e spara nella sua direzione (che è anche l'ideale direzione in cui si trova lo spettatore). Tuttavia nel catalogo Edison che accompagnava la pellicola si poteva leggere che questa immagine poteva essere indifferentemente collocata dal proiezionista all'inizio o alla fine del film. "All'inizio" o "alla fine", ma non durante, nel corso cioè dell'azione e delle sparatorie ‒ mostrate tutte rigorosamente in campi medi ‒ perché quell'inquadratura ravvicinata all'improvviso avrebbe rappresentato forse uno stacco troppo brusco per lo spettatore dell'epoca, una 'immagine tagliata' oltremodo irrispettosa delle convenzioni dominanti, con il rischio di minare la tensione drammatica e l'impressione di realtà attentamente costruite dal film nel suo complesso (v. anche narrativi, procedimenti).

Ciò che l'esempio di The great train robbery insegna, con il suo piano-attrazione, extradiegetico e autonomo, è che la vera difficoltà che i cineasti dell'epoca si trovavano ad affrontare non era tanto la possibilità di filmare relativamente da vicino il volto umano ‒ questo in fin dei conti succedeva in un discreto numero di film dell'epoca composti da un'unica inquadratura che avevano dato vita a una vera e propria serie chiamata, sulla base di una certa tradizione iconografica, facial expressions ‒ quanto di integrare questi piani in una linearità discorsiva, in una successione di diverse immagini dalle differenti dimensioni (come tuttavia qualche volta cominciava ad accadere: ne è uno fra i primi esempi il film del 1906, prodotto dalla Biograph, The silver wedding, dove durante un furto uno stacco di montaggio interrompe l'azione per mostrarci in piano ravvicinato l'opera dei ladri). A grandi linee è possibile sostenere che sino ai primi anni Dieci gli stacchi su piani ravvicinati restarono relativamente rari, con una maggiore riluttanza a 'tagliare' sul volto umano, mentre invece gli inserti di oggetti inanimati incontrarono una minore resistenza. Un film che certamente ebbe un peso importante nell'affermare le possibilità espressive del primo piano integrato in una serie di altre inquadrature fu Enoch Arden (1911) di Griffith, film che è diventato un vero e proprio punto di riferimento obbligato per il dibattito teorico sul primo piano. Così, per es., si è espresso Siegfried Kracauer: "Griffith fu il primo a rendersi conto che [i primi piani] sono indispensabili alla narrazione cinematografica. […] Mostrandoci in una scena Annie Lee pensosa in attesa del ritorno del marito, Griffith osò servirsi audacemente di un enorme primo piano del suo volto. […] Subito dopo il primo piano di Annie inserì un'immagine dell'oggetto dei suoi pensieri: suo marito su un'isola deserta. […] A guardare le cose superficialmente, sembra che questa successione di quadri tenda semplicemente a far entrare nell'intimo delle preoccupazioni della donna. Vede prima Annie di lontano, poi le si avvicina tanto da scorgere soltanto il volto; continuando ad avanzare nella stessa direzione [lo spettatore] supererà logicamente l'aspetto esterno di Annie e penetrerà nel suo spirito […]. Il posto assegnato nella sequenza a quest'ultimo [il primo piano di Annie] fa pensare che Griffith volesse anche farci assimilare il volto in sé stesso, non soltanto penetrarlo per andare oltre […]. Il volto appare prima che i desideri e i sentimenti cui si riferisce siano stati completamente definiti, invitandoci a smarrirci nella sua indeterminatezza" (1960; trad. it. 1962, pp. 110-11). Le parole di Kracauer pongono nei fatti una distinzione fra due diverse idee di primo piano che hanno attraversato l'intera storia della teoria del cinema: un primo piano asservito alla narrazione e uno, invece, capace di una significazione altra, che conta in sé e per sé a prescindere da ciò che lo precede e ciò che lo segue. Da Jean Epstein a Béla Balázs, da Vsevolod I. Pudovkin a Sergej M. Ejzenštein, da Jean Mitry a Edgar Morin, sino ai contemporanei Pascal Bonitzer, Gilles Deleuze e Jacques Aumont: pressoché tutti i maggiori teorici del cinema si sono soffermati sull'importanza del primo piano (fosse esso di un volto o di un oggetto).Epstein considerava il primo piano come un'inquadratura a sé stante, che definiva come l'anima del cinema. Di esso valorizzava soprattutto la possibilità di rappresentare la mobilità del volto per indicare un'emozione, un pensiero, un moto dell'anima. Egli, inoltre, sosteneva come il piano ravvicinato di un oggetto, per es. di un revolver, gli conferisse un'apparenza di vita, la dignità di un vero e proprio personaggio. Non dimenticava, infine, come i primi piani potessero avere spesso una funzione di sineddoche, rappresentare cioè un aspetto parziale di un fenomeno per esprimere una totalità.Balázs ha visto nel primo piano la possibilità del cinema di portare lo spettatore tanto vicino a un oggetto o a un volto da spingerlo a una percezione più autentica e diversa delle cose: il primo piano è un'immagine di verità. Esso, inoltre, è legato alla sfera dei sentimenti e dell'emotività, ha un'evidente valenza lirica in grado di commuovere lo spettatore. Parte di una serie di immagini che lo comprende, il primo piano è anche un formidabile strumento nelle mani di un regista in grado di guidare la nostra attenzione su un aspetto o su un altro della realtà rappresentata. Ma, soprattutto, con il primo piano il cinema ci ha insegnato nuovamente a leggere il volto umano: grazie a esso "noi non vediamo altro che l'espressione. Vediamo sentimenti e pensieri, vediamo qualche cosa che non è lo spazio" (1930; trad. it. 1954, p. 15). Ecco perché, ed è forse questo il contributo più innovativo e originale offerto da Balázs, il primo piano e l'inquadratura sono due cose diverse: la seconda rappresenta uno spazio, mentre il primo, invece, va oltre lo spazio, mostrando quell'interiorità umana che non ha alcun luogo nella nostra realtà fisica. Balázs, infine, insiste anche sulle conseguenze del primo piano sia sulla recitazione sia sulla sceneggiatura. Poiché al cinema il battito di un ciglio è sufficiente a esprimere la tragedia di un'anima, "i gesti eccessivi e le smorfie sguaiate riescono insopportabili" (1949; trad. it. 1952, p. 87): la recitazione che il cinema vuole deve essere essenziale e antiteatrale. Allo stesso modo l'evoluzione del primo piano trasformò anche le caratteristiche del racconto cinematografico. La sua capacità di rappresentare con estrema efficacia emozioni e sentimenti fece sì che i film dessero meno spazio all'avventura e più alla psicologia e all'interiorità: "All'estensione dello stile giornalistico si sostituì l'intensità. L'azione del film seguì un filo del tutto interiore, spirituale, profondo" (p. 96).Ad ampio raggio e disperse in quasi tutta la sua riflessione teorica sono le osservazioni di Ejzenštejn sul valore del primo piano, sia esso di un volto sia di un oggetto. Al piano ravvicinato del viso, Ejzenštejn pensa soprattutto in relazione alla teoria del tipaž e alla possibilità del cinema di mostrare dei volti che sappiano rappresentare efficacemente i tratti di una razza, un'appartenenza sociale o una fede politica. Tuttavia per il maestro del cinema sovietico il primo piano conta soprattutto come parte di una catena di inquadrature, in relazione cioè a quel montaggio che egli considera l'essenza del cinema stesso. Ecco allora, per es., l'importanza del primo piano come pars pro toto, come inquadratura che rimanda alla totalità della sequenza di immagini di cui è parte e che da questa trae il suo significato. La celebre inquadratura del pince-nez del dottor Smirnov appeso a una gomena in Bronenosec Potëmkin (1925; La corazzata Potëmkin) ben poco significherebbe in sé se non fosse collocata all'interno di una serie di immagini che rappresentano la ribellione dei marinai russi. È proprio perché è collegato al montaggio che il primo piano può realizzare un salto qualitativo, passare a una nuova dimensione, uscire dalla semplice rappresentazione per entrare in una sfera astratta e allegorica, portatrice di un nuovo senso: come accade per i tre piani ravvicinati dei leoni di pietra del film appena citato che si fondono in un unico leone ruggente e, in un'altra dimensione cinematografica, diventano l'incarnazione della metafora: "persino le pietre ruggiscono".

Fra i contributi più recenti è possibile ricordare quello di Bonitzer per il quale il primo piano "fa funzionare ogni parte del corpo o ogni oggetto come un viso": il primo piano trasforma ogni cosa in volto, "voltifica" gli oggetti (1982, p. 23). Inoltre il primo piano è un elemento di eterogeneità del film e si contrappone a una concezione di esso come un tutto unitario. Deleuze (1983; trad. it. 1984, pp. 109-47) definisce il primo piano come immagine affezione e lo suddivide in due categorie: il volto riflessivo, che pensa a qualche cosa e si fissa su un oggetto, che è ammirazione e stupore e il cui correlato è la qualità (è il primo piano di Griffith) e il volto intensivo, che prova o risente qualcosa, tende verso un limite e oltrepassa una soglia, è desiderio e ha per correlato la potenza (è il primo piano di Ejzenštejn). A ben guardare non si tratta solo dell'opposizione fra diverse concezioni di primo piano, ma è la stessa semantica del primo piano che è cambiata nel corso della storia del cinema. Come sottolinea Aumont (1992), il primo piano del cinema classico mostra un volto leggibile e privo di misteri, mentre quello del cinema moderno rappresenta un volto visibile, al di là dell'intelligenza e della codificazione, che rifiuta di farsi leggere apertamente e si caratterizza come luogo ambiguo ed enigmatico. Al di là delle differenti posizioni espresse, l'ampio dibattito sul primo piano che ha attraversato l'intera teoria del cinema è inequivocabilmente il segno del ruolo chiave giocato da questa particolare figura nell'ambito dell'espressività cinematografica.

Bibliografia

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